E’ domenica.

1239536_10200469849209028_215547603_n

La sveglia sul cellulare mi strappa dal sonno a sberle. Tento di spegnerla, un bagliore accecante mi brucia la cornea e mi propone un quiz matematico. Tento la soluzione, sbaglio e il suono diventa più aggressivo. Riprovo, sbaglio ancora e il suono muta in un urlo digitale. Piangendo in preda al panico lo batto contro il tavolino per distruggerlo quando oramai è una sirena antiaerea che mi fa tremare le otturazioni. Il dannato attrezzo segnala all’NSA un comportamento antiamericano e si disattiva. Per un istante assaporo il silenzio. Faccio un respiro, scendo. Appoggio il piede sulla coda del cane che detona in una selva di latrati e sveglia l’intero condominio, scatenando un tamburellare di pareti a destra, sinistra, sopra e sotto. Ovattati vaffanculi provenienti dagli altri appartamenti mi accompagnano al cesso. Rilascio la vescica un istante prima di ricordare che è mattina, quindi il prepuzio è incollato. Faccio solo in tempo a urlare “N..” poi lo vedo gonfiarsi come un pallone ed esplodere in un caleidoscopio di schizzi che vanno ovunque tranne nella direzione giusta. Ricalibro il tiro non prima di essermi pisciato in faccia, nell’occhio, sulla tavoletta, sulle riviste di moda oramai cementate, sulla vasca. Espello il restante alla cieca, il cane entra e tenta di farmisi la gamba. Lo scaccio e la spinta mi sbilancia. Mia moglie mi trova disteso per terra che singhiozzo col cazzo di fuori e il cane che mi scopa la testa.

Posso fare colazione.

In cucina guardo con nostalgia la macchinetta del caffè a capsule che non viene ricaricata dal 2009. Il motivo è che i rivenditori sono tre in tutto l’universo e hanno prezzi da gioielleria con cui hanno violato ogni mio orifizio. Carico la moka dal manico liquefatto. Bevo, fumo, cago pensando a pensare, mi lavo ed esco il pulcioso. Si tratta di una dolorosa maratona il cui premio consiste nel raccogliere merda calda con le mani e gettarla nel cestino. Nell’attesa che la bestia si decida ad espellere l’abominio di soldi che mangia consulto sullo smartphone l’età media di un cane, anelando la tragedia. Il canide piazza due stronzi monstre, raschia il cemento per coprirla e s’allontana. Ritirato il premio sogno divano e Playstation, ma vedo il mio utero in affitto semestrale che mi guarda con le chiavi della macchina in mano. E’ tempo di andare al centro commerciale.

Muoio dentro.

Partiamo.
Venti metri dopo siamo in coda.

Un SUV sorpassa tutta la fila, giunge al semaforo e mette la freccia per immettersi. Tutte le macchine si compattano in un unico stronzone d’acciaio per non farlo passare. Il SUV dà fiato alle trombe. Dietro di lui si crea una fila di macchine che vorrebbero girare. Suonano anche loro. Il SUV sgasa tentando d’immettersi. Le macchine resistono. Il semaforo diventa rosso e dal nulla appaiono branchi di zingari, cingalesi, slavi focomelici, bambini storpi e immigrati che assaltano le macchine offrendo rose mentre ti lavano il vetro e con il piede mutilato da un capodanno molto vivace chiedono l’elemosina. Scattano le sicure delle portiere. Il tram non può passare perché è ostruito dal SUV. Suona lui, suona il SUV, suona la fila, suono io, suona qualsiasi cosa. Qualcuno mette il cellulare fuori dal finestrino e suona anche quello. Suonano le campane. Il cane, dietro, ulula. Il semaforo diventa verde e gli storpi si lanciano nei tombini prima di venire falcidiati. Con sgasata nervosa il SUV s’immette davanti a tutti e stira tre ciclisti sulle strisce pedonali che si trovavano lì perché le donne con le carrozzine vanno sulla pista ciclabile perché il marciapiede è occupato dai motorini parcheggiati che si trovavano lì perché sui parcheggi dei motorini c’è un furgone dei vigili che stanno mettendo le multe alle macchine in divieto di sosta che sono lì perché hanno rimosso le strisce blu per fare la pista ciclabile.

BU_l7fICIAAIBC9

L’accesso agli uffici dell’ assessorato mobilità e trasporti di Venezia.

Giunto al parcheggio spengo la macchina, ma la lustramelanzane emette rumori fastidiosi. Siamo troppo distanti dall’ingresso, dice. Dopotutto quest’aspirapolvere di carne paga 50 euro di palestra al mese per fare finta di fare fatica, non può certo fare fatica qui gratis. La corsia di parcheggi centrale è sovraccarica, le altre sono deserte. Faccio notare che c’è il parcheggio sotterraneo. Risponde che è per chi si vergogna della propria macchina. Entriamo.

«Alice in cassa quattro», dice l’altoparlante.

Dentro, famiglie provenienti dalle più remote provincie i cui pargoli leccano il pavimento chiedendo come mai è freddo. Genitori col vestito buono attovagliati nei punti ristoro che sorseggiano mikshake con l’aria di scafati cosmopoliti. Esibizionisti di mezz’età. Donna vestita come una passeggiatrice rumena e marito dieci metri dietro che osserva con occhio arrapato se qualcuno la punta. Hanno passato gli ultimi mesi a preparare questa scenetta sognando i più improbabili rimorchi da parte di aitanti giovanotti. Non avvengono giacché una cinquantenne vestita da troia ventenne può infoiarti se sei abituato a vederla in ciabatte e bigodini; il resto del mondo vomita nel cestino dei rifiuti.

«ALICE»

Proseguo. Il tugurio che deglutisce il mio sperma strattona e squittisce indicando oggetti che vuole io acquisti con carta di credito perché le donne, se non vedono i soldi in mano alla commessa, non te li hanno fatti spendere davvero e si sentono meno in colpa. Le faccio presente che quegli oggetti stonano addosso a butrone che si sono schiantate di Pan di stelle perché “tanto il moroso ce l’hanno già”. Entra in fase silenzio passivo aggressivo nell’attesa io le domandi cos’ha. Mi segno sul telefonino l’orario ottimale in cui farlo e mi godo la pace.

«Alice, ‘sto cazzo di cassa quattro»

Trans sudamericani scatenano il panico tra i mariti con moglie al braccio che si chinano a scrutare etichette nel terrore di essere riconosciuti e salutati. Una bambina di quattro anni vestita come una spogliarellista dice “POCCODDIO”. I genitori ridono felici, sgomitandosi e cercando consensi tra i clienti presenti.

«Alice, ti ucciderò»

Vecchi. A centinaia. Dopo aver girato tutti i supermercati della provincia hanno selezionato il centro d’acquisto prescelto e per risparmiare due centesimi spendono 20 euro di benzina in più. Hanno votato Rifondazione e l’hanno preso nel culo, hanno votato Lega e l’hanno preso nel culo, hanno votato Grillo e il finale non butta bene, così sfogano i propri bisogni di giustizialismo tra gli scaffali di zuppe Knorr. La loro trappola preferita consiste nell’abbandonare il carrello in centro corsia e attendere si crei una fila di gente che smadonna. Appena qualcuno apre bocca o tenta di spostare l’ingombro il vecchio esplode in un vortice di cazzate dove l’Italia è una merda, i giovani fanno schifo e comunque Berlusconi è un puttaniere. Come otto noni dei maschi presenti, lui e me compreso.

«Alice, se non vieni qui subito ti spacco i denti con un ciocco di legno e poi ti stupro con un trapano»

Venditrici promozionali. Uomini e donne vestiti come rincoglioniti che nella vita hanno fatto tutte le scelte sbagliate m’inseguono per proporre prodotti imbarazzanti. Assaggini, caffè, abbonamenti telefonici non rescindibili senza bollo papale. Vivono sottomessi da capivendita che si credono Gordon Gekko, praticano la PNL e pippano più bamba di Fiorello quando faceva ridere. Incrocio lo sguardo di questi minions e vedo persone che si addormentano davanti a Badoo convinti di stare seducendo una lesbica di vent’anni. Non sanno che sono io, che non so che sono loro. Dieci anni a farmi le seghe con un altro imbecille.

«Alice, se non vieni qui immediatamente t’ammazzo a bastonate, brucio il corpo e mi fumo le ceneri con un magrebino di Secondigliano che poi mi tromba il culo e ti sborra nell’urna»

Zingari. Non serve vederli per sapere che ci sono. Basta notare che tutti gli uomini presenti si tastano il portafogli con discrezione, rivelando dove si trova. Appena passano si tranquillizzano. Gli onesti cittadini tornano a intascare mozzarelle, sughi, deodoranti, spazzolini, caramelle. Se notano che li guardo fingono di leggere l’etichetta da vicino. Questa, per esempio, esamina con attenzione i valori nutritivi di un portasaponette. Mi giro dall’altra parte. Un uomo nasconde una piantina di basilico sotto la giacca appoggiata al carrello. Vede che lo vedo. Finge di sistemarla bene in bella vista. Mi giro a sinistra. Un uomo ha una confezione di tortellini sotto il maglione. Mia moglie s’infila un sacchetto d’aglio nella manica del cappotto. Prendo uno yogurt e me lo intasco. Alle mie spalle c’è un colpo di tosse. E’ l’addetto alla sicurezza. Un giorno l’onestà andrà di moda, dico. Annuisce. Appoggio lo yogurt.

«ALICE GIURO SU DIO»

Terminati gli acquisti possiamo metterci in fila per le casse. Ce ne sono ventisette, di cui venticinque chiuse, una con una cassiera dall’aria stravolta e una che sta spiegando a un vecchio isterico che la carta fedeltà COOP non è valida all’Auchan. Il solo avvicinarmi scatena il panico nella fila. Gli spazi si compattano e c’è un teso silenzio, occhiate torve che studiano la posizione dei miei piedi per vedere se per caso guido un SUV. Davanti, una donna crede la gente la giudichi in base a quello che ha comprato, mentre la giudica in base alla velocità con cui mette la sua merda sul nastro. Le casse automatiche sono intasate da gente che tenta di rubare tutto nei modi più disparati. Uno scarno sette percento viene fermato, tutto il resto esce a valanga con refurtive di ogni tipo. Vedo un distinto signore che sfila i lacci dalle scarpe in esposizione e se li infila in tasca.

Tornato a casa vorrei solo svenire con in mano il controller della Playstation, ma è ora di vincere un altro premio alla maratona canina. Rientro, mi distendo sul divano. Posso rilassarmi. Suona l’allarme del cellulare. Guardo. Ah, già.

«Cos’hai?» chiedo.
«Niente» risponde lei.