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00 – Masterpiece

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Domenica, fine pomeriggio. Nebbia e traffico giungono ovattati dallo spesso vetro antisfondamento della sede RAI. Tommaso Pungu, direttore artistico di Rai 3, guarda fuori senza vedere nulla. Si passa una mano tra i capelli. Fa un respiro. Si gira. Il tavolo della sala riunioni è al completo, ognuno impegnato a farsi i fatti suoi. Uno tamburella con la matita. Uno guarda le tette della collega giovane appena arrivata. Lei guarda porno su tumblr. Il più anziano ascolta la partita con l’auricolare nascosto nella manica della giacca appoggiando la mano al mento nella posizione del pensatore. Quando la Sampdoria entra in area di rigore emette gemiti mascherati da colpi di tosse. Due tizi parlottano. Uno scarabocchia, sovrappensiero.

«Allora, signori, ricapitoliamo» dice Tom, sedendosi «in produzione vogliono riavvicinare i giovani alla televisione, noi abbiamo il compito di renderlo possibile. Che dati abbiamo?»
«La morte civile» commenta un tizio in completo grigio, alzandosi e accendendo la lavagna luminosa.

Grafico 1

«Questo è il pubblico televisivo oggi. La parte azzurra sono i vecchi morti davanti al televisore acceso. Spesso nessuno li trova per mesi e quelli continuano a fare share. Poi ci sono gli ospedali»

«Fossero tutti così» sorride Tom, malinconico «ma quei cari cadaveri non pagano il canone. A noi interessa il golden range, quella specie di tavola da surf di trent’anni. Quelli che vanno a convivere e sono incerti se comprare il televisore con cui poi lobotomizzare i figli e costringerli a giocare a calcetto per diventare dei fieri appassionati di partite. Dobbiamo prenderci loro. Per questo abbiamo pagato miliardi di analisti e sondaggisti che, con le debite protezioni, scandagliassero Iternet, Retenet, come cazzo si dice e ci comunicassero quali sono i loro desideri più profondi»

Sgomento.

«Avete usato Internet
«Sì, ma in una stanza protetta, non preoccupatevi. Il risultato ci è stato consegnato via fax. A quanto pare il futuro è più roseo del previsto» dice Tom, sorridente «i trentenni sognano una rivalsa dalle loro scelte del cazzo, ossia vogliono mettersi il goldone dopo aver scopato. E sapete qual è la rivalsa dei trentenni?»

«La carriera?»
«No, figurati. La letteratura. Vedete, in Italia tutti hanno un romanzo autobiografico nel cassetto. Tutti. I motivi sono molti. Il primo è il rispetto dei propri genitori. I vecchi non capiscono una madonna di quello che fanno i figli e non possono esserne molto orgogliosi, con tutta la crisi, la disoccupazione e i bimbi che stanno davanti a un computer. Ma se gli dici “papà, mi hanno pubblicato un libro” i vecchi si esaltano e credono i figli siano dei geni. Il secondo motivo è che tutti credono di avere una vita degna di essere raccontata. Il terzo è il sempiterno riscatto sociale. Cambiare vita, ambiente, abitudini è faticoso. Scrivere un libro invece è una rivalsa sociale che puoi ottenere comodamente seduto in ufficio. Il quarto è che si credono dei maestri di vita e vogliono insegnare alla gente come si sta al mondo»

«Ma se nessuno legge più niente, in Italia!»

«Perché ci sono solo libri autobiografici che fanno la morale dall’alto del cazzo e della merda scritti da stronzi mediocri persino nei difetti, scelti e selezionati da vecchi radical chic che si leggono tra di loro e apprezzano solo lecchini o autori morti. Del resto voi leggereste un libro scritto da un cassiere della COOP che spiega la sua straziante sofferenza?»

