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Una storia triste

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Siccome nella vita le cose arrivano sempre tutte assieme, belle o brutte che siano, dopo il ragazzino sul sito di giochi che mi copiava i post (s’è scusato e amen), ne arriva un’altra.

Tutto parte da una strana mail. Ne ricevo a dozzine, di mail strane, questa però è sinistra. Esordisce dicendo che “è finito in giri strani”, che un ragazzo è morto e mi domanda se l’ho mai sentito nominare. Il nome non mi dice niente, scrivo di no e aspetto. Non ho risposta.

Però, con un esordio del genere, la curiosità giornalistica punge. Il tono della mail non era folle, era cauto. Così mi metto su Google. Scopro che questo ragazzo, dalle sue parti, è (era) una piccola celebrità della comicità. Scriveva delle note sulla sua pagina, faceva letture pubbliche dei suoi racconti e, ora che è mancato, genitori e amici vogliono raccogliere quello che ha scritto in un libro.

Trovo il contatto Facebook del ragazzo in questione, scorro la sua bacheca.
Inorridisco.

Prima trovo uno stralcio di un mio post, copincollato e non accreditato. Poi trovo un post intero. Due. Tre. Cinque. Vado a leggere le sue note e scopro che la “geniale ironia” di questo ragazzo (così scrivono i siti d’informazione delle sue parti), è la mia. Per anni ha plagiato spacciando per suo quello che leggete qui. Alcuni brani li ha persino letti in pubblico. Contatto un suo conoscente su Facebook. Gli domando chiarimenti e lui mi dice che questo ragazzo sosteneva di scrivere qui. Ora, molto semplicemente: questo blog lo scrivo io e solo io. Nebo, pseudonimo di Nicolò Zuliani, nato e cresciuto a Venezia.

 

11071597_773858926015841_1765830843530782932_nQuesta è la mia faccia.

Chiarito questo.

Ho perso parecchi amici e parenti, nella mia vita. Alcuni me li ha portati via il caso, altri la droga, altri questo schifo di città, altri una malattia. Non ho mai perso un figlio, non posso immaginare che dolore possa essere. Spero di non scoprirlo mai, e per rispetto non voglio dire chi sia questo ragazzo. Ciononostante, rimane il fatto che stampare dei miei racconti con un altro nome, oltre che illegale, è sbagliato. Non sopporterei di dover fare la prima denuncia della mia vita a una famiglia già distrutta da una tale perdita. A tutti capita di riciclare battute, succede. Ti restano in testa, le senti per strada, al bar, e le ridici al bar. Copiare interi racconti è un’altra cosa. Leggerli in pubblico e prendere applausi è un’altra cosa. Stampare il mio lavoro con un altro nome è un’altra cosa.

Con tutto il mio cuore spero, e mi auguro, questa storia non abbia strascichi e finisca qui.
Resto a disposizione della famiglia se volesse contattarmi e chiarire le cose in privato. La mia mail, come al solito, è niebbo2@gmail.com

Nicolò Zuliani

Quelle domeniche di spesa bio e voglia di morire

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C’è stato un tempo in cui la domenica era il giorno del riposo. L’uomo si fermava, ricaricava le energie fisiche e mentali. Arrivava in spiaggia alle 10 e dormiva, faceva il bagno, dormiva, tornava. Adesso sto osservando un bagliore che potrebbe essere Marghera in fiamme o l’alba, ho dormito meno dell’indignazione di Internet e bevo il caffè in uno stato di quiete mongoloide, dove dimostro d’essere vivo perché emetto svogliate flatulenze. Oggi la domenica serve a ricordarci quant’è bello lavorare. Quant’è bello stare lontani dal curioso animale domestico che oggi pretende attività ricreative da postare su Facebook. Ha una vita sociale e sentimentale, lei, ed è migliore di quella dell’amica stronza. Guardate le foto stupende. I panorami meravigliosi. I sorrisi bellissimi. Dietro ognuno di questi c’è un uomo che sperava di dormire e invece ha camminato 2355 chilometri in montagna con 35 chili di zaino. Ma prima
«AMORE HAI FATTO I PANINI?»

 

 

 

 

 

 

Prrrrfff.
«AMORE?!»

 

 

 

 

 

Tr-tr-tr-rrrt.

 

 

 

 

 

 

«AMORE MI SENTI?»
Non ho fatto i panini.

Potrebbe avermi detto di farlo, come no. Non importa. I primi tre anni impari che non importa la tua argomentazione, la donna dirà che non è vero. I successivi tre impari che non servono registrazioni, filmati, sbobinature degli ultimi vent’anni: la donna dirà che non è vero. Dal sesto anno in poi non arriverai nemmeno a finire l’argomentazione, perché t’interromperà prima, dicendo che non è vero. Al settimo anno ti cazzierà perché la interrompi mentre t’interrompe.

«TI AVEVO DETTO DI FARLI»
Frrrbth.

«ADESSO BISOGNA FARE LA SPESA ALL’AUCHAN CHE COSTA COME IL FUOCO»

 

 

 

 

 

 

Ssssfft.
Adoro la T finale, quando l’ano si richiude. Sa molto di inchino del direttore d’orchestra.

«CAZZO L’AUCHAN APRE ALLE NOVE, PERO’ IN MONTAGNA ANDIAMO LO STESSO»

Entro in macchina. Lei bussa al finestrino. Devo mettermi sul sedile del passeggero, perché dopo essersi insediata nella mia casa, vuole imparare a guidare la mia macchina. Mi sposto, impugno il rosario e vedo l’albero davanti a me impallidire. Domando di aprire il finestrino perché fa così caldo che potrei covare un pulcino nel gomito.

«No, mettiamo l’aria condizionata.»

