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La bambina nel bosco (3/4)

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[Puntata 1] – [Puntata 2]

Travestirsi non è mai una buona idea.
Non puoi simulare la faccia, lo sguardo, la camminata, il modo di respirare e l’atteggiamento di chi certa roba la vive ogni giorno. Ti sgamano all’istante. Inoltre sospetto sia illegale, ma un uomo non può badare proprio a tutti i dettagli. Pensare è sbagliato a prescindere. Rifletti abbastanza su qualcosa e troverai sempre un motivo per non farla. Quando la patta chiama, per esempio, un adolescente si informa su qual è l’ultimo punto di vista del Governo italiano sul meretricio? No. Getta alla nobildonna i danari, le tràpana il monte di Venere e fugge nella notte con o senza lampeggianti all’inseguimento.

Pensare è l’inizio della fine.

I Greci s’inculavano di tutto, uomini, donne, pollame, bambini, statue ed erano felici. Lavoravano, facevano la guerra e poi andavano a scoparsi un tonno spiaggiato e ci scrivevano una poesia. Non capisco una società in cui si passa più tempo a definire la propria identità sessuale che a metterla in pratica. Voglio dire, nel tempo che uno impiega a capire se è un biomaschio cis pan gender etero queer avada kedavra o un maschio trans queer ultra gender pansexual megatron, qualcuno si sta trombando la mastoplastica additiva che doveva trombare lui.

Quindi non penso a quanto sia sbagliato o difficile entrare. Esco di casa, prendo il treno, arrivo nel ridente paesino di provincia e mi presento all’indirizzo dell’istituto. Ha forma, dimensione e giardino degli ospedali del 1900. Cancello in ferro battuto a due ante, un vialetto di ghiaia che conduce a un portone di legno. Suono il campanello, c’è un BEEEEEEEE-TLACK. Entro nell’ombra fresca di un corridoio di marmo reso lucido da milioni di passi. Tra me e il cortile interno c’è una suora dietro un bancone di legno.

«Buongiorno, sorella» dico «vorrei fare visita a una vostra paziente.»
«È parente?»
«Siamo tutti figli di Dio» dico.

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Non importa se sei una suora o una prostituta: con la vagina, la Natura ti ha dotata anche de Lo Sguardo®. Il segnale di esplosione uterina imminente. Se avviene, l’energia è tale da distorcere le leggi della fisica e teleportare il maschio nel Clitoverso, un non-luogo dove tempo, spazio e soprattutto logica non esistono. Appariranno frasi dette sessant’anni prima, mentre quelle dette cinque secondi fa avranno senso opposto. Piatti e oggetti inizieranno a volare come in un poltergeist. Verranno pronunciate frasi occulte che più cerchi di capire, più diventano “niente” fino a non essere mai state pronunciate. Lo Sguardo® ti avvisa che il varco si sta aprendo. Arretro e alzo le mani: «E-era una battuta.»
«Se non è parente non può entrare.»
«No. Però…»
Secondo sguardo: «Ho detto no.»
Esco.
Dopo due birre ho un’idea.

Tuuuut.
Tuuuut.
Tuu-
«Seh.»
«Don Giansandro, non so se si ricorda di me. Sono Nebo. Ero quello del Gazzettino, ci siamo conosciuti nel 2006 perché…»

Tutto era iniziato da Vania, una fervente nazifemminista. Prima linea nella difesa dei diritti delle donne, militante in politica e pronta a denunciare sessismo, prevaricazioni e maschilismo. Purtroppo il marito scoprì che nottetempo Vania intratteneva una fitta corrispondenza digitale con personaggi dell’ambiente fetish da cui adorava essere sottomessa e umiliata. Scoprire che tua moglie di giorno non succhia perché è degradante e di notte si fa pisciare in faccia con un cetriolo nel culo mostra di che tempra è fatto un uomo. Lui la prese benino: si limitò a comprare una tanica di benzina, ammassare le masserizie della moglie in giardino e dargli fuoco.

Purtroppo non aveva calcolato il vento.

Le scintille piovvero nel giardino di don Giansandro, dove sorgevano piante di cannabis alte e rigogliose. Il fumo dall’odore inequivocabile catturò l’attenzione di qualsiasi forza dell’ordine da qui a Reggio Calabria e il pomeriggio si concluse con pompieri, ambulanze e lui asserragliato in casa che minacciava gesti sconsiderati. Venne snidato a tarda notte dai NOCS con una flashbang e due cazzotti. I giornali però non raccontarono questa versione. Don Giansandro era uno ammanicato con le ACLI. Oltre trent’anni della stessa amministrazione, a Venezia, avevano creato alleanze, amicizie e accordi che per ovvie ragioni si ramificavano ai vertici delle principali testate regionali. Quindi l’incendio meritò un articoletto vago in quinta pagina.

E chi lo scrisse per 1,50 euro?

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«AHSISISISI, ricordo» dice Don Giansandro «se mi chiami per il Compro oro però ne parliamo a voce, sei a Mestre?»
«No, non la chiamo per… scusi, lei ha un Compro oro?»
«Sì, non sono più prete. Allora che vuoi?»
Gli spiego.

«Hm» tira su col naso «non è facile. Cioè, posso provare a chiamare io, ma le suore… hm. Verificano. L’unica che mi viene è chiamare Favazzi. Lui ti fa lo sgamo sicuro.»
«Chi?»
«Uno dell’UDC, che mi deve… hm. Facciamo così, questo è il tuo numero?»
«Sì.»
«Ti richiamo.»

Ho finito di pranzare in un bar quando ricevo un sms che mi dice di recarmi in un punto della città alle 15. Con Google maps ci metto 20 minuti a piedi e mi trovo in una piazzetta deserta dove c’è solo un ragazzino di quindici anni con pantaloni a pannolone e Converse. Mi viene incontro con l’aria addormentata, verifica che io sia chi dovrei essere e si qualifica come Marco.

«Mio padre mi ha detto che lei mi dava 50 euro se la accompagnavo a trovare mio nonno dalle suore.»
«Ma a me interessa una donna» dico, tirando fuori i soldi.
«Eh, io la porto dentro, poi lei va dove vuole.»

 

 

 

 

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«Ancora lei?» dice suor Rambo.
«S-sono qui per accompagnare il minorato. Il minore.»
«Seh, seh, voglio vedere il nonno» dice lui, ciancicando una gomma.
«Come si chiama tuo nonno?»
«Eeeh…» fa Marco, mordendosi le labbra «Gino. No, Lino Bareson.»
«Va bene. E lui chi è?»
«Un amico di suo padre» dico.
Marco annuisce e ciancica: «Di mio padre.»

«Vi accompagno» dice alzandosi.
«Non serve.»
«Oh, eccome se serve.»

Usciamo nel porticato, prendendo una scalinata che scende su un vialetto coperto da aghi secchi e ghiande. Statue di cemento divorate dal muschio e un giardino incolto. C’è una curva. A sinistra un gruppo di persone sulla cinquantina lavora a un orto.

«Sorella» dico, con una smorfia «non c’è un bagno?»
Tentenna spostando gli occhi da me al minorato: «Si crede molto furbo, vero?»
«No. Devo solo cagare.»
Marco sbuffa una risata. Suor Rambo no.

«Dentro, sulla destra. La aspettiamo qui.»
Buona fortuna, penso. Poi fuggo nella selva.

 

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Uscito dal loro campo visivo viro a destra e finisco su uno spiazzo circolare con una fontanella e un edificio di due piani, scrostato, incorniciato dai cipressi. Il portone non viene chiuso da anni. Leggo una vecchia targhetta “reparto malattie infettive”. Non ci sono auto, cantieri, trilli di cellulari, clacson, musica. Solo cicale, tortore che tubano, il frusciare degli alberi e il gorgogliare della fontanella. Due farfalle bianche si rincorrono. Quasi m’aspetto di vedere i poster della DC, le pubblicità della Fanta e un maggiolino parcheggiato.
Sono nel 1950.

«Si è perso?» dice un uomo pasciuto e un po’ storto arrancando verso di me: «succede a tutti. FROCIO!»
Cos’ha detto.

 

 

 

«…scucos’ha detto?»
«Chiedevo se si è perso.»
«Sto cercando Reaper.»
«Rea? Di solito a quest’ora è nell’orto. Le spiego, questa è la piazzetta STRONZO! lei deve andare NEGRO! NEGRO! FROCIO! verso le statue, poi gira a destra VAFFANCULO! e prosegue per una ventina di metri CAZZO! MERDA! ci sa arrivare?»

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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«…mi ha insultato?»
«No, perché? STRONZO! Se non ci sa arrivare MMMERDA! posso accompagnarla io MMMMERDA! Non è» si interrompe, gira la testa a destra, incassa il mento nella spalla e la rimette dritta facendo una smorfia con gli occhi storti: «CAAAAAAAAAAAA-ZZO distante.»

«M-magari è meglio di no.»
«Venga, venga, CAZZO! VAFFANCULO! non ci metto niente.»

Camminiamo sotto il sole. Adesso le cicale sono coperte da un tornado di bestemmie potenza 10, oscenità e insulti razzisti. Esso è il mio degno araldo, penso. Attraversiamo cespugli quadrati e ben potati, ghiaia bianca, aiuole di fiori, fontanelle. C’è una donna esile con un vestito a fiorellini, grembiule e stivali di gomma. È di spalle, chinata su un cespuglio di ortensie rosa.

«Reaper!» chiama l’araldo.
«Sì?»
«TROIA!»

 

 

 

«Cosa c’è, Cesare?» sorride lei come niente fosse.
«Questo signore ti cerca.»
«Me?» fa Reaper, facendo un impercettibile passo indietro.
«Sì. Sono Nebo» dico tendendo la mano.
Lei non la prende: «Come ha fatto a sapere che ero qui?»

La voce di chi doppia è sempre diversa da quella che usa per lavorare. Puoi sentire una vaghissima assonanza se ci presti attenzione. Non sarò uno dei tanti imbecilli che appena conosce un doppiatore esige dimostrazione. Conoscere dei fumettisti mi ha insegnato quanto possa essere irritante qualcuno ti chieda di dimostrare quello che sei senza motivo.

«PUTTANA! BOCCHINI! MERDA! Vi lascio parlare. Se dopo ha bisogno di aiuto per uscire…»
«Basta seguire la voce» dico.
L’araldo sorride senza capire, spara due madonne, se ne va. Quando torno a guardare Reaper ha occhi tutt’altro che felici.

«Senta, non voglio disturbarla. Anzi, temo di avere i minuti contati» dico, perlustrando i paraggi in cerca di suor Rambo «sono uno sceneggiatore. Vorrei proporle un lavoro.»
«Io non lavoro più.»
«Lo so. Ma credo che se leggesse questa potrebbe cambiare idea» dico, porgendole la sceneggiatura. Lei allunga la testa nello stesso modo di sua madre. Ha un istante di esitazione: «No, la porti via.»
«Per favore. Le chiedo solo di leggerla. È il mio primo film.»
«Se le dico di no, è no.»

«STRONZO! STRONZO! STRONZO!» grida l’araldo da qualche parte, non so se alle cicale o alle peonie. Se quando ho fatto assistenza disabili avessi avuto dieci uomini come Cesare, oggi sarei al comando della nazione.

«Ok, gliela racconto a voce» dico, sedendomi.

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«A voce» ripete Reaper, mettendosi le mani sui fianchi «un bel rischio.»
«Perché?»
«Le parole rovinano anche le storie migliori.»
«Non se le pronuncia lei.»
Le si alza un sopracciglio, poi l’altro, poi le spunta un mezzo sorriso: «Hm. È allegra, almeno?»
«È molte cose.»

Reaper si toglie i guanti, li appoggia sull’erba e ci si siede sopra. Aggroviglia gambe e piedi in quel modo simile a una radice, si mette le mani in grembo, il viso mezzo in ombra e mezzo al sole: «Va bene, sentiamo questa storia.»
Prendo fiato.
«Tutto quello che sto per dirle è successo davvero.»
[continua e finisce nella prossima puntata]

Vox populi, vox dei

Attenzione: si consiglia la lettura dell’articolo con questo sottofondo.

“Instamoments”
1

 

 

 

 

“Vite distrutte”
3

 

 

 

 

 

“Great shot though”
4

 

 

 

 

 

“Vergognosa Italia, style, fashion, terremoto”
5

 

 

 

 

 

 

“E alle sue spalle la futura Marie Curie”

6

 

 

 

 

 

 

“Giorno triste”
7

 

 

 

 

 

 

 

“Paura”
8

 

 

 

 

 

 

 

“Que hermosa esta”9

 

 

 

 

 

 

 

 

“TerremoTosto”
10 terremotosto

 

 

 

 

 

 

 

“Sunkissed”
11 sunkissed

 

 

 

 

 

 

“Ripubblico le foto delle vacanze perché oggi è un dovere”
12 ripubblico per dovere

 

 

 

 

 

“Tristezza infinita, my travelgram, vacation”
13 tristezzainfinita

 

 

 

 

 

 

“Prego per te”
14 pregoperte

 

 

 

 

 

 

“Tremo ancora, mimibohemien, makeup artist, paura, selfie”
15 paura selfietime makeupartist

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Vi sono vicina”
18 visonovicina

 

 

 

 

 

 

 

“In segno di lutto”
19 chiusoperlutto

 

 

 

 

 

 

“Terremoto, Uomini e donne, dolore, dama. E ora il mio profilo Facebook”20 terremoto uominiedonne cry

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Terremoto, vivere al massimo, paura, tags4follow, bling bling”
22 viverealmassimo paura follow4tags

 

 

 

 

 

 

“Bruciamo grassi, riflettiamo sulla vita, terremoto, percorso verde”
23 bruciare grassi e riflettere

 

 

 

 

 

 

 

 

“Hard training, show must go on, forza Amatrice”24 hard training show must go on

 

 

 

 

 

 

“Come state?”26 profondita

 

 

 

 

 

 

 

 

“Un soffio di speranza”
27 un soffio di speranza

 

 

 

 

 

 

 

 

“Terremoto, le birre”
28 terremoto lebirre

 

 

 

 

 

 

 

“Dormirei ma non posso, terremoto, tagsForLikes”30 tags4likes

 

 

 

 

 

 

 

 

“Se mangi animali meriti il terremoto”
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“A me non la si fa”
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“A me non la si fa, pt.2”
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“A me non la si fa, pt.3”
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“A me non la si fa, pt.4”
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“Gli zingari ci rubano il lavoro vergogna i bambini pedofili stupro immigrati”
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“Vuoi donare il sangue? CLICCA BEPPEGRILLO.IT!”
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  “La numerologia è una scienza esatta,
l’Huffington post è un quotidiano affidabile”
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“L’Islam è una religione di odio, Cristo è amore”
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“A me non la si fa, pt.4”
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“Prevedo terremoti grazie a onde energetiche invisibili, voi no?”
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La bambina nel bosco (2/4)

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CAPITOLO 2 – Impicci

«Ti avviso, se non andiamo al mare inizio lo sciopero del sesso» dice Leonora.
«Ho da lavorare.»
«Infatti non ho detto che ti mollo, ho detto che ti revoco l’accesso a tempo indeterminato. No abbronzamento, no accoppiamento.»

Una bella intervista ti fa scoprire dei lati reali e nascosti di personaggi pubblici. Un’intervista stupida è il nome del cane, il colore preferito, il tatuaggio, ringrazio tutti, eccetera. Più uno è un VIP, più inutili sono le interviste perché più rigidi sono i paletti dentro cui è definito il personaggio. Quando sono stato a una cena di presentazione del libro di Sgarbi a Mestre ho trovato un uomo colto, brillante, pacato e carismatico. Nemmeno somigliava a quello che è in TV. Ed è così per tutte quelle maschere che stanno in uno schermo. A pochi interessa sapere chi sono davvero.

Nel caso dei doppiatori, però, è diverso. Sono VIP anomali. Li intervistano solo gli appassionati, e solo in caso abbiano doppiato qualcosa di clamoroso. Inoltre non hanno mai la voce che usano al lavoro. E la Reaper, molti anni fa, aveva doppiato un cartone animato di discreto successo. Alle nove e mezza di sabato sera trovo su un sito in disarmo il copincolla di una vecchia intervista alla Reaper. Link e cache a troie, ma ho il nome del giornalista. Vado su Linkedin, lo trovo. Abbiamo un amico in comune. Prendo il telefono.

«Leonora ti ha finalmente mollato» dice dall’altra parte del telefono Frozzi.
«No, vaffanculo. Conosci Enrico Logan, de Il resto del Carlino?»
Silenzio.

«Quello fuggito in Argentina con uno stagista di vent’anni che poi l’ha derubato?»

 

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Frozzi è il vicedirettore di una rivista di Milano. Un raffinato muccobombo sulla quarantina che veste sempre nero e conosce qualsiasi cosa si muova o succeda in città. A gennaio era solo uno sconosciuto che mi telefonava domandando se poteva scopare Leonora. Dopo un paio di mesi in cui ci cercavamo per riempirci di botte ora siamo amiconi. Essere maschi è anche questo.

«Ho paura di sì.»
«Vieni al Rick’s che ne parliamo. Porta Leonora, mi raccomando.»
«Lei domani lavora.»

Da qualche mese bevo in ‘sto locale dove un presentatore TV pippa droga dall’unghia lunga del mignolo del suo autore. Una modella esce dal bagno indignata, seguita da un giornalista nazionale che si riaggiusta la cravatta. Vede che lo guardo, lui stringe le spalle e minimizza: “a posto, solo un dito in culo”. Svanisce. Il giorno dopo leggo un suo arguto pamphlet sulle giovani generazioni. Un rapper e un calciatore farebbero la gioia dei siti LGBT. Il mese scorso una sex blogger di acclarata fama è arrivata al nostro tavolo per dire che Cicciolina è un idolo del femminismo, Blade runner è un film brutto, Ghostbuster Vaginal Edition serve a emancipare le donne del terzo mondo e che quest’anno ha passato l’inverno a Berlino, la primavera a Londra e l’estate a New York. Un’ora e tre drink prima che qualcuno si decidesse a dirle che aveva sbagliato tavolo.

«Dio, Nebo, c’hai la faccia che ci pulirei il cesso. Cos’hai?»
«Ho bisogno di ferie. Dimmi quello che sai e vado a dormire.»
«Allora, Logan a cinquant’anni e fischia divorzia dalla redattrice» spiega Frozzi, posando il moskow mule «e fugge in Argentina con ‘sto stagista di neanche vent’anni, che penso volesse fare il ribelle col padre, che poi era anche lui al Carlino e l’aveva raccomandato. Insomma, una volta in Argentina il ragazzino è insofferente all’atteggiamento paterno e fugge nella pampa con Pablo Gutierrez il 2987° e qui viene il bello, perché…»

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«DOVE CAZZO LO TROVO?!» sbotto.
«Fa reportage dall’Amazzonia. Corre anche voce s’inculi gli Indios ma cosa vuoi, la gente è meschina. Però ti posso dare il numero di Gustavo Zenone, il suo redattore. Occhio a chiamarlo da mezzogiorno in poi perché la mattina fa trenini.»
«Fa… cosa?»
«Modellismo. Ha un intero capannone di trenini elettrici, se gli piaci te lo fa vedere. È anche famoso nel mondo, tra i collezionisti. Cosa bevi?»
Dormo.

Caffè, uova, fette biscottate. Scrivo due pezzi per una rivista di imponente spessore politico tipo 5 COSE CHE NON SAI SULLE GANGBANG o 10 MODI PER FARE DEI BUCCHIBLOWJOB DA URLO. Ormai riesco a partorire queste perle in situazioni di disagio assoluto. Uno l’ho scritto sul blocco note del cellulare mentre tentavo di espellere dall’ano lo Zeppeling, l’ho spedito contemporaneamente al mostro e dalla redazione mi hanno telefonato per congratularsi con sciacquone in sottofondo. Per una rivista di fitness dovrei provare una disciplina sportiva “innovativa” tipo pallavolo coi piedi, seghe coi calcagni o che ne so. Sono due settimane che rimando qualsiasi impegno adducendo scuse tipo incidente d’auto, malattia, terrorismo, crisi di coppia, carneficine in famiglia. Questa cosa mi sta consumando e se n’è accorta anche Leonora. È difficile spiegare perché.

«Pronto?» dice il ferrotramviere in pectore.
«Buongiorno, sono Nebo, mi ha dato il suo numero Ermenegildo Frozzi. Avrei bisogno di mettermi in contatto con Enrico Logan.»
«Ci sto parlando in questo momento su Skype. Vuole che la metta in vivavoce?»
Tooot! Tooot! fa un trenino in sottofondo.

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«HOLA CHICOS CABRONES ARRIBA ARRIBAAAA HAHAHAHA» urla una voce metallica.
«Mi sente?» dico.
«MUCHOO CLAROOOO HAHAHA»
Seguono presentazioni, poi: «Lei qualche anno fa ha fatto un’intervista a una doppiatrice, la Reaper. Era il 2008» dico.
«Eeeh… jo no sè. Era buena?»
«Sì. La sto cercando per un film e volevo sapere se…»
«Lei lavora nel cinema!?» domanda Gustavo Zenone, interrompendomi «perché guardi che io avrei una storia che mi è capitata…»
«Sìsìsìsì dopo» dico «signor Logan, mi sente?»
«Aspetti, ci metto un attimo a spiegargliela.»
«MA PERDIO, HO DETTO UN ATTIMO!»
«Eh… Reaper… Reaper… aaaah, era la muchacha. Sì, me ricuerdo. Hermosa, ma triste como un uccello en gabbia. No creo que trabaha ancora, dopo l’incidente.»
«Quale incidente?»
«El padre, pobrecito. Brutto colpo, mai ripresa. Aveva detto che frequentava posti dalle parti sue por riprenderse. Porqué era triste. Posti con… suore, entiende?»

So la ragione, so la regione, so l’istituzione. Google fa il resto in nemmeno venti minuti. Rimango a fissare lo schermo per un’ora, guardando il sito dell’istituto e fumando sigarette senza riuscire a prendere una decisione.

Perché non è affatto facile.

Ci sono due problemi: il primo è che le suore non le freghi. Mai. Infiltrarsi in qualsiasi cosa a gestione cattolica è un massacro. Le suore non sono esseri umani, sono androidi. Macchine. Dai a una suora una missione e quella la porterà a termine a costo della propria vita. Non ragionano né pensano come noi. In giro per Roma le senti ridere e scherzare citando frasi di santi e giochi di parole da bambini. Se Terminator fosse stato un film realistico, al posto di Schwarzenegger c’era suor Giuseppina.

Il secondo problema è che forse sarebbe il caso di lasciare perdere.

Non solo perché sto deperendo a vista d’occhio, ma perché è appena diventato un territorio minato. Qual è la cosa giusta da fare, quando qualcuno sta male? C’è chi adora ricevere visite e telefonate. Chi lo detesta. A me farebbe piacere qualcuno mi cercasse dopo anni perché ammira il mio lavoro. Un altro magari no. Il problema non è più che la Reaper è una femmina, ma che è una persona ferita. Ossia, intoccabile. Però quand’ero piccolo, in una vita che ormai sembra appartenere a un altro, un giorno ero in un giardino a giocare con mia sorella. Vediamo un uccellino morto, già putrefatto, incastrato nella rete. Chiamo mia madre, lei lo guarda e spiega che gli uccelli non chiedono aiuto. Mai. Hanno la voce più bella in Natura, ma la usano solo per cantare. Muoiono in silenzio.

Sono un po’ tardi, ‘sti uccelli.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

TONY BLAIR Faith Foundaton Religion and the internet at the RSA

«Buongiorno, sorella» dico.
[continua]

 

La bambina nel bosco (1/4)

1930

O slaccio l’ultimo bottone della camicia o muoio di asfissia. Vedi a prendere le camicie dell’OVS, porca puttana. Di fronte a me il regista beve, appoggia il bicchiere sul tavolino, guarda altrove. C’è un adattamento jazz di Oops I did it again, nella hall. È mezzanotte e mezza. Resta qualche cliente dell’hotel, una donna da sola che fuma un sigaro e legge una rivista di moda. Vorrei bere ancora, ma non è il caso.

«Sai che mi piace?» dice.

Scatto in piedi, rovescio il tavolo, scaglio il bicchiere contro la parete, alzo le braccia al cielo, poi mi abbasso i pantaloni urlando

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Il tizio della security scatta per placcarmi. Fuggo rovesciando a manate la roba sui tavoli degli altri. Raggiungo la tizia con la rivista, le strappo di mano il sigaro, me la carico in spalla urlante, fuggo nella notte sparando in aria.
Ma all’apparenza sorrido e basta.

«Il personaggio femminile è incredibile. Però devi cambiare la doppiatrice. Non puoi usare la Reaper.»
Gelo.

«La Reaper è il fulcro del personaggio» dico.
«Beh, ci sono un sacco di altre doppiatrici. E comunque, detto tra noi… non è compito dello sceneggiatore, scegliere ‘ste cose.»
«MA»

La Reaper è stata una doppiatrice di raro talento. Peccato sia sparita da quasi vent’anni. Non recita, non doppia, non si fa vedere in giro, non risponde al telefono. Nessuno sa che fine abbia fatto. Non è strano, nel mondo del doppiaggio. Spesso c’è gente che va e viene. Lei è una delle tante, ma la sua voce da giovane era molto particolare. Aveva un’espressività tutta sua. Ora non so come sia, ma quando uno che scrive sviluppa una convinzione è difficile da sradicare.

«Nebo, fidati di me. Il cinema italiano sta cambiando, ma certi meccanismi no. Non fare lo stronzo. Non impuntarti, è sintomo di dilettantismo. Fai il tuo e lascia fare agli altri il loro. C’è un motivo se i registi, oggi, preferiscono scriversi le cose da soli. Se proprio non ci riesci, metti da parte questo e spingi un altro soggetto.»

Il mondo del cinema non è solo tastiera, studio, libri, corsi. È soprattutto chiacchiere, discorsi, progetti, strette di mano, casi umani e storie surreali. È quello che ho sempre sognato di fare, in fondo. Raccontare storie. Personaggi. Creare mondi e spolverare quelli già esistenti. Quindi eccomi nella hall di un albergo con un soggetto e delle orecchie professioniste disposte a sentirlo. Che è già moltissimo, se non fosse che mi hanno appena castrato.

«E se la trovo?» dico.
«A parte che sono passati vent’anni e non sai che voce ha adesso, poi che te ne fai? Sul serio. Lascia perdere.»
Avrei voluto ascoltarlo.

 

 

 

 

 

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CAPITOLO 1 – Numeri

Su Internet non c’è molto. Pagina Facebook abbandonata e aperta da vecchi fans. Le voci, oggi, si dimenticano in fretta. Forum di appassionati riferiscono gossip basati su ho sentito che qualcuno ha saputo che. Il sito dei doppiatori dice quello che mi serve: di che città è. Vado sul sito dell’elenco telefonico, trovo il cognome, chiamo. Dopo una dozzina di figure di merda mi risponde una voce femminile, anziana.

«Non è qui. Provi a Ferrara» dice.
«A Ferrara mi hanno detto di chiamare qui» mento.
Silenzio.
«Senta, sta perdendo tempo e ne sta facendo perdere a me. Non chiami più.»
Riattacca.
Ho trovato l’introvabile Reaper.

È in Trentino, tre ore di macchina in un paesino in mezzo alle montagne. Ci sono stato una volta sola per intervistare la Cagnotto, e da quello che ho visto non sono strade per una 600 Young con 200,000 chilometri e gomme lisce. Senza contare che tra benzina e autostrada mi dissanguerei. Compro il biglietto del treno, dormo. La mattina prendo il treno alle 8.15, arrivo a Bolzano, cambio, finisco verso mezzogiorno in mezzo ad aria pulita e caldo torrido. Per il paesino sento odore di bosco ed erba tagliata. Entro in un bar. Dietro un bancone del 1970 e brioches del 1997 c’è un omone in maglietta e gilet che rifiuta di parlare italiano, darmi indicazioni o farmi ricaricare il cellulare. Borbotta qualcosa in tedesco senza guardarmi negli occhi. Guardo i clienti, una coppietta e tre vecchi. Si girano dall’altra parte. Chiedo se qualcuno parla italiano. Nessuno risponde.

Non tira bella aria, in ‘sto posto.

 

La casa è una piccola villetta su una collina. Muri scrostati e anneriti dagli anni, un cancello arrugginito che non sembra venire usato da molto. Faccio il giro. C’è una rete deformata dalla ruggine, una porta di legno con la finitura che si stacca per il sole. Foglie secche, stato di abbandono, una sdraio di tela coi bordini in cuoio integra e nuova. Non c’è tanta gente, in casa. Forse una volta sì. La villa è una di quelle che ti ricordano l’Italia che non c’è più, quando i figli dei ricchi stavano in campagna per paura dei sequestri, le strade erano tappezzate di pubblicità dell’Alemagna e di Cinzano, in TV Fantozzi e Colpo grosso andavano alla grande, Ornella Muti era la donna più bella del mondo e noi eravamo i bambini che potevano diventare tutto quello che volevano.
Dlin dlon.

«Krauzen deutsch wienersnitzel?» domanda una voce maschile.
«Eeeeh… parlate italiano?»
«Zì, eine wenig.»
«Mi chiamo Nebo, sono uno sceneggiatore» dico «sto cercando Reaper.»
«KAPRUNZEN VERSTANDEN KLEIN GRAM»
«Aveva detto che un po’ l’italiano lo parlava.»
«DAS IST ITALIENICH»

giphyRappresentazione grafica della conversazione.

«But why not uno poco di english. Lei parla english?» oso.
«JA»
«Good! So, I cam fino a qui to meet Pavlonia Reaper and I have very caldo.»
«Du hasst zu ask her mutter.»
«Open and I will parlare con old babbiona.»
«KAME INZIDE» dice, aprendo il cancello.
Mi sporgo. È un tizio qualsiasi della mia età, penso turco.

Attraverso il giardino sgarruppato, entro in un secondo portone che da’ su un giardino interno, uno scorcio oscenamente bello. Inseguo Ataturk tra piante incolte alte come me ed entro in una cucina. Ha le tendine a scacchi rossi, pavimento di pietra grezza, l’isola centrale di legno su cui sono appoggiati due piatti con resti di cibo consumati da poco, mobili di una volta, ceramiche esposte, un vecchio caminetto. Somiglia alla casa dei Weasley.

«Hans!» grida una voce «verdammt krauten fraulein sieg heil kulshrank?»
«Es ist eine zinema maker.»

Minchia, zinema maker.
Il numero di reati che sto sfiorando oggi è più alto del solito.
Crudelia De Mon versione terzo reich appare in abito arioso e troppi anni sulla faccia. Mi squadra con sufficienza. Dovrò stare attento a dire la cosa giusta, perché la situazione è già di per sé delicata ed equivoca. Cerchiamo di entrare nelle grazie della geriatrica.

«Lei è un doppiatore?»
«No. Sceneggiatore. Emergente.»
«Non mi sembra di età emergente.»
«Nemmeno lei.»

MuPisBAPAM, vecchiademmerda.

Ups.

«…kosa vuole da mia figlia?» dice mostrando i denti.
«Farle leggere questo» dico, mostrando la sceneggiatura «vorrei fosse la voce della protagonista.»
La donna si fruga nel taschino, estrae un paio di occhiali, se li appoggia sul naso senza inforcarli: «Visibilità zero» legge. Fa una smorfia: «di kosa parla?»
«È una tra le storie meno conosciute e più incredibili del nostro paese. C’è una guerra, una donna, sei uomini e il mare.»
«Ma mia figlia non lavora più. Ha smesso da anni.»
«Potrei magari… parlare direttamente con lei?»
«Le ho detto che ha SMESSO! HA SMESSO!» sbotta, pestando il piede per terra «HA SMESSSSSO! COL CINEMA, CON LA TIVVU’, CON QUEL MONDO D-DI… KEINE GESUCHT KRAUTEN KRAUTEN!»

È rossa come un peperone. Coi pazzi non è mai il caso di discutere, specie se in giro per casa c’è mister Allah Akbar. Prendo la sceneggiatura e filo. Uscendo, mi cade l’occhio su una di quelle cornici da due soldi, col vetro e i morsetti di ferro. C’è la pazza, la Reaper ormai quarantenne e un uomo troppo giovane per essere il padre e troppo vecchio per essere un fratello. Chiudo la porta e affretto il passo, anche perché non ho tanta voglia di passare la notte in questa ridente cittadina. Arrivo a Milano che è sera. Leonora chiede che ho combinato.

«Sto cercando una doppiatrice introvabile. Son stato dalla madre. Pazza.»
«…scusa?»
«Eh, la figlia è introvabile. Mi serve per Visibilità zero. Perché fai quella faccia? Mica voglio trombarla, mi serve per lavoro.»
«M-ma… ma sei COGLIONE?!» sbotta.
«Che gridi? Non c’entra il sesso.»
«Quando mai t’ho rotto le balle perché infilavi il cazzo random?»
«Eh, ma allora?»
«Ti dicono niente parole tipo mobbing, stalking, femminicidio…?»
«Cosa c’entrano?»
«Nel 2016?! Che basta un’azienda posti la foto pubblicitaria con la modella distesa sull’asfalto per scatenare l’assalto dei pescivendoli dell’Internet?»
«Leonora. Io ho un lavoro. Ho una candidata da assumere. Non posso contattarla Che dovevo fare?! Ho un lavoro, ti piace ok, non ti piace ciao. Fine.»
«MA SEI IMBECILLE?!»

Hmm. Potrei provare il mio avvocato, giusto per sicurezza. Data la mostruosa mole di soldi che gli ho lasciato ho il suo cellulare. Chiamo. Risponde al terzo squillo. In sottofondo urla, sirene, qualcuno grida col megafono.

«ZULIANI! Come sta? È bello sentirla!»
«La disturbo?»
«No, no, sono qui con il mio cliente che chiacchieriamo con la polizia, fuori. Sa, a Mestre il lavoro non manca mai. Gennaro, lascia stare gli ostaggi. Mi dica, che succede?»
Gli racconto tutto.

«Sa, lei mi ricorda Mohammad Kadrubn, che noi in studio chiamiamo lo scaltro Mohammad. Recentemente impiccatosi in carcere.»
«Cos’aveva fatto, lo scaltro Mohammad?»
«Bè, la sua idea era che lo stupro è illegale, ma il vilipendio di cadavere meno. Così invece di stuprare e uccidere una signorina, l’ha prima uccisa e poi stuprata.»
«Un genio moderno.»
«Sì. Tuttavia il giudice non ha colto la finezza legale e gli ha dato l’ergastolo. Gennaro… Gennaro. No. Giù quella roba. Lo sai che poi i cecchini si intesiscono. Parla con l’agente, su. Ci sono qui io.»

«Non capisco il collegamento.»

«Che lei è il classico idiota che crede di sapere la legge, fa la cazzata e finisce in galera col conto corrente prosciugato e occhi stralunati. Gennaro, vai. Sì, vai. Dritto verso l’agente. Mani belle in aria, che vedano che t’impegni.»
«Può dedicarsi a me per un attimo?»
«Ah, sì. Creda a me, anche solo nominare la femmina umana è potenzialmente illegale. Se vuole figli vada alla banca del seme e poi in un orfanotrofio. »

tumblr_mizrjyVYi91rlwc99o1_500Alla banca del seme e poi…

«…v-vabbè. Quindi lascio perdere.»
«Sì. Ma si rallegri, la realtà virtuale staGENNARO, PERDIO!
Click.
Ceno guardando uno dei pochi film che la Reaper ha doppiato. Riesce a essere simpatica e seria allo stesso tempo, quel misto di femminilità, simpatia e cazzutaggine alla Ginger Rogers. Tanti sottovalutano quanto la voce sia importante.
Oggi il doppiaggio sta svanendo perché ai professionisti si preferisce mettere VIP. O perché sempre più gente guarda la roba in lingua originale. Ma è il mio personaggio. Poi regista e produttori ci metteranno la loro parte. Cambieranno, taglieranno, modificheranno. Mi sta bene. Mi piace, l’idea. È come vedere un figlio che si fa la sua vita invece di diventare un tuo clone. Ma il DNA è il mio. Dovunque andrà, qualsiasi cosa farà, avrà il MIO codice genetico. E so che non mi compete. Che la voce è un dettaglio irrilevante. Il cinema è movimento, estetica, fotografia. Un film muto può essere un grande film. Un film senza video è uno sceneggiato radiofonico.

– Tu chi sei?
– Sono… sono una-a di passaggio. Passo.
– Vattene, non puoi stare qui.
– Ehi, io sto dove voglio!
– Ho detto vattene, ragazzina, non costringermi a sparare.
– E tu non costringermi a scappare!

Ironia. Femminilità. Paura. Orgoglio. Tutto in una frase. Dio, quanto talento può esserci in una voce. Del resto cos’è che ti fa davvero innamorare di un personaggio? I corsi di sceneggiatura ti insegnano la formula, ma lo spirito umano e l’empatia sono meccanismi complicati. Nel mondo reale una persona ci piace per come ci da’ la mano, la stringe, ci guarda, ci parla. Al cinema lo decidiamo in una frase. Una frase! Devi spremere tutto, lì. E la voce fa una differenza enorme. Kubrick lo sapeva bene, tanto che sceglieva personalmente i doppiatori dei suoi film. La voce è lo specchio dell’anima. Non voglio una velina imboscata in sala doppiaggio da un senatore. Non voglio una showgirl che al primo segno di cellulite cerca di reinventarsi.

Io voglio la Reaper.

Però Regista dice di lasciar perdere. Leonora dice di lasciar perdere. La madre dice di lasciar perdere. L’avvocato dice di lasciar perdere. Quindi è la cosa giusta da fare. Tanto è solo un copione senza finanziatori. Non so che voce ha adesso. Poi non ho modo di trovarla. Sua madre è pazza e non parla. Lei non è in Internet. Nessuno dell’ambiente ha idea di dove sia. Fine della storia.

 

 

 

 

 

 

RDJ_Woah

…’petta un attimo.
[continua]

La strepitosa vita di uno stragista

LA MADRE

Shahla Mateen

Shahla Mateen è una estetista. Nel salone dove lavora, le colleghe la definiscono “scontrosa e paranoica”. C’è stata una volta in cui Shahala s’è presentata in salone urlando che una collega le aveva lanciato uova marce contro casa e le aveva tagliato le gomme dell’auto. Spesso si assentava dicendo “ho problemi familiari, ciao”. Non si presenta mai agli incontri coi professori anche quando il figlio inizia a venire sospeso per liti a sfondo religioso. In vent’anni di matrimonio diventa sempre più violenta col marito finché, nel 2002, viene arrestata per averlo menato. Viene incarcerata con una cauzione di 5000 dollari, ma il marito ritira la denuncia e lei torna a casa.

Dopotutto, se una donna picchia un uomo non lo picchia davvero, dai.

 

 

 

IL PADRE

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Seddique Mateen si considera un importante analista e politico di spicco. Sul suo canale YouTube sostiene che il Pakistan stia inviando negli Stati Uniti dei sicari per ucciderlo. Via satellite tiene una trasmissione dove farnetica contro il Pakistan, parla con Obama o gli scrive lettere aperte, sostiene i Talebani siano patrioti e crea un’organizzazione no-profit per finanziarli. Intestata alle figlie. Poi registra al comune il PROVISIONAL GOVERNMENT OF AFGHANISTAN (allego foto).

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In Afghanistan comunque lo conoscono e lo reputano un divertente imbecille alla stregua di Andrea Diprè. Si candida alla presidenza dell’Afghanistan (no, sul serio) mentre nel mondo reale vende polizze assicurative. Lui e la moglie vengono denunciati tre volte per non aver saldato dei debiti, e altre quatto volte sono loro che provano a truffare l’assicurazione o i datori di lavoro, prendendola clamorosamente nel culo. Ecco quindi come si svolge una normale conversazione a casa Mateen durante il pranzo.

Padre: «Amore, com’è andata al lavoro?»
Madre: «Le mie colleghe cospirano, le sento camminare nel buio, lì fuori.»
Padre: «No, potrebbero essere i sicari pakistani.»
Figlio: «QUEI FROCI»

 

 

IL FIGLIO

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A scuola, Omar cerca di mettersi in mostra coi ragazzi dichiarando che suo zio Osama Bin Laden in persona gli ha insegnato a usare il mitra. Stranamente, invece di cazzo prende un sacco di botte. Opta quindi per Jack’d e Grindr, app per incontri gay e va a spettacoli di drag show. Tutto questo di nascosto dal padre, che però inizia a sospettare al figlio piaccia la banana. Omar deve dissimulare, così si sposa Sitora Yusufiy. La pesta per motivi risibili, tipo perché non ha fatto la lavatrice. O perché lei sa stare sui tacchi e lui no. Quando il padre li va a trovare, chiama il figlio “frocio”. Nella costante lotta per mascherare la propria identità, Omar si iscrive in palestra e tenta di entrare in polizia. Va in moschea quattro volte a settimana, scrive su Facebook insulti all’occidente e loda i terroristi. Nel 2013 riesce a diventare una guardia giurata. Non ha però perso il vizio di spararle grosse, così dice ai colleghi di essere in contatto con membri di Al-Qaeda.

È vero? No.
Però finalmente possiamo introdurre il vero, assoluto idolo della vicenda.

 

 

 

L’FBI

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2013
La sala interrogatori del Federal Bureau of Investigation è grigia, coi muri imbottiti di pelle, un tavolo d’acciaio inchiodato al pavimento, due sedie, un faretto incassato nel soffitto, una telecamera nell’angolo e un grande specchio. Omar è seduto con le manette ai polsi. Dietro lo specchio, le migliori menti degli Stati Uniti lo studiano con attenzione mentre i monitor registrano la sua temperatura corporea. Monitor e sensori si alternano a tazze di caffè di Starbucks. Una ventina di agenti speciali è in attesa di ordini.

«Allora, signori, ricapitoliamo» dice l’agente capo «il signor Mateen ha un padre pazzo che parla a favore dei talebani e pensa di essere in contatto con Barak Obama. Il figlio ha dichiarato ai colleghi di essere collegato ad Al Qaeda e la sua bacheca Facebook è un tripudio di insulti all’occidente e giuramenti di fedeltà agli hezbollah, ai talebani, all’Isis e agli eldiani che dei terrestri son nemici alieni
«Parrebbe confuso» osa un’agente in tailleur gessato «Al-Qaeda e Isis si odiano. Di recen… scusi» arrossisce l’agente, abbassando la testa.
«Ecco, meglio. Il mondo è fatto di buoni e cattivi. Non partire con le cazzate tipo uahhabiti, falafeliti o roba incasinata che poi finisce come Syriana.»

«Com’è finita con Syriana?» domanda un agente.
«Guarda l’autofill di Google.»

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«Chiaro? Buoni e cattivi, o nessuno capisce un cazzo. Ora mandate dentro l’agente speciale McCallan.

McCallan, completo grigio antracite e cravatta blu, è sulla trentina. Sull’occhiello porta la bandiera USA. Prende la sedia con studiata lentezza, si siede, incrocia le dita e fissa Omar: «Signor Mateen» dice «nell’assoluto rispetto e senza alcun pregiudizio di natura razziale, religiosa o sessuale, basandomi sul mio ruolo, sul mio addestramento e sulla mia esperienza come agente del bureau, consapevole della mia colpa di essere un biomaschio di razza bianca eteros
«Può saltare il disclaimer?» fa Omar.
«Sei un terrorista?»
«No.»
«Ah ok»
Lo rilasciano.

 

 

2014
L’FBI riceve una telefonata da un commesso di un negozio di armi. Il tipo racconta di un arabo che s’è presentato chiedendo tre giubbotti antiproiettile e munizioni varie, poi ha parlato al telefono dicendo “Allah u akbar” e se n’è andato. L’FBI indaga e scopre che si tratta di Mateen. Lo stesso che in una conversazione con un collega guardia giurata dice che “se l’FBI uccidesse mia moglie e mio figlio sarei libero di diventare un martire.”

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È tipo “se la Polonia mi invadesse sarei libero di invaderla”, credo.

Questa volta l’FBI prova un approccio diverso e lo mette sotto sorveglianza digitale. I g-man scoprono che era amico di Mohammad Abusalha, recentemente autodetonatosi in Siria, ma non ci vedono niente di strano perché Omar è arabo, e alla fine gli arabi si conoscono tutti. Omar frequenta il Pulse, club gay di Orlando dove gorgoglia che a casa sua moglie e suo padre gli impediscono di bere, poi si sbronza e scatena risse. Ma questo lo rende un buon americano. Dopotutto a gente così fanno pilotare gli Jaeger, ricordiamo.

Nella realtà Omar di giorno parla con la moglie di fare attentati, va con lei a Disneyland pianificando una strage e si fa addirittura accompagnare a comprare l’AR-15 in armeria. La sera, però, esce a farsi carotare il trinciastronzi da quelli che di giorno insulta e disprezza. Tutto questo continuando a scrivere su Facebook cazzate deliranti su tutto quello che somiglia al terrorismo. L’FBI, memore della prima volta, questa volta lo richiama con una nuova strategia.

«Omar, sei un terrorista?»
«No.»
«Sicuro?»
«Sì.»
Lo rilasciano.

Dopo tre anni che Omar va al club Pulse a rimorchiare, il 18 giugno ci entra con pistola, mitra, esplosivi. Inizia quindi un’escalation di ritardo mentale senza alcun precedente nella storia del pianeta. E se siete persone particolarmente sensibili, non andate oltre. Perché tutto quello che state per leggere vi farà accapponare la pelle.

LA STRAGE

Alle 2.02 un poliziotto armato dentro il club sente gli spari. All’inizio pensa facciano parte della canzone. Quando sente gente urlare e vede gente fuggire, capisce. Dichiara di sentirsi “outgunned” e scappa fuori. Chiama aiuto. Due SWAT di passaggio arrivano, sparano a Omar in mezzo al casino generale. Omar si barrica in cesso dove trova decine di clienti e li stermina come zanzare.

Alle 2.07 Eddie Jamoldroy Justice scrive alla madre di essere nascosto in bagno e che sta per morire perché qualcuno spara. Lei prima gli chiede se l’attentatore è un poliziotto, poi prova a telefonargli perché se tuo figlio è nascosto, fargli squillare il telefono è un’idea eccezionale e conclude con ANSWER THE DAMN PHONE. Non “ti voglio bene”. Non qualcosa di dolce, di materno, di umano.

I’m calling them now
U still in there
Answer our damn phone
Call them
call me

Alle 2.09 la pagina del club Pulse pubblica lo status “uscite tutti dal Pulse e correte”. Perché? A cosa serve? Se sono fuori, non mi serve. Se sono dentro il Pulse so già che c’è una sparatoria e comunque non mi metto a leggere Facebook mentre volano proiettili, ti pare? Il post, comunque, è un successo.

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E io immagino la gente a casa col mouse fermo sopra il like, straziata dalla decisione se mettere la faccina triste o quella a bocca aperta. Deve fare in fretta, è questione di secondi. Sotto, i commenti.

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Alle 2.22, mentre fuori un popolo di scimmie analfabete emette grugniti, Omar telefona al 911 e dichiara fedeltà all’Isis, poi tira in mezzo i bombaroli della maratona di Boston, un suo amico che s’è fatto schioppare in Siria e conclude dicendo che gli USA devono smettere di bombardare il suo paese.

«Ma signore, la guerra in Afghanistan è finita nel 2014.»
«VABBÈ COMUNQUE»

Alle 2.45 Omar telefona a News 13, parla con il produttore Matt Gentili e dichiara di averlo fatto per l’Isis. Poi – sempre continuando a sterminare gente – posta su Facebook e si assicura i social parlino di lui.

Alle 3.58 la polizia arriva coi mezzi necessari. Dentro, un testimone dichiara di aver visto e sentito Omar telefonare alla moglie e dirle che lui è il quarto terrorista, ma che nel club ce ne sono altri tre e anche una donna con un giubbotto esplosivo. Inizia la trattativa coi poliziotti.

Alle 4.57 gli SWAT fanno esplodere un ordigno per fare un buco nel muro, ma non gli viene bene. Allora usano i veicoli corazzati per allargarlo, ma questo li porta solo nella stanza principale. Omar è barricato nel cesso, e ha tutto il tempo d’incazzarsi e sterminare gli ostaggi. A fatica, gli SWAT rimuovono i detriti e avanzano dentro la discoteca col mezzo corazzato. Arrivati al bagno lo buttano giù ammazzando tutto quello che c’è dentro. Camerieri, clienti, cubisti, DJ, ballerini. E Omar. Non che sia strano. Vedete, la polizia in queste situazioni considera gli ostaggi vittime di omicidio temporaneamente vive.

 

 

 

 

 

CONCLUSIONI

Più guardo la vita di questi presunti “attentatori”, più mi convinco che l’Islam non c’entri niente. Né qui, né a Parigi, né in Belgio. Hanno dato la colpa all’integralismo, al degrado delle periferie, al razzismo. All’omosessualità repressa. A me colpisce come Omar abbia mentito a sua moglie fino all’ultimo. Come le abbia raccontando di essere integrato in chissà che gruppo di spaccaculi mentre invece era solo, circondato da cadaveri, in una discoteca che un po’ rappresentava il suo mondo interiore. E nei suoi ultimi istanti di vita non ha parlato con Dio.

Ha guardato Facebook.

Così ho pensato che forse oggi Dio sono gli altri. La rete. Il web. I like, le condivisioni, gli iscritti. Una massa ascesa a entità, in grado di giudicare gli esseri umani come nessun altro ha fatto prima: 10,000 like hanno lo stesso valore per un israeliano e un palestinese. Per la prima volta, l’umanità ha creato un Dio indiscutibile, numerico e inequivocabile. E chi ha una mente semplice farà qualsiasi cosa per averne l’approvazione. C’è chi si suicida su Periscope. Chi per farsi un selfie muore su Instagram. Chi vende la verginità su eBay. Chi si masturba su cam4. Chi ammazza su Facebook. Chi chiede gli auguri, chi supplica condivisioni. Mi viene in mente l’AMMIRAMI gridato dai figli della guerra di Mad Max. O il 42 di Guida Galattica per autostoppisti. Un Dio da venerare mostrandoti e che ti giudica a numeri. Che roba, sarebbe. Che cosa squallida, disperata e immensa.

Ma dopotutto sono uno che scrive vaccate rigonfio di bourbon alle tre di mattina, quindi meglio se la pianto.