«Bè, potrebbe essere… uh, interessante scoprire…»

«Perché tu sei un’elite con un lavoro creativo e interessante che va a caccia di stimoli. Ma uno che di lavoro monta caldaie?»
«Neanche morto, ha già abbastanza rotture di palle di suo, quello cerca roba che lo faccia sognare, divertire, scappare»
«Ecco. Però tutti scrivono lo stesso. E noi capitalizzeremo sui loro sogni monoporzione. Signore e signori…» dice Tom, togliendo la cerata che copriva la tela con il logo della trasmissione.

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«Cos’è?»
«Un reality sugli scrittori. Giovani uguale reality, non si discute. Allora, partiamo dalla giuria»
«Non facciamo manco finta di far decidere al pubblico?»
«No. Il pubblico si crede intelligente, ma sotto sotto sa di essere una merda. Ricordati una cosa: legittimare, legittimare, legittimare. Ci serve una giuria di gente che ne sa»
«Scusi, non sarebbe il caso di fare per la prima volta un prodotto che piaccia, invece di un prodotto che deve piacere perché piace a vecchi coglioni?» chiede la ragazza.

«No. Giuria»
«Vabbè. Chi mettiamo? Fabio Volo?»

«No, Fabio Volo non va bene. E’ troppo giovane. Mettiamo gente di una certa età, cerchiamo di non spaventare il nostro pubblico ottuagenario. Fabio Volo magari parla di robe… tipo cellulari, computer, email. Brr, no»
«Ma lei ha detto che voleva coinvolgere i giovani. Fabio Volo vende un botto tra tutte le fasce d’età, se mettiamo vecchi in giuria l’iconografia sarà che vecchi dai loro scranni del potere graziano giovani. E’ orrendo»

«Per la parte giovane non c’è problema, mettiamo fica. Quella va bene giovane, piace a tutti. Ed è qui la mia botta di genio: siccome in Italia non abbiamo scrittrici giovani…»

«Ne abbiamo eccome!» sbotta la ragazza.

«Dico, siccome in Italia non abbiamo scrittrici giovani non costrette a prostituirsi, prendiamo due piccioni con una fava: mettiamo una scrittrice internazionale. Minoranza etnica e quote rosa insieme. Nabbomba»
«Cioè straniera? Ma sa parlare italiano?»
«A stento, ma non importa, è fica»
«COME NON IMPORTA, E’ UN REALITY SULLA SCRITTURA!» strilla lei, incredula.
«L’unica cosa che conta è che si tratta di A) una donna con una posizione di prestigio e B) una minoranza etnica colta. Sono due cose molto comuni, in Italia. Coinvolgeranno moltissimo il pubblico e sono icone politicamente corrette. Non offendono nessuno, quindi piacciono a tutti»

«Semmai è il contrario. I giovani hanno abbandonato la TV perché è zeppa di roba cattocomunista anni ’70 fuori da ogni realtà»
«Fidatevi, i giovani conoscono solo donne manager e immigrati laureati»
«Ma almeno mettiamo una che sappia parlare italiano!»
«No, non serve. Se sei immigrato basta e avanza. Guardate la Kyenge. Ha curriculum? E’ capace? E’ stata votata o eletta? No. E’ nera, win. Non conta se sei bravo, non conta cosa dici, conta solo chi sei. Passiamo al cast»

«Abbiamo scelto una ventina di manoscritti. Belli, anche. Questo per esempio parla di…»

«Ho detto che non conta se sei bravo, conta chi sei. Parlami degli autori»

«Gli autori? Ma parleremo di quello che scrivono, no?»
«A nessuno frega un cazzo, la gente vuole un reality di scrittura per empatizzare con gli scrittori. Forza»

«Il migliore è un certo Andrea Salmasi»
«Età, lavoro, storia personale»
«Boh, questo è un quarantenne di Trento, figlio d’imprenditore, laurea in economia…»
«ASSOLUTAMENTE NO, scherzi? E il sud? E i disoccupati?»
«Loro non so, ma lui è veramente bravo»

«Puoi avere successo solo se tutti possono continuare a credersi migliori di te. Cestino»
«Ci sarebbe Ario Bragaggia, 36 anni, operaio, qualche precedente»
«Hmm, ci avviciniamo. Di che parla il suo libro?»
«1920. Un convento di monache, una prostituta redenta e un mulo. Ehi, è interessante davvero» fa la ragazza, sfogliandolo.