Calcolando i consumi, appena premo il tasto A/C parte la sigla di Transformers e non sono più alla guida di un’auto, ma di un condizionatore con le ruote. Suggerisco i finestrini, dopotutto se si abbassano c’è un motivo.

«Con l’umido che c’è? No, no, aria condizionata.»

Una parte del mio cervello vorrebbe spiegare alla slabbrata che umidità e temperatura non sono la stessa cosa, ma la sola idea mi fa sudare il sudore. Premo A/C. La macchina rallenta, sudo come un maiale nel forno e lo stereo fa partire una risata preregistrata del benzinaio.

«Dai, cinque minuti e si raffredda» sorride lei.
«E in quanto saremo all’Auchan?»
«COSA C’ENTRA»

Dopo quattro minuti e mezzo apriamo le portiere, sudati come cavalli dopo una lunga galoppata. Una decina di euro di aria tiepidina si dissipa immediatamente nell’aria torrida del parcheggio. C’incamminiamo verso l’ingresso. Dopo dieci passi la piega del culo è una grondaia di sudore. Dopo venti, sul selciato noto uccelli morti e piccoli predatori. Dopo trenta ho visioni mistiche, allucinazioni paranoidi e la suola di cuoio manda odore di bistecca. Parcheggiare nel sotterraneo ci avrebbe garantito un accesso più rapido e la macchina all’ombra, ma alla vagina i seminterrati fanno angoscia. Entriamo e ci dividiamo i compiti. Io pane e affettati, lei formaggio e verdura. Purtroppo si è dimenticata di prelevare. Dico che c’è il bancomat. Purtroppo si è dimenticata anche il portafogli.

 

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Dopo essere stato rapinato dalla mia consorte raggiungo il banco affettati. Qui il salumiere enuncia con tono epico i sublimi sapori del prosciutto X, elogia il sapore purissimo del prosciutto Y, ignaro del fatto che io sto solo guardando i prezzi sui cartellini.

«Due etti di quello» indico.
«Il Sauris da 560 euro all’etto? Ottima scelta» dice.
«No, quello sotto.»
«Ah, intende il San Daniele da 230 euro?»
«No, quello a destra.»
«Certo, lei vuole il meglio: prosciutto di Toscana, da allevamento biologico. 1200 euro in comode rate.»
Dalla tasca tiro fuori un puntatore laser e illumino il prosciutto Pezzenza elite. Il salumiere tentenna: «La vetrina fa riflesso, sta indicando il Parma da 732?»
Spacco la vetrina con il gomito, scavalco mozzarelle, terrine di insalata di riso, olive ascolane, arrivo al banco, afferro il prosciutto e glielo metto in mano.

«Questo» dico.
«È solo per esposizione.»
«Taglia o t’ammazzo.»

Malvolentieri, il malnato appoggia la carta sulla bilancia che da zero passa a sei etti. Ci respiro sopra e il quadrante segna il tonnellaggio della portaerei Washington. Il salumiere deposita due etti scarsi, squilla il telefono ed è la NASA che si congratula perché siamo riusciti a calcolare l’esatto peso della luna. Il salumiere fa la faccia di chi è buono e vuole farmi un regalino; affetta un impalpabile velo di prosciutto, lo prende con le pinzette da unghie e lo deposita, trionfante, sulla bilancia. Quella esplode e stampa uno scontrino riportante il debito della Grecia. Metto nel cestino, raggiungo il reparto pane.

«Buongiorno. Due rosette, per favore.»
«Al kamut? Integrali? Ai quattro cereali?»
«Pane bianco» tento.
«Senza glutine? Biologico?»

Immagino una carestia e milioni di italiani morti di stenti mentre scavano in una montagna di pane alla ricerca di cibo commestibile.

«N-normali…»
«Gallette di riso? Tofu?»
«Signora, il pane. Farina, lievito, sale. Pane. La prego.»
All’improvviso ha un guizzo: «Aaaah, quello anni ’80? No, no, finito. Sparisce in cinque minuti appena apriamo.»
«Non capisco, allora perché ne fate così poco?»
«Perché non ne vale la pena, non lo mangia più nessuno.»
«Ma se va via in cinque minuti!»
«È il mio negozio, ho il diritto di

Compro tre pagnotte ai quattro cereali, un grumo di granaglie che le galline scambierebbero per sassi tenuti vagamente insieme da una schiuma nerastra. Appena toccano il sacchetto le pagnotte si frantumano e uno sciame di piccioni le beccotta. Li allontano con l’afrore delle mie ascelle. Passo davanti allo scaffale delle b

 

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Una ragazza di una bellezza sconvolgente con due bombe da far provincia mi sorride come un’amante complice e mi porge un bicchiere di birra: «Posso offrirti un assaggio dSCOPARE SCOPARE SCOPARE SCOPARE SCOPARE SCOPAREale?

Afferro il bicchiere, mentre guardandola mi sale il mostro di Firenze. Bevo. A un tratto due energumeni mi afferrano le braccia, un terzo mi apre le mascelle a pugni e fa cenno a un camion spurgo pozzi neri di fare retromarcia. Stacca il tubo dal fianco, me lo infila in gola e apre i rubinetti. Mugolo disperato.
«Questa birra artigianale la producono dei ragazzi di Belluno spremendo i rifiuti della clinica per donatori di organi e le suole usate delle Geox» sorride l’angelo «è un’azienda agricola a chilometro 0, nel senso che non farà mai strada, ma intanto truffa gli hipster convinti che tre stronzi in garage abbiano standard qualitativi superiori a quelli di un’azienda che fattura milioni di euro.»

Deposito il bicchiere vuoto sul banchetto ostentando indifferenza, mentre in me c’è l’orrore e l’abominio, il disgusto e il disagio, la morte e il disprezzo.

«Ma tu… tu davvero assumi questa sostanza?» chiedo, appoggiandomi per non svenire.
«Sono donna, non mi servono ‘sti cilici da maschi etero bianchi» fa lei, bevendo una Heineken celata da un sacchetto di carta «e poi già mangio carne di soia, come occidentale ho già espiato le mie colpe e posso fare la spesa da H&M a testa alta.»

Mi allontano barcollando.

Trovo la consorte che sta contrattando col cassiere se estinguere il proprio conto corrente oppure garantire una prestazione sessuale. Sta quindi chiaramente pagando la verdura da agricoltura biologica chilometro 0 del farmer market, ossia gli scarti del contadino venduti al sestuplo del normale. Non oso intromettermi nella trattativa. La osservo sparire con lui nel bagno, ne escono pochi minuti dopo. Lei ha i capelli scarmigliati e dice che i soldi non sono serviti.

«Ah, allora puoi restituirmeli» dico.
No.

Colloqui di lavoro finiti in tragedia, capitolo 99836°

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Milano, mattina

«Scusi, l’agenzia pubblicitaria Verghe roventi?» chiedo.
Il portiere mi squadra con un misto di derisione e fastidio: «Terzo piano»

Capita l’antifona, in ascensore mi tolgo la giacca e la metto nel borsone. Esco al secondo piano, entro in bagno, sostituisco le scarpe con un paio di Converse bianche e la camicia con una maglietta. Arrivo, suono, mi aprono. Pareti bianche, mobili di frassino minimal, riviste intonse. Mi viene incontro una ragazza con occhiali a montatura spessa, rossetto di fuoco e vestito a fiori anni ’40. Siamo entrambi sulla trentina e ci basta un secondo per capirci: lei, Annamaria Friendzoney. Io, uno che dopo tre volte cancella il numero. Si ferma a distanza di sicurezza: «Sì?»
«Eeeeeh…»

In ambienti come questi è tutto complicato. Ogni dettaglio ha una funzione reale e un’apparenza opposta. Ci si veste casual per sembrare informali, ma ogni capo è studiato per ore allo specchio. Ci si dà del “tu”, ma si è più distanti che su alpha centauri. Si apologizza il reale, ma ci si giudica dal virtuale. Si idolatra la comunicazione, ma si passano le serate a mostrarsi stronzate sui cellulari. Si dice “c’è stato un misunderstanding”, ma si intende “non hai capito un cazzo”.

«Sono qui per il colloquio» dico.
«Seh, adesso, “colloquio”» sorride lei «dai, è una chiacchierata»
Ecco.

Mi siedo su un divano bianco, osservo le riviste sul tavolo. Arte, architettura, tomi pesanti come chiavi inglesi. Ne prendo uno, le pagine ancora incollate, mai stato aperto. Giro, 469 euro. Chi spende 469 euro per un libro? Quale editore ha il coraggio di proporlo? Sbircio dentro, foto di una mostra d’arte. Per un istante penso a quanti modi migliori ci sono per sputtanarsi una somma simile, poi realizzo che dev’essere lo stesso motivo per cui questi hanno uno studio avviato e io una Fiat seicento.

«Puoi venire» fa lei, sporgendosi «lascia il borsone lì, se vuoi»
Non ci penso nemmeno.

 

L’ufficio in milanese si definirebbe “open space”, in italiano si tratta di un’unica stanza dove tutti si fanno i cazzi degli altri e guardare porno è impossibile. Cinque postazioni iMac, un angolo con una parete bianca e una reflex su un cavalletto, apparecchiature fotografiche, poster, un paio di Transformers anni ’80. Il tizio in piedi è sulla trentina, maglietta larga bianca a V da cui sbocciano peli radi, barba ossigenata lunga fino all’attaccatura del collo, braccia coperte di diamanti, loghi di videogiochi, stelle, baffi. Noi associamo i tatuaggi a marinai, motociclisti ed ergastolani, i nostri figli li assoceranno a radical chic e studenti IULM.

«Ciao, Nebo, sono Paolo, il responsabile» dice, tendendomi la mano «loro sono Frenzi, il nostro grafico, Baduuzi, commerciale, Flehma, pubblicitario e lei è Annamaria Friendzoney, si occupa della parte amministrativa»
Mesti grugniti di saluto qui e lì, Annamaria invece trasuda odio.

«Tutto bene, a Milano? Hai sistemato le tue cose?» fa Paolo.
Intende rimarcare che io sono a Milano per ragioni diverse dal colloquio, e che quindi se andrà male loro non saranno tenuti a sentirsi in colpa per avermi fatto fare il viaggio.

«Sì»
«Mi fa piacere! Quando ti trasferisci?»
È sconvolto da quanto poco gli frega della mia vita e tenta di farsene una ragione.

«A gennembre»
«Ah, bene!»
Le sue orecchie fanno CHSHHHHHHHHHHH.

«E come mai ti piacerebbe entrare nel nostro team?»
Il suo ego esige coccole preliminari.

«Bè, perché mi piace come lavorate. Vi ho scoperti con la campagna ANAL INSURRECTION, sono andato a vedere il vostro sito e ho scoperto che avevate curato anche SLABBRAMI, poi STRAZIANTI STRONZATE e quella più controversa, il gioco a premi in rete TROVA LE PALLINE CINESI NELL’ANO DI VERUSKA»
«Quella è stata una mia idea» gongola Baduuzi.
Gli faccio il pollice in su.

«Hai fatto master, studi…» chiede Paolo, cercando il mio curriculum tra i fogli.
«No»
Alza la testa: «No?»
«No»
«Ah. Eh… qui siamo tutti laureati» dice, incerto.
«Nel vostro annuncio c’era scritto che non era necessaria la laurea»
«Vero. Però un minimo di esperienza sì»
«Bè, sono pubblicista. Sul curriculum ci sono testate e numeri dei referenti, vi diranno che collaboro o ho collaborato con la parte creativa»
«È quello di Cosmopolitan» fa qualcuno.
«Aaah, sì» annuisce «bravo, bravo»
È spaventoso quanto poco gliene frega.

«Senti… a noi serve qualcuno che sappia elaborare, innovare, pensare fuori dalla scatola, per capirsi»
Paolo si reputa circondato da rincoglioniti.

«Ok»
«Il problema dei pubblicitari è che stanno tra pubblicitari e parlano di pubblicità. Noi vogliamo qualcosa di diverso. Un social media manager che sappia uscire dalla sfera del comune know how e fare community»
Il tasso di hipsteria nell’ufficio ha oltrepassato la soglia d’allarme e siamo rimasti in cinque a ridere dei meme su Hitler.

«U-uh»
«Oggi lo storytelling è un must, non un optional. Servono sentimenti, emozioni, non numeri. Mi spiego?»
È difficile fare infografiche se non hai un cazzo da dire.

«Bè, venendo dal giornalismo le storie un po’ so raccontarle» tento «credo la pubblicità sia un campo interessante. E po
«AO PAOLO FACCIAMOGLI QUELLA DEL DOTTORE» fa Frenzi.
Il capoccia sorride complice, poi si distende sullo schienale della sedia: «Dai, facciamo un gioco. Ti va? Una prova. Niente di complicato, una cosa a istinto»

 

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L’ultima volta che m’hanno ordinato di fare qualcosa “a istinto” mi sono sbronzato a merda, ho detto al portavoce dell’emiro dell’Oman che non volevo finire decapitato su Youtube e mi sono trovato a urlare madonne a bordo di un catamarano lanciato a 40 nodi durante la Extreme sailing race al largo di Trapani. Mai dirmi di fare qualcosa a istinto, perché in quanto a cappelle, su una scala da 0 a “oh, che sbadato”, io sono a livello tecnici di Chernobyl. “A istinto” il mio cervello si sente autorizzato a partorire le più inverosimili puttanate. C’è un motivo se la mia vita è il ritratto del degenero.

«D-D’accordo» gemo, prevedendo l’orrore.
«Viene da noi il dottor Pinco Pallino, chirurgo plastico. Vuole una pubblicità per il suo studio privato dove fa mastoplastiche additive. Rifà le tette, per intendersi. Tu come impronteresti il marketing?»

 

 

 

 

 

 

«Così, a istinto» ribadisce l’incauto Paolo «non pensarci. Buttati»

 

 

 

 

 

 

«Allora?» si sporge.
«…bè, di solito le tette se le rifanno le quarantenni, hanno i soldi per farlo e sono in piena crisi di mezz’età. Vedono le ventenni e s’imparanoiano» dico, aspettando il cervello mi consegni i compiti.

«Continua»
«Se ti rifai le tette è perché vuoi apparire meglio, attirare l’attenz
Il cervello consegna.

«SE SONO TETTE FINTE È VERO AMORE» esclamo.

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Ad Annamaria marcisce la faccia.

«Aspetta, c’è stato un misunderstanding» fa Paolo.
«Nonono, state a sentire» mi sporgo «un anello di fidanzamento può costare diecimila euro come venti. Non importa, perché la donna non lo sa. Questo logora il pollame da scopo»

«Il…?» Paolo.
«Il…?» Frenzi.
«Il…?» Flehma.
«Il…?» Baduuzi.
«COME?!» Annamaria.

«Tuo moroso potrebbe averlo comprato usato, o il diamante potrebbe essere finto! In pubblico dirai che conta solo il gesto, ma vorrai sempre andare da un gioielliere a fartelo valutare. Quanto ha speso per te? Quanto vali, per lui? QUANTO TI AMA?»
«Ssssno, Nebo, torniamo un attimo alla tua definizione d
«Aspettate! Il punto è che se il fidanzamento va a puttane, la donna restituisce l’anello. Se non lo fa partono abissi di squallore e miseria, urla, insulti, rinfacciamenti vari. Uno schifo, no? Bene, sentite questa: la mastoplastica additiva è il nuovo anello di fidanzamento»
«Ma tu sei malato, cazzo» fa Annamaria, inorridita.
«No! SI! È quello!» dico, alzandomi in piedi e dominando lo studio perché tanto ormai è tutto in banana «l’uomo ti regala l’anello perché sa che lo può riavere, una mastoplastica invece no! Non può! Non può riaverla! È andata per sempre! Quindi chi crede di più in quel fidanzamento? Chi è più coraggioso? Un uomo che regala un anello, o uno che regala una mastoplastica?»
«Ma che romantico, che meraviglia, che profondità!» urla la Friendzoney.
«Una mastoplastica costa perché garantisce standard qualitativi! Meno spendi, meno t’importa la tua donna rischi complicazioni fisiche. Se invece ricicli paccottiglia da sagra di patronato cazzo te ne frega? Può pure essere vetro delle biglie, non c’è rischio. Quindi: è vero amore? Tette finte. È un cialtrone? Anellino rivendibile»
«NESSUNA DONNA VUOLE QUESTO!»
«IMMAGINATE I CARTELLONI! “Il silicone t’è vicino al cuore”. Oppure due tette enormi di una testimonial tipo Cristina Del Basso coperte da una mano femminile e una maschile! “Mastoplastiche Pinco Pallo: un amore da vivere insieme“. O anche “Mastoplastiche Pinco Pallo: oltre l’apparenza, la sostanza”. Eh?»

 

 

 

Frenzi mi accompagna alla porta dicendo che sono uno un po’ fuori dagli schemi.
Sospetto in milanese significhi povero coglione.

Vi avrebbi spiegato, ma oleandri oleandri oleandri

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Sulla pagina Facebook del blog pubblico questo status.

"SE FOSSE STATO IMMIGRATO" TU TACEVI.
Un italiano stupra una ragazzina. Internet esulta: “haha non era un immigrato! Questo dimostra che i pregiudizi sono sbagliati, non è vero che tutti gli immigrati stuprano!” e subito dopo “haha, era un militare! Questo dimostra che tutti i militari sono fascidemmerda!”. C’è così tanta gioia, nella mia bacheca. Poter buttare la fica d’una sedicenne sul piatto dei propri pregiudizi è una grande soddisfazione.

La risposta a quelli che chiedono “e se era un extracomunitario?” è “tacevi”.

Perché è vero. Quando il criminale è uno straniero, le persone che oggi gioiscono tacciono. Dicono “non significa niente, è un caso isolato”, cioè la stessa cosa che oggi sostiene l'altro schieramento. Un crimine oggi non è più un crimine, due vite distrutte o un fatto fine a sé stesso: è un dato statistico per corroborare il proprio estremismo.

Se davvero vogliamo evitare che Mr.Ruspa prenda uno sfacelo di voti, ‘ste uscite sono l’idea più del cazzo possibile. Discorsi tipo “e se era un immigrato?” dimostrano che oggi, davanti a una ragazzina violentata, l'unica cosa che vale la pena commentare è la nazionalità dello stupratore.

La differenza con Salvini qual è?

Al quarto commento arriva questo.

 

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Ora, quando vado sui siti d’informazione non leggo i commenti. Mi irritano ai pazzi. Vado sul sito dell’ANSA per avere fonti attendibili, notizie, aggiornamenti; non opinioni. Infatti non ho idea di cosa stia parlando questo tizio. Nel mio post sto parlando di come un crimine, se viene svolto da determinate categorie di persone, viene subito usato per alimentare i pregiudizi. In questo caso, “tutti gli extracomunitari sono stupratori” (xenofobi, nazi, vecchi) e “tutti i militari sono criminali violenti” (centri sociali, SEL, frange del PD).

Puoi essere d’accordo o no, è legittimo. Ma io non ho mai parlato di dare la colpa alla ragazzina, né di chi lo fa. Ho detto che non c’è una gran differenza tra chi quando gli stupratori sono immigrati inneggia alle ruspe, e chi quando un militare delinque dice che sono tutti fasci violenti.

Secondo commento.

 

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È come se io dicessi “che tempaccio” e uno rispondesse “sì sì però a me stanno sui coglioni gli oleandri”. E ora, il terzo.

 

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“sticazzi del tempo, a me gli oleandri fanno molto più schifo”.

 

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Ancora: il punto è non usare una ragazzina per alimentare pregiudizi ed estremismi. Basta leggere.

 

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“vero, il tempo è uno schifo, però quanto gli oleandri? Che merda, eh?”

 

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Il signor Sergio mi chiede cosa vuol dire quello che ho scritto. Adesso, attenzione: quando qualcuno non capisce un testo, di solito il colpevole è l’autore. Se il tuo lavoro è scrivere, è colpa tua(cioè mia) se alla gente non arriva il messaggio. Montanelli diceva di scrivere per il lattaio. Farti capire quello che scrivo è IL MIO lavoro. Così rileggo. Rileggo ancora. Lo faccio leggere a morosa e amici, tutti colgono il punto. Noi però tendiamo a circondarci di persone simili, perché ripeto: se uno non capisce, per me il colpevole fino a prova contraria è l’autore. Provo a riscriverlo come se lo spiegassi a un bambino. Viene identico. Mi arrendo.

 

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Vabbè, niente. Oleandri.

 

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Se non sai che commenti ho letto io, come faccio a sapere che commenti hai letto tu? Che cazzo ne so, io, di che commenti leggi tu? Io sto parlando degli schieramenti Lega/Centri sociali. Tu mi stai parlando di quanto sia stupida la frase “se l’è cercata”. Ma dove l’ho scritta? Quando l’ho citata?

 

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Niente, è ufficiale: il punto del mio discorso sono gli oleandri. E io che pensavo di aver parlato del tempo e di non avere mai nominato gli oleandri da nessuna parte. Cerco di nuovo nel testo qualcosa che abbia a che fare con il colpevolizzare la ragazzina. Non c’è. Sul serio.

 

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Il discorso era “chi prende un individuo come riassunto di un popolo” e “chi prende un individuo come riassunto di una professione”. E sì, ho visto e letto 10, 100, 1000 Nassirja, ho letto ACAB, ho letto fascidemmerda. ED È DI QUESTO CHE STAVO PARLANDO DIOCRISTO. Non ho idea di come avrei insultato ‘sto tizio, né so con chi stia parlando, di dove io abbia detto le cose di cui mi accusa. Devo ritrattare cosa? L’idea che strumentalizzare uno stupro per alimentare estremismo e pregiudizi sia sbagliata? Se non sei d’accordo va bene, ma perché? L’obiezione, la contro argomentazione, qual è?

 

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Provo a spiegarmi con una tizia (non ho voglia di screenshottare tutto, la trovate sulla pagina). Anche qui, niente da fare. Rassegnato, aspetto sulle barricate che la redazione di un mensile maschile a caso mi quereli per… per… qualcosa. In tutto questo, se la domanda fosse stata “e allora davanti alla ragazzina stuprata cosa dovevamo dire” la mia risposta è: tacere.

Però magari sbaglio, eh.

Magari evocare mutilazioni genitali, genocidi, castrazioni, impiccagioni, donne blindate e gonne allungate risolve le cose. Restituisce l’innocenza alla ragazzina e a sua madre. Magari mozzare il cazzo allo stupratore ci rende migliori di lui, ci eleva a veri, onesti cittadini. Anche la pena di morte, ma solo in certi casi. Magari maiuscolare ITALIANI TUTTI SESSISTI è davvero meglio di maiuscolare RAGAZZINE TUTTE CAGNE. Magari MILITARI TUTTI FASCISTI è meglio di IMMIGRATI TUTTI STUPRATORI.

Magari sì.

È che poi penso all’ISIS che minaccia di conquistarci, e mi viene il dubbio che forse l’ha già fatto.

 

La vera trama di Jurassic world

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Prologo: ovetti si schiudono.
Fine del prologo.

La famiglia Sticazzi sta divorziando. È difficile stabilire se sia a causa del padre fedifrago o della madre cocainomane, ma siccome i due piccioncini devono massacrarsi a coltellate decidono di spedire i due figli, Segatron di anni 16 e Tedio di anni 11, al Jurassic world. Lì la vicedirettrice è zia Ceffoni; garantirà loro un tour coi VIP pass. All’arrivo i due ragazzini sono già molto delusi perché trovano una stagista di nome Teresa, laureata in biologia che ha dovuto mangiare merda e bere sperma per riuscire ad avere un posto nel parco dove viene schiavizzata 24/7 e costretta a fare i lavori più degradanti possibili, non ultimo la babysitter per i nipoti ricchi del capo.

«Non sei la zia» dichiara Segatron, sconsolato, poi si mette a guardare figa.
«Non c’è la zia» fa Tedio «dov’è la zia? Perché non è venuta a prenderci?»
«Questa non è la loro zia» dice una comparsa, guardando nella telecamera.
«LEI NON È LA ZIA» recita un’enorme scritta rossa in sovrimpressione.
«Ora bisogna capire se lei è davvero la zia o no» mormora intrigato uno seduto di fianco a me.
Gli conficco un coltello nel cuore.

Teresa, attaccata al cellulare, spara bubbole ai genitori e assicura che i loro sacrifici non sono stati vani. Nel frattempo mostra la suite imperiale ai ragazzi e cerca di essere cortese portandoli in giro, ma essendo Tedio e Segatron due stronzi figli di papà si guardano bene dall’essere educati, rispettare Teresa o attenersi alle direttive: si perdono tra la folla. Stacco. Zia Ceffoni appare in scena vestita come Daenerys Targaryen se Game of Thrones fosse stato girato nel 1980. Conduce i possibili investitori attraverso i laboratori genetici del parco.

«Come sapete, il primo Jurassic park è finito con falangi di morti» spiega zia Ceffoni «l’idea americana di costruire un parco di belve assassine in mezzo a uragani tropicali non ha funzionato»
«La Natura a volte è imprevedibile» commenta uno.
«Chissà se sorgerà il sole, domani» fa un altro.
«Mi capiterà mai di cagare?»
«Allora ci hanno riprovato» prosegue la zietta «ma nell’isola qui vicino»
«Ma dai? E com’è andata?»
«Una strage. Abbandonata l’idea del parco, allora, un vero americano s’è chiesto: perché metterli in gabbia, se si può lasciarli liberi e farci sopra parapendio?»
«Fantastico! E questa ha funzionato?» fa un investitore, intrigato.
«Macché, il tizio c’è caduto dentro. Hanno mandato una squadra a recuperarlo, cadaveri smembrati dappertutto. Ancora oggi coi tifoni piovono arti fino in Messico»
«Oh nooo»
«Ma il nostro illuminato capo, Taj Majal, guardando i Monty Python, è rimasto stregato dalla storia del castello costruito sulla palude. Così s’è detto: ricostruiamo il parco, stavolta con meno misure di sicurezza. Oggi i bambini possono andare in canoa tra i brontosauri, correre in mezzo agli stegosauri, cavalcare triceratopi e tutto senza la minima garanzia di sopravvivenza. Il posto ideale per mollare figli scomodi e raccattare l’assicurazione sulla vita»
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Zia Ceffoni entra nella sala comando. Un tecnico indossa una maglietta di Jurassic park e lei lo guarda con disprezzo: «Ti rendi conto che quella volta sono morte delle persone?» dice, schifata.
«Sì, ma io ho una maglietta con la svastica, voi avete rifondato il terzo reich» obietta il tecnico. Ceffoni non risponde, è convocata in plancia dove Taj Mahal la aspetta a bordo di un elicottero. Il pilota, seduto di fianco, prega e scrive il testamento.

«SIGNORE, È CERTO DI SAPER PILOTARE UN ELICOTTERO?!» domanda la zietta, salendo a bordo.
«HO LETTO WIKIPEDIA E HO GIOCATO UN SACCO A LOCK ON»
«TUTTO QUI?!»
«NO, SONO ANCHE ESPERTO DI STRATEGIA MILITARE, HO GIOCATO TUTTI I CALL OF DUTY, E HO SCOPERTO CHE L’AIDS NON ESISTE»
«VOGLIO SCENDERE»
Decollano.

Cambio scena. Osserviamo Chris Pratt mentre addestra velociraptor con la sola imposizione delle mani e una penna biro.

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Perché li addestra? Boh. Chi gli ha insegnato a farlo? Buio. A cosa serve? Non importa, perché un garzone cade nel recinto, Chris lo salva e sgattaiola fuori un istante prima che i velociraptor se lo mangino.
«Fantastico, fantastico» applaude il capo delle guardie Cattivis «è la prova che sono pronti e addestrati»
«M’hanno quasi sbranato vivo!»
«Sono femmine, se ci sei tu è normale»

Tedio e Segatron telefonano a mammina per lamentarsi. Lei uggiola scusandosi e telefona a zia Ceffoni. Lei prima mente per pararsi il culo, poi scarica la colpa su Teresa. Sistemato il principio che la merda scende sempre verso il basso, si reca da Chris Pratt e ci fa capire che se l’è quasi scopato. C’è un piccolo spot della Coca Cola, poi zia Ceffoni spiega a Chris che in segreto hanno creato lo Sventrosauro Ninja Predator e vorrebbe un consulto sulla sicurezza della cella contenitiva. Lui fa un pippone animalista, lei gli dice che puzza. Siparietto di una balena pleistocenica ottenuta grazie al DNA immagazzinato dalle zanzare che pungevano sott’acqua, poi siamo di nuovo con Chris e zia Ceffoni davanti al recinto dello Sventrosauro Ninja Predator.

