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La vera storia del cocktail Singapore sling

La vera storia del cocktail Singapore sling

Siamo nel 1915 al Raffles hotel di Singapore. All’ora dell’aperitivo, la hall è piena di gentiluomini inglesi in dinner jacket bianca che sorseggiano cocktail, mentre alle signore vengono serviti bicchieri di limonata e succhi di frutta. Per una donna del primo novecento sarebbe estremamente disdicevole bere alcolici, figuriamoci in pubblico.

Le donne sono reputate persone emotive incapaci di controllarsi, e l’alcool potrebbe renderle isteriche o far loro avere comportamenti indecenti. Questa è la motivazione, ma del resto immaginando il tipo di conversazione dei coloni inglesi, c’è da chiedersi chi non avrebbe comportamenti indecenti.

Per fortuna, dietro al bancone del Raffles hotel c’è l’empatico barman Ngiam Tong Boon.

È un cinese di Hainan fuggito a bordo di una nave francese durante la ribellione dei Boxer e sbarcato a Singapore, dove aveva trovato lavoro come cameriere. Dopo quindici anni di servizio è riuscito a diventare capo barman, ed è lì che ha un’idea per salvare le fanciulle inglesi.

Crea un cocktail rosa che somiglia in tutto e per tutto a un succo di frutta o a una granita. Lo serve con ghiaccio tritato, cannuccia e fette di ananas, in modo da ingannare l’occhio distratto degli uomini e permettere anche alle donne di rilassarsi un po’.

Lo battezza Singapore sling ed è subito un ordinatissimo, tanto da diventare un’attrattiva dell’albergo e rendere il barman ricco. 

Ngiam Tong Boon arriva a potersi comprare 10 ettari di terra in Malesia, dove coltivare la gomma e morire di vecchiaia. Ancora oggi, al Raffles hotel, è presente la sua fotografia e il libro con la ricetta originale del suo Singapore sling. Ricetta stampata anche sui sottobicchieri degli anni ’70.  

È una storia vera?

No. Ngiam Tong Boon è esistito davvero, ma nel 1915 muore di vecchiaia. Avrebbe dovuto inventare il cocktail, renderlo abbastanza famoso nel mondo da avere il suo nome associato per sempre a lui mentre compra 10 acri di terra in Malesia. Difficile. Inoltre, data l’epoca, è improbabile che sotto l’occupazione inglese fosse concesso a un barman cinese di diventare ricco. 

Non è chiaro poi in che modo inventare un cocktail di successo gli avrebbe fatto guadagnare di più, dato che sarebbe sempre stato un dipendente dell’hotel. E l’idea che un cinese si metta a fare il furbo con le consorti dei coloni è il massimo dell’improbabile.

La storia del Singapore sling è in realtà molto simile, ma molto cosmopolita e hollywoodiana. Non c’è la minoranza occupata che si prende gioco degli occupanti: c’è il signor Roberto Pregarz di Trieste.

Nato negli anni ’40 da una famiglia di panettieri, studia il minimo all’alberghiero e poi s’imbarca su una nave del Lloyd Adriatico facendosi le coste di Africa e Oceania. Passa gli anni ’60 sul piroscafo Marconi, poi sul Victoria e su questa, nel 1967, incontra Mario Marchesi, direttore del Raffles hotel di Singapore.

Marchesi è un uomo stanco e pieno di problemi. Osserva Roberto muoversi dietro al banco e tra i tavoli, ne riconosce le capacità e gli fa un’offerta: andare a lavorare da lui, a Singapore. Roberto rifiuta perché è lontano da casa da tanto, e a Singapore non tira una bella aria.

L’occupazione è alla fine, ci sono attentati, sparatorie e disordini.

Tornato a Trieste a casa dalla madre, Roberto riceve una lettera del direttore che rinnova la sua proposta. Ci pensa un paio di settimane, poi decide. Fa i bagagli e dice a sua madre che tornerà entro sei mesi, o almeno così crede. Arriva al Raffles nel 1969, nel pieno delle rivolte razziali. Gli inglesi se ne sono appena andati, ci sono tensioni sociali sempre peggiori e l’albergo sembra un monumento al colonialismo dell’impero britannico.  