«Escluso. I preti vanno sempre ritratti in una veste positiva, svecchiati, rock. Ho già un piano. Affanculo questo, abbiamo altri operai?»
«Sì, ma la qualità crolla verticalm
«LA QUALITA’ NON CONTA, IDIOTA! Operai, forza. Trovamene uno decente. Età, sesso, provenienza, trama»
«56 anni, maschio, Bologna. Il libro parla di un alpino che non sa scrivere, una ragazza che non sa leggere e un bambino tedesco. Dice che è una storia vera della prima guerra m
«NOIAAAAA»
«43 anni, maschio, Cagliari. Un operaio perde il lavoro, un miliardario annoiato organizza una caccia al tesoro, senonché un poliziotto a fine carriera…»
«Prossimo»

«52 anni, maschio, Roma. Un immigrato scippa la borsa di un onorevole e dentro ci trov
«MA CHE CAZZO!» sbotta il direttore «CHE CAZZO DI FANTASIA C’HANNO ‘STI OPERAI!? Gli operai devono dire che sono operai, che soffrono e che i crudeli padroni li sfruttano, ma loro leggendo Il capitale e Chekov trovano un riscatto e si affidano ai professoroni che li guidano verso il sol dell’avvenire. Trovamene uno»

«Questa. E’ anche donna»
«Oooh, così si ragiona»
«Ha la faccia da sindacalista. Mi creda, io facevo ripavimentazione stradale. Per me questa è quella che ti rende la vita un inferno e ti costringe a licenziarti se non vai alle manifestazioni»
«Meglio, i soli operai che contano sono quelli lì. Presa. Cazzo, ma t’immagini? Dure condizioni di lavoro sotto il padrone, la domenica con la famiglia al cineforum, le lacrime di commozione agli scioperi della CISL, ban-diera rossa-che-trion-fe-rà… perfetto»

«E’ un pelo datato»
«Allora mettiamo “io sono un eroe” di Caparezza e facciamo il botto. C’è retorica, nelle robe che scrive ‘sta tizia?»

«A livelli inverecondi»
«Presa»
«Ma la trama è una merda. Un albero che si reincarna in una ragazza, che cazzo vuol dire? Alle feste sta nell’angolo a fare l’appendiabiti? Muore per un’insolazione?»
«Chi se ne frega, la gente dirà che è un’arguta metafora. Soffre?»
«Molto»
«E allora va benissimo. Ora ci restano i giovani, ossia i notav»
«I notav sono alla buona duecento. I giovani in Italia sono molti di più e non vivono a spese dei genitori giocando ai Kerouac dei Parioli, anzi. Tanti stanno facendo carriera arrabattandosi, cercando nuove strade, sfruttando i mezzi a loro dis

«I giovani li conosco, sono stato giovane anch’io, quarant’anni fa. Le lotte studentesche, le autogestioni, Kossiga. Alcuni inseguono lo sballo del sabato sera, ma ai vecchi non piace. Vogliono giovani arditi, impegnati nel sociale come erano loro»
«Cioè gli stessi che hanno ridotto il paese a una merda mangiandosi i soldi dei padri, ciucciandosi le baby pensioni e ipotecando quelle dei figli e dei nipoti per andare in ferie a Cortina» mormora la ragazza.
«Come?»
«Niente»

«Forza. Un giovane noglobal. Piacerà un sacco ai vecchi, hanno tutti un figlio così»
«Ne abbiamo uno che copia spudoratamente John Fante, Kerouac, Bukowsky e quella menata della beat generation. Copia sia in classe che nel libro, in pratica. C’è odore di sei politico dappertutto»
«Embè? E’ perfetto, parassita puro, i vecchi si sentiranno di nuovo giovani. Vai, vai. Mi piace»
«Non vuole sapere di che parla il libro?»
«Figurati, le conosco a memoria quelle stronzate. L’asfalto bagnato, l’odore di libertà, la vita vera, il bancomat con prelievo illimitato e mamma a casa che aspetta. Dai, passiamo ai reietti»
«Tossici e farmacotossici?»
«No. E’ un tema troppo lontano dalla gente»
«Gioco d’azzardo?»
«Sei pazzo? Tre quarti dei vecchi sta attaccato alle macchinette restituendo la pensione, sia mai»
«Prostituzione?»
«I vecchi adorano scoparsi le minorenni, vuoi farli sentire giudicati? Ti ricordo il boom di vendite dei giornali con le olgettine. Il vecchio che s’incula le nuove generazioni piace, mica puoi metterlo in luce negativa. I Vanzina l’hanno resa una roba divertente e c’han fatto i milioni, non t’azzardare. Chi sono i veri poveracci, in Italia?»

«Non so, gli esodati?»
«I tossicodipendenti?»
«Le vittime di mafia?»
«Le stuprate?»
«I derubati?»

«No» sorride Tom «i carcerati»

«In che senso, scusi…»
«Sono poveracci» annuisce Tom, placido.
«Ladri, stupratori, scafisti, mafiosi, spacciatori, truffatori, assassini…?»
«Sì. Sono poveracci. I veri criminali sono quelli che ti fanno pagare le tasse, non quelli che le evadono. Tranne Berlusconi, ha ha ha. E poi nel 2013 il più onesto t’incula le spazzole dei tergicristalli al centro commerciale, stiamo tutti in campana, coi carcerati empatizziamo a bestia, domani potremmo esserlo tutti. Trovami un carcerato, andale»

«Questo ha scontato 3 anni di galera»
«Hm. Il libro di che parla?»
«E’ un appassionato di fantascienza. Immagina che durante un viaggio nello spazio…»
«No, no, NO! I carcerati devono parlare del fatto che sono carcerati e soffrono. Vaffanculo la fantascienza, cazzo è, un’epidemia di fantasia? Poi la fantascienza è pericolosa, stimola riflessioni filosofiche, finisce che i vecchi si sparano. Prossimo»

«Questo ha fatto 13 anni di galera»
«Ussssstia, poveraccio vero. Omicidio?»
«Non dice, ma mi sa di sì»
«Benone, i morti non protestano e hanno sempre torto. Il suo libro parla di carcere? Indugia sulla straziante vita guardando il cielo rigato dalle sbarre della repressione al suo comprensibile istinto a cacare in faccia alla società che lo mantiene?»

«Sì»

«Perfetto, preso. Finiremo con spareggione tra operaia, carcerato e notav»
«E chi vince?»
«Il notav, naturalmente. L’obiettivo è conquistare i giovani»

«Mancano i pompini alla chiesa e alle minoranze. La nera in giuria è pochino, fa troppo radical chic»
«Per quello non preoccupatevi, ho la soluzione. Sentite qua: i prescelti vengono portati in un alloggio popolare di zingari. Mostreremo solo le donne, che se si vedono i maschi la gente si caga sotto. La parte geniale è che…»
«Non credo questo sia giornalisticamente ones
«LA PARTE GENIALE è che sono rieducati e coccolati da un prete. Capite? Un prete nuovo, giovane, ROCK. Lo chiameremo padre… Rambo»

 

«Padre Rambo?»
«Sì! E’ ROCK!»
«Ma chi le ha dato l’idea, Celentano?»
«Dai, è perfetto. Cattocomunismo allo stato puro. La fusione che mette d’accordo PCI e DC. Credetemi, piacerà un casino ai giovani, così riavviciniamo la chiesa che tanto ha fatto e fa per il nostro fattur… società»
«Deduco quindi niente temi né autori gay» sospira lei.
«No, chiaro. E tutti i concorrenti devono avere figli ed essere etero, se becco un’abortita vi brucio la macchina. Avete capito tutto?»
«Sì, capo»
«Mi scusi» osa la ragazza «ma se un autore è buono solo a fare roba autobiografica, quando ha scritto un libro, dopo… che fa?»

Tommaso scuote la testa. Le novelline devono imparare molto: «Si leva dalle palle e fa stampare un altro libro di un esordiente da reality che non ha pretese di acconti o royalties, imbecille. E mi raccomando, che tutto abbia quella splendida aura mistica che dice “meditate, gente, meditate”. Non è come i grillotardati “SVEGLIAAAAAAA”, più… autorevole. Ti fa capire che tu sei stupido e loro sanno perché sono in televisione, così pensano che se dici quello che dicono loro andrai in televisione anche tu. Mettetevi sotto. Ma prima di lasciarvi recitiamo insieme il Sacro Monologo. Tutti insieme, forza»

La tavolata si alza in piedi.
Parte l’audio.

 

«Bene. Ora al lavoro, che qui stiamo facendo la nuova televisione italiana. E ricordate: non conta se sei bravo, non conta cosa dici, conta solo chi sei»

«Veramente Salgari ha scritto libri straordinari senza aver mai visto i posti che descriveva, Verne ha descritto il fondale dell’oceano senza esserci mai stato» dice la ragazza «Shakespeare nessuno sa davvero chi fosse o che facesse. Né importa. Philip K. Dick era un commesso in un negozio di dischi e scriveva di spazio e astronavi. La tragedia greca, da cui proviene tutta la letteratura del mondo, è stata scritta da Eschilo. Un nobile che diventò guerriero. Sofocle era un ricco proprietario di schiavi. Euripide era un povero atleta che dal nulla divenne un Dio della letteratura, studiando come una bestia. Senofonte ha scritto l’Anabasi, il primo romanzo della Storia, e a leggerlo fa paura come i loro pensieri, le loro riflessioni, i loro sentimenti fossero uguali ai nostri. E’ questa la più grande potenza della nostra specie: non puoi prevedere chi partorirà Giulio Cesare. Il mondo che raccontiamo su Masterpiece forse è politicamente corretto e rassicurante, ma è fasullo. Non siamo angeli caduti per volere divino, siamo scimmie che si sono alzate per merito indipendentemente da dove siamo nati, ricchi o poveri. Questo format dice che se sei un marinaio puoi solo scrivere di mare e questo ti porterà al successo. No. Non è vero. La Storia ha dimostrato che vi sbagliate. Diventi Shakespeare se parli al cuore dell’Uomo, non al suo ceto sociale»

Il tavolo rimane congelato in un silenzio di terrore. Tommaso sgrana gli occhi. Squadra l’interlocutrice con rinnovato astio.
«Ma a te chi ti raccomanda?» domanda, inquisitorio.
«Nessuno»
«Seh, nessuno. Tuo padre che fa?»
«Ora è falegname»
«Gna ha haha, tua madre?»
«Divorziata»
«Ho capito, classica figlia di ricchi falliti che puntano sulla bimba per riscattarsi dalla società. Non fai audience. Un’altra di queste uscite e finisci in falegnameria pure tu, cara la mia…» dice, sforzandosi di leggere il cartellino.

«Lucrezia» dice lei, digrignando i denti «Lucrezia Banana»

Confessioni acide

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A diciotto anni andavo sempre al Mojito, una discoteca di provincia. Ci sono andato per anni. Truzzaglia, risse senza coltelli e soprattutto sbarbe contadine. Ditemi quello che volete, ma una che ti tasta il pacco e domanda “ndemo a ciavar?” arrapa più di qualsiasi giarrettiera. Sarà che sono cresciuto con gli spot del Mulino bianco, mangia sano, torna alla natura e incaprettare la figlia del fattore in camporella ti fa sentire più ecofriendly di qualsiasi prodotto biologico.

Era il 1998.

Appena patentato prendo la macchina dei miei e vado al Mojito da solo, come tutti i ragazzini che possono accedere alla macchina dei genitori per la prima volta. Giri, prendi confidenza col mezzo. Certo Ario il giorno della firma andò in puttantour e finì in fosso, ma erano altri tempi. L’età dell’innocenza. Dio, appena uscito l’euro si riusciva a truffare le negre con le banconote fotocopiate, per dire. I più raffinati col distintivo dell’FBI del piccolo detective incollato sul portafogli chiavavano a sbafo almeno una decina di volte.

Ma non divaghiamo.
Entro al Mojito di straforo, il buttafuori fa palestra da me. L’idea era due birre e a casa, invece è la serata giusta. Una bionda mi guarda, sorride e la raggiungo in pista. Balliamo con la solita tattica del lei che finge che no, poi sì, poi no. Alla fine le offro da bere, parliamo. C’è sintonia. E’ lì con le amiche che son state rimorchiate da altri ed è rimasta al palo. Si smolla. Limoniamo sui divanetti. Tenterei di portarla in bagno ma ho paura di sprecarla. Testo il terreno, allungo appena le mani, mi blocca con quel tipo di “no” che significa “con calma”. Parliamo ancora, beviamo ancora. Le amiche tornano a casa e lei è in macchina con loro. Mi offro di accompagnarla io, dopo. Accetta. Venti minuti e venti chilometri di strada tra fienili e capanne di sterco, poi siamo da lei.

Condominio popolare da abuso edilizio anni ’70, tre e mezza di mattina. Salottino signorile, tappeto sciccoso, divano, televisore gigante, libreria. Limoniamo in felicità sul divano quando una porta si apre e appare suo padre in vestaglia. Non la prende bene. “Se credi di poter fare la puttana”, “hai diciott’anni ti trovi un albergo”, “non porti gente alle tre di mattina” e frasi così. Faccio per andarmene, lui mi ferma. Dice che non posso guidare in quelle condizioni; o dormo sul divano o telefona ai miei genitori che mi vengano a prendere.

Sarà che è più bestia che uomo, sarà che sono effettivamente sbronzo, sarà che lei mi tira un’occhiata tipo “rimani e ci scappa il premio”, resto. So che può sembrare un errore grossolano, ma se un trattore umano ti sgama mentre gli limoni la bimba in salotto di casa nel cuore della notte non è il caso di far questioni. Ho pensato fosse la cosa giusta.

Mi tira un cuscino, due coperte, strattona la figlia e se ne va chiudendo la porta della zona notte a chiave. Se hai un adolescente sbronzo in salotto e una figlia che spruzza feromoni in camera non lasci la porta aperta, giusto per evitare la trafila dell’aborto a pugni. Mi metto sul divano.
Chiudo gli occhi.
Tutto gira.

Mi viene da vomitare.
Cerco il bagno ma la zona giorno è composta solo da salotto e cucina. Il grezzo s’è barricato a difesa di tutti i buchi della casa, water compreso. I conati si fanno più pesanti. Apro la finestra del salotto, guardo giù e c’è una panetteria aperta col fornaio che fuma. La finestra della cucina è troppo alta. Non ce la faccio più, corro verso la porta d’entrata ma BRAAA, dal naso, dalla bocca, dagli occhi, espello tutto sul grazioso parquet. Resto ansimante con la gola riarsa e un cacaio sul pavimento. Il panico si impossessa di me. Devo far sparire quella roba al più presto, ma con cosa?

Non è casa mia.
Non so dove mettere le mani.
Lì per lì, l’immancabile foto di famiglia in bianco e nero sul mobiletto d’ingresso mi pare l’idea migliore.

 

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C’è sempre. Famiglia al completo col vestitino della domenica, espressioni sognanti di un futuro prossimo come la ripresa economica. Tolgo la cornice di finto argento e uso la foto a mò di paletta. Funziona egregiamente. Mentre spatolo realizzo di non sapere dove metterli. Provo a fare andata e ritorno fino al lavabo della cucina, ma spando trasformando il pavimento in un lago di succhi gastrici. Disperato, afferro il cassettino del mobile e lo uso come secchio. Il tanfo è mostruoso e solo sentirlo mi fa sboccare ancora, questo giro direttamