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Ho trovato me stesso mentre mia moglie emetteva peti in barattolo

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Bar Verdi, Mestre, ora d’aperitivo. In piedi tra birra, spritz e altri infreddoliti party-giani come noi chiacchieriamo del solito rilassante nulla. Maschi presenti io, Luca, Atza, Ario. Donne presenti Leonora, Pamela, Claudia e il nuovo acquisto della banda, tale Giulia, trentenne mollata dal moroso alle soglie della convivenza che fa la stronza per nascondere le ferite e la paura del futuro. Le ragazze giurano e spergiurano che quando non ci sono uomini è adorabile. Boh.

«Che fate ‘sto fine settimana?» domanda Claudia.
«Riesco a portare la Pamela allo stadio per la prima volta» annuncia Atza con orgoglio.
«Eccitante» commenta Giulia.
La ignoriamo.

«Noi ci spacchiamo in un agriturismo dalle parti di Padova, venite?»
«Nebo e Leo?»
«Trieste»
«Avete mai contemplato il concetto della coscienza di sé?» chiede Ario.

Bicchieri si fermano a mezz’aria.

«A che spritz sei?» chiedo.
«Rispondi»

«Ario, funziona così, ci si trova a fine giornata per non pensare a niente, dire cazzate e dimenticare che il nostro stipendio serve per pagare la raccolta differenziata»
«E quei bastardi dell’ACEGAS» precisa Atza «l’anno scorso 1100 euro. Quest’inverno attacco il riscaldamento al limite del sonno criogenico»

«No» scuote la testa Ario «diciamo puttanate perché conosciamo troppo bene i nostri difetti e se provassimo a dire cose sincere l’amicizia che ci lega se ne andrebbe affanculo. Già ci facciamo schifo, vedere che gli altri vedono in noi le stesse cose sarebbe intollerabile. Quindi non sto parlando del fatto che Atza non riesca ad ammettere di essere gay o di Nebo che ci ha tenuto nascosto per due anni che suo padre stava male perché non si fida di noi, o di Pamela che ha messo le corna con Luca la volta che l’ha accompagnata a casa. O del fatto che le donne presenti dicono cose orribili ai relativi morosi di quelle che qui baciano e abbracciano. O del fatto che passo metà della vita distrutto di droga perché sono un fallito con una vita di merda che ha mollato scuola a tredici anni credendomi furbo. Cioè, se volete parliamo di quello, ma io volevo sapere se voi coglioni avete mai pensato alla coscienza. A cosa ci fa essere noi e non qualcun altro. Cosa ci rende unici. Di cosa volete parlare?»

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Intervallo.

La cameriera si ferma con la mano a mezz’aria e gli occhi sgranati. Ario senza guardarla prende il bicchiere vuoto e glielo mette in mano. Lei non raccoglie gli altri e se ne va di fretta. Stiamo ancora cercando qualcosa da dire quando nella mano di Ario appare per magia un’altra birra. Non ringrazia e continua a fissarci.

«Sei veramente un animale, Ario» mormora Pamela.
«Allora parliamo di come ci sono arrivato»
«NO!» gridiamo tutti insieme.
Ride compiaciuto, annuendo.

«Illuminaci, cosa vuoi che ti dica» sbuffo, sedendomi.
«Ieri sera ho visto un film con svarznegher che c’erano i cloni e siccome ero fatto come un cavallo mi sono messo a pensare»

«Un prologo degno dell’Iliade»

«Vi siete mai chiesti cosa ci rende noi? Come facciamo a sapere di essere davvero noi e non qualcun altro? Se metti che mi clonassero uguale uguale, quale sarebbe l’originale? Quale sarei io? Mi potrei riconoscere? TU, mi riconosceresti? Sarei sempre io? Abbiamo coscienza di noi stessi. Sappiamo di essere noi e non qualcun altro. Ma è così? Noi siamo davvero noi? Dunque ho chiesto a mia moglie di scorreggiare nel barattolo del caffè»

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A Luca cade lo spritz sulle braghe. Io sussulto. Un tizio alle mie spalle sputa la birra tra convulsioni di tosse. La cameriera inciampa. Una macchina inchioda e si schianta contro il palo della luce nell’indifferenza generale. Il pilota con la testa sanguinante abbassa il finestrino e si sporge per sentire meglio.

«E’ così» annuisce, sorseggiando la birra con aria assente «era l’unico modo»
«Prosegui, ti prego» dice Luca, asciugandosi con le salviette.
«Tieni» fa un tizio mai visto prima porgendogli dei fazzoletti.
Luca li prende.

«Scusa, possiamo sederci in due?» chiede una donna alla Leo.
Annuisce.

«Avete presente quel fenomeno per cui scorreggi fetido, tutti hanno sforzi di vomito ma tu no? Anzi, te ne compiaci. E’ un ottimo odore, non ti infastidisce per niente. Lo senti diverso, perché è tuo. Allora mi sono chiesto: se un mio clone scorreggiasse, il tanfo mi darebbe fastidio o no? Quella sarebbe la prova definitiva che io sono io. Quindi ho preso due barattoli di caffè vuoti, sotto ci ho scritto A e B. Ho chiesto a mia moglie di scorreggiare dentro uno e lei l’ha fatto»

«Non ci credo che hai convinto tua moglie a scoreggiare in un barattolo» mormora la Leo.
«Mia moglie fa tutto quello che dico io, se vuole continuare a trombarsi il personal trainer»
«Ma tua moglie ogni tanto te la scopi anche tu?» chiede la Giulia.

«Di rado, mi fa fatica. Andiamo avanti a leccate di passera e pompini, il lavoro pesante lo faccio fare al sottoproletariato che io devo giocare a GTA»
«Ma che razza di matrimonio è?!»
«Felice. Tu a trent’anni hai uno che ti sposa? No. Quindi sono il più esperto in materia, come su quasi tutto. Altre obiezioni?»

«Ma come ti permetti?!» sbotta Giulia.
«Si sente l’odore della tua passera»
«…cosa?» chiede, mentre il suo viso diventa rosso carminio.
«Dico, si sente l’odore della tua passera. Non ti sei cambiata le mutande, solo i jeans, pensando che tanto non ti deve trombare nessuno. Si sente»

Giulia per un attimo rimane immobile, poi prende e se ne va.
Nessuno la segue.

«Davvero…?» inizia la Leo.
«No, sfigati, non sentivo niente. Ma tanto è così per tutte le donne single, ho sparato a caso. Posso andare avanti?»
«E vai avanti» gemo.

«Allora, lei scorreggia nel barattolo del caffè e lo richiude subito. Io appena mi viene faccio lo stesso in un barattolo identico. Sotto scrivo col pennarello A e B, poi li mescolo a occhi chiusi. Ora non so quale sia il mio e quale sia il suo, ci siete?»

Atza annuisce.
Nel bar Verdi il silenzio è imponente.

«Bene. A quel punto apro e annuso prima uno e poi l’altro. Indovinate? Indistinguibili. Facevano da cagare tutti e due. Roba tremenda, eh, mia moglie mangia quasi solo erba che le fermenta e fa la merda verde che paiono ghirlande di natale. Comunque, indistinguibili. Ergo, l’odore dei nostri peti è nostro solo perché lo sappiamo. Se ci clonassero non esisterebbe più un originale o una copia. Non ci sarebbe un prima o un dopo. L’anima non esiste e io sono io solo finché voglio credere di esserlo. L’essenza dell’uomo, in sostanza, sono i suoi limiti. Di conseguenza è per questo che non troviamo il senso della vita, perché la risposta travalica la nostra identità e quindi la capacità di comprenderla»

Nessuno fiata. 

 

 

 

 

 

 

«Questo è il mio numero di telefono» sorride la cameriera, consegnandogli platealmente una salvietta «quando vuoi, dove vuoi, come vuoi, non c’è problema. Altra birra?»
«Altra birra»

Quello che non siamo

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Disoccupazione, pressione fiscale, crollo del PIL, delocalizzazione delle aziende, ILVA, Siria. Cosa sta succedendo adesso in Libia? E in Egitto? Che ne è della primavera araba? Dove sono finiti i clandestini che la Francia ha respinto

Non ce ne frega un cazzo.

Ci sono cose più urgenti a cui badare, e non parlo solo di argute satire sul cagnolino Dudù. Il manager della Barilla ha recentemente dichiarato a La Zanzara che non farà mai una pubblicità con dentro una famiglia gay. L’Italia piomba nel panico. Se fosse stato zitto e avesse continuato a fare i soliti spot qualcuno se ne sarebbe accorto? No. Sugli scaffali dei supermercati esistono milioni di prodotti che non hanno mai messo famiglie gay nelle loro reclame. Il Listerine, gli assorbenti, il deodorante, l’ammorbidente, i crackers Doriano, i profumi. Ci sono gay? No. Negli spot delle altre marche di pasta ci sono famiglie gay? No. Ce n’è mai fottuto qualcosa?

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Sì, adesso le aziende la cui materia prima è la miseria umana si affrettano a capitalizzare sui gay reclamizzandoli a destra e a manca, ma è tutto qui. Allora perché tanto agitarsi? Ve lo spiego con un’immagine.

 

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Linda posta questa foto per mostrare la cover del suo telefonino, non certo per esibire quel culo da scopata a secco contro il muro della doccia. Vediamo ora una carrellata dell’Italia indignata.

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Per lo spot, sguardo sexy e posa sono ottime. Incrocia le dita Enzo, se tutto va bene ti chiameranno!!

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Tratteniamo a stento le lacrime.

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Ore di Photoshop per giocarsi tutto nella grande lotteria del trending topic e mi produci ‘sta merda? Eddai, Reno. Almeno depilati le ascelle.

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In diretta da un “centro massaggi” della Thailandia, Matte ha aggiunto “a me piace la figa quindi posso mangiare Barilla senza problemi”. La luce che hai negli occhi non ci lascia dubbi 

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Lo sguardo compiaciuto di chi in fila per il provino del GF sa di poter vincere ci emoziona e coinvolge tutti. Perché cazzo sia vestito da piccolo esquimese dentro casa il 26 di settembre con 21°, tuttavia, rimane un mistero.

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Voglio reclutare un centinaio di lettori e presentarmi a questa straordinaria conferenza suonando vuvuzelas dall’inizio alla fine.

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Sfrante gettano sdegnate pacchi di pasta nella monnezza in un video coinvolgente. Lo proietteremo da dei dirigibili sopra il cielo del Burkina Faso, con in sovrimpressione CHI LO PRODUCE NON METTE IL MIO ORIENTAMENTO SESSUALE NELLA PUBBLICITA’.

Bene. Ora attiviamo il filtro anticazzate e riassumiamo:

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E’ insomma il classico caso di Italia che s’indigna, s’ingegna, s’impegna e poi getta la spugna con gran dignità. Domani ci saranno altre Grandi Cause per cui autoscattarsi, ma oggi bisogna gridare al mondo la nostra emancipazione. Cristo, per la visibilità va benissimo anche la luce dell’obitorio e noi siamo grandi esperti di fanatismi a Co.Co.Pro.

Ora, essendo io un palestrato con blog, pagina Facebook e profilo Twitter, mi sono chiesto come mai la gente sia tanto egocentrica. 

Credo faccia parte di quel fastidio di vivere di cui parlava Mishima prima di affondare la faccia nel proprio intestino. Un movimento, uno schieramento politico, una squadra di calcio, una categoria professionale o una causa comune danno un’identità, specie a questo nostro strano popolo che l’identità la tiene nel beauty da viaggio. Forse il modo più facile per riconoscere cosa siamo è stabilire cosa non siamo. Omofobi, sessisti, razzisti, classisti, snobisti, fascisti, violenti, sono termini di comune accettazione negativa. Vai da un notav che ha appena spaccato il casco di un carabiniere e dirà “io non sono violento ma”. Vai da un leghista, “io non sono razzista ma”. Snobbiamo quelle notizie che non hanno uno schieramento definito. Se m’interesso all’ILVA cosa penseranno di me? Sono di destra? Di sinistra? Complottista? Non è chiaro, quindi scrollo...

Se però gli animalisti liberano 100 topi so benissimo da che parte stare, una o l’altra che sia. Un etero avrebbe migliaia di cause da abbracciare, ma questa gli permette di affermare cosa non è – quindi chi èPrendete i vegetariani. O l’UAAR. Chi è che non gioca a calcio ma crea una pagina per dire “il calcio fa cagare”? Non ci gioco e basta, farò altro. No. Spendi soldi in pubblicità che recitano “Dio non esiste”. Imbastisci gazebi per far sbattezzare la gente, organizzi riunioni, meeting e pellegrinaggi al CiCAP. Ha senso se una cosa ti piace, ma ti stai sputtanando il weekend per trovarti con degli sconosciuti a parlare male di qualcosa, capisci?

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OPZIONE WEEKEND “PARLIAMO MALE DI CHI CREDE IN QUALCOSA”

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(viaggio in amena località balneare con pullman di vecchi, 70 euro. Colletta per striscione plastificato, 20 euro. Albergo, 80 euro. Conto alla romana del ristorante con cicciona, 500 euro. Rientro a tarda notte con Piero Angela in surround senza possibilità di disattivazione, gratis)

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OPZIONE WEEKEND “AMORE, STASERA FESTA ERASMUS A VENEZIA?”

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(Consumazioni, 30 euro. Pensare a Piero Angela per durare di più, gratis. Colazione per tre a letto, 9.40 euro)

Scegliere la prima opzione significa che ci tieni molto, o che non puoi mangiare pasta Barilla. Una volta eravamo quello che credevamo. Poi quello che avevamo.

Oggi siamo quello che non siamo.

L’ultimo samurai era il primo dei grillini

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E’ il 1970, in Giappone. Nelle radio c’è quasi solo funk. Le notti sono a base di droghe psichedeliche, erba buona, pantaloni a zampa, minigonne e l’AIDS è sconosciuto. Le feste sono prive di iPhone con cui twittare e la gente è costretta a giocare con questo. Le camicie hanno colletti imbarazzanti. I primi effetti speciali nei film di arti marziali infoiano il pubblico che tenta di volare o spaccare muri a pugni, morendo in maniera divertente. I reggiseni sono a punta. Per strada girano utilitarie. Nelle cucine ci sono i primi elettrodomestici.

Nel piazzale esterno del palazzo della Difesa è un giorno come un altro. Circa ottocento soldati vanno e vengono dagli uffici. Alle 12.22 del 24 novembre 1970, nell’aria risuona un urlo.

«ASCOLTATEMI!»
Alcuni militari si fermano, guardandosi attorno.

«SONO QUI A PARLARVI A RISCHIO DELLA MIA STESSA VITA!»

Altri soldati imitano i primi. Oramai ufficiali, sottoufficiali e passanti sono quasi tutti fermi in cerca del misterioso oratore. Qualcuno indica il terrazzo del secondo piano. Tutti alzano la testa. Dalla balaustra si srotolano dei lenzuoli con incisi ideogrammi, poi appare un uomo con la fascia da kamikaze sulla testa. 

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«VOI SIETE SAMURAI, NON E’ VERO?!» tuona l’uomo.

Un giornalista che in un bar abbatte tavolini e camerieri per afferrare un telefono.

«SE SIETE SAMURAI, PERCHE’ PROTEGGETE QUELLA COSTITUZIONE CHE NEGA LA VOSTRA STESSA ESISTENZA? RISPONDETE!»

Il rullo tribale degli elicotteri inizia a martellare il cielo. Una ventina di furgoni della stampa inchiodano nel piazzale, da cui sciamano frotte di cronisti facendosi largo tra i soldati. Le agenzie stampa di tutto il pianeta vengono allertate.

«CHI DI VOI QUI OSEREBBE SFIDARMI A DUELLO?!» grida l’uomo dal balcone.

Altrove.

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L’Imperatore del Giappone sta bevendo il tè osservando il giardino colorarsi d’autunno. A rispettosa distanza c’è Haichi Tamacoguro, capo della sicurezza. Un servitore arriva trafelato e gli sussurra qualcosa all’orecchio. Haichi chiude gli occhi e fa un respiro profondo, poi fa cenno di andare. Il servo fa un inchino e si dilegua.

«Qualcosa ti turba, Haichi?» chiede l’Imperatore di spalle.
«Nulla d’importante, maestà»
Il sovrano si volta: «Perché menti?»

Haichi non aggiunge altro. Tiene il capo basso. Fuori, la canna di bambù della fontana zen tocca la pietra con un sordo e caldo TUC, che riecheggia nella quiete del giardino. L’Imperatore torna a guardare l’esterno. Una foglia si stacca dal ciliegio e si poggia lieve sullo specchio d’acqua. 

«Kimitake?»
«Sì» annuisce Haichi.

 

 

 

 

TUC

 

 

 

 

«Cos’ha combinato di così grav
«E’ asserragliato nel quartier generale della Difesa e urla alle telecamere del mondo che voi siete Dio»

 

 

TUC

 

 

 

«Come sa
«Con una katana»

 

 

 

TUC

 

 

 

«Non capi
«E quattro palestrati»

 

 

 

TUC

 

 

 

«C
«Sodomiti»

 

 

 

TUC

 

 

 

«Mi sono pisciato addosso di nuovo» annuncia l’Imperatore.
«E’ perché siete Dio» annuisce Haichi.

Kimitake Hiraoka nasce nel distretto di Yotsuya nel 1925. Viene allevato dal nonno, il quale è vagamente imparentato col cugino del fratello dello zio dell’amante del cane dello stalliere che lavora vicino a una famiglia nobile. Per insegnare al nipote come si comporta un vero aristocratico il nonno opta per “pugni in faccia, dita nel culo e femminizzazione coatta”, un metodo infallibile per allevare la crema della società. Gli impedisce di uscire alla luce del sole, di socializzare con la plebe o di fare qualunque tipo di sport. Kimitake quindi passa la maggior parte della sua infanzia asserragliato in casa con le cuginette e le loro bambole di porcellana. Gli storici sostengono sia qui che ha elaborato la sua attrazione per la morte, e io non mi sento di biasimarlo.

A 12 anni fa ritorno dalla sua famiglia d’origine, dove i pugni in bocca hanno il sapore di casa. Il padre è uno di quei fanatici di disciplina militare che non ha mai fatto il militare, ossia i peggio subdotati di Forza Nuova. Papino adora insegnare il coraggio a Kimitake tenendolo vicino ai binari quando passa un treno, facendo irruzione nella sua stanza in cerca di letteratura “effemminata” e incendiandogli i manoscritti perché scrivere è una cosa gay. 

Di nuovo, come biasimarlo?

Kimitake ha talento nella scrittura. La sua giornata media consiste nel farsi riempire di botte dai professori, farsi riempire di botte dai compagni di classe, tornare a casa e farsi riempire di botte dal padre, fare i compiti in fretta per non mancare l’aria calda dell’interregionale Okinawa-Tokio, tornare a casa per il serale raptus piromane di papà che incendia tutto giacché ha intravisto un ideogramma presumibilmente effemminato, andare a letto per ascoltare i mugolii di papi che tromba la faccia di mami dietro la parete di carta con le foglioline dipinte, tornare a scuola spiegando che papi ha dato fuoco ai compiti, non essere creduto e ripetere dall’inizio.

Possiamo quindi facilmente comprendere il suo bisogno di evasione. Il piccolo pungiball scrive le sue prime storie a 12 anni. Viene pubblicato sotto pseudonimo perché a quanto pare tutto il Giappone adora scrociarlo di sberle, per non parlare dei controllori dei treni. Diventa famoso come Yukio Mishima. Sebbene papi gli proibisca di scrivere lui continua in segreto, e ce la fa. Uomini intelligenti dall’infanzia traumatica possono creare cose bellissime; Kimitake pubblica libri che vengono tradotti in tutto il mondo, scrive e dirige film, viene nominato a tre premi Nobel e diventa l’autore più riconosciuto del Giappone.

Io però ho più like di lui.
Anzi, no.

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“Tanto non contano niente”

Si sposa e fa due figli. Si definisce “fervente anticomunista” ed entra nel mondo del culturismo, cosa che alla moglie piace, e frequenta gay bar, cosa che alla moglie piace assai meno. Alle proteste di lei Kimitake spiega di voler far parte di un disegno più grande. Lei domanda in che senso, lui risponde “spada e onore”.

«Ti cola della roba bianca dal culo, Kimitake»
«E’ onore»

Nelle interviste inizia a farneticare di valori seicenteschi con maggiore frequenza. Spade, muscoli, onore, samurai e codice cavalleresco fanno un effettone nei libri e nei film; purtroppo siamo nel 1970 e davanti a un F-4 in bombardamento a tappeto questi valori durano il tempo di dire

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Sguainiamo le spà

…poi ti raccolgono con l’aspirapolvere. Questo però non ferma la fervida immaginazione di Kimitake, anzi. Nelle interviste dichiara

«Per me è ovvio trovare ripugnante un uomo che vive solo per sé stesso. Chiamatelo fastidio di vivere. L’essere umano non è abbastanza forte per vivere e morire senza scopo»

Per questo ha sposato una donna e fatto due figli, direbbe qualcuno. No. Farsi svegliare alle due di mattina da un putto che urla uso sirena antiaerea perché gli è partito l’airbag e c’ha il pannolino ridotto come le paludi di Mordor non è epico. Guardare metà stipendio in omogeneizzati ridotti a merda in sette minuti netti non è epico. Prendere in braccio un tubo digerente che per ricompensa ti rutta nell’orecchio e ti piscia sul petto non è epico. Tua figlia che si sposa col vestito “Midnight in Budapest” non è epico. Tuo figlio che molla l’università per il rap no, non è epico.

«L’uomo ha bisogno di un ideale, o si annoia in fretta all’idea di vivere. Ecco perché nasce il bisogno di morire per qualcosa. Ci serve una “grande causa” di cui parlavano gli uomini di una volta. Morire per una causa è considerato il più glorioso, eroico e bel modo di morire. Il fatto è che non ci sono più “grandi cause”, oggi» 

O meglio, nessuna che implichi venerare ragazzini muscolosi e sudati. Certo bastava dare una katana a Balotelli e il gioco era fatto, ma Kimitake decide di risolvere il problema alla giapponese: fonda la “società dello scudo”, una setta di squinternati dove puoi entrare solo se hai un bicipite accettabile, l’ano a doppio senso di circolazione e vorresti tanto vivere 1000 anni fa. Qui, tra una sessione di squat su palo di carne e drammatiche simbologia falliche, Kimitake dice le solite stronzate di tutte le sette.

«Il Giappone ha tradito la sua anima. Il governo non è altro che un manipolo di vecchi coglioni corrotti»
«Sì, maestro!»

«Sarebbe fichissimo tornare a quando si viveva meglio, a contatto con la natura, dove orgoglio, onore e onestà erano di moda»

«Sì! Quando le donne abortivano a pugni!»
«Quando avevamo case di amianto!»
«Quando mangiavamo topi!»
«Quando crepavamo per un’infezione a dieci anni!»
«Quando le famiglie si sterminavano per uno sguardo sbagliato!»
«Si! VAFFANCULO GLI OSPEDALI! VAFFANCULO I TELEFONI E LA CARTA STAMPATA!»

«VAFFANCULO I SOLDI!»
«VAFFANCULO LA KASTA!»

Kimitake annuisce compiaciuto, poi fa cenno di calmarsi: «In Giappone oggi conta solo il denaro. Siamo diventati schiavi delle potenze estere, burattini nelle mani di USA/Bildenberg/Merkel/Monti/Bush/Berlusconi… insomma, tutti tranne me»

«Giusto!»
«Vero!»

«Per rimettere il Giappone a posto bisogna tornare indietro! Una decrescita felice, restituendo il paese alle sue tradizioni. Per questo noi siamo la società dello scudo. Noi e solo noi possiamo difendere il candidato che il popolo vuole, ossia…»
Silenzio.
Kimitake cerca risposte negli occhi dei discepoli.

«…Lei, maestro?» osa uno.
«Ohoho, no. Ti ringrazio ma no, io sono un semplice portavoce. Mi piaci, però. Stasera t’inculo»
Pacche sulle spalle, strette di mano.

«E chi allora? Rodotà?»

«Fuochino»
«Byoblu?»
«No»
«Marta Grande, la giovane italiana col sorriso da Monna Lisa che ammalia e strega…
«NO!» tuona Kimitake «L’IMPERATORE DEL GIAPPONE DEVE TORNARE A ESSERE DIO! E’ questo che vuole il popolo, è questo ciò di cui ha bisogno»

Gli alunni osservano i propri piedi. Calciano sassetti, puliscono macchiette invisibili.

«Bè, con Rodotà comunque…»
«Ma infatti, aveva preso 4.677 voti, in Giappone quanti siamo?»
«104 milioni»

Kimitake emette proclami di fedeltà assoluta e si dichiara disposto a gettare il sangue per l’Imperatore. Solo che nel 1970 l’Imperatore non ha nessun potere decisionale, appare solo per gli auguri di capodanno e viene considerato dai giapponesi con affettuoso fottesegare. E’ come se domani Fini (lo scrittore) giurasse di difendere con la propria vita Sofia Loren, poi si facesse ritrarre nelle copertine dei suoi libri così

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E all’interno, con parole di fuoco, incitasse gli italiani a ribellarsi contro Cinecittà usando solo sciabole perché d’ora in poi i film dovranno essere recitati tutti da lei o dai suoi familiari.

L’Imperatore si chiude in un imbarazzato no comment. Poi passa a “lasciatemi solo con la mia prostata”. E’ a questo punto che accade l’irreparabile. A 45 anni Kimitake raduna quattro suoi fedelissimi amanti, invade il palazzo della Difesa impugnando spadine, prende in ostaggio un console, si barrica nel suo ufficio, esce dalla finestra e incita la folla alla rivolta in mondovisione. Ossia parla da otto metri di distanza con tono imperioso e colloquiale sopra ottocento soldati che urlano insulti. Al termine si gira verso il suo amante, dichiara “credo non mi abbiano neanche sentito” e torna dentro per suicidarsi.

E’ il tipo di batterista che non vorresti mai avere in gruppo, Kimitake.

Fa seppuku. Questo. Si infilza la pancia, se la apre e aspetta uno dei suoi più fidati amanti lo decapiti. Il problema è che decapitare un essere umano è dura. Se hai una ghigliottina che pesa 60 chili e ti crolla sul collo da cinque metri d’altezza stai sereno, ma perché una persona possa fare un taglio netto sono necessarie forza e controllo assoluti. Il collo ha vertebre, muscoli, cartilagini. Se io dovessi suicidarmi mi schianterei di rum e bamba, farei entrare due ventitroienni con la quinta e mi farei cavalcare cazzo e faccia fino al soffocamento. Kimitake invece opta per affondare la faccia nelle proprie interiora mentre il suo fidato samurai lo ravana di spadate mugugnando “ops”, “scusa”, “ora riprovo”, “petta”.

E’ proprio vero che non ci sono più gli uomini di una volta.

Kit Kat e Big dawg: una storia vera

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«Sei il moroso di Leonora?»
«Sì»
«Volevo conoscerti, parla spesso di te. Io sono Marco. Faccio kickboxing con lei»

Mi giro, ci guardiamo. Sono le due e mezza di mattina, a Trieste. La festa volge al termine. Birra spanta e cicche spente costellano la terrazza dove studenti e studentesse hanno ballato, bevuto, fumato e rimorchiato. La Leo, ciucca, intona canti popolari in dialetto con altre ragazze. Lui non sembra uno studente. Ventotto, forse ventinove anni. Fisico massiccio, occhio azzurro, sorriso sincero. Gli stringo la mano.

«Come se la cava?» chiedo.
«Eh, mena. Le ragazze si cagano a far sparring con lei»

Chiacchieriamo. Marco è una di quelle persone che ti piacciono a pelle. Esistono ‘sti tipi che li vedi, aprono bocca e ti sembra di conoscerli da tutta la vita. Siccome le ragazze stanno diventando moleste e berciano senza ritegno ci spostiamo dentro. Ravano tra gli avanzi.

«Resta poca roba» mugugno «faccio uno screwdriver»
«Nonono lascia, quella è birra ginger? Ti faccio un moscow mule»
Si mette all’opera. Fa due bicchieri e me ne porge uno.

«Za zdorov’je» dice, alzando il bicchiere.
Noto il tatuaggio sull’avambraccio.

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«Ah!» esclamo «sei gente che non fa niente e che non ha voglia di lavorar
Per un istante mi guarda confuso, poi scoppia a ridere.

«E’ stato una vita fa. Anche tu?»
«Manco per niente» scuoto la testa «ma ho molti amici nelle forze armate»
«Credevo tra studenti fossero tutti… uh, contrari»
«E gli studenti credono siate tutti, uh, nazi. Secondo me dovreste parlare di più»
«Non li vedo molto inclini al dialogo»
«E’ perché sono democratici»

Dal moscow mule passiamo allo screwdriver. Marco si smolla. Racconta di essere stato in Kosovo, chiedo dell’uranio impoverito, lui dice che ha fatto gli esami ma è risultato a posto.

«In realtà ho avuto un solo scontro a fuoco, il resto ho fatto il manovale. Niente di chissà che. Però visto che un po’ ci capisci posso raccontarti una storia figa sugli incursori. Ti va?»
«Spara» dico «CIOE’ DIMMI»
«Kosovo, ok? ONU, operazioni interforze. Il mio reparto era addetto alla sicurezza di un aeroporto militare, blindatissimo. Noi stiamo di guardia agli hangar dove tengono i caccia. Un giorno arriva il tenente e dice “da qui a quindici giorni una squadra di incursori farà un’esercitazione. Mineranno gli aerei e se ne andranno. Siete avvisati”. Chiedo al tenente se avremo munizioni a salve, quello risponde che non ce ne sono»

«Come sarebbe, scusa…»

«Siamo in piena zona di guerra, chi cazzo si sogna di portare proiettili a salve? Poi cosa facciamo, siccome ‘sti tizi devono esercitarsi teniamo un preservativo in canna? Se arriva il nemico cosa facciamo, gridiamo “tocco blu non gioco più” per cambiare le munizioni?»
«Mi sembra una stronzata lo stesso»

«Era un’idea degli americani, infatti. Gli incursori delle varie nazioni assaltavano le basi alleate. Una specie di braccio di ferro tra amici. Nel nostro caso c’erano i Col Moschin (esercito) e i GIS (Carabinieri). Il COMSUBIN non ha partecipato perché erano impegnati. L’Inghilterra metteva i SAS, gli Stati Uniti i Navy SEALs, i francesi e i tedeschi non so. Comunque, da noi vengono gli americani e noi andiamo da loro. Due caserme, due squadre. Ci sei?»

«Sì. Elite di Esercito e Arma contro Navy SEALs. Le fanno sempre, ‘ste robe»
«Bene. La seconda notte io sono di guardia all’interno. Fuori c’è Popoci. A differenza di quello che puoi pensare dal nome, Popoci è il terrone più grosso che io abbia mai visto in vita mia. Piantona l’hangar, quando alle sue spalle sente uno che lo tocca e gli dice qualcosa in un’altra lingua. Popoci si volta trovandosi davanti un tizio accovacciato e vestito di nero con in mano un coltello. Quello sibila con tono di voce più aggressivo “you’ve been killed, stay down”»
«E…?»
«E Popoci è un cazzo di terrone cresciuto nei quartieri spagnoli di Napoli che ora è in piena zona di guerra, secondo te cos’ha fatto? Gli ha tirato un calcio in faccia, gli è montato sopra e ha cominciato a massacrarlo di botte urlando “AHE’, ALLARME, CI STANN A FUTTERE L’ARRIUPLANI!”. Nel frattempo…»

«Oh, Dio»

«…nel frattempo io, dentro, sento un tonfo. Mi sporgo e vedo un tizio che è rimasto incastrato in una finestra con la corda, mentre uno tra gli aerei lo strattona. Punto il fucile e grido l’altolà. Quelli sparano tre colpi sopra di me, tipo tre metri, poi si nascondono dietro un aereo urlando in inglese. Io non capisco un cazzo e rispondo al fuoco dando l’allarme. Sento “you have been hit, please stay down”. Devi capire l’adrenalina di quel momento. Notte, piena zona di guerra, botti di mortai e ‘sti robi neri che ti entrano in casa sparando. Ti pare che mi metto ad ascoltarli?»

«No» dico, con le mani sulla faccia «suppongo di no»

«Mi sposto sotto le carlinghe per puntarli, ci sei? Vedo una gamba, sparo. Quello va giù e gli avrei pure sparato in testa, ma quando punti qualcuno per uccidere il cervello ha un millisecondo di esitazione. Non so spiegarti, è tipo una specie di triplo check di sicurezza. E’ quello che ti fa crepare, di solito, ma io non avevo mai sparato a qualcuno, prima. Se punti un fucile vero, anche se scarico, contro qualcuno… bè, fa effetto»

«Vai avanti»

«Eh, in quel check capisco che sono americani, mi ricordo l’esercitazione e non sparo. Quelli escono con le mani alzate, si apre l’hangar e piovono dentro i nostri che li circondano, tra cui vedo Popoci che si tira dietro il Navy SEALs uso sacco della monnezza. Esercitazione fallita. Gli USA, poi, hanno protestato dicendo che eravamo stati avvisati e tenevamo la guardia più alta del previsto»

Le luci della sera tremano nell’aria calda che si sprigiona dai palazzi di Trieste.

«Pensa che risate se invece non vi avvisavano. E i nostri?» chiedo.
«Allora, il Col Moschin ha minato gli aerei americani e ha tagliato la corda senza che nessuno si accorgesse di niente. I GIS invece hanno tutto un loro modo di fare. Sono sempre… spiritosi. Dopo aver minato tutti gli aerei si sono presi la briga di taggare le carlinghe coi loro soprannomi»
«Tag…?»
«Sì. Ci hanno scritto i loro nomi in codice sopra. La mattina dopo gli USA si sono trovati gli aerei con scritte cubitali tipo NOSTRADAMUS o REAL NIGGA o che ne so io. Tutti gli incursori hanno un soprannome. Di solito è in inglese così lo capiscono anche le forze speciali di altre nazioni. Tra loro si conoscono quasi tutti»

«Che storia» dico.

La Costa Concordia, dal momento dell’affondamento in poi, è stata pattugliata a vista per proteggerla da eventuali sciacalli giacché, legalmente parlando, è discutibile dire cosa sia di chi in un relitto. Nessuna nave o sommozzatore civile poteva avvicinarsi. Incursori del COMSUBIN e del GIS hanno fatto svariate immersioni, anche per recuperare la scatola nera. L’altroieri, durante le manovre di raddrizzamento, qualcuno ha notato dei misteriosi graffiti apparsi sulle paratie sommerse. Due calligrafie diverse dicono “Kit kat” e “Big dawg”.

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Alcuni colleghi si sono interrogati su chi li avesse fatti e cosa significassero, ma sono stati rimossi subito e c’era altro a cui pensare. Nessuno saprà mai chi sono gli autori e, dopotutto, è un dettaglio insignificante. Però mi ha fatto tornare in mente la storia di Marco.

YAAAH HAAA, MOTHERFUCKAS!

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GUARDATE CHE FIGATA PAZZESCA.

Niente più foto che introiano Google, niente più problemi di spazio, niente più “segnala contenuto per adulti”, niente più censura di fiche. Siamo liberi di vagare nei più impervi meandri della mia mente e di quella dei commentatori. E’ bellissimo. Finalmente un indirizzo vero che potrete scrivere nei bagni più in fretta. So che alcuni studenti lo fanno.

COS’E’ SUCCESSO?
Con codici html e informatica varia scateno l’imbarazzo generale e sarei in grado di far esplodere la lavatrice solo cliccando qualcosa, quindi è giusto dirvi chi sono i mastermind alle spalle di questo fantasmagorico progetto che mi causa priapismo incontrollato. Il primo è Gianluca Zamagni, della Third eYe. E’ tipo la versione reale di Nick Banana: gestisce due aziende, un mutuo, una moglie e una figlia. E’ anche pieno di capelli. Se a trent’anni è messo così è probabile che al quarantesimo compleanno sarà diventato Ironman, quindi se avete un sito da hostare andate da lui e tenetevelo buono.

Il secondo è Henry Triplette. Un individuo irrequieto, nel senso che dalla creazione del sito ogni volta che gli telefono risponde “CHE CAZZO E’ SUCCESSO NON TOCCARE NIENTE, HAI TOCCATO, LO SO CHE HAI TOCCATO”. Non ci sono parole per descrivere quanto sia stato paziente, comprensivo, gentile e capace, soprattutto avendo a che fare con lo scemo del villaggio globale. Ha tollerato file sballatissimi, PSD incasinati, jpeg a risoluzione filatelica e ordini squinternati quanto contraddittori.

Henry diceva che prima di metterlo online bisognava aspettare, valutare, testare, limare. Ha! Noi non testiamo: noi sacrifichiamo. Siamo uomini, perdìo, il libretto delle istruzioni è roba da donne; proviamo finché non esplode o funziona. Di conseguenza potrebbero succedere incidenti divertenti, impaginazioni sballate, versioni mobile incristate. Potremmo venire stuprati da hacker turchi e Dio sa cos’altro. Fa parte del giuoco ma, ripeto, sarà tutta colpa mia.

CAMBIERA’ QUALCOSA?
Nei contenuti e nella grafica un cazzo di niente. Quindi continuerete a non avere la più pallida idea di cosa parlerà il prossimo post. Il che è un bene, visto che non lo so manco io. Abbiamo tuttavia implementato la funzione pubblicità. In basso ci sarà una bacheca dove chiunque paghi potrà lasciare i propri escrementi. Google Adsense, aziende, privati, a ogni refresh daranno un millesimo di centesimo o cifre simili, quindi più gente arriva meglio è, inclusi quelli di Pacific rim e del muezzin. A breve metteremo il tasto paypal. Dicono sia una cosa semplice da fare, ma è la terza volta che dopo mezz’ora di compila/conferma/clicca finisco al punto di partenza. Credo dipenda dal fatto che per avere il tasto paypal serve prima avere una paypal. Tradotto, chiederò alla Leonora come si fa.

Ci sono anche grosse novità su altri fronti, ma è presto per parlarne.

A breve si riprende come prima.
Tutto qui.

Refreshate, bastardi.