Cioè un bersaglio perfetto. Nessuno ci vuole andare né farsi vedere lì dentro, tranne i pochi, vecchi affezionati. L’uomo è appena sbarcato sulla luna. L’umanità sogna le stelle, non vecchie hall drappeggiate di vecchie storie.

A Singapore sbucano nuovi alberghi moderni e accattivanti.

Nel 1972 Marchesi lascia tutto in mano a Pregartz e si ritira. Ci sono buone possibilità l’albergo chiuda entro sei mesi, ma Pregarz ha la fortuna di vedere entrare nella hall Wallace Crouch, giornalista del Sydney Morning Herald.

Passa per il Raffles per cenare nella Tiffin room. Qui il giornalista fa due parole con Roberto e gli racconta che proprio in quella stanza, nel 1902, era entrata una tigre che era stata uccisa a fucilate.

Roberto rimane colpito dall’immagine. È un professionista, sa come ragionano i clienti. Pensa che un centenario è un’occasione troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire. Organizza una festa e per l’occasione fa tornare una tigre proprio lì – tenuta al guinzaglio – che viene condotta nella Tiffin room sotto gli occhi estasiati degli ospiti e, soprattutto, dei fotografi.

Il giorno dopo, sui giornali di Singapore è un trionfo di titoli, e Roberto capisce che non deve vendere drink, o cibo, o stanze. Quelle si trovano dovunque. No, Roberto deve prendere il Raffles e trasformarlo nell’unica cosa che affascina, spaventa, intriga: le storie.

Così decide di invitare scrittori che sanno raccontare i tropici. Arrivano Kipling e Maugham, ma anche sceneggiatori, registi, ognuno che davanti a un cocktail gli racconta qualche idea.

Gli arredi obsoleti di colpo diventano affascinanti. Da un anziano cameriere che lavora lì fin dal lontano 1936 emerge che durante la seconda guerra mondiale dei Giapponesi usarono una stanza del Raffles come stanza di tortura, e le anime dei poveri prigionieri aleggiano ancora lì, cercando la pace, perciò dopo una certa ora non è il caso di frequentare l’albergo. Abitanti e turisti si precipitano in massa all’hotel per bere, osservare, prenotare stanze e avere esperienze paranormali.

Il Raffles da simbolo di colonizzatori diventa simbolo di colonizzati.

Lì, tra quelle mura, aleggiano storie e segreti che i ricchi inglesi hanno tenuto nascosto. Per la hall del Raffles passano Elizabeth Taylor, Ginger Rogers, Trevor Howard, William Wyler. A questo punto Roberto ha l’intuizione finale: creare un prodotto souvenir, capace di unire la Storia con la leggenda.

Un cocktail capace di rendere epico, coraggioso e ribelle ogni sorso.

Fin da metà ottocento gli inglesi hanno importato a Singapore la formula del cocktail sling, che gli americani chiamano fizz. Si prende uno spirito, un liquore, del limone e si aggiunge una bevanda frizzante. Andavano alla grande, tanto da essere nominati in un giornale parodistico locale già nel 1895.

Sono drink semplici, non molto alcolici e rinfrescanti. Ce n’erano di banali come lo stengah, lo scotch & soda detto nello slang del posto… e ce n’erano di più complessi.

Il Singapore gin sling appare nei giornali locali già nel 1903.

Dieci anni dopo andavano molto di moda gli sling con Benedictine e con lo Cherry. Molto probabilmente è Roberto a renderlo un prodotto esclusivo dell’albergo. Del resto la figura del barman asiatico Ngiam Tong Boon ha una storia quasi identica a quella di Roberto, e il ritratto in perfetto stile coloniale – con tanto di cane da caccia alle spalle – è uno statement che mostra l’anima di Singapore che prende possesso di quello che le era stato rubato, sconfiggendo il razzismo del primo novecento. E chi è d’accordo, chi vuole mostrare rispetto e conoscenza, deve bere un Singapore sling al Long bar del Raffles hotel.

Chi ha voglia di bere in alberghi asettici dei cocktail qualsiasi, quando può stare in una casa di fantasmi, magari seduto di fianco al fantasma di Kipling, sorseggiando il simbolo della fine del colonialismo inglese?

Dopo ventidue anni di successi, ormai anziano, Roberto decide di tornare in Italia. Svela alcuni dei suoi segreti in un libro, Raffles legends and stories, disponibile su Kindle unlimited.

E poi, come tutti gli italiani con una vita incredibile, scompare.

QUESTA E ALTRE STORIE DA SPACCIARE AL BANCONE DEL MUTUO SOCCORSO LE PUOI TROVARE QUI, SIA KINDLE CHE CARTACEO: https://amzn.eu/d/9VkZ7YS

Perché ho scritto Investigazioni Pernice

Perché ho scritto Investigazioni Pernice

Molti hanno paura che l’Intelligenza artificiale distrugga posti di lavoro.
Io invece credo che NIENTE come algoritmi, formule, prassi, protocolli ammazzino il divertimento.

Oggi l’IA può davvero scrivere un film o una serie TV.

Il problema non è la creatività alla base, quanto in cima.

Case editrici, case di produzione, etichette discografiche, sono gestite da manager e avvocati piuttosto che da persone dotate – o interessate – alla creatività.

L’ultima stagione di Boris parlava dell’algoritmo che esige e pretende ogni personaggio abbia delle caselle spuntate.

Non è un’invenzione o un’iperbole.
È davvero così.

Quella roba esiste.

Se vedete una tale mole di sequel e così pochi film originali è perché l’algoritmo dà una percentuale di successo maggiore in partenza, rispetto a una trama originale.

Di recente c’è stato un piccolo terremoto perché una casa editrice (branca di una molto grande) è stata rasa al suolo.

Chi l’ha deciso è una tizia appena uscita dall’università, la quale sostiene che ora esista un algoritmo capace di sapere in anticipo se un libro sarà un best seller o meno.

Oggi l’essere umano lavora già per le macchine, e questo, in teoria, è un bene.
Bene per gli alberi, per l’ambiente, per la qualità media delle opere.

Ma quanta varietà ci aspetta?
Quanta sperimentazione?

E alla fine: quanta roba che non sa di plastica avremo a disposizione?

Molte esperienze si godono proprio per la spontaneità.

Mangiare in uno stellato Michelin è una figata. Ma l’aglio&olio a vent’anni dopo la discoteca? La Diana rossa fumata al bar dei cinesi col birrino diluito e i vecchi coi grattini?

L’equivalente di quei libri lì, che fine faranno?

Le avventure pecorecce, i filmetti senza pretese, i ritratti di personaggi grotteschi, le infradito in spiaggia sul piede calloso, la pancia pelosa, il non sapere dove stai andando.

Goderti il viaggio, i bar sfigati, gli esseri umani fuori da Instagram.

Ecco, ho scritto Investigazioni Pernice perché volevo creare una cosa simile.

Fotografie, storie, non raccontate nella maniera tradizionale, ma sentite per caso in un bar.

Dettagli.

Qualcosa che non dovesse passare per un agente che poi lo passa a un selezionatore che poi lo passa al manager che poi lo passa a un ventaglio di editor, calendarizza la distribuzione, stabilisce il messaggio, valuta il mercato, inserisce personaggi inclusivi, toglie riferimenti per massimizzare la possibilità di posizionamento nella selezione del premio.

Volevo i bucatini alla zozzona e addormentarmi sul tavolino.

Se siete pronti alla tazzina di caffè lavata male e all’odore di candeggina, buona lettura.

Regali di Natale e collezionisti

Regali di Natale e collezionisti

Questo qui sopra è un esempio dei dodici episodi di Ario. Si possono acquistare i singoli episodi QUI in formato sia cartaceo che digitale.

Questa qui sotto, invece, è la raccolta in copertina morbida.


Si può acquistare (solo in cartaceo) QUI.

Non è prevista una versione digitale al momento.

Poi, gran finale per collezionisti.

Questi due qui sotto sono la raccolta in copertina rigida.

SONO DUE VOLUMI, NON UNO. Quando ci sarà il firmacopie, chi avrà i due volumi rigidi riceverà un regalo.

