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Qualcosa nel buio ci protegge, ma se accendiamo la luce ci ucciderà.

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Dopo i fatti di Parigi gli stimaticolleghi© sostengono ventre a terra la teoria che l’Italia sia protetta dalla mafia. Lo dice un tizio il cui curriculum non è verificabile, cazzo, è certamente vero. La notizia rimbalza all’estero e questo fa agitare il pollame starnazzante: davvero gli psicopatici di Parigi non vengono da noi perché c’è Totò ‘o curtu?

Ricapitoliamo quello che dei magrebini fallit terroristi hanno provato a fare nel nostro paese negli ultimi anni.

Nel 2001, PRIMA delle Torri gemelle, in Italia è stato sventato un attentato a Lignano pineta. Sempre prima delle Torri, a maggio fu sventato un tentativo che puntava la metropolitana di Milano. A ottobre l’ambasciata ammeregana a Roma. Non fai in tempo a rilassarti che il mese dopo ecco arrivare uno convertitosi all’Islam per lo stesso motivo di quell’altra psicopatica, ossia che sono dei falliti. Questo stronzo vuole radere al suolo il tempio della Concordia ad Agrigento. Fallisce. A maggio 2002 c’è un doppio tentativo alla cattedrale di Cremona e al Duomo di Milano. Il mese dopo, alla basilica di Bologna. Nel 2003 si riprende con allegria, quando un fanatico dentro un’auto imbottita di esplosivo si da’ fuoco contro la sinagoga di Modena il 12 dicembre 2003.

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Portentosi, ‘sti uomini di mafia. Pensa il tempo speso in appostamenti, intercettazioni, magari con la polizia che gli rompe il cazzo e cerca di arrestarli. Ah, se solo la mafia avesse più mezzi e ci decidessimo ad abolire le forze dell’ordine e l’esercito, che paradiso sarebbe. Ma non divaghiamo.

Il 29 marzo 2004 un altro coglione si fa esplodere al McDonald di Brescia. Nel 2005 viene sventato per un soffio un grosso SBRAANG al porto di Napoli per mano di algerini e nel 2006 tocca di nuovo alla metropolitana di Milano e alla chiesa di San Petronio a Bologna. È un falso allarme dovuto a un errore di traduzione (dei Carabinieri, chiaro, la mafia mica sbaglia traduzioni), ma non lo è quando per un pelo viene sventata una carneficina al Duomo, a Bande nere e nei supermercati per mano di tre marocchini nel 2008. Nel 2009 ecco un altro suicida contro la caserma militare a Milano. E tre mesi dopo un secondo, sempre a Milano e sempre sventato.

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Perché cazzo la mafia dovrebbe sventare un attentato alle caserme?
Vabbè, sono stupido io.

Torniamo a bomba (ha ha!) all’aprile del 2010, quando i cammellieri impazziti per le troppe seghe tentano di accoppare Ratzinger e altri cercano di far saltare per aria vari quartieri di Napoli. Sempre a Napoli, altri puntano la stazione centrale e la metropolitana. Torniamo a Milano, la cara vecchia sinagoga nel marzo 2012 viene puntata dal solito manipolo di beduini. Nel frattempo altri camel lover nel marzo 2013 provano a formarsi in Puglia. Vengono fermati dai Carabinieri, dicono i giornali, ma certamente è stato merito di Giuseppe ‘o mariuolo e Salvo ‘o muccobombo. Bloccati questi, altri ci provano a Brescia nel giugno del 2013. Pochi mesi dopo tocca per l’ennesima volta a Milano in ottobre: per pochissimo non fanno deflagrare la metropolitana. E mentre noi all’EXPO deridevamo il “vietato introdurre catapulte” (ha ha ha, stupidi addetti alla sicurezza!) e facevamo sagace ironia sulle file (ha ha ha, stupidi paranoici!), è stato fermato per i capelli un tentativo di kaboom. A giugno c’è stato un altro tentativo in Vaticano e rieccoci a San Petronio nell’ottobre 2015, dove i fanatici ritardati tentano il colpaccio ma gli va storta.

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Cioè, la mafia non solo interra fusti radioattivi in madrepatria contaminando il cibo e condannando interi paesi a morire di cancro e leucemia, non solo costruisce palazzine che crollano uccidendo chi ci abita, non solo scioglie bambini nell’acido e costringe bambine a prostituirsi, fa saltare per aria gente che non ha soldi per pagare il pizzo, strozza realtà umane e lavorative, usa e getta schiavi di vent’anni. Non solo gestisce il traffico di droga che poi fa spacciare agli immigrati che ci guadagnano i soldi con cui, stando a tutti gli articoli qui sopra, comprano esplosivi per farci attentati.

No. Oltre a questo, nel tempo libero ci salva dai terroristi.

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È la verità?

Penso che nessun giornale, nessun politico, nessun opinionista e nessun “controinformatore” dica la verità. E non per malafede, ma perché secondo me è troppo complessa, intricata, connessa e sfaccettata per essere compresa da un popolo che davanti a 120 morti s’indigna per il cane. Voglio dire, guardiamoci negli occhi. Siamo piccoli, limitati, stupidi, meschini e inconsapevoli. Alterniamo indignazioni da lavandaie a ironie moraliste. Pur di non smentire i nostri pregiudizi da centro sociale preferiamo dare alla mafia i meriti dello Stato: davvero pensiamo di avere l’apertura mentale per capire l’architettura segreta del mondo? Di essere in grado di reggere la risposta? Noi che c’eravamo indignati per “annichiliscilo”? Che quando c’è una manifestazione urliamo “GUARDATE RAGHE UN AGGENDESECRETO“?

Dopo Parigi ci stiamo cagando addosso e vogliamo una pacca sulla schiena. Potrebbe succedere anche da noi? Ci saranno, attentati da noi? Secondo me vogliamo solo una rassicurazione, non la verità. E dalla tempesta di link qui sopra, io cammino tranquillo per strada. Continuavano a provarci prima e continueranno adesso, ma noi continuiamo a parare. Il come, il chi e il perché non lo so. Lo Stato ha un sacco di apparati e organi e sigle che mi sfuggono, ma dopotutto sono uno scrittore. Non saprei nemmeno elencare i nomi di 10 politici del partito che ho votato. Non so il nome dell’ufficiale che comanda la caserma di Mestre, per dire. Non so nemmeno il nome di chi mi ha cucito la camicia che ho addosso. O da dove viene la droga che uso, né il petrolio con cui hanno fatto la plastica della tastiera su cui sto scrivendo.

Non so un sacco di cose, ora che ci faccio caso.

Io, tu, noi, siamo insieme in un piccolo cerchio di luce circondato dal buio da cui provengono rumori orrendi. Ogni tanto un artiglio prova ad afferrarci. Possiamo interrogarci per ore su cosa gli impedisca di farcela, ma qualunque cosa sia, ci protegge secondo un patto non detto ma molto chiaro: non accendere la luce.

Lo ringrazio di cuore perché mi permette di camminare sereno per strada, ma non voglio avere niente a che fare con lui. Perché credo sia qualcosa di molto, molto più cattivo e potente della mafia.

1944: LA COTTOLENGO SHUFFLE

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Washington, marzo 1943.
Il generale Eisenhower, capo supremo delle forze alleate, entra nell’ufficio presidenziale e scatta sull’attenti. Alla scrivania, il presidente Roosevelt alza la testa e squadra il militare: «Sì?»
«Il D-day è alle porte, presidente.»
«Lo so. Cosa vuol dire quella D, poi?»
«È segreto.»
«Sono il presidente degli Stati Uniti.»
«È segreto anche per lei.»
«Allora per chi non lo è?»

«Generale, lei non ha idea di cosa significhi quella D, vero?»
«Tanto non lo sa nessuno» minimizza Eisenhower.

Lo sbarco in Normandia è stato pianificato, ma c’è un problema: buona parte dei soldati destinati alla mattanza sono ragazzetti inesperti che alla prima granata potrebbero andare in panico e rovinare tutto. Non c’è modo di trasformarli in veterani, però Eisenhower pensa che si potrebbe almeno prepararli con


«…un’esercitazione, ho indovinato?» sorride Roosevelt.

 

 

 

 

 

 

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«Fuori di qui, pazzo» dice il presidente, rimettendosi a scrivere.
«Ma perché? Sono belle, le esercitazioni!»
«Ogni volta che quel cottolengo galleggiante chiamato “marina” fa un’esercitazione raggiunge ineguagliate vette di ritardo mentale, generale. Muoiono come mosche.»
«E se invece lo chiamiamo… non so, esercizio?»
«NIENTE SIMULAZIONI, CAZZO, NIENTE! SIMULAZIONI!» tuona Roosevelt battendo i pugni sul tavolo «GIURO SULLA MADONNA DI CASTELMONTE, EISENHOWER, FAMMI SOLO UN’ALTRA SIMULAZIONE DEL CAZZO E IO T
L’exercise Tiger si divide in due fasi.

Prima gli inglesi bombarderanno la spiaggia di Sampton sands, nel Devon, simile in tutto e per tutto a quella della Normandia. Questo ricreerà l’odore, la distruzione e i detriti di un vero campo di battaglia. Poi verranno fatti sbarcare i marines, inconsapevoli si tratti di una simulazione. A quel punto gli inglesi continueranno a bombardare, ma spostando la traiettoria dietro una linea di nastro bianco tirata lungo la spiaggia in modo da non colpirli.

Tutte le munizioni vere.

Siccome le possibilità di una catastrofe non sono abbastanza mostruose, Eisenhower mette a capo della flotta americana l’ammiraglio Don P. Moon e come ufficiali delle navi da trasporto degli stronzi qualsiasi assegnati alla marina perché da piccoli andavano a pesca in un laghetto del Wisconsin. Compartimenta le informazioni in modo che nessuno faccia la spia. Fa evacuare 30,000 acri di territorio inglese dando alle famiglie dei paesi limitrofi cinque settimane per levarsi dai marroni senza dire loro perché, né quando potranno fare ritorno a casa. Né se la troveranno intera.

L’operazione inizia subito in un clima di rilassata professionalità.

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Slapton sands, ore 2200, 24 aprile 1944
Accampamento militare inglese

«STIAMO NELLA MERDA PESA, COLONNELLO» grida il sergente maggiore inglese sotto la pioggia «metà cannoni sono impantanati e l’altra metà non riusciamo a calibrarli! Con ‘sto buio rischiamo di sparare in alto mare, ma se tiriamo corto disintegriamo i villaggi vuoti!»
Il colonnello, bagnato fradicio, entra trafelato nella tenda: «Comunicate alla flotta americana di posticipare lo sbarco, perdìo, qui è un macello!»
«Ho bisogno di sapere la frequenza segreta, signore» dice il marconista.
«Quale frequenza segreta?» fa il colonnello, poi si gira verso il tavolo degli ufficiali «voi ne sapete qualcosa?»
Silenzio.

 

 

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USS Idaho, 9 miglia dalla costa, stessa ora

«Dite agli inglesi che siamo in perfetto orario» ordina l’ammiraglio Moon.
«Su quale frequenza?»
«Che ne so, io? È lei l’addetto radio.»
«È stata affidata a un ufficiale per motivi di segretezza, signore.»
«Allora chiamatelo.»
«È segreto anche quello, signore.»

Mancano due ore alla più grande esercitazione mai eseguita dall’uomo e i militari si accorgono che in un raptus paranoide l’intelligence ha secretato il secretatore col segreto. Potrebbe non essere in plancia, potrebbe non essere a bordo, potrebbe benissimo essere a casa a trombarsi la moglie, per quel che ne sanno. Fatto sta che le radio non riceve né trasmette.

«Provate frequenze a caso.»
«Ma abbiamo l’ordine di silenzio radio…»
«STACCE» fa l’ammiraglio Moon, sporgendo il petto «noi siamo americani, ribelli e leader naturali. Le regole sono fatte per essere infrante. Poi siamo in Inghilterra, haha, chi vuoi che ci senta? I vecchi radioamatori? Hahaha ha ha, hellò hellò oggi ho fatto il pane? I bambinetti con le radioline pissi pissi bau bau? Ha ha haha ha la regina oh my God portatemi il my tea haHA HAHA HAHAH AHAHAH

 

 

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Sottomarino nazista Krapfen-3

«Herr komandant, rileviamo molto traffico radio tra riva e mare. Non si capisce cosa dicono, ma dal numero di trasmissioni sembrano tanti, indaffarati e di buonumore.»
«Informate il comando e chiedete di mandare dei ricognitori.»

 

ORE 2358
Accampamento militare inglese

«Notizie dagli americani?»
«Bè, io ho comunicato che ritardavamo a chiunque fosse all’ascolto, ma non ho certezza abbiano recepito. Cioè, finora posso garantire per un camionista dello Yorkshire, per un pastore portoghese che mi ha anche invitato a casa sua e un tizio con accento strano che mi ha detto ya ya sehr good aber was cazzo ritardate?»
«Sarà stato polacco.»
«Ma infatti.»
«Comunque direi che annulliamo» fa il capitano, sudatino.
Il colonnello si mordicchia le labbra, poi: «No, no, proseguiamo secondo i piani, dopo tutta la fatica che abbiamo fatto due cannonate le voglio tirare. Tutti ai posti di combattimento, fuoco alla mezzanotte in punto.»

 

ORE 2359
Spiaggia

Quando il primo marines esce dall’LST pronto a tutto si trova davanti la noia. La pioggia ha smesso di scendere, la sabbia è liscia e bianca, la quiete della notte disturbata solo dal vento e dalla risacca. I compagni escono passeggiando, spaesati. Non c’è segno di vita.
«Ehi, crucchi, c’è nessuno?» grida un marines al buio davanti a loro.
Grilli.

«Hitler merda!» grida un altro.
Whooosh, fanno le onde.

«Potrebbe essere un tranello, vediamo come rispondono a questo» fa un altro, sparando qualche colpo verso gli alberi nel buio.
Nessuno risponde.

«Qui non c’è nessuno, sergente» dice, mentre altri marines escono dagli LST col fucile in spalla e un sorriso rilassato.
«Facciamo la prova del nove» dice il militare, portandosi le mani attorno alla bocca: «DELISSIA, DELISSIA, ASSIM VOSSE ME MATA, AI SE EU TE PEGO AI AI SE EU TE P

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Una tempesta di fuoco trasforma la spiaggia nell’equivalente termico del centro della Terra. Uomini, mezzi, carri armati, jeep, tutto vola verso il creatore in un virile detonar d’armi alleate. Senza perdersi d’animo, la seconda ondata sbarca in mezzo al fuoco sparando all’impazzata verso il nulla.

Nella sala comando della flotta, l’ammiraglio Moon ascolta le comunicazioni dei soldati ed è felice la simulazione sembri così verosimile. Dopo sessanta minuti di sterminio amichevole, gli inglesi spostano il fuoco dietro la linea bianca. Gli americani però sono ribelli e leader naturali, quindi senza indugio oltrepassano la linea per inseguire il nemico e ricominciano a esplodere felici mentre sparacchiano a querce, frassini, odorosi pioppi e sonnolente poiane.

È un giorno glorioso, per la marina degli Stati Uniti.

Nel frattempo le altre cinque LST attendono il loro turno. Sono mezzi grossi e maneggevoli come una vacca sbronza, quindi devono essere sempre scortate da almeno due incrociatori. Sono con loro l’HMS Azalea (inglese) e l’HMS Scimitar (americana). Presi dall’euforia dell’esercitazione, la fregata americana decide di simulare anche lei una manovra di disimpegno. Subito centra un LST e fugge in cerca di riparazioni. La HMS Azalea resta sola, così sola che i sopravvissuti dicono di non averla mai vista. A bordo dell’HMS Azalea un marinaio nota dei motoscafi non identificati approcciarsi alle paperelle in barile dette LST.

«Rigaz, quelli li avete visti?» dice «mica son nazi, vero?»
«Eccallà, il solito paranoico» dice il nostromo.
«Nel dubbio io avviserei il resto della flotta.»
«Così poi ci prendono per il culo? Non serve avvisarli, sicuramente li hanno visti anche loro. Saranno motoscafi dei nostri.»

No.

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Richiamati dal porcaio di onde radio, i nazisti arrivano alla festa con nove E-boat pieni di siluri. Quando il primo sventra un LST, il cargo deflagra in un geyser di fuoco alto trenta metri, proiettando un carroarmato nella stratosfera. A bordo i soldati superstiti devono indossare i giubbotti di salvataggio, ma non quelli veri: quelli della COOP, ossia un salsicciotto da gonfiare a bocca e mettersi attorno alle ascelle. Tutto si trasforma in un circo di lemmings. I primi non riescono a trovare il tubicino dove soffiare e affondano come tanti genovesi. I secondi s’infilano il salsicciotto attorno alla vita uso paperella gonfiabile, si tuffano e il peso dell’equipaggiamento li tiene giù mentre il giubbotto gli spinge il culo in su: risultato, affogano a pecorina in centinaia. I terzi dimenticano di slacciarsi l’elmetto, che causa della sua conformazione appena impatta con l’acqua fa effetto sacchetto e col peso dello zaino e dell’uomo da’ una tirata tale da spezzare l’osso del collo. I quarti fanno tutto correttamente, ma si tuffano nell’enorme chiazza di carburante che sta venendo spanto dagli altri LST sventrati, con pirotecnici risultati. I quinti esplodono qui e lì per cannonate amiche, siluri nazisti, mitragliate inglesi.

Presi dal panico, senza istruzioni e con la radio che urla “è tutto finto”, “questo no”, “questo forse”, “questo probabilmente”, tutti aprono il fuoco.

Contro tutti.

 

HMS Azalea
«SIGNORE!» urla il nostromo «I NAZISTI!»
«Ma perdìo, sparate!»
«A cosa?!»
«Ai nazisti! Quest’esercitazione non è un’esercitazione, fuoco!»

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«SIGNORE!» urla il secondo «IL 4 È SALTATO PER ARIA! I NAZISTI!»
«Perdìo, sparate verso le fiammate di quei cannoni, sono loro di sicuro! Fuoco!»

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HMS Azalea
«SIGNORE!» urla il nostromo «SIAMO STATI COLPITI DA FUOCO AMICO!»
«Dite agli LST di non rispondere al fuoco, riveleranno la loro posizione! E fuoco a volontà!»

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«NON STAREMO QUI A FAR LE ANATRE!» urla il capitano «RISPONDETE AL FUOCO!»
«A quale!? Qui sparano tutti!»
«Spara nel mucchio, Dio saprà riconoscere i suoi»

 

Sulla spiaggia

«Dove stracazzo è il tenente?!» urla il sergente della terza ondata.
«Vuole provare a trattare con quel castagno in fiore» risponde il soldato, indicando una figura che si allontana.

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«Avrà una medaglia. Dite agli altri di sbarcare, abbiamo bisogno di rinforzi!»
«Non rispondono, signore! Sulla nostra frequenza ricevo solo uno strano glu glu glu e su quella degli inglesi c’è un’interessante inchiesta di Beatrice Bo

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«…il bilancio è di 946 morti» conclude il segretario della Difesa, nello studio ovale.

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«Però Eisenhower dice che ‘sta cosa ci ha insegnato molte cose.»
«Tipo?»
«Che le frequenze radio bisogna condividerle. Oh, e che i salsicciotti di salvataggio son più da party in piscina che da guerra. Magari potremmo farne un modello a pois per i civili, rientrare nei costi, dare un’immagine più sbarazzina all’esercito. Chissà.»
«Classificate tutto a livello oltre il top secret» fa Roosevelt «nessuno dovrà mai saperne nulla. Ai familiari dite che sono dispersi in combattimento.»
«In Inghilterra?»
«Sì. L’importante è che nessuno sappia mai nulla. Riderebbero di noi fino alla fine del mondo. Esistono prove che tutto questo è accaduto?»
«Oddìo, qualche carrarmato potrebbe sbucare dalla sabbia, ma è improbabilissimo.»

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I sopravvissuti all’operazione furono minacciati di corte marziale se ne avessero parlato con qualcuno. Ai medici fu detto di trattare i feriti come fossero veterinari: non dovevano chiedere niente. Quando nel 1974 iniziarono a saltar fuori resti, domande e casini, gli USA dissero che sulla spiaggia della simulazione c’erano stati “solo 29 feriti” e nessun morto.

Parlarono di 639 morti totali attribuiti ai nazisti, ma la BBC sa fare il suo lavoro. Secondo un telegramma segreto di Don P. Moon i morti erano 749. La differenza è di 110, ossia i morti sulla spiaggia seppelliti in fretta e furia in fosse comuni. Tre mesi dopo il D-day, Moon si suicida. Di quell’operazione nessuno parla volentieri. Restano punti oscuri, vaghi o contraddittori. Oggi, i veterani che parteciparono allo sbarco in Normandia, dicono che non hanno incubi sul D-day, ma sull’operazione Tiger.

Nel 1953, Eisenhower fu eletto presidente degli Stati Uniti.

“Viemme sotto ma su un palco, non su un foglio stampato der cazzo”

Come sapete, domenica a Lucca si terrà un dibattito con Spataro e Natangelo. Mi arriva un messaggio sul mio profilo personale, a cui rispondo più confuso che altro.

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In contemporanea contatto Spataro e gli chiedo WTF. Lui risponde che questa pletora di fascis questi attivisti per la legalità e la giustizia lo perseguitano da un pezzo. Si sono anche presentati per contestarlo, senza però fare mai niente di eclatante. DIce che sono istigati da tale Tizzanini, forse lo stesso di cui fa un quadro molto interessante Il Giornale (un pregiudicato per aggressioni e traffico di droga), Repubblica (un capo ultras violento) il Secolo XIX° (aggressione e percosse). Spataro mi linka il profilo di Natangelo, dove appare lo screenshot di un messaggio simile.

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Spataro si augura non lo seguano al dibattito.

 

 

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Io invece spero tanto di sì.

Dove mi trovate a Lucca comics 2015

Se siete tra quelli che vengono a Lucca e avete voglia di fare due chiacchiere, avere informazioni segrete sui progetti a venire o fare a botte, questo è il mio calendario presso lo stand della Star Comics:

 

Sabato 31 novembre dalle 12:30 alle 13:30, firme e disegni con Kota. Poi:

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Domenica 1 novembre alle 10, invece, un professore dell’Università cattolica mi ha chiesto di salire su un palco con un tizio che non conosco e il vignettista del Fatto quotidiano.

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Purtroppo non posso portarmi dietro l’avvocato, ma potrebbe essere interessante esserci, vedete voi. Nel resto della settimana sarò in giro a ficcanasare e guardar cosplayer. Sempre se riesco ad accreditarmi, perché quest’anno ci sono buone possibilità io e altri autori restiamo fuori della porta a causa di un buffo regolamento.

Se voi riuscite a entrare, vi aspetto.

Inside Out 2

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Riley ha 13 anni. Arriva alla festa di Frank, suo sogno erotico e popolarissimo a scuola. La casa è una villa a tre piani zeppa di ragazzini urlanti, musica, superalcolici, birra, sigarette e canne comprati grazie ai fratelli maggiori. Ha promesso ai suoi di tornare presto e di fare la brava. Del resto, sono due vecchi che si bevono qualsiasi stronzata. Riley è molto incazzata per avere due genitori tanto sfigati, ma stasera non li ha tra le palle e deve farsi notare dal suo idolo.

«DAJE RAGA» batte le mani Gioia, nella testa di Riley «tutti pronti, Tristezza nel cerchio magico, Rabbia fai i compiti per domattina e cerchiamo di fare bene.»
«S-s-sì ma» balbetta Paura «c’è tutta la scuola, qui. Una parola sbagliata e ci prenderanno per il culo fino a novant’anni. Non voglio diventare Mary Caccola.»
«O Andy Cagaddosso» completa Disgusto.
«Chad a ore due!» fa Gioia.

Chad è il miglior amico di Frank. Giocano insieme. Non è brutto, ma Riley lo reputa solo un ponte per il suo obiettivo. Sembra aver voglia di parlare. Lei lo asseconda e dopo qualche minuto di conversazione vuota, come aveva sperato, Frank li raggiunge. Lei ha le gambe deboli, il cuore in gola e lo stomaco sembra essere indifferente alla forza di gravità.

«Fumi?» dice Frank, offrendole una sigaretta.

A Riley sembra il regalo più bello del mondo. Non può mostrarsi immatura né spaventata, e ha già fatto un tiro ogni tanto. Chad se ne accende una e accende quella di Riley. Lei fa la prima boccata guardando negli occhi Frank e cercando di sembrare sexy. Invece lui si alza e se ne va, dando una pacca sulle spalle a Chad.

«M-ma dove…» fa Disgusto «dove va?! Perché?!»
«Ci molla!» dice Rabbia «ci molla con questo scemo!»
«Calmi, forse va solo in bag

Nella sala controllo tutti gli allarmi esplodono.

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Nella testa di Riley i suoni sono ovattati e distorti. Se fissa le luci, quelle esplodono fino a colorare tutto quello che vede. Sente il suo corpo. Percepisce gli alveoli dei polmoni, sente il peso del fegato, il sussulto del cuore. Si guarda le mani e scopre di poter unire le dita in un solo blocco di carne. Le osserva sciogliersi e ricostruirsi. Chad è ancora lì che le parla, ma lei non sente niente.

«Acqua!» urla Disgusto «beviamo acqua, ci hanno avvelenati!»

Il tilt organico si propaga a tutte le terminazioni nervose, mandando in corto circuito l’impianto visivo e uditivo. La sala piomba nel buio, rotto solo dal lampeggiare degli interruttori. Il montacarichi alle loro spalle si apre di schianto e appare una ragazza sui vent’anni. Ha il cranio rasato, una maglia di cotone verde oliva, un giubbotto di pelle raffazzonato, una bisaccia a tracolla, pantaloni neri che hanno visto tempi migliori, una cintura piena di scomparti, stivali usurati e polverosi. Scatta in avanti, afferra il braccio di Gioia, glielo torce dietro la schiena tirandola a sé e le punta un coltello alla gola, piccolo e spesso. Nessuno si muove.

«Cosa vuoi?» fa Rabbia, alzando le mani «chi sei?!»
«Io e la vostra amica abbiamo un lavoro da fare» risponde la ragazza. Indietreggia fino al montacarichi, poi col manico del coltello preme il pulsante discesa.

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Alla festa Riley sente il bisogno di stare da sola e di inseguire i caleidoscopi di luce. Non è triste, non è felice. Non è arrabbiata né spaventata. Si alza, ignorando Chad e le sue chiacchiere. Cammina alla ricerca di un posto isolato, facendosi largo tra ragazzi che si deformano al suo passaggio.

«Chi sei?» fa Gioia, mentre il montacarichi scende.
«Mi chiamo Xeni.»
«Xeni?! Sembra il nome di un detersivo!»
«Senti, ho venti minuti per salvare Riley e rimediare i casini che avete combinato in tredici anni, evitiamo le dissertazioni sul mio nome.»
«Riley? Ma sta benis
Xeni le gira la faccia con un ceffone: «Sì, finché stava da sola in cameretta. Fuori durerà meno di un gatto nel porto di Rejana.»
«Re…?»
«Lascia perdere» sbuffa Xeni, guardando l’acqua watch del Mulino bianco al polso.
Segna le 19:42. «Riley è in pericolo, punto»
«La sigaretta» sbianca Gioia «cosa c’era dentro?»
«Che ne so. A naso direi DMT. Calcolando la massa corporea della sottosviluppata…»
«Riley non è sottosviluppata!»
«No? Si muove per emozioni, come una blatta o un sorcio. E ci sta, al mondo c’è posto anche per loro. Ma Riley ha un destino diverso.»

Raggiunto il piano terra, Xeni la trascina verso la terraferma. Imponenti scaffali di ricordi. Immagini. Suoni. Voci. L’odore del tappeto quando giocava da piccola e quello delle confezioni di Lego appena aperte. Il suono di un aereo sopra casa e di un pallone Teranga calciato bene. Riley che tossisce fino a spararsi il cibo nel naso.
«Và! Và quanta roba sprecata» ringhia Xeni, camminando in fretta «dov’è Bing Bong?»
«Chi?!»
Il pugno la fa piegare in due e cadere per terra. Xeni le si accovaccia sopra: «L’amico d’infanzia. L’elefante rosa del cazzo. Dov’è?»
«S-si è sacrificato per salvarla.»
«Riley ha sacrificato l’amico immaginario per la gioia?»

Al Mulino bianco mancano 18:31

«Sì, che c’è di strano? Una persona deve essere felice!»
«Portami nell’inconscio, rapida» dice Xeni, tirandola su. Gioia mette le mani avanti come per proteggersi: «Qui nessuno lo nomina. Niente e nessuno di quello che entra lì dentro esce. È un buco nero.»
«Sì, per gli altri. Riley è diversa. Sbrigati.»
Gioia si dirige verso l’angolo estremo del cervello, seguita da Xeni.

 

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Sul letto, Riley è un radar vivente. Tutto sembra più vivido, chiaro, intenso. Le tende della finestra s’increspano come onde dell’oceano, dove saltano branchi di pesci luminosi che potrebbero essere pulviscoli di polvere al chiaro di luna, o spermatozoi a caccia di un contratto discografico. Fuori sembra qualcuno la chiami.

Al Mulino bianco mancano 16:43.

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Un condominio anni ’60 abbandonato. Fuori, il cielo azzurro del cervello è stato sostituito da nuvole grigie e minacciose. Gioia osserva, preoccupata.
«Cosa sta succedendo al cielo?»
«Quando il cervello sente qualcosa avvicinarsi all’inconscio attiva tutti i meccanismi di difesa possibili» fa Xeni, estraendo una torcia elettrica «e Riley, grazie a voi, non fa eccezioni. Da qui in poi devi fare tutto quello che dico io, capito? Qualsiasi cosa tu veda o senta.»
«C’è il rischio di morire?» fa Gioia.
«Qui dentro niente muore» fa Xeni «ma credimi, non è un bene.»

Al Mulino bianco mancano 13:02

Riley, in camera, non si accorge che la sua mascella fa movimenti lenti e scattosi. È troppo concentrata sulla fantasia floreale del copriletto. Prova a cogliere un fiore. Uno le resta in mano. Lo osserva, rapita. Bussano alla porta dietro di lei, e i colpi somigliano al suono che faceva il pallone da calcio in vacanza.

 

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Le lampade s’illuminano un istante prima che loro arrivino e si spengono appena passano. Le scale sembrano non finire mai. Gioia non osa guardarsi indietro, terrorizzata dal buio che sembra inseguirli.
«Senti, ho un’idea migliore! Bing Bong non è un mostro, giusto? Di sicuro non è qui!» dice correndo.
«Certo che è un mostro, rincoglionita.»
«Ma io me lo ricordo come un elefante carino, dolce, altruista, semplice!»
«Appunto.»
Alla fine delle scale c’è un tunnel.

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Davanti a loro provengono urla, grugniti e un clangore metallico, come quello di una catena che s’appoggia su una lastra di vetro. L’odore è disgustoso e dolciastro, merda fritta nell’olio delle patatine. Dietro, Gioia sente uno scalpiccio di passi frenetico.
«CORRI!» grida Xeni, scattando in avanti.
«Chi c’è là dietro!?» grida Gioia, seguendola a ruota «CHI SONO?!»
«Le persone che avresti potuto essere.»

Al Mulino bianco mancano 12:53

Chad apre la porta della camera e trova Riley immobile sul letto. Si siede vicino a lei. Le mette una mano attorno alle spalle, poi le fa passare le dita tra i capelli.
«Riley?» la chiama. Non ha risposta.
Si alza e chiude la porta della camera da letto.

 

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Xeni e Gioia percorrono un corridoio di cemento sgranato, la cui luce filtra da finestre coperte di muffa oltre le quali si intravede un bosco avvolto nella nebbia. Con la vista periferica, Gioia percepisce dei movimenti. Ombre. Fruscii. Se si gira verso il vetro, delle ombre ci si incollano contro, come per guardarla meglio.

 

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«Oh, Dio» fa Gioia «quanto durerà?!»
«Qui non esiste né tempo né distanza» fa Xeni, col fiato corto «l’inconscio è una dimensione in cui non sai quando, dove o se esisti. Non sei né quello che sei con gli amici, né quello che sei da solo. Sei come quelle figure alla finestra. Altre versioni di te.»
«E perché ho l’impressione mi vogliano fare del male?!»
«Perché è esattamente così» fa Xeni «una di quelle è un’eroinomane suicida che prima di morire ha visto sé stessa seduta al tuo posto. Una s’è fatta marcire l’utero ed è morta incontrando te nonna. Una è una morta di cancro ai polmoni vedendo te che non hai mai iniziato a fumare. Una s’è fatta sgozzare da un violento ubriaco e ha visto-
«BASTA!» grida Gioia, fermandosi contro il muro «Stai zitta. Basta. Ti prego, basta.»
Xeni si ferma, ansimando.

Al Mulino bianco mancano 10:12

Chad sussurra nell’orecchio di Riley parole che lei non sente, persa com’è nel guardare le stelle vibrare al ritmo della musica. Le annusa l’attaccatura dei capelli dietro l’orecchio. È un odore dolce e acerbo, coperto a malapena da un profumo di cui fanno la pubblicità durante MTV. Ci appoggia un bacio. Lei alza la mano verso la finestra. Sorride.
Lui la stende dolcemente sul letto.

 

Gioia e Xeni sbucano in una stanza tetraedrica, tutta di legno. Il pavimento è inclinato verso l’alto, il soffitto deformato e storto a sinistra. Il fondo è un blocco di buio da cui proviene uno scricchiolare di ossa. Gioia sbianca, indietreggiando: «Io so cos’è quello» ansima «andiamo via. Andiamo via!»
Xeni lancia un fischio. Lo scricchiolio tace, poi dei passi acquosi riverberano nella stanza, che diventa più piccola. Dal buio esce un cranio bianco e minuscolo. Gli occhi sono neri e sporgenti, il naso un buco sanguinolento, le labbra penzolano dal mento come la fica di una novantenne. Sotto si intravedono denti gialli e aguzzi. Gioia urla così forte da intontirsi.
«Ciao» dice Xeni.
Il mostro non si muove.
«Sto cercando Bing Bong.»
Gioia è rannicchiata in un angolo, annichilita.

Al Mulino bianco mancano 9:30

Hai mai pensato a come il suicidio risolverebbe tutti i problemi?

«Bing Bong» ripete il mostro, e la voce ha il suono del professore che scorre il registro.

Secondo me se lo uccidessi riusciresti a farla franca, basta pensarla bene.

«Amico immaginario d’infanzia. Elefante rosa, carino, simpatico» dice Xeni.

Ci vuole poco per avvelenare quel cane.

«Sì, lo conosco. È qui con noi.»

Sei una fallita incapace.

«Chiamalo, siamo di fretta.»

Ti sta per succedere qualcosa di brutto.

«Xeni» geme Gioia «tu non le senti?»
«Cosa, le voci nella testa? Sicuro. Fanno compagnia.»

Hai una malattia.

«Compagnia!? Come fa quest’inferno a sembrarti normale?! Voglio andare via! Rivoglio il cielo azzurro! I ricordi base! Falle stare zitte!» piange, coprendosi le orecchie.
«Ragazze, grazie per il benvenuto, ma Gioia qui è suscettibile» sospira Xeni.

E se provassi a fare la troia in webcam? Sono soldi facili.

«Ragazzeeeee…»

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Chad abbassa i jeans di Riley sempre più in fretta, con l’erezione che gli pulsa e un desiderio che parte dalle mani. Le stringe le tette, alza la maglietta, le infila sotto e le stringe ancora. La pelle è liscia e calda. Solleva il reggiseno e alla vista dei capezzoli rinuncia a spogliarla. Si apre la fibbia della cintura, ma è di quelle a corda e s’incastra. Gli tremano troppo le mani. Impreca, se la strappa con tutta la forza che ha. La fibbia cede, sfilacciandosi. Con un solo strappo apre i pantaloni, infila entrambi i pollici dentro i boxer e abbassa tutto in un unico gesto. L’uccello spunta fuori come un finanziere al Grand Hotel. Le afferra le mutandine – orsetti e macchinine, ma che cazzo – e strappa verso il basso.

Da piccola indossava un vestito a righe e papà le faceva gli orecchini con le ciliegie. L’estate era lunga, il giardino immenso e pieno di avventure. Ricorda l’odore dell’erba tagliata, il rumore delle cicale, gli angoli dei cespugli dentro cui si nascondevano goblin e troll pronti a rapirla. Ma lei non aveva paura, perché era con il suo migliore amico.
«Era fatto di zucchero filato» sussurra sul letto «aveva una bella bombetta e una giacca.»
Chad le copre la bocca con la mano.

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«Bing Bong!» grida Gioia, scattando in piedi e correndogli incontro. L’elefante ha la stessa espressione allegra. È un po’ ingrassato, ha una giacca nuova e dei guanti di pelle.

«Mi dispiace» piange lei, affondando la faccia nella sua giacca «mi dispiace tanto.»
«Oh, no» fa lui, abbracciandola «l’hai fatto per il bene di Riley. E poi qui sto bene. Ci sono le voci nella testa, il mostro sotto il letto, la cronologia di Youporn e gli incubi peggiori siano mai stati creati. È gente interessante. Basta non parlare di politica.»
«Non volevo dimenticarti. Non è giusto. Ti avevo promesso d-di… oh, Dio, scusami. Perdonami.»
«Certo che ti perdono» dice l’elefante.
Xeni manda un colpo di tosse.

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«Che ci fate qui?» domanda Bing Bong a Xeni «ti conosco?»
«Tra meno di otto minuti devi essere al quartier generale» fa Xeni, indicando Gioia «e rimediare alle cappelle di questa cinciallegra.»
«Ho qualcosa di utile» dice l’elefante, tirando fuori dal suo sacco una sfera giallastra. Appena la appoggia per terra, si gonfia. Lui ci salta sopra e le tende la mano. Somiglia a una sfera ricordo, ma è molto più grossa. Gioia afferra la mano e si sistema tra le sue gambe incrociate.
«Tu però non ci stai» fa Bing Bong a Xeni.
«E per fortuna. La mia parte l’ho fatta, se rivedo il mondo coccoloso lì fuori mi prende l’orticaria. Andate, io m’arrangio.»
La sfera parte come una palla di cannone.

Chad si sistema sopra Riley e la guarda in faccia. Cerca di entrare, ma i pantaloni di entrambi sono ancora attorno alle caviglie e i movimenti sono difficili. Non riesce ad aprirle le gambe a sufficienza. Struscia appena contro il cespuglio di peli ispidi. Non è facile come raccontava Frank. Incazzato, si alza e tenta di strappare via i pantaloni di Riley. Le scarpe fanno da tappo. Tira quella destra, ma i lacci sono troppo stretti. Si rassegna a scioglierli.

Al Mulino bianco mancano 2:00

«Cos’è questo ricordo?!» grida Gioia, gli occhi chiusi per il troppo vento.
«È un motivo!» fa Bing Bong «Il cervello degli umani non funziona solo a emozioni. Non produce solo ricordi. Ha bisogno di un motivo per funzionare. Cos’è che ti spinge a vivere? Chi te lo fa fare? Che senso ha? La risposta è questa sfera qui. A volte nella vita cambia, ma la prima nasce sempre dal subconscio.»
«E ci si può salire sopra?»
«Dipende dal motivo. E Riley ne ha uno molto forte.»
La palla disintegra la parete del condominio e vola su nel cielo grigio, diretta verso il quartier generale.

Al Mulino bianco mancano 1:15

Chad toglie una scarpa a Riley, sfila i pantaloni e l’orlo si incastra sulla caviglia. Lo strappa via di forza, poi monta su di lei e la guarda in faccia. Riley è un monumento al nulla più assoluto. Appoggia il cazzo sull’apertura e cerca di farlo scivolare dentro, ma è secca e ruvida come un sacco di juta. Si sputa sulla mano, se la passa attorno e ci riprova. Questa volta funziona, ma incontra resistenza. RIley fa una smorfia di dolore, mentre nota le orecchie di Chad allargarsi come le ali di Dumbo. Alza le mani per afferrarle, lenta. Lui la lascia fare.

Al Mulino bianco mancano 0:28

«Gioia!» fa Rabbia, guardandola uscire dal montacarichi con Bing Bong.
A lei basta uno sguardo al monitor per capire che la vita di Riley e tutto il loro lavoro stanno per venire disintegrati e sostituiti da una lunga, infinita serie di palline azzurre e viola.
«La consolle non funziona. Riley non prova niente» dice Tristezza.
«Ma non è vero» dice Bing Bong, avvicinandosi ai comandi «ha solo bisogno di un motivo per farlo.»

Al Mulino bianco mancano 00:13

Xeni, nel profondo dell’inconscio, guarda l’orologio e poi alza gli occhi verso il soffitto. Il mostro fa lo stesso.
Riley, distesa sul letto, per la prima volta dopo anni si ricorda Bing Bong.

«La maggior parte delle persone dimentica gli amici immaginari. Cresce, come su Toy Story. A tredici anni puf! Sei bello che sparito» spiega l’elefante, armeggiando coi fili dentro la consolle «e devi pensare all’amore, allo studio, agli amici, a cosa farai da grande. Non vuoi più andare sulla luna con il tuo elefante. Ma a volte…»

Chad con una smorfia trova la fessura giusta. Riley gli tocca le orecchie. Le mani scendono, accarezzandogli il viso. Lui non capisce, poi la vede avvicinarsi per un bacio. Sorride. Frank l’aveva detto che era una vacca. Le va incontro.

Al Mulino bianco mancano 00:02

«…a volte no» dice Bing Bong, prendendo delicatamente i comandi.
Il cielo nel cervello s’incrina e disintegra. Riley spalanca gli occhi.

«Alcuni, quando scoprono il mondo reale, ne hanno un tale orrore che l’amico immaginario diventa l’unico motivo per vivere» fa Bing Bong, alzando le manopole «allora pur di non lasciarlo morire, sacrificano Gioia. Per buona parte dell’adolescenza se la dimenticano. Assieme al loro amico immaginario si perdono negli abissi dell’inconscio. La personalità si frammenta.

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I valori, gli ideali, tutto quello in cui credevano, speravano, pensavano, crolla. È uno stato di morte apparente, un coma dell’anima. Non sanno chi sono, sanno che non sono più com’erano. Però hanno lui. E per lui combattono; soli, tormentati, torturati dai propri simili, si strappano la faccia che gli altri gli hanno appiccicato.

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Oh, che viaggio tremendo è la loro adolescenza. Vedere gli altri correre verso il lieto fine lasciando loro indietro è atroce. Ma resistono. Non importa quanta disperazione dovranno attraversare, quanti sacrifici, dolore, miseria, sofferenza o solitudine: l’elefante non deve morire. Non sanno perché, non ancora. Lo fanno e basta.»

Chad urla mentre i denti penetrano la carne, scavandola alla base del naso, facendo sgorgare un fiotto di sangue rosso e caldo. Tenta di sottrarsi, ma lo strappo fa saltare le cartilagini. Lei gli tiene la testa ferma e sente il sapore di ferro e adrenalina in bocca. Non è arrabbiata né spaventata.

Non sa perché lo sta facendo.

«…per un amico immaginario!» fa Bing Bong, premendo i comandi a fondo scala «per salvare un’idea, questi pochi ragazzini faranno amicizia col mostro sotto il letto, diventeranno amanti delle voci nella testa, affronteranno tutte le domande più orrende, le tentazioni più indicibili, i dubbi più strazianti che i loro coetanei evitano. E alla fine, quell’amico immaginario sarà in grado di assumere ogni forma. Si chiama fantasia. Un’arma che garantirà loro l’assoluta comprensione delle emozioni. Sapranno riprodurle negli altri. Riley è una di quelle persone. A tredici anni li chiamano disadattati, strani, alienati. Da grandi sai come li chiamano?»

 

 

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«…artisti» finisce Gioia «abbiamo cresciuto per tredici anni un’artista come se fosse una cheerleader.»

Il naso si strappa con un suono viscido coperto dall’urlo di Chad, che vede solo un muro rosso e il dolore è così forte da trasformarlo in una bestia senza raziocinio. Cade a terra tenendosi le mani sulla faccia, cieco. Riley si alza di scatto, coperta di sangue, il moncherino ancora in bocca. Lo sputa, poi ha un conato di vomito e indietreggia sul letto. Grida anche lei, mentre la porta cede di schianto sotto le spallate di due studenti.

Quando sull’ambulanza l’infermiere cerca di tranquillizzarla, Riley rinuncia all’idea di spiegargli che sta piangendo per un elefante rosa.

 

 

 

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«Per poco ‘sta cretina non la faceva diventare una figa di legno senza cervello» sospira il mostro, passeggiando nel bosco del subconscio. Xeni beve un sorso da una borraccia e brinda al cielo.

Tua madre non vedrà mai i suoi nipoti.

«Alla salute, ragazze» sorride.
«Che succederà a Riley, adesso?» domanda il mostro.
«Chi lo sa? Ogni storia è diversa. Potrebbe iniziare a frequentare questo posto, o restare in superficie e farsi domande. È un viaggio lungo, il suo. Però scoprirà che il lieto fine dei suoi compagni di scuola è il suo fine primo tempo. Tanto basta.»

Morirai sola circondata da gatti.

«Mi mancherete anche voi» fa Xeni, rimettendo la borraccia nella borsa a tracolla.
«Hai appena dimostrato che la droga aiuta il subconscio» fa il mostro «una morale pericolosa.»
«Te l’ho detto, ogni storia è diversa. La droga qui ha solo tirato fuori dall’oblio un amico immaginario. E poi noi siamo fantasie, bello» dice Xeni, incamminandosi tra gli alberi «il nostro scopo è aiutare gli uomini a vivere. Con ogni mezzo necessario, diceva qualcuno.»
Il mostro la guarda svanire: «Quel tizio troverà mai il coraggio di raccontare la vostra storia?»

Xeni fa un sorriso a labbra strette e mostra le dita incrociate.
La nebbia la inghiotte.

Fine.