«Con cosa avete fatto ‘sto dinosauro?» chiede lui.
«Segreto. Posso dirti che è alto e grosso»
«Per sapere se 12 metri di muro sono sufficienti devi dirmi se avete shakerato il DNA di un canguro o di una cavalletta, capisci?»
«No, sono cose tecniche da nerd, sfigati»
«Ok, ti faccio un esempio: se l’avete mescolato a uno scarabeo stercorario c’è il rischio che questo faccia palle di merda grosse come pianeti, e lì bisogna lavorare sullo spessore del muro o finisce come Pacific rim. Fin qui ci siamo?»
«Vorrei vedere più bicipiti sudati»
«Sì, ok, tirate fuori ‘sto coso che gli do’ un’occhiata»

Calano un quarto di bue per attirarlo, ma lo Sventrosauro Ninja Predator non si palesa. Ceffoni tocchigna un pad su cui ci sono le solite cazzabubbole che a me stanno grandemente sui coglioni. Nel primo Jurassic park i programmi erano funzionali, spartani, plausibili. Avevano un sistema operativo reale. Serviva tempo perché elaborassero. C’era la clessidra, i filmati sui monitor sgranavano, le postazioni erano sporche, incasinate, personali. In una parola, erano verosimili.

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Negli ultimi anni è tutto scivolato in un puttanaio di lucine colorate fighette via via più ritardo friendly fino al BOAT SAFE di Pacific rim, ossia l’equivalente di un tizio con un cartello che mi dice cose che non sei capace di mostrare.

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Difatti zia Ceffoni deve dirmi che ha attivato i sensori termici.
E deve anche dirmi che nel recinto non risulta niente.

«CAZZO È SCAPPATO» fa zia Ceffoni «ANDATE DENTRO A VEDERE, PRESTO!»
«Signò, fuori è pieno de operai, basta chiede» fa l’uomo delle pulizie, sporgendosi «aoh rega’, avete visto ‘n mostro che scavalcava e telava?»
«None»
«Niente»
«Zero»
«A posto. Saranno ‘sti cazzo de computer» fa l’uomo delle pulizie.

La zia Ceffoni lo ignora e fugge verso la sala controllo per far geolocalizzare lo Sventrosauro Ninja Predator. Due guardiani e Chris entrano nel recinto fischiettGNAM. Chris si salva coprendosi di benzina, il bestione fugge perché per i velociraptor fai tre celle contenitive superblindate, per il cugino di Godzilla basta un garage. Per fortuna tutti gli operai fuori erano svaniti d’incanto. Dalla sala comando zia Ceffoni fa partire otto incursori armati di pistole a pallini e fucili Nerf. Chris la raggiunge.

«Signore, lei non è autorizzato a entrare»
«Sono bianco, non mi servono autorizzazioni. Zia, che minchia è successo là, son morte due persone» fa Chris, spostando l’unico addetto alla sicurezza del film.
«Oh, bah, forse un errore del sistema» fa spallucce lei.

Gli otto spuntini raggiungono il punto geolocalizzato giusto in tempo per morire in diretta. Siamo a dieci morti orrende, a cui zia Ceffoni risponde con confusa impassibilità.

«Evacuate l’isola» dice Chris.
«Non riapriremo mai più» fa lei.
«Cazzo dici, è la quarta volta che vediamo ‘sta tarantella. Chiudete un mese, lo chiamate “Jurassic Universe” e arriveranno di nuovo a frotte. Siamo americani»

«Ne sei certo?»
«Zoomate un attimo quella telecamera nell’area ricreativa, per favore» indica Chris.

 

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«Non significa nulla»
«Ok, zoomate l’area ristoro»

 

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«V-va bene, ma non trasformerò il parco in una zona di guerra»
«Per ora sembra uno schema di Pac-man, vedi tu»

Zia Ceffoni fa chiudere la parte nord del parco, poi va a cercare i nipoti con Chris indossando un tailleur di Gandalfite©, tessuto bianco che non si macchia né lacera. Completano l’outfit un paio di tacchi 10 color carne coi quali supera agilmente pantani di merda, tronchi caduti, tuffi nella cascata e corre su ciottolati.

Tedio e Segatron vagano spensierati in una palla di vetro. Trovano una rete divelta con scritto restricted area e ci si buttano a capofitto perché loro possono, e se qualcuno gli creasse problemi basterebbe sventolare il VIP pass e dire “lo sai chi è nostra zia?”. Finiscono in mezzo a una rissa tra cazzosauri e lo Sventrosauro Ninja Predator. Non sento i dialoghi perché in sala sono partiti cori da stadio che sulle note di “anche oggi un arbitro di merda” gridano mangia-li, mangia-li, mangia-teli tut-ti, sveeeentrosau-ro, mangiateli tut-ti. Tedio e Segatron si rintanano in un vecchio bunker. Trovano una jeep di 20 anni fa con il serbatoio pieno, le gomme gonfie, le chiavi nel cruscotto e la batteria sul tavolo, carica.

La inseriscono e fuggono.

Nei laboratori genetici del parco, Taj Mahal chiacchiera con uno scienziato asiatico.
«E dire che sembrava tanto una buona idea» sospira Taj Mahal «i nostri soldati ormai sono troppo deficienti per operare al di fuori della gabbietta con le palline di McDonalds, i droni costano come scoparsi Emilia Clarke, le nucleari non si possono usare perché la gente s’indigna. Ci serviva un modo efficace per combattere il terrorismo»
«Sì, mi ricordo» fa lo scienziato «perché ripete tutto?»
«Non so spiegare le cose mostrandole come Miller. Quindi abbiamo optato per dinosauri ammaestrati» continua Taj Mahal «cazzo, era buona. Immagini uno Stato tipo l’Iranistan, o l’Afghàn, o quello che è. Noi invece di mandare soldati paracadutavamo velociraptor a stecchetto da due settimane. Se li mangiavano tutti e vavavuma»
«Sembra terrorismo»
«No. È terrorismo se prima gridi Allah u akbar. Se prima gridi SKRIEEEK gli animalisti approvano»
«Mi tolga una curiosità: se l’opinione pubblica s’indigna per due foto di bambini morti, come prenderebbe quella di una donna che urla mentre un raptor le mangia l’intestino viva?»
«Non sono uno che bada a questi dettagli» fa spallucce Taj «comunque, il progetto è andato in merda. Ricorda l’idea di creare un dinosauro superspaccaculi, no?»
«L’ho fatto io!»
«E si ricorda l’idea di farlo 435 volte più grosso?»
«MA HO DETTO CH
«È scappato»
«Come sarebbe?»
«Sì, sì. Scappato. Whoosh, fuori. Mangia gente a caso. Ci crede? Così. A caso. Il filtro kebab non funziona, mangia anche gli americani»

 

 

Sala comando.

«AO RAGA» dice Cattivis, entrando.
«Lei non pu
«Vaffanculo, negro. RAGA SENTITEMI QUA, IDEA DELLA MADONNA IN ARRIVO: sganciamo i velociraptor addestrati, brasano il bestione, il parco torna easy e noi svoltiamo»

Taj Mahal fa una faccia confusa come una lesbica cieca davanti a una pescheria: «Scusi, il suo compito non era di vedere se i raptor erano intelligenti?»
«Eeeeeh… Sì, sì, infatti» concede Cattivis «e abbiamo imparato che sono comunque più intelligenti dei Navy SEALs, così una cosa tira l’altra e ora… eddai, fatemeli liberare»
«Mandiamo quattro galline pazze contro un elefante?» s’intromette un tecnico.
«Sì. È figo»
«Senti, trippobombo, vattene» fa Taj Mahal.
«Hai ventimila persone là fuori, cosa pensi di fare?

Taj fa montare il vulcan sull’elicottero, poi si mette al comando. L’elicottero pilotato dall’utente medio di Internet raggiunge lo Sventrosauro Ninja Predator, il quale schiva con agilità una pioggia di fuoco e spacca la gabbia dov’erano contenuti gli pterodattili. Fuoriescono dalla gabbia centrando le pale dell’elicottero, che esplode glorioso in una sfera di fuoco tra i pianti disperati della sala controllo e la solita impassibilità di zia Ceffoni. Siamo a quattordici morti, poi gli pterodattili calano sulla popolazione come ufficiali di Equitalia a Cortina e il conteggio decolla verso cifre incommensurabili. Parte l’allarme generale secondo le conoscenze del popolo americano medio.

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La folla fugge impazzita.

Teresa trova Tedio e Segatron, cerca di portarli in salvo ma viene afferrata al volo, mangiucchiata e lanciata nella vasca del balenosauro, dove viene inseguita e masticata. L’ultima cosa che riesce a gridare al cellulare è che l’hanno promossa a esca per dinosauri, poi il balenosauro divora lei e lo pterodattilo together. Così impara a essere povera. Zia Ceffoni e i due piccoli merdosi riescono a mettersi in salvo.

Invece di fuggire Chris tira un cartone in faccia a Cattivis perché la sua idea di usare i raptor per fermare lo Sventrosauro era suicida: non sono addestrati manco a non mangiare il capo. Dopodiché riunisce tutti e spiega di avere avuto un’idea eccezionale: correre in moto con i raptor per fermare lo Sventrosauro. Tutti annuiscono ammirati: è un piano coraggioso. Raggiunto il bestione, però, quello si accorge che i raptor sono femmine e ci flirta. Loro cambiano idea e si mangiano tutti tranne Chris, che fugge. Quando lo raggiungono lui usa l’imposizione delle mani e i raptor cambiano idea di nuovo, colpo di scena che ci fa intuire Chris Pratt abbia un curriculum di avvocato divorzista. Attaccano lo Sventrosauro Ninja Predator che come previsto li lancia via come fossero bagigi. Zia Ceffoni corre a liberare il tirannosauro il quale esce dal recinto dove è cresciuto solo, fa due chiacchiere coi raptor, ammette i loro punti di vista politici siano complanari e mena lo Sventrosauro. Dalla piscina esce il Balenosauro ex machina e salva tutti. I dinosauri si salutano e se ne vanno, Chris e zia Ceffoni scopano, i bambini tornano dalla loro famiglia.

Il sequel, Jurassic truth, inizierà con loro due che trovano i genitori morti in un caso da manuale di suicidio omicidio. Verranno quindi spediti da zia Ceffoni, la quale, per pagarsi le cause legali, li venderà agli zingari. Tra pugni in bocca e digiuni forzati i due fratelli verranno separati. Dieci anni dopo uno sarà un poliziotto tormentato dai sensi di colpa per le morti che causò al parco, l’altro un maniaco sessuale che traveste le bambine da dinosauri prima di stuprarle. Quando Teresa, la figlia del poliziotto, viene rapita, le sue vecchie conoscenze zingare lo indirizzano su una pista che lo porterà tra le rovine dell’isola e della sua vita.