Il volume 1 contiene gli episodi 1-2-3-4-5-6 e si può acquistare QUI.

Il volume 2 contiene gli episodi 7-8-9-10-11-12 e si può acquistare QUI.

Note dell’autore (che troverete nell’edizione brossurata, ma senza foto)

Note dell’autore (che troverete nell’edizione brossurata, ma senza foto)

Lost è stato il Twin peaks della mia generazione.

Quando negli USA usciva la puntata del lunedì, il martedì pomeriggio si trovava già rippata coi sottotitoli. Iniziava così la ricerca di qualcuno con la casa libera e un televisore in grado di riprodurre il prezioso bottino. Era il 2004, avevamo vent’anni. O stavamo a casa dei genitori con TV antidiluviane, o eravamo universitari dotati di un portatile scassato.

Arrivò a salvarci un certo Piccillo, un biondino basso e tarchiato con un grosso Rolex daytona che gli penzolava dal polso.

Stava in un appartamento in centro Mestre con madre, padre, fratelli – tutti pescatori – e due pastori tedeschi. Era un open space, ultima moda architettonica che prevedeva la cucina in salotto. Quando si cucinava pesce, quindi, l’aria sapeva di orata e pelo di cane per settimane. Nel salotto minimal, però, tra i miasmi e il fumo di sigarette, troneggiava un megaschermo grande come una scrivania e un impianto surround professionale.

L’effetto sonoro basso del fine capitolo (THUMMMM) penso lo rilevassero i sismografi di Gorizia.

Grazie a quel prodigioso home cinema, il salotto di Piccillo era diventato un luogo di ritrovo. Sconosciuti di ogni età portavano qualcosa da bere o da mangiare, si sistemavano dove capitava e aspettavano la puntata iniziasse. C’erano ragazzini in camicia, adulti in felpa, donne in tacchi, universitarie dell’appartamento di fianco in pigiama.

La puntata veniva vista tra grida di frustrazione, insulti, richieste di silenzio, sigarette per coprire i miasmi di pesce e cani, applausi. Quando si accendevano le luci, alcuni restavano per il dibattito. Ipotesi, teorie, personaggi, dettagli da annotare. Chi era davvero la Dharma initiative? Chi erano the others? C’era da fidarsi di Ben? Cosa significavano i numeri? Quei dibattiti erano la parte migliore delle mie serate. Non ne perdevo uno. Era come far parte di una tribù che la sera si riunisce attorno al fuoco a discutere di storie epiche.

Perché non farlo anche con i libri?

Dopotutto i romanzi d’appendice (feuilleton, li chiamano nei salotti letterari) hanno avuto padri nobili. Dumas, Balzac, Collodi, Salgari. Dopo la seconda guerra mondiale sono caduti in disuso. È stato Paolo Villaggio uno dei pochi a proseguirne la tradizione, scrivendo “Le domeniche di Fantozzi” sul Corriere della sera, poi diventati romanzo. Oggi Amazon permette di far arrivare un libro a casa del lettore in 72 ore: perché non sfruttare questa cosa e creare un feuilleton attaccato all’attualità?

Sarebbe bello il lettore potesse avere la sensazione che i protagonisti siano lì fuori, vedano gli stessi telegiornali, seguano le stesse polemiche. Dargli l’idea che potrebbero essere nel suo supermercato a lamentarsi degli stessi prezzi.

L’idea di Ario mi girava in testa da un po’. Mi chiedevo: cosa succederebbe se l’eroe protagonista di una storia morisse all’improvviso, senza epica, per caso? La spalla comica e i coprotagonisti dovrebbero arrangiarsi come possono con quello che hanno. Niente spada di fuoco, predestinati, eredi al trono, incursori spaccaculi super organizzati, conoscenze altolocate. Toccherebbe usare gli ultimi. Un saldatore pregiudicato, una militare traumatizzata, un giornalista fallito. Persone qualsiasi sole, isolate, squattrinate, con sogni piccoli e vite piccole, che arrabattandosi tra un fallimento e l’altro riescono a fare la cosa giusta.

I personaggi

Per il personaggio di Ario ho scelto Steven Ogg, per quando interpreta Trevor di GTA V. Somiglia molto all’Ario vero. Brutto, sporco, peloso e drogato, che galoppa verso l’autodistruzione propria e di chi lo circonda.

Ma che quando ti guarda davvero, ha la capacità di vederti bene.

Per Pamela.

Io detesto le fotomodelle Marvel coi braccini, le tettone e la capacità di far volare terroristi ceceni di duecento chili con un gesto. Bella Scarlett, bella Brie Larson, ma io volevo una trapanese figlia di un mafiosetto, con il corpo deformato dalla propria ossessione e gli occhi di chi ha fatto e visto troppo. Doveva essere verosimilmente capace di tenere in mano un ARX, picchiarsi con Ario, shakerare Alessia e resistere in un corpo a corpo. Una ragazza che di occhi e fisico stonasse in mezzo alle modelle di Walter, così sinuose e delicate. Doveva trasmettere pericolo e funzionalità.

Ho trovato Sara Saffari.

Per Walter Lazzari volevo una bellezza americana da serie TV per adolescenti. Uno di quelli per cui anche una come Pamela darebbe di matto. Alla fine ho scelto Harry Styles. È uno di quelli che potrebbe confessare le cose più truculente, avrebbe comunque stuoli di donne adoranti disposte a perdonarlo. Quel tipo di bravo ragazzo da cui il pubblico femminile si aspetta le cose più truci.

Lo yacht dei Lazzari è il Carinthia VII. Fateci un giro dentro, lo stile old money vagamente ’90 mi è piaciuto tantissimo e l’ho usato per costruire il personaggio di Alessia, la storia di Sabrina e della famiglia Lazzari.

Il collegio ad Astorzio di Boion è villa Beltramini, un tempo collegio Filippin, ad Asolo.

Ci sarebbe anche la playlist, se proprio volessimo andare full Wattpad. Ma preferisco tenere solo l’ultima che spunta fuori con le musicassette. Sommando tutte queste cose, giocandoci, sovrapponendole, girando per Roma e per l’Italia, è nato il mio primo romanzo d’appendice. È lungi dall’essere perfetto, lo so, ma credo molto nel motto di Enzo Ferrari, quando il giornalista gli chiese qual era la sua auto migliore e lui rispose “la prossima”.

Perché siamo qui per restare, gringos. Amazon permette cose che l’editoria italiana nemmeno si sogna, e ho appena iniziato a testarne le capacità.

A metà dicembre uscirà la raccolta brossurata e FORSE rigida

Ario sono circa 1.140.000 battute, ossia un po’ più di 700 pagine. Amazon, in materia di stampa, ha limiti di pagine e costi ben precisi, nessun servizio assistenza e istruzioni scritte da scimmie analfabete. Sarà dura, ma vediamo. Siccome non pianifico di diventare ricco, dovrei riuscire a tenere i prezzi nello standard librerie.

Vi lascio con Pamela che mangia un panino dopo un sacco di tempo (da qui mi son costruito la scena di Sabrina Salerno).

Dal velo pietoso al velo fascista

Questo post verrà pubblicato in versione light per rispetto verso le condizioni di salute della Murgia. In altre occasioni avrebbe avuto un tono assai differente.

La parata per la festa della Repubblica è stata bellissima.

Famiglie, anziani e bambini si sono accalcati in piazza del popolo tra l’emozionato e il curioso. Nonostante il caldo parecchi papà tenevano sulle spalle i bimbi, e il clima era davvero disteso.

Ci sono stati parecchi momenti suggestivi.

I veri protagonisti della parata 2023, però, sono stati i nostri incursori della Marina (per comodità diremo GOI, Gruppo Operativo Incursori). Si sono presentati mostrando uno strano sommergibile che ha lasciato i nostri alleati NATO molto impressionati.

It is sometimes said, and I have often written, that Italy’s COMSUBIN are about 10 years ahead of everyone else in underwater vehicles. When you look at submarines like this, it’s possible to wonder whether it’s actually more. 

Quando il GOI è passato davanti alla tribuna dei parlamentari, La Russa ha sorriso e mostrato il segno della vittoria: perché? Bè, la verità non la sapremo mai. Si possono fare ipotesi. La mia è che da qualche parte, per qualche motivo, in qualche modo, il GOI ha portato a termine una missione particolarmente rognosa.

Comunque.

Secondo la signora Murgia, il GOI avrebbe fatto “il saluto romano” rivolto verso la tribuna delle autorità.

Ognuno vede quello che spera di vedere, al mondo, e questa è una bagigiata detta da una persona evidentemente sprovvista di cultura storica e militare.

Può succedere.

Dopotutto oggi quasi nessuno sa riconoscere i gradi, figurarsi la Storia di chi per questo paese ha combattuto ed è morto. Basta guardare in che stati sono i monumenti della Grande guerra, quindi facciamo un po’ di chiarezza.

Innanzitutto…

LA X° FLOTTIGLIA MAS NON ESISTE

È morta e sepolta assieme ai fasci e ai vari maiali che aderirono alla RSI nel 1945.

Il grido di battaglia “Decima!” che gridano gli incursori di Marina si riferisce alla Decima Flottiglia MAS della Regia marina, che durante la Grande guerra combattè contro gli austroungarici.

Riguardo alla X° MAS di Junio Valerio Borghese, quella che si macchiò di orrori sui nostri partigiani e combattè la Resistenza, nessuno vuole celebrarla. Men che meno gli uomini del GOI che sono professionisti di altissimo livello e per ‘ste stronzate non hanno alcun interesse.

Il fatto è che anche la X° MAS non è “il simbolo del fascismo”.
Ha una storia tragica e fratricida.

Con la liberazione, al nord alcuni membri della X°MAS seguirono Junio Valerio Borghese e aderirono alla RSI, ma gli altri restarono fedeli al Re e per distinguersi si ribattezzarono Mariassalto, finendo a spararsi tra compagni d’arme.

In un paese normale storie come queste avrebbero film, serie TV e reboot.
Invece abbiamo Don Matteo e Genni Savastano.

Riguardo al “saluto romano”: non è il saluto romano

È il saluto militare in marcia, che consiste nell’alzare il braccio destro in modo perpendicolare (indicando il proprio ruolo di comandante e responsabile di plotone) per poi farlo scendere sulla tempia per il saluto (che emula quando i cavalieri si alzavano la visiera dell’elmo).

Lo fa qualsiasi corpo d’armata.

Nel filmato vedete sfilare i Carabinieri del Tuscania che gridano “Folgore!” perché sono paracadutisti (lo so, lo so, non è gente a cui righerei la macchina).

Lo stesso saluto l’hanno fatto anche i Finanzieri.

Lo hanno fatto i Pompieri.

Lo hanno fatto gli atleti militari.

E lo hanno fatto pure le infermiere.

Ultimo ma non per importanza, il capo supremo delle FF.AA è Mattarella. Per darvi un’idea della differenza di potere, se l’intero governo (FDI, PD, M5S) ordinasse all’esercito di attaccare Mestre e Mattarella dicesse “nah”, i militari non si metterebbero nemmeno gli stivali.

Perché la Costituzione è stata scritta da dei giganti con il preciso scopo di rendere il fascismo irreplicabile.

Poi lo so, bisogna continuare a raccontarsela

Quest’immondizia inqualificabile fa rima con la retorica del so’ tutti fasci, l’amico delle gguardie, sbiri infami e la solita sbobba che gridavano i figli dei padroni che andavano nei centri sociali a giocare ai poveri.

Dobbiamo menarla con ‘ste stronzate di un secolo fa, perché senza la fantasmagorica “minaccia fascista” bisognerebbe affrontare reddito minimo, diritto alla casa, condizioni di vita dei lavoratori, crollo delle nascite e del potere d’acquisto.

Naturalmente di mezzo ci vanno uomini di Stato che ogni giorno rischiano il collo per stipendi fermi a vent’anni fa, accusati da una persona che non ha voluto nemmeno fare la fatica di leggere una paginetta di Storia militare.

Ma come ho detto all’inizio, date le sue condizioni di salute, mi fermo qui.