02. Un paese tranquillo

02. Un paese tranquillo

Il salotto di casa di Ario odora di fritto e Lisoform. Pareti spatolate, copridivani mai tolti, centrino di pizzo sul tavolo da pranzo. La foto di un uomo elegante dentro quelle cornicette d’argento riservate ai parenti morti, abbastanza piccole da non farti nostalgia e abbastanza grandi da non farti sentire in colpa per averli scordati. Statuine di gatti.

La madre è pasciuta, sulla cinquantina, capelli grossi color topovolpe, vestito a fiori e Birkenstock. Ci spiega che non può prestarci la macchina, le serve per andare dalla numerologa.

«Mamma» fa Ario «La numerologia è una cosa che si sono inventate le multinazionali che fanno il signoraggio bancario sugli immigrati che ti vaccinano contro il lavoro islamico. E poi finisce agli zingari, che rubano i bambini di rame e li rivendono ai terroni. Vero che lo dice anche la nostra professoressa di matematica?»

Noi tre ci scambiamo occhiate allarmate, poi annuiamo.

«Vedi! L’ha detto anche Barbara D’Urso quando è andata dalla Parodi sull’Isola dei famosi, c’era anche un lato b da urlo a Lampedusa e fermava gli sbarchi nella casa del Grande fratello VIP. Ovvio che è tutto un magna magna. In un paese normale ha ragione Striscia la notizia, ci vorrebbe la pena di morte per tutti i pedofili che vengono qui a stuprarci i vivisettori invece di aiutarli a casa loro. La gente è stufa, noi poveri italiani non arriviamo a fine mese. Capito, mamma? Finale, la macchina la prendiamo noi.»

«Ah… Va bene» dice la donna.
Corriamo fuori.

«A bordo, lesti!» ulula Ario, scattando verso la macchina «L’incantesimo dura trenta secondi, poi le si resetta il cervello!»

Ci scaraventiamo dentro la 127. Il motore sussulta e muore. Ario guarda la luce sul tettuccio, prova a farla scattare. Per un istante manda un lampo fioco, poi sfuma nel nulla.

«Cristo, s’è di nuovo cazzuolata la faccia per quello del banco macelleria» geme.

Scendiamo e ci mettiamo a spingere con la forza della disperazione. Facciamo tre metri, quando sentiamo lo scatto metallico del cancelletto alle nostre spalle e lo sciabattare della madre: «Ario! Ho pensato-
«E GIA’ SBAGLIAMO MALE» replica il figlio a denti stretti, premendo l’acceleratore. La 127 sussulta. Spingiamo più in fretta. La madre esce dal vialetto. Spingiamo con tutte le forze che abbiamo, l’incrocio del vicolo a dieci metri. La madre bercia cose incomprensibili tra i nostri gemiti e il rantolo del motore.

«Non sento bene, il frastuono dei cavalli vapore della fuoriserie copre tutto» grida Ario «E voi spingete, cazzo, ne va della mia già improbabile eredità.»

La 127 si avvia. Saltiamo dentro uno sopra l’altro, di traverso tra i sedili, botte e vaffanculi, mentre la madre diventa piccola nel retrovisore. Entriamo nel terraglio alle 19.30. Mezz’ora dopo la spia della riserva lampeggia bestemmie in codice morse. Entriamo in una laterale coi vapori della benzina e siamo nel posto e nel giorno ideale per fare quello che ci serve, ma dobbiamo aspettare almeno l’una. A piedi raggiungiamo due case, una chiesa e un’osteria che qualcuno ha coraggiosamente chiamato paese. Compriamo due panini e una coca da spartirci in quattro, grattiamo dai cestini del pane il restante, chiacchieriamo fuori fumando Lucky strike.

«Tua madre non sa che hai mollato scuola?» domanda Atza, togliendo la crosta alla fetta di pane.
«Chiaro, altrimenti mi gioco la paghetta. Poi non voglio deluderla, già sta un giorno sì e uno no a ripetere namiore ganchiore con la vicina.»
«E cosa sarebbe?» domanda Luca.
«È una supplica agli dèi dei bastoncini di incenso. Fa ‘ste Buddhanate perché il Dio tradizionale non la fa scopare; devi chiedere a chi fornisce con maggiore probabilità» spiega Ario, agitando il panino «Nell’attesa il signor Ganchiore mandi un trombante, lei si sollazza col micio, trinca mezzo litro di acqua magica omeopatica corretta psicofarmaci, due polpette macrobiotiche anticancro e via di maratona de La vita in diretta stirando mutande. Chi l’ammazza a lei?»

Torniamo alla macchina. Io e Atza studiamo le auto parcheggiate a caccia delle Panda, delle 600 e di tutte quelle sprovviste di serratura al serbatoio. Ario ci segue con tanica e tubo di plastica, un mozzicone di un metro ottenuto tagliando la pompa d’acqua della vicina. Luca tiene gli occhi sui palazzi e la strada. Fila incredibilmente tutto liscio. Ripartiamo a serbatoio pieno e arriviamo ad Astorzi di Boion attorno alle 22.

Nessuna persona, nessuna macchina. Le portiere della 127 che si chiudono rimbombano come un petardo in chiesa. Fa caldo e l’umidità crea una nebbiolina spettrale.

«Senti che pace» mormora Atza.
«Senti che palle gonfie» geme Ario, afferrandosi il pacco e scrollandolo «Mi avete fatto mancare la sega del  dopocena, fatto gravissimo. Dov’è ‘sto collegio?»

