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Per la visibilità va benissimo anche la luce dell’obitorio
Uno dei motivi per cui il popolo della rete non sarà mai elevato oltre il rango di “scimmie che berciano defecandosi addosso” è la sua capacità di rinnovarsi. La rete è un torrente di diarrea il cui suono affascina ed ipnotizza: sempre uguale, ma sempre diverso. Non è strano. La bellezza stanca presto, l’osceno invece è immortale. Prendete il film 300: vi ricordate Leonida e basta. Nell’esercito di Serse ci ricordiamo i grassoni con le mani a coltello, le lesbiche sfregiate, il gigante handicappato, la mutilata ingioiellata e soprattutto la capra col mandolino che meritava almeno una nomination agli Oscar.
Quando la Costa Concordia è affondata ci sono state famiglie che non sapevano se i loro fidanzati, i loro figli (o i loro cani, così empatizzate meglio) erano vivi o morti. Ci sono stati atti di eroismo ed altruismo, storie grandiose nella loro umanità. Sacrificio, coraggio, amore, tenerezza, empatia, abnegazione. Non solo tra le forze armate intervenute, ma tra persone qualsiasi che trovatisi lì hanno dato prova di immenso coraggio.
Di cui parlano di striscio solo alcune testate.
La stragrande maggioranza della rete ha preferito lavorare alla parodia di una telefonata tra De Falco e Schettino, un militare che dal proprio ufficio latra ordini ad un civile sotto shock e mezzo assiderato diventa “un eroe”, un “modello per tutti”: oh, se solo i nostri politici fossero come De Falco, piange la rete, se solo fossimo governati da uomini che non hanno idea della situazione in cui ci troviamo e pretendono sacrifici che non siamo in grado di fare. Nell’eccitamento generale donne si sono fotografate seminude con scritto “De Falco sposami” o “andiamo tutte a darla al comandante De Falco“. Poi suonerie, magliette, meme divertentissimi, remix originalissimi in un crescendo di strilli eccitati; contemporaneamente sull’isola del Giglio persone morivano di ipotermia chiuse dentro cabine di acciaio senza finestrini o affogavano nel buio sentendo l’acqua che entrava e le voci fuori che sparivano fino a lasciarli soli.
C’è qualcosa di male in questo?
Boh. Però se non puoi far nulla, tanto vale riderci su.
La diarrea comincia a sbordare dal vasino quando arriva la solidarietà, ossia l’egocentrismo patologico delle scimm del popolo della rete che per avere un riflettore addosso non esiterebbe a strapparlo dalle mani di un anatomopatologo al lavoro. Oggi con il terremoto Twitter è intasato di stronzi qualsiasi che maiuscoleggiano “RETWETTATE!!”, verbo che su Facebook è “condividi”, ed ai tempi delle catene di Sant’Antonio era “spedisci”.
– Ho appena copiato i numeri utili dal sito dell’ANSA, mi retwettate per piacere? #terremoto
– Ciao Barbara d’Urso sn una tua grande fan, mi retwetti? Numero utile per #terremoto 98690965654
– Invento una cazzata tipo finti tecnici sciacalli per farmi retwettare, tanto chi cazzo verifica? #terremoto
– PRONGOPO 1 MIN D SILENZIO IN TV X LE VITTIME DL TREREMOTO RETWETTATE!!!!!!
– Spinoza.it (e soprattutto gli emuli).
Lo scopo rimane quello di gettarsi sopra il cadavere, sporcarsi di sangue e farsi l’autoscatto su Instagram sperando questo raggiunga gli occhi di quanta più gente possibile, magari VIP. Una specie di cavallo di Troia della merda.
E’ quindi d’uopo aggiornare biografia (aggiungendo new journalist) e foto profilo (tre quarti dall’alto invece che scarpe da zoccola), pulire dove passa il prete, togliere i copridivani e tirare fuori le posate buone. Così si raggiungono picchi straordinari di solidarietà: se sei stato retwettato più di cinquanta volte e dei giornalisti ti seguono puoi dirti soddisfatto. Hai contribuito attivamente a questa immane tragedia che tutti paralizza e sgomenta. E ora via, a salvare il mondo altrove. Internet non dorme mai.
La vera trama di John Carter
“Bastardo” dice l’uomo bellissimo con questo sguardo. |
Alex
“Ut sit magna, tamen certe lenta ira deorum est”
(Anche se grande, l’ira degli dei di sicuro è lenta)
Lost
Nel 1990 tutti quelli che non avevano voglia di fare un cazzo dopo 20 anni di discoteca, bamba e lifestyle tipo “Vacanze di natale 1986” decisero di aprire un’azienda col ragionamento “se assumo gente io faccio lo re e loro fanno il lavoro, non mi servono competenze”. Al re per aprire un’azienda serviva un capitale iniziale.
Non aveva neanche quello, così andava dalle banche pretendendo gli dessero, sostanzialmente, i proventi dei risparmi altrui. Le banche lo fanno. Ai vari re viene così data la possibilità di creare microaziende incapaci, incompetenti, inutili, che campicchiano giusto quello che serve per pagare le spese. Sono aziende che sfruttano tutto lo sfruttabile da chi ci lavora, evadono le tasse e campano grazie al sudore di stagisti, Co.Co.Co, Co.Co.Pro e contratti a chiamata. Tutti in nero. I giovani eseguono, ben consapevoli che alla prima alzata di testa scatterà la frase “uè sbarbi, se non ti va bene vattene, c’ho la fila fuori di stronzetti neolaureati pronti a fare ‘sto lavoro per meno”.
Chi sono, questi in fila?
Si chiamano tutti Alex.
Alex ha 26 anni, una laurea qualunque, scarica casse al mercato in nero col capoccia che gonfia i prezzi, parrucca la merce e non batte scontrini. Alex a 45 anni s’è trovato in strada perché l’azienda ha finto di fallire ed ha riaperto con operai stranieri. Non gli rinnovano il contratto. Alex, due lauree in lingue, lavora come commessa in aeroporto per 800 euro al mese. Gli straordinari non vengono pagati né dichiarati. Quando protesta, le dicono che se ne vada pure perché c’è la fila di laureatine che farebbero questo lavoro per meno. Alex ha appena finito un master in economia. Le propongono un lavoro di 8 ore al giorno, 5 giorni su 7, a 200 euro al mese.
E’ la migliore offerta che trova. Alex lavora al porto, fa turni di 12 ore. Il suo stipendio è stato massacrato dalle tasse ma è sveglio: vive in un garage ex sala prove, ha una 600 usata, fa fatica e galleggia. Finché non arrivano spese mediche improvvise, perché in quel caso è fottuto. Alex ha l’azienda di famiglia o è fottuto. Alex è un medico brillante ma in Italia non ha trovato posto, racconta al Sole 24 Ore: in Italia i professori anziani non schiodano e ti fanno terra bruciata attorno, a volte addirittura insegnando male per non avere concorrenza.
Grazie ad Alex – che, su carta, non esiste – i microimprenditori comprano ville, Mercedes, vacanze, filippini che gli puliscono il culo, gioielli a mogli e amanti. Sono gli anni d’oro dell’Italia. Hippie tutti kefiah e ganja trovano nell’import export la soluzione ai loro problemi: stanno in Thailandia 6 mesi a scoparsi una zoccola sedicenne con gli occhi a mandorla che passa sopra l’ascella pezzata, la pancetta, l’alito mostruoso e la maleducazione; comprano tonnellate di bigiotteria etnica fatta da manodopera (minorile) e la rivendono al 1200% in Italia perché, eh, la moda alternativa vende. Lo stesso fanno con i sexy shop che spuntano come funghi.
Nara Camicie (Treviso) crea cripte sotterranee alle fabbriche dove far lavorare Alex cinesi. I carabinieri s’insospettiscono al terzo che trovano morto in un canale vicino a quello strano paesino nel trevigiano dove tutti i cartelli stradali sono in italiano e in cinese. Nomi, volti, che non esistono, tutti sotto i diciotto anni.
L’inchiesta è ferma e anche se Alex lavorava al Gazzettino (a 4 euro ad articolo) non ha potuto scriverne.
Bar, negozi d’abbigliamento, pizzerie, sono buchi tutti uguali privi di identità, idee od originalità. Ce ne sono milioni in tutta la penisola. Quelli che non possono sfruttare Alex, sfruttano Hazim. Quelli come Hazim fanno meno i saccenti, non conoscono sindacati, li puoi ricattare con il permesso di soggiorno, pagarli meno, fare magheggi con assicurazioni e contributi. Ad alcuni re va bene: vanno in pensione a 45 anni senza avere mai fatto, davvero, un giorno di lavoro.
Per Alex, invece, la pensione non c’è.
Lavora per pagare quella dello re.
Al governo lo ammettono senza problemi.
The Artist è la storia di un attempato attore del cinema muto che durante una conferenza stampa nota una fan neomaggiorenne che lo idolatra. I giornalisti li fotografano insieme. La moglie dell’attore – ormai vecchia ed inutilizzabile – osa chiedere spiegazioni. Lui risponde giocando con un cagnuolo puccettoso e deridendola. Nel frattempo la sbarbina riesce ad avere una parte in un film dove recita il vecchio. Lei è bella, giovane, libera e allegra mentre lui è sposato e potrebbe essere suo padre.
E’ quindi ovvio che si innamorino.
Mentre la ragazza si strugge d’amore annusandogli i vestiti e sognando di essere abbracciata ad un pensionato i produttori mostrano al geronte i progressi del cinema: è arrivato il sonoro. Lui scuote la testa ridendo di loro e delle loro cazzate modaiole. Non è il futuro, è solo una stupidata da ragazzini. In pochi mesi, difatti, la sbarbina diventa una star dei film parlati facendo un successo strepitoso. Lui si ostina a far faccine buffe nei film muti che non caga più nessuno. Dramma. Noi spettatori ci restiamo male, maledicendo il maledetto progresso: andava tutto così bene, perché hanno dovuto mettere l’audio ai film? Lei ora ha una villa da sogno, macchine strabilianti, soldi a palate, le copertine di tutti i giornali, un fidanzato – orrore! – coetaneo e Hollywood che se la contende.
Ma tranquilli, a lei tutto questo non interessa. No, lei desidera ed ama solo il vecchio. Quando lui mette all’asta i mobili, lei li compra tutti. Quando lui licenzia l’autista, lei lo assume. Quando lui tenta il suicidio, lei lo ospita a casa sua e ricatta i produttori perché gli diano una parte. Loro rispondono picche, ma la ventenne non si dà per vinta: manda affanculo i sogni di tutta una vita per trovare un compromesso e ridare vita al geronte. Finisce a ballare il tip tap con lui che nell’ultimo colpo di scena mostra di avere un difetto di pronuncia. Fine.
Cinque Oscar.
La trama non è molto differente da un qualunque film italiano degli ultimi trent’anni, Vanzina e Neri Parenti compresi: i giovani sono tutti bellocci senz’anima che venerano, ammirano e cercano di emulare ciò che è vecchio. Musica, film, libri, attori, pittori, governi, ideali del passato sono meravigliose reliquie da rivisitare, discutere, idolatrare. I ragazzi fanno gli istruttori di fitness, i commessi o i camerieri. Le ragazze sono studentesse ingenue o puttane che non vedono l’ora di darla a vecchi raggrinziti in cambio di un voto o una vacanza ai caraibi. I cinquantenni, per contro, sono tutte persone di successo. Avvocati, commercialisti, banchieri, ingegneri, medici, notai che scopano questi ragazzini grazie ad un giro di raggiri, truffe e balle vergognose ammiccando e dandosi di gomito. Loro sanno come si sta al mondo. Nel lieto fine gli scaltri anziani si ricongiungeranno al talamo familiare dalla moglie/marito rompicoglioni senza che degli acerbi amanti si sappia più nulla. Sono comparse, corpi senza sentimenti né futuro che una volta utilizzati svaniscono, precipitando da quel breve momento di paradiso giù fino al loro limbo di anonimato e mediocrità.
Incassi a palate.
San Remo, il festival della canzone che tutto il mondo ci invidia, invita più o meno gli stessi ospiti da quella volta. Iva Zanicchi, Celentano, Gianni Morandi, Loredana Bertè troneggiano in mezzo a ragazzini che sì, anche s’impegnano, ma non hanno il talento di Gigi d’alessio. Si vede. Del resto le preselezioni sono state rigorosissime: era prioritario segare qualsiasi emergente che avrebbe tolto luce agli anziani, rischiando di far notare quanto facciano pena. Niente deve guastare un festival dove vecchi circondati da ragazzine seminude si autocelebrano. Per migliorare gli ascolti il prossimo anno è stato suggerito il ritorno di Pippo Baudo come presentatore. Il passato, dicono, è il nuovo futuro. I Pooh sono d’accordo. Il loro nuovo singolo, “Dove tramonta il sole”, dura la bellezza di 11 minuti e 30 secondi. Non è strano: gli anziani diventano logorroici e il più giovane dei Pooh ha 61 anni.
Ad un tratto il giocattolo si rompe.
C’è qualche anno di scompenso, di confusione, di ricerca del capro espiatorio semplice e facile che una volta ucciso rimetterà tutto a posto. Goldstein. Berlusconi. I comunisti. I terroni. Gli statali. Gli immigrati. Qualunque colpevole va bene, pur di non guardare nello specchio del bagno, persino i propri figli. E’ colpa di Alex che è un fannullone, dice uno. E’ colpa di Alex che è un bamboccione, dice l’altro.
Non sa godersi le cose. E’ debole.
Non basta.
Arriva un governo tecnico – l’equivalente economico della legge marziale – e dopo aver fallito ogni altro tentativo ammette di dover iniziare a chiedere le tasse arretrate ai re sparsi per l’Italia. BOOM. Ogni categoria professionale toccata insorge. Persone incapaci, mantenute dallo stato che tanto disprezzano e dai figli che sfruttano, scoprono di non essere intoccabili e che oltre ai diritti c’erano dei doveri. Doveri che hanno abbondantemente ignorato per tutta la loro vita. Lo stato comincia a chiedere a commercianti, bottegai e imprenditori di pagare le tasse che non hanno mai pagato. Quando le banche si rifiutano di prestare soldi a quelle aziende che senza banche non vivevano l’economia collassa. Bar, negozi ed aziendine tutte uguali falliscono, svendono, affittano.
Una generazione che nella propria esistenza non ha mai affrontato nessuna responsabilità né conseguenza delle proprie scelte si trova per la prima volta con le spalle al muro. Reagiscono come hanno sempre fatto: scaricano le colpe e cercano di scappare. Alcuni si suicidano. Altri gettano molotov e minacce contro gli uffici che pretendono i soldi che hanno rubato ad Alex. Giornalisti, colleghi ed amici si stracciano le vesti urlando stato assassino, di tasse si muore, bisogna fare qualcosa, fiaccole, manifestazioni, “salviamo le piccole aziende, salviamo gli artigiani, i piccoli imprenditori”. Un vecchio, costretto da Equitalia a pagare ben mille euro di tasse, prende un fucile, 15 persone in ostaggio e si barrica nella sede di Equitalia.
– Ma perché? – urla, incazzato – ci siamo buttati da un aereo diecimila metri fa e non ci è mai successo niente, perché ora stiamo per schiantarci? Andate a vedere quelli che non le pagano davvero, le tasse, tipo Alex! Io mi vergogno di essere italiano, questo paese è una merda, me ne vado, bisognerebbe fare la rivoluzione! Anzi, Alex, falla tu!
E all’improvviso, per la prima volta, Alex viene interpellato.
Gli hanno preso soldi in busta paga senza chiedere, gli hanno rubato la pensione senza dirglielo, lo hanno sfruttato senza che potesse scegliere, lo hanno deriso senza che potesse replicare, lo hanno fatto suicidare senza che potesse spiegare, gli hanno chiuso facoltà senza che potesse salvarsi, gli hanno mangiato la sua razione senza che potesse difendersi e ora gli chiedono: non provi un po’ di pietà per questi suicidi, Alex?
Questo matrimonio è una strage di stato
A Vittorio Emanuele II dei suoi figli non fregò mai nulla davvero. Appena fu possibile li mollò in affidamento a preti e militari che li educarono come spartani. Sveglia alle 5, messa alle 6, compiti e preghiere, preghiere e compiti fino alle ore 21, nanna. Ogni tanto Vittorio si faceva vedere per un saluto, ma di suo preferiva starsene in un cascinale con Rosina che gli tagliava le unghie dei piedi e le conservava sotto teca. Lui giocava coi suoi cagnuoli bastardi che adorava:
– Sì, papà.
– Ho idea che sposare donne nel pozzo porti male, figliolo.
– La sposo lo stesso.
– Ti ripeto, dare anelli a ragazze nel pozzo non è bene.
Amedeo I se ne frega.
La primavera esplode in tutto il suo rigoglioso splendore sotto un cielo azzurro e limpido. A palazzo decine e decine di camerieri, attendenti, cuochi, sarte, fiorai, valletti e maggiordomi lavorano come formiche ai preparativi della cerimonia. La futura sposa è accerchiata da truccatrici, parrucchiere e damigelle d’onore in fregola, del resto non capita spesso che la tua amica si sposi un principe d’Italia. E’ il momento della prova vestito.
– E’ andata un attimo di là, ha detto che allungava lo strascico. Vado a chiamarla.
– Cos’era quell’urlo? – domanda una dama di compagnia.
– S’è ubriacata?
– No, s’è impiccata.
– Impiccata al lampadario – ripete impassibile, sorseggiando acqua, la nobile.
– Sì.
– Bè, pace all’anima sua, dopotutto era solo una guardarobiera.
– Vero. Solo che vedi, Maria Vittoria, non c’erano corde a disposizione, nella stanza.
E’ così. Non sono neanche le dieci di mattina che la guardarobiera, Dio sa perché, ha deciso di porre fine alla sua indispensabile vita impiccandosi al lampadario col vestito della sposa. Forse non aveva duplicato la cassetta. Maria Vittoria del Pozzo della Cisterna decide – come qualunque donna – di sposarsi comunque, ma serve un vestito diverso perché quello non si può dire porti bene. I paggi gettano il cadavere della guardarobiera nell’immondizia e si affrettano a convocare una sarta, che appronta un nuovo vestito alla bell’e meglio. Ora Maria Vittoria del Pozzo della Cisterna sembra ancora di più Samira, o un preservativo da cui spunta fuori una testa. Alle 11.30 il gruppo della sposa esce dal palazzo tra carabinieri a cavallo, fanfare, paggi e 30° all’ombra. La carrozza si avvia lungo il viale. Attraverserà il giardino, varcherà i cancelli e la condurrà all’altare. Nella carrozza le dame cercano di consolare la sposa.
– Non pensarci più, Maria Vittoria.
– Vero, non lasciare una guardarobiera ti rovini questo giorno!
– Del resto cos’altro può accadere?
– …perché ci siamo fermate?
La processione della sposa ha dovuto arrestarsi perché l’ufficiale in testa è caduto da cavallo. Il sole, il caldo, l’età, l’attesa, una cassetta non duplicata, tutto può essere: resta il fatto che l’ufficiale prende congedo dall’Arma e dalla vita lì. E’ secco come un bastone. I paggi aggiungono il corpo a quello della guardarobiera e fanno cenno di avanzare, ma i carabinieri non fanno un passo. Una processione non si può fare senza alto ufficiale, bisogna decidere chi tra gli altri ufficiali presenti guiderà la processione. Maria Vittoria del Pozzo della Cisterna apprende questa notizia a mascella serrata fingendo indifferenza. Dopo un lungo consulto i carabinieri si mettono d’accordo e si riparte. Alle 11.40 questa specie di carro funebre coi pizzi ha percorso sì e no dieci metri.
Si riparte.
– Non è niente, non è niente – la consolano le dame.
– E’ come – tira su col naso la duchessa – …è come se questo matrimonio non fosse voluto da Dio, capite?
– Ma no – sussurra la testimone tastandosi la tetta sinistra – non farti impressionare da queste superstizioni da plebei.
– …perché ci siamo fermate?
Siamo ancora nella tenuta della duchessa. Dopo seicento metri di viale la processione arriva ai cancelli. E’ un momento importante, quando la giovane sposa varca per l’ultima volta la soglia della sua tenuta da donna libera ed affronta l’esterno, l’ignoto, il futuro, per congiungersi all’uomo che ama. Le fanfare squillano:
– PASSA LA DUCHESSA MARIA VITTORIA DEL POZZO DELLA CISTERNA, APRITE I CANCELLI! – urla l’ufficiale.
Silenzio.
– PASSA LA DUCHESSA MARIA VITTORIA DEL POZZO DELLA CISTERNA, APRITE I CANCELLI! – urla di nuovo.
Uccellini. Cicale.
– VI ORDINO DI APRIRE I CANCELLI!
Cip cip cip.
– Maresciallo, vada a vedere cosa combina il valletto.
– Alè, parte il totoschiattamuort.
– Come dice?
– Niente, tenente, scusi, coi ragazzi si scherza…
– Si muova.
– Comandi! – esclama il maresciallo scendendo da cavallo.
Non appena entra nella torretta emette un gemito.
– Eccallà, ‘o sapevo.
Esce.
– Signor tenente, il valletto è schiattato.
– Come schiattato?
– Muorto cumm’ a san gennaro, tenè. C’è sangue dappertutto e quello c’è disteso sopra c’aa facc ngopp.
Nessuno saprà mai come o perché, ma il valletto viene trovato riverso in una pozza di sangue. Morto. E’ il terzo che va a tuffarsi nella monnezza con i paggi di corte che oramai li buttano cantando canzonette popolari. A questo punto la duchessa tradisce un certo nervosismo che nei libri di storia non è riportato ma somiglia molto a “AHO’ NNAMO O QUA S’AMMAZZA ANCHE ER PRETE, NNAMO, COCCHIE’, FRUSTA”. I carabinieri aprono il cancello con una certa fatica, visto che pesa e loro con una mano devono toccarsi.
Il re, in chiesa, è stato informato dell’accaduto. Quando la sposa giunge a destinazione con tre ore e mezzo di ritardo assieme alla marcia nuziale è tutto un fiorire di gesti scaramantici, cosa che non contribuisce al buonumore della piccola Samira la quale fa il suo ingresso con un vestito che sembra la coperta di Linus, il volto disfatto dall’orrore e gli occhi rossi di pianto. Le damigelle d’onore appaiono assenti, sgranano rosari e barcollano guardandosi attorno spaventate. Il prete è incerto se praticare un esorcismo o dichiararli marito e moglie ma, strano a dirsi, durante la cerimonia non sono riportati incidenti. Amedeo I di Spagna e la duchessa Maria Vittoria dal Pozzo della Cisterna si scambiano gli anelli in un silenzio tombale, dove nessuno vuole applaudire o dire “bravi” per paura si stacchi una navata e li seppellisca tutti.
Al termine gli invitati escono per accompagnare gli sposini in stazione e salutarli per la loro luna di miele, forse un villaggio vacanze a Silent hill. Il corteo è lento e cauto. Nessuno gioisce né applaude.
– E’ il giorno più bello della mia vita – sussurra Amedeo alla moglie.
– Continua a ripetertelo – sibila la duchessa.
– Perché?
– Sa
Urla distanti.
– …perché ci siamo fermati?
– ABBIAMO UN ALTRO VINCITORE, TENE’! – urla il maresciallo.
Immagino questo matrimonio tipo Final Destination versione steampunk; non fai a tempo a guardare da una parte che dei tizi muoiono dall’altra nei modi più improponibili così, per ridere. Pieghi il vestito, muori. Passeggi in giardino, muori. Ti fai i fatti tuoi in una torretta, muori. Allunghi gli anelli agli sposi e indovina un po’ cosa succede?
Sì.
Un testimone di nozze reso euforico dalla troppa allegria della cerimonia ha deciso di fare un ictus e trapassare lungo la strada. A questo punto la comitiva riparte in versione ridotta, perché man mano la gente si ricorda di impegni urgenti tipo il libro aperto davanti alla finestra, pettinarsi le ascelle, smacchiar coccinelle o guardare l’erba che cresce.
– Siamo maledetti, ti dico!
– Tesoro, calmati! E’ suggestione!
– SUGGESTIONE?! QUESTO MATRIMONIO HA PIU’ CADAVERI DELLA GUERRA D’ALBANIA! SIAMO A QUATTRO MORTI!
La carrozza ha uno strano sobbalzo.
– Cinque – corregge da fuori il maresciallo.
E’ ora il turno di un capostazione che fa il suo ingresso in scena a petto in fuori dicendo “li aiuto io a scendere, ‘sti sposini”, “so io come ci si comporta con le giovani coppie” “la faccio io la bella figura col re” e decede investito e tranciato in due dalle ruote della suddetta carrozza. Voglio visualizziate bene questo momento: la carrozza reale macchiata di sangue ed interiora che si apre e fa uscire Samira in lacrime.
I paggi di corte decidono di disertare ed aprire una ditta di pompe funebri, ormai l’apprendistato è fatto. Gli invitati sono pressoché scomparsi tutti per un motivo o per l’altro e la duchessa gronda lacrime e muco singhiozzando isterica. Lo sposo tenta di buttarla sul ridere, ma un inaspettato temporale copre le sue parole con tuoni e fulmini. Vittorio Emanuele II subodora che nei piani alti sono incazzatielli e ordina che nessun essere umano, a parte la coppia, tocchi o salga a bordo del treno. I pochi superstiti accettano l’idea con entusiasmo e fuggono.
– Buona fortuna! – dicono le damigelle al treno in partenza – quanto durerà la luna di miele?!
– Sette gior
– SEI! – urla il maresciallo.
Per un insieme di cause che elencare qui sarebbe un insulto alla fisica e all’umana intelligenza la carrozza vuota e macchiata di sangue, diretta a palazzo, investe anche il Conte Francesco Varasis Asinari di Castiglione. Non è tanto l’incidente ad ucciderlo, ma la caduta; il medaglione che porta al collo si mette in verticale e gli trafigge il cuore. Non riesco ad immaginare quante probabilità di fossero, ma succede. Il resto della folla a questo punto si disperde in preda al panico aspettandosi che da un momento all’altro inizino a piovere meteore. Termina così il matrimonio del principe d’Italia Amedeo I.