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Confessioni acide

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A diciotto anni andavo sempre al Mojito, una discoteca di provincia. Ci sono andato per anni. Truzzaglia, risse senza coltelli e soprattutto sbarbe contadine. Ditemi quello che volete, ma una che ti tasta il pacco e domanda “ndemo a ciavar?” arrapa più di qualsiasi giarrettiera. Sarà che sono cresciuto con gli spot del Mulino bianco, mangia sano, torna alla natura e incaprettare la figlia del fattore in camporella ti fa sentire più ecofriendly di qualsiasi prodotto biologico.

Era il 1998.

Appena patentato prendo la macchina dei miei e vado al Mojito da solo, come tutti i ragazzini che possono accedere alla macchina dei genitori per la prima volta. Giri, prendi confidenza col mezzo. Certo Ario il giorno della firma andò in puttantour e finì in fosso, ma erano altri tempi. L’età dell’innocenza. Dio, appena uscito l’euro si riusciva a truffare le negre con le banconote fotocopiate, per dire. I più raffinati col distintivo dell’FBI del piccolo detective incollato sul portafogli chiavavano a sbafo almeno una decina di volte.

Ma non divaghiamo.
Entro al Mojito di straforo, il buttafuori fa palestra da me. L’idea era due birre e a casa, invece è la serata giusta. Una bionda mi guarda, sorride e la raggiungo in pista. Balliamo con la solita tattica del lei che finge che no, poi sì, poi no. Alla fine le offro da bere, parliamo. C’è sintonia. E’ lì con le amiche che son state rimorchiate da altri ed è rimasta al palo. Si smolla. Limoniamo sui divanetti. Tenterei di portarla in bagno ma ho paura di sprecarla. Testo il terreno, allungo appena le mani, mi blocca con quel tipo di “no” che significa “con calma”. Parliamo ancora, beviamo ancora. Le amiche tornano a casa e lei è in macchina con loro. Mi offro di accompagnarla io, dopo. Accetta. Venti minuti e venti chilometri di strada tra fienili e capanne di sterco, poi siamo da lei.

Condominio popolare da abuso edilizio anni ’70, tre e mezza di mattina. Salottino signorile, tappeto sciccoso, divano, televisore gigante, libreria. Limoniamo in felicità sul divano quando una porta si apre e appare suo padre in vestaglia. Non la prende bene. “Se credi di poter fare la puttana”, “hai diciott’anni ti trovi un albergo”, “non porti gente alle tre di mattina” e frasi così. Faccio per andarmene, lui mi ferma. Dice che non posso guidare in quelle condizioni; o dormo sul divano o telefona ai miei genitori che mi vengano a prendere.

Sarà che è più bestia che uomo, sarà che sono effettivamente sbronzo, sarà che lei mi tira un’occhiata tipo “rimani e ci scappa il premio”, resto. So che può sembrare un errore grossolano, ma se un trattore umano ti sgama mentre gli limoni la bimba in salotto di casa nel cuore della notte non è il caso di far questioni. Ho pensato fosse la cosa giusta.

Mi tira un cuscino, due coperte, strattona la figlia e se ne va chiudendo la porta della zona notte a chiave. Se hai un adolescente sbronzo in salotto e una figlia che spruzza feromoni in camera non lasci la porta aperta, giusto per evitare la trafila dell’aborto a pugni. Mi metto sul divano.
Chiudo gli occhi.
Tutto gira.

Mi viene da vomitare.
Cerco il bagno ma la zona giorno è composta solo da salotto e cucina. Il grezzo s’è barricato a difesa di tutti i buchi della casa, water compreso. I conati si fanno più pesanti. Apro la finestra del salotto, guardo giù e c’è una panetteria aperta col fornaio che fuma. La finestra della cucina è troppo alta. Non ce la faccio più, corro verso la porta d’entrata ma BRAAA, dal naso, dalla bocca, dagli occhi, espello tutto sul grazioso parquet. Resto ansimante con la gola riarsa e un cacaio sul pavimento. Il panico si impossessa di me. Devo far sparire quella roba al più presto, ma con cosa?

Non è casa mia.
Non so dove mettere le mani.
Lì per lì, l’immancabile foto di famiglia in bianco e nero sul mobiletto d’ingresso mi pare l’idea migliore.

 

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C’è sempre. Famiglia al completo col vestitino della domenica, espressioni sognanti di un futuro prossimo come la ripresa economica. Tolgo la cornice di finto argento e uso la foto a mò di paletta. Funziona egregiamente. Mentre spatolo realizzo di non sapere dove metterli. Provo a fare andata e ritorno fino al lavabo della cucina, ma spando trasformando il pavimento in un lago di succhi gastrici. Disperato, afferro il cassettino del mobile e lo uso come secchio. Il tanfo è mostruoso e solo sentirlo mi fa sboccare ancora, questo giro direttamente nel contenitore perché ormai tanto vale. Vorrei disperarmi ma sorge un secondo problema: crampi da diarrea post sbronza. Il culo s’è innescato e sta per esplodere, ma dove?

Il cassettino è oramai ricolmo.

Mi sporgo dalla finestra del soggiorno e glasso il panettiere? Una pioggia di merda desta sospetti anche negli individui più primitivi. Potrei tempestare di pugni la porta della zona notte urlando al mondo la mia vergogna. Essere un signore, cacare sul pavimento e deglutire l’orrore a cucchiaiate. Me ne manca il coraggio. Piegato in due dal dolore giungo in cucina, apro lo sportellino sotto il lavello dove tutti tengono il cesto dell’immondizia e ci cago dentro. E’ come se l’inferno avesse ghermito le mie natiche, le avesse spalancate e decine e decine di dèmoni le avessero varcate per seminare morte. Il rombo mi squassa. Aria, acqua, terra e fuoco si fondono per attraversare il mio timbramutande e obnubilano il tanfo della monnezza, soverchiandone l’afrore. Tutto è squallore e rovina, ma sono salvo.

Posso farcela.
Gli ho trasformato il salottino nelle stanze di Hostel, ma posso farcela.

Certo, lì per lì non penso che il mobiletto con la sorpresina non si sarebbe autodistrutto e che quando papizappa l’avrebbe aperto per cercare le caramelle di nonnina avrebbe trovato Sarlacc del cazzo, ma ero molto ubriaco. Devo liberarmi del figlio di Satana che ho partorito e dedicarmi alla pulizia, ma siamo al sesto piano. Chiudo il sacchetto della monnezza, decido di scagliarlo dalla finestra della cucina ma è alta, non so cosa c’è sotto e temo l’omicidio colposo. Allora vado dall’altra parte, il fornaio non c’è più. Se lo lascio cadere finisce in strada, ma giusto dall’altra parte c’è un boschetto di cespugli. Devo tentare il lancio tipo bolas. Inizio. Faccio un giro, due giri, al terzo il sacchetto cede con uno schiocco, si squarta a parabola giusto mentre l’orbita attraversa il salotto e un uragano immondo dipinge la parete, la libreria, il televisore, il tappetino, i muri, lo specchio.

Non oso girarmi.
Aspiro l’aria della notte, conscio che alle mie spalle si è consumato il dramma. Il sacchetto squarciato mi penzola dalla mano, vuoto involucro dei miei incubi peggiori che gocciola gli ultimi rimasugli dell’innominabile. Senza nulla dire, il mio viso si contorce in una smorfia di dolore. Piango come un condannato che guarda il muro della fucilazione.

Mi volto.
E’ l’armageddon.

Gusci d’uovo putrefatto sulla tovaglia ricamata, assorbenti usati tra i libri, scatolette di tonno, fazzoletti sporchi, lische di pesce sul ventilatore, piatti di plastica unti sul tappeto, diarrea che gronda dal soffitto. Non v’è rimedio. La casa va demolita, le macerie sparate nel Sole. A essere un uomo aprirei il gas e mi farei detonare con la famiglia, ma me ne manca il fegato. In un ultimo atto di pietà piego con cura le coperte miracolosamente immacolate. Sono tentato di lasciare un biglietto ove spiegare tutto, ma nessuna parola vale il rischio di lasciare le mie impronte digitali. Getto un’ultima occhiata al mobiletto contenente i drink della serata, poi apro la porta e me ne vado per sempre.

Da allora smisi di frequentare il Mojito. Il buttafuori disse che la polizia andò a fargli qualche domanda. Lui fu evasivo, data la mole di erba che si fumava grazie alle piantine di Ario. Io preferii vagare nelle tenebre della notte e fare il writer, dopotutto avevo un talento innato nel pitturare muri. Ecco perché le dico che da qualche parte qualcuno vuole uccidermi, dottoressa»

La psicologa della scuola tiene la bocca semiaperta.
«Dice che sono pazzo?» chiedo.
Non risponde.

E’ domenica.

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La sveglia sul cellulare mi strappa dal sonno a sberle. Tento di spegnerla, un bagliore accecante mi brucia la cornea e mi propone un quiz matematico. Tento la soluzione, sbaglio e il suono diventa più aggressivo. Riprovo, sbaglio ancora e il suono muta in un urlo digitale. Piangendo in preda al panico lo batto contro il tavolino per distruggerlo quando oramai è una sirena antiaerea che mi fa tremare le otturazioni. Il dannato attrezzo segnala all’NSA un comportamento antiamericano e si disattiva. Per un istante assaporo il silenzio. Faccio un respiro, scendo. Appoggio il piede sulla coda del cane che detona in una selva di latrati e sveglia l’intero condominio, scatenando un tamburellare di pareti a destra, sinistra, sopra e sotto. Ovattati vaffanculi provenienti dagli altri appartamenti mi accompagnano al cesso. Rilascio la vescica un istante prima di ricordare che è mattina, quindi il prepuzio è incollato. Faccio solo in tempo a urlare “N..” poi lo vedo gonfiarsi come un pallone ed esplodere in un caleidoscopio di schizzi che vanno ovunque tranne nella direzione giusta. Ricalibro il tiro non prima di essermi pisciato in faccia, nell’occhio, sulla tavoletta, sulle riviste di moda oramai cementate, sulla vasca. Espello il restante alla cieca, il cane entra e tenta di farmisi la gamba. Lo scaccio e la spinta mi sbilancia. Mia moglie mi trova disteso per terra che singhiozzo col cazzo di fuori e il cane che mi scopa la testa.

Posso fare colazione.

In cucina guardo con nostalgia la macchinetta del caffè a capsule che non viene ricaricata dal 2009. Il motivo è che i rivenditori sono tre in tutto l’universo e hanno prezzi da gioielleria con cui hanno violato ogni mio orifizio. Carico la moka dal manico liquefatto. Bevo, fumo, cago pensando a pensare, mi lavo ed esco il pulcioso. Si tratta di una dolorosa maratona il cui premio consiste nel raccogliere merda calda con le mani e gettarla nel cestino. Nell’attesa che la bestia si decida ad espellere l’abominio di soldi che mangia consulto sullo smartphone l’età media di un cane, anelando la tragedia. Il canide piazza due stronzi monstre, raschia il cemento per coprirla e s’allontana. Ritirato il premio sogno divano e Playstation, ma vedo il mio utero in affitto semestrale che mi guarda con le chiavi della macchina in mano. E’ tempo di andare al centro commerciale.

Muoio dentro.

Partiamo.
Venti metri dopo siamo in coda.

Un SUV sorpassa tutta la fila, giunge al semaforo e mette la freccia per immettersi. Tutte le macchine si compattano in un unico stronzone d’acciaio per non farlo passare. Il SUV dà fiato alle trombe. Dietro di lui si crea una fila di macchine che vorrebbero girare. Suonano anche loro. Il SUV sgasa tentando d’immettersi. Le macchine resistono. Il semaforo diventa rosso e dal nulla appaiono branchi di zingari, cingalesi, slavi focomelici, bambini storpi e immigrati che assaltano le macchine offrendo rose mentre ti lavano il vetro e con il piede mutilato da un capodanno molto vivace chiedono l’elemosina. Scattano le sicure delle portiere. Il tram non può passare perché è ostruito dal SUV. Suona lui, suona il SUV, suona la fila, suono io, suona qualsiasi cosa. Qualcuno mette il cellulare fuori dal finestrino e suona anche quello. Suonano le campane. Il cane, dietro, ulula. Il semaforo diventa verde e gli storpi si lanciano nei tombini prima di venire falcidiati. Con sgasata nervosa il SUV s’immette davanti a tutti e stira tre ciclisti sulle strisce pedonali che si trovavano lì perché le donne con le carrozzine vanno sulla pista ciclabile perché il marciapiede è occupato dai motorini parcheggiati che si trovavano lì perché sui parcheggi dei motorini c’è un furgone dei vigili che stanno mettendo le multe alle macchine in divieto di sosta che sono lì perché hanno rimosso le strisce blu per fare la pista ciclabile.

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L’accesso agli uffici dell’ assessorato mobilità e trasporti di Venezia.

Giunto al parcheggio spengo la macchina, ma la lustramelanzane emette rumori fastidiosi. Siamo troppo distanti dall’ingresso, dice. Dopotutto quest’aspirapolvere di carne paga 50 euro di palestra al mese per fare finta di fare fatica, non può certo fare fatica qui gratis. La corsia di parcheggi centrale è sovraccarica, le altre sono deserte. Faccio notare che c’è il parcheggio sotterraneo. Risponde che è per chi si vergogna della propria macchina. Entriamo.

«Alice in cassa quattro», dice l’altoparlante.

Dentro, famiglie provenienti dalle più remote provincie i cui pargoli leccano il pavimento chiedendo come mai è freddo. Genitori col vestito buono attovagliati nei punti ristoro che sorseggiano mikshake con l’aria di scafati cosmopoliti. Esibizionisti di mezz’età. Donna vestita come una passeggiatrice rumena e marito dieci metri dietro che osserva con occhio arrapato se qualcuno la punta. Hanno passato gli ultimi mesi a preparare questa scenetta sognando i più improbabili rimorchi da parte di aitanti giovanotti. Non avvengono giacché una cinquantenne vestita da troia ventenne può infoiarti se sei abituato a vederla in ciabatte e bigodini; il resto del mondo vomita nel cestino dei rifiuti.

«ALICE»

Proseguo. Il tugurio che deglutisce il mio sperma strattona e squittisce indicando oggetti che vuole io acquisti con carta di credito perché le donne, se non vedono i soldi in mano alla commessa, non te li hanno fatti spendere davvero e si sentono meno in colpa. Le faccio presente che quegli oggetti stonano addosso a butrone che si sono schiantate di Pan di stelle perché “tanto il moroso ce l’hanno già”. Entra in fase silenzio passivo aggressivo nell’attesa io le domandi cos’ha. Mi segno sul telefonino l’orario ottimale in cui farlo e mi godo la pace.

«Alice, ‘sto cazzo di cassa quattro»

Trans sudamericani scatenano il panico tra i mariti con moglie al braccio che si chinano a scrutare etichette nel terrore di essere riconosciuti e salutati. Una bambina di quattro anni vestita come una spogliarellista dice “POCCODDIO”. I genitori ridono felici, sgomitandosi e cercando consensi tra i clienti presenti.

«Alice, ti ucciderò»

Vecchi. A centinaia. Dopo aver girato tutti i supermercati della provincia hanno selezionato il centro d’acquisto prescelto e per risparmiare due centesimi spendono 20 euro di benzina in più. Hanno votato Rifondazione e l’hanno preso nel culo, hanno votato Lega e l’hanno preso nel culo, hanno votato Grillo e il finale non butta bene, così sfogano i propri bisogni di giustizialismo tra gli scaffali di zuppe Knorr. La loro trappola preferita consiste nell’abbandonare il carrello in centro corsia e attendere si crei una fila di gente che smadonna. Appena qualcuno apre bocca o tenta di spostare l’ingombro il vecchio esplode in un vortice di cazzate dove l’Italia è una merda, i giovani fanno schifo e comunque Berlusconi è un puttaniere. Come otto noni dei maschi presenti, lui e me compreso.

«Alice, se non vieni qui subito ti spacco i denti con un ciocco di legno e poi ti stupro con un trapano»

Venditrici promozionali. Uomini e donne vestiti come rincoglioniti che nella vita hanno fatto tutte le scelte sbagliate m’inseguono per proporre prodotti imbarazzanti. Assaggini, caffè, abbonamenti telefonici non rescindibili senza bollo papale. Vivono sottomessi da capivendita che si credono Gordon Gekko, praticano la PNL e pippano più bamba di Fiorello quando faceva ridere. Incrocio lo sguardo di questi minions e vedo persone che si addormentano davanti a Badoo convinti di stare seducendo una lesbica di vent’anni. Non sanno che sono io, che non so che sono loro. Dieci anni a farmi le seghe con un altro imbecille.

«Alice, se non vieni qui immediatamente t’ammazzo a bastonate, brucio il corpo e mi fumo le ceneri con un magrebino di Secondigliano che poi mi tromba il culo e ti sborra nell’urna»

Zingari. Non serve vederli per sapere che ci sono. Basta notare che tutti gli uomini presenti si tastano il portafogli con discrezione, rivelando dove si trova. Appena passano si tranquillizzano. Gli onesti cittadini tornano a intascare mozzarelle, sughi, deodoranti, spazzolini, caramelle. Se notano che li guardo fingono di leggere l’etichetta da vicino. Questa, per esempio, esamina con attenzione i valori nutritivi di un portasaponette. Mi giro dall’altra parte. Un uomo nasconde una piantina di basilico sotto la giacca appoggiata al carrello. Vede che lo vedo. Finge di sistemarla bene in bella vista. Mi giro a sinistra. Un uomo ha una confezione di tortellini sotto il maglione. Mia moglie s’infila un sacchetto d’aglio nella manica del cappotto. Prendo uno yogurt e me lo intasco. Alle mie spalle c’è un colpo di tosse. E’ l’addetto alla sicurezza. Un giorno l’onestà andrà di moda, dico. Annuisce. Appoggio lo yogurt.

«ALICE GIURO SU DIO»

Terminati gli acquisti possiamo metterci in fila per le casse. Ce ne sono ventisette, di cui venticinque chiuse, una con una cassiera dall’aria stravolta e una che sta spiegando a un vecchio isterico che la carta fedeltà COOP non è valida all’Auchan. Il solo avvicinarmi scatena il panico nella fila. Gli spazi si compattano e c’è un teso silenzio, occhiate torve che studiano la posizione dei miei piedi per vedere se per caso guido un SUV. Davanti, una donna crede la gente la giudichi in base a quello che ha comprato, mentre la giudica in base alla velocità con cui mette la sua merda sul nastro. Le casse automatiche sono intasate da gente che tenta di rubare tutto nei modi più disparati. Uno scarno sette percento viene fermato, tutto il resto esce a valanga con refurtive di ogni tipo. Vedo un distinto signore che sfila i lacci dalle scarpe in esposizione e se li infila in tasca.

Tornato a casa vorrei solo svenire con in mano il controller della Playstation, ma è ora di vincere un altro premio alla maratona canina. Rientro, mi distendo sul divano. Posso rilassarmi. Suona l’allarme del cellulare. Guardo. Ah, già.

«Cos’hai?» chiedo.
«Niente» risponde lei.

Orfani, un fumetto che dovete far leggere a vostro figlio

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E’ uscito in edicola Orfani, il nuovo fumetto della Bonelli concepito e realizzato da Roberto Recchioni. E’ scorrevole, ha disegni fichissimi e colori da orgasmo retinico. Soprattutto, è qualcosa di nuovo. Da quel poco che ne capisco, le ultime produzioni della Bonelli erano maldestri tentativi di fare Tex gggiovane. Orfani m’è piaciuto subito perché non vuole cercare di piacere. Non coccola i lettori di Tex, non racconta storielle dell’orrore per spompinare quelli di Dylan Dog. Si presenta dicendo “questo sono io, sul west e su craven road ci cago sopra, vaffanculo”.

Il che, ammetterete, è un inizio interessante.

E’ ambientata nel futuro post invasione aliena e si divide in due tronconi, passato e presente. Nel passato vediamo un’apocalisse, dei soldati che tirano fuori dalle macerie dei ragazzini e li mettono in un programma d’addestramento intensivo. Nel presente, i ragazzini sono cresciuti e spaccano il culo agli alieni in una task force speciale chiamata, appunto, “Orfani”. Il loro motto è che non fanno arte, fanno cadaveri e in effetti ce ne sono una marea.

Ho iniziato a leggere Tex da piccolo. Essendoci tutta la collezione in casa me lo leggeva mio padre, tenendomi in braccio e partendo dal primo numero. Io guardavo le figure e lui recitava le battute. Poi sono cresciuto e lo leggevo per i fatti miei, parlando con lui dell’ultima puntata. Quando è morto ho smesso di comprarlo. L’ultimo numero è del gennaio 2013, e in sostanza definisce tutta la mia vita col mio vecchio. Sarebbe fico che un giorno mio figlio si sieda sulle mie ginocchia chiedendomi di leggergli il primo albo di Orfani. Del resto dubito un bambino nato nel 2020 si possa appassionare ai cowboy, o forse lo spero.

Dateci una letta, o regalatelo a vostro figlio.
Anche a vostra figlia, se legge Twilight. Magari si sveglia fuori.

Ho trovato me stesso mentre mia moglie emetteva peti in barattolo

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Bar Verdi, Mestre, ora d’aperitivo. In piedi tra birra, spritz e altri infreddoliti party-giani come noi chiacchieriamo del solito rilassante nulla. Maschi presenti io, Luca, Atza, Ario. Donne presenti Leonora, Pamela, Claudia e il nuovo acquisto della banda, tale Giulia, trentenne mollata dal moroso alle soglie della convivenza che fa la stronza per nascondere le ferite e la paura del futuro. Le ragazze giurano e spergiurano che quando non ci sono uomini è adorabile. Boh.

«Che fate ‘sto fine settimana?» domanda Claudia.
«Riesco a portare la Pamela allo stadio per la prima volta» annuncia Atza con orgoglio.
«Eccitante» commenta Giulia.
La ignoriamo.

«Noi ci spacchiamo in un agriturismo dalle parti di Padova, venite?»
«Nebo e Leo?»
«Trieste»
«Avete mai contemplato il concetto della coscienza di sé?» chiede Ario.

Bicchieri si fermano a mezz’aria.

«A che spritz sei?» chiedo.
«Rispondi»

«Ario, funziona così, ci si trova a fine giornata per non pensare a niente, dire cazzate e dimenticare che il nostro stipendio serve per pagare la raccolta differenziata»
«E quei bastardi dell’ACEGAS» precisa Atza «l’anno scorso 1100 euro. Quest’inverno attacco il riscaldamento al limite del sonno criogenico»

«No» scuote la testa Ario «diciamo puttanate perché conosciamo troppo bene i nostri difetti e se provassimo a dire cose sincere l’amicizia che ci lega se ne andrebbe affanculo. Già ci facciamo schifo, vedere che gli altri vedono in noi le stesse cose sarebbe intollerabile. Quindi non sto parlando del fatto che Atza non riesca ad ammettere di essere gay o di Nebo che ci ha tenuto nascosto per due anni che suo padre stava male perché non si fida di noi, o di Pamela che ha messo le corna con Luca la volta che l’ha accompagnata a casa. O del fatto che le donne presenti dicono cose orribili ai relativi morosi di quelle che qui baciano e abbracciano. O del fatto che passo metà della vita distrutto di droga perché sono un fallito con una vita di merda che ha mollato scuola a tredici anni credendomi furbo. Cioè, se volete parliamo di quello, ma io volevo sapere se voi coglioni avete mai pensato alla coscienza. A cosa ci fa essere noi e non qualcun altro. Cosa ci rende unici. Di cosa volete parlare?»

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Intervallo.

La cameriera si ferma con la mano a mezz’aria e gli occhi sgranati. Ario senza guardarla prende il bicchiere vuoto e glielo mette in mano. Lei non raccoglie gli altri e se ne va di fretta. Stiamo ancora cercando qualcosa da dire quando nella mano di Ario appare per magia un’altra birra. Non ringrazia e continua a fissarci.

«Sei veramente un animale, Ario» mormora Pamela.
«Allora parliamo di come ci sono arrivato»
«NO!» gridiamo tutti insieme.
Ride compiaciuto, annuendo.

«Illuminaci, cosa vuoi che ti dica» sbuffo, sedendomi.
«Ieri sera ho visto un film con svarznegher che c’erano i cloni e siccome ero fatto come un cavallo mi sono messo a pensare»

«Un prologo degno dell’Iliade»

«Vi siete mai chiesti cosa ci rende noi? Come facciamo a sapere di essere davvero noi e non qualcun altro? Se metti che mi clonassero uguale uguale, quale sarebbe l’originale? Quale sarei io? Mi potrei riconoscere? TU, mi riconosceresti? Sarei sempre io? Abbiamo coscienza di noi stessi. Sappiamo di essere noi e non qualcun altro. Ma è così? Noi siamo davvero noi? Dunque ho chiesto a mia moglie di scorreggiare nel barattolo del caffè»

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A Luca cade lo spritz sulle braghe. Io sussulto. Un tizio alle mie spalle sputa la birra tra convulsioni di tosse. La cameriera inciampa. Una macchina inchioda e si schianta contro il palo della luce nell’indifferenza generale. Il pilota con la testa sanguinante abbassa il finestrino e si sporge per sentire meglio.

«E’ così» annuisce, sorseggiando la birra con aria assente «era l’unico modo»
«Prosegui, ti prego» dice Luca, asciugandosi con le salviette.
«Tieni» fa un tizio mai visto prima porgendogli dei fazzoletti.
Luca li prende.

«Scusa, possiamo sederci in due?» chiede una donna alla Leo.
Annuisce.

«Avete presente quel fenomeno per cui scorreggi fetido, tutti hanno sforzi di vomito ma tu no? Anzi, te ne compiaci. E’ un ottimo odore, non ti infastidisce per niente. Lo senti diverso, perché è tuo. Allora mi sono chiesto: se un mio clone scorreggiasse, il tanfo mi darebbe fastidio o no? Quella sarebbe la prova definitiva che io sono io. Quindi ho preso due barattoli di caffè vuoti, sotto ci ho scritto A e B. Ho chiesto a mia moglie di scorreggiare dentro uno e lei l’ha fatto»

«Non ci credo che hai convinto tua moglie a scoreggiare in un barattolo» mormora la Leo.
«Mia moglie fa tutto quello che dico io, se vuole continuare a trombarsi il personal trainer»
«Ma tua moglie ogni tanto te la scopi anche tu?» chiede la Giulia.

«Di rado, mi fa fatica. Andiamo avanti a leccate di passera e pompini, il lavoro pesante lo faccio fare al sottoproletariato che io devo giocare a GTA»
«Ma che razza di matrimonio è?!»
«Felice. Tu a trent’anni hai uno che ti sposa? No. Quindi sono il più esperto in materia, come su quasi tutto. Altre obiezioni?»

«Ma come ti permetti?!» sbotta Giulia.
«Si sente l’odore della tua passera»
«…cosa?» chiede, mentre il suo viso diventa rosso carminio.
«Dico, si sente l’odore della tua passera. Non ti sei cambiata le mutande, solo i jeans, pensando che tanto non ti deve trombare nessuno. Si sente»

Giulia per un attimo rimane immobile, poi prende e se ne va.
Nessuno la segue.

«Davvero…?» inizia la Leo.
«No, sfigati, non sentivo niente. Ma tanto è così per tutte le donne single, ho sparato a caso. Posso andare avanti?»
«E vai avanti» gemo.

«Allora, lei scorreggia nel barattolo del caffè e lo richiude subito. Io appena mi viene faccio lo stesso in un barattolo identico. Sotto scrivo col pennarello A e B, poi li mescolo a occhi chiusi. Ora non so quale sia il mio e quale sia il suo, ci siete?»

Atza annuisce.
Nel bar Verdi il silenzio è imponente.

«Bene. A quel punto apro e annuso prima uno e poi l’altro. Indovinate? Indistinguibili. Facevano da cagare tutti e due. Roba tremenda, eh, mia moglie mangia quasi solo erba che le fermenta e fa la merda verde che paiono ghirlande di natale. Comunque, indistinguibili. Ergo, l’odore dei nostri peti è nostro solo perché lo sappiamo. Se ci clonassero non esisterebbe più un originale o una copia. Non ci sarebbe un prima o un dopo. L’anima non esiste e io sono io solo finché voglio credere di esserlo. L’essenza dell’uomo, in sostanza, sono i suoi limiti. Di conseguenza è per questo che non troviamo il senso della vita, perché la risposta travalica la nostra identità e quindi la capacità di comprenderla»

Nessuno fiata. 

 

 

 

 

 

 

«Questo è il mio numero di telefono» sorride la cameriera, consegnandogli platealmente una salvietta «quando vuoi, dove vuoi, come vuoi, non c’è problema. Altra birra?»
«Altra birra»

Quello che non siamo

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Disoccupazione, pressione fiscale, crollo del PIL, delocalizzazione delle aziende, ILVA, Siria. Cosa sta succedendo adesso in Libia? E in Egitto? Che ne è della primavera araba? Dove sono finiti i clandestini che la Francia ha respinto

Non ce ne frega un cazzo.

Ci sono cose più urgenti a cui badare, e non parlo solo di argute satire sul cagnolino Dudù. Il manager della Barilla ha recentemente dichiarato a La Zanzara che non farà mai una pubblicità con dentro una famiglia gay. L’Italia piomba nel panico. Se fosse stato zitto e avesse continuato a fare i soliti spot qualcuno se ne sarebbe accorto? No. Sugli scaffali dei supermercati esistono milioni di prodotti che non hanno mai messo famiglie gay nelle loro reclame. Il Listerine, gli assorbenti, il deodorante, l’ammorbidente, i crackers Doriano, i profumi. Ci sono gay? No. Negli spot delle altre marche di pasta ci sono famiglie gay? No. Ce n’è mai fottuto qualcosa?

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Sì, adesso le aziende la cui materia prima è la miseria umana si affrettano a capitalizzare sui gay reclamizzandoli a destra e a manca, ma è tutto qui. Allora perché tanto agitarsi? Ve lo spiego con un’immagine.

 

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Linda posta questa foto per mostrare la cover del suo telefonino, non certo per esibire quel culo da scopata a secco contro il muro della doccia. Vediamo ora una carrellata dell’Italia indignata.

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Per lo spot, sguardo sexy e posa sono ottime. Incrocia le dita Enzo, se tutto va bene ti chiameranno!!

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Tratteniamo a stento le lacrime.

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Ore di Photoshop per giocarsi tutto nella grande lotteria del trending topic e mi produci ‘sta merda? Eddai, Reno. Almeno depilati le ascelle.

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In diretta da un “centro massaggi” della Thailandia, Matte ha aggiunto “a me piace la figa quindi posso mangiare Barilla senza problemi”. La luce che hai negli occhi non ci lascia dubbi 

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Lo sguardo compiaciuto di chi in fila per il provino del GF sa di poter vincere ci emoziona e coinvolge tutti. Perché cazzo sia vestito da piccolo esquimese dentro casa il 26 di settembre con 21°, tuttavia, rimane un mistero.

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Voglio reclutare un centinaio di lettori e presentarmi a questa straordinaria conferenza suonando vuvuzelas dall’inizio alla fine.

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Sfrante gettano sdegnate pacchi di pasta nella monnezza in un video coinvolgente. Lo proietteremo da dei dirigibili sopra il cielo del Burkina Faso, con in sovrimpressione CHI LO PRODUCE NON METTE IL MIO ORIENTAMENTO SESSUALE NELLA PUBBLICITA’.

Bene. Ora attiviamo il filtro anticazzate e riassumiamo:

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E’ insomma il classico caso di Italia che s’indigna, s’ingegna, s’impegna e poi getta la spugna con gran dignità. Domani ci saranno altre Grandi Cause per cui autoscattarsi, ma oggi bisogna gridare al mondo la nostra emancipazione. Cristo, per la visibilità va benissimo anche la luce dell’obitorio e noi siamo grandi esperti di fanatismi a Co.Co.Pro.

Ora, essendo io un palestrato con blog, pagina Facebook e profilo Twitter, mi sono chiesto come mai la gente sia tanto egocentrica. 

Credo faccia parte di quel fastidio di vivere di cui parlava Mishima prima di affondare la faccia nel proprio intestino. Un movimento, uno schieramento politico, una squadra di calcio, una categoria professionale o una causa comune danno un’identità, specie a questo nostro strano popolo che l’identità la tiene nel beauty da viaggio. Forse il modo più facile per riconoscere cosa siamo è stabilire cosa non siamo. Omofobi, sessisti, razzisti, classisti, snobisti, fascisti, violenti, sono termini di comune accettazione negativa. Vai da un notav che ha appena spaccato il casco di un carabiniere e dirà “io non sono violento ma”. Vai da un leghista, “io non sono razzista ma”. Snobbiamo quelle notizie che non hanno uno schieramento definito. Se m’interesso all’ILVA cosa penseranno di me? Sono di destra? Di sinistra? Complottista? Non è chiaro, quindi scrollo...

Se però gli animalisti liberano 100 topi so benissimo da che parte stare, una o l’altra che sia. Un etero avrebbe migliaia di cause da abbracciare, ma questa gli permette di affermare cosa non è – quindi chi èPrendete i vegetariani. O l’UAAR. Chi è che non gioca a calcio ma crea una pagina per dire “il calcio fa cagare”? Non ci gioco e basta, farò altro. No. Spendi soldi in pubblicità che recitano “Dio non esiste”. Imbastisci gazebi per far sbattezzare la gente, organizzi riunioni, meeting e pellegrinaggi al CiCAP. Ha senso se una cosa ti piace, ma ti stai sputtanando il weekend per trovarti con degli sconosciuti a parlare male di qualcosa, capisci?

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OPZIONE WEEKEND “PARLIAMO MALE DI CHI CREDE IN QUALCOSA”

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(viaggio in amena località balneare con pullman di vecchi, 70 euro. Colletta per striscione plastificato, 20 euro. Albergo, 80 euro. Conto alla romana del ristorante con cicciona, 500 euro. Rientro a tarda notte con Piero Angela in surround senza possibilità di disattivazione, gratis)

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OPZIONE WEEKEND “AMORE, STASERA FESTA ERASMUS A VENEZIA?”

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(Consumazioni, 30 euro. Pensare a Piero Angela per durare di più, gratis. Colazione per tre a letto, 9.40 euro)

Scegliere la prima opzione significa che ci tieni molto, o che non puoi mangiare pasta Barilla. Una volta eravamo quello che credevamo. Poi quello che avevamo.

Oggi siamo quello che non siamo.