All’ingresso del borgo ci sono delle colonne di pietra che impediscono l’entrata delle macchine. Parcheggiamo la 127 contro un muretto che separa la strada da una vallata e ci incamminiamo dietro a Luca, camminando in silenzio tra le vecchie case da contadini.

«Ma ci vive qualcuno, qui?» domando.
«Nooo, è tipo la giostra dei pirati a Gardaland» fa Luca.
«Sono I corsari di Gardaland» precisa Atza.
«Vabbè.»
«No “vabbè”, è importante. Jason Montague è un corsaro, non un pirata. Minaccioso, sì, ma alla fine è buono.»
Sguardi interrogativi: «Chi?»

«Jason Montague. Mi fate incazzare se parlate senza sapere le cose. Non avete visto la scena della taverna? È lui che salva la cameriera.»
«Atza, la giostra» fa Luca con un filo di voce «Stiamo parlando della giostra.»
«Lo so! I corsari. Conosco a memoria tutta la trama, i personaggi, i dialoghi. Ci vado ogni estate fin da quando l’hanno aperta nel ’91. Entro alle 10 di mattina, esco dopo l’ultimo giro alle 22 la sera, fa 74 giri da 9 minuti. Sarebbero 80, ma ne tolgono 6 per la pausa pranzo. Escludendo quest’anno che ancora non ci sono andato, ho fatto I Corsari… quattrocentoquarantaquattro volte. E voi nemmeno sapete che ha una trama?»

Noi tre

«Non lo sapete!» insiste Atza a occhi sbarrati «Cioè per voi è solo u-un… un trenino?»
«Ringrazia che non c’è una donna ad ascoltare questa roba» fa Luca, arricciando il naso.
«Avete a disposizione un’esperienza di vita e la vivete come… come se fosse la brucomela?! Che razza di idioti superficiali siete?! Almeno i dialoghi…»
«Ma quali dialoghi?!» esplode Luca nel silenzio «Il pappagallo demmerda con la vocetta stridula che gracchia è meglio che torrrniate indietrrrro!?»

È meglio che torrrniate indietrrrro!

È meglio che torrrniate indietro!

È meglio che torrrniate indietrrrro!

Il riverbero della voce si spegne contro qualche parete lontana, lasciandoci ascoltare solo i nostri respiri. È tutto immobile, qui. Non si sente un televisore, un russare, un adolescente che bercia, un motorino, un cane che abbaia. Niente. Solo case chiuse, ordine e pulizia. Non una cartaccia, o un manifesto, o una tag. È un silenzio pesante e peggiore di quello della nostra periferia, ma non so spiegare perché.

«Mi sono venuti i brividi al buco del culo, piantala» mormora Ario, riprendendo a camminare.
Arriviamo al collegio.

È diviso da una strada. Da un lato, un vecchio edificio neoclassico a cinque piani dall’aria malmessa, ma che conserva una sua austerità grazie alle grate alle finestre in ferro battuto e il portone, entrambi in ottime condizioni. Più avanti c’è l’ingresso alla piazzola centrale, che forse porta a un cortile. È sbarrato da un cancello a due ante in ferro, alto due metri e che termina sotto una volta di pietra su cui troneggia il nome dell’istituto. Dall’altra parte della strada c’è un giardino con sentieri di ghiaia, aiuole curate come fossimo nel 1700, statue di cemento sbranate dalle intemperie e coperte di muschio, una fontana che non vede acqua da parecchi anni e un altarino. Il solo modo di entrare sarebbe forzare il portone, ma è troppo esposto.

«Nebo, almeno tu, la conosci la trama dei Corsari?» domanda Atza.
Gli ansimo una bestemmia nell’orecchio e passiamo oltre.

Il collegio confina a est con una vecchia casa contadina male in arnese, anche lei con un giardino protetto da una siepe. A ovest, un villone da miliardari che sorge su una collina protetta da una murata di tre metri abbondanti. Decidiamo per la casa contadina. Attenti che non ci sia nessuno attorno, scavalchiamo il cancelletto e finiamo in un giardino trascurato, tra erbacce, mucchi di foglie secche dell’autunno precedente, sterpaglie e ramoscelli.

C’è un rastrello arrugginito di fianco, come se l’autore del mucchio avesse abbandonato il lavoro e nessuno l’avesse mai più ripreso. Camminiamo sulle piastrelle di ghiaia cementata fino alla siepe che confina con il collegio. In mezzo c’è una rete e non abbiamo tenaglie. Cercando di non fare rumore, la spostiamo per vedere meglio.

Atza tenta di parlare di corsari, un coppino di Luca schiocca come un colpo di frusta.

Oltre il cancello del palazzone c’è un cortile con una fontana, questa volta in funzione. C’è anche un altro edificio più piccolo, tre piani e soffitta. Dalla strada non si vedeva. A 18 anni riconosci le aule scolastiche con un colpo d’occhio. Deduciamo che quello grosso devono essere le camere da letto per allievi e insegnanti, sala da pranzo, aule computer e roba simile. Quello piccolo serve per le lezioni standard. Restiamo a guardare attenti a cogliere una luce, un rumore, un minimo movimento.

Nulla.
Le finestre sono chiuse.

Torniamo indietro, scavalchiamo il cancello e ci incamminiamo verso la macchina. Tranne Ario, domani abbiamo tutti scuola. Dovremo fare un dritto, ma non è la prima volta – e almeno questo giro non siamo sbronzi o drogati. È quando arriviamo alla macchina che realizziamo il primo, vero, problema: la 127 non c’è più.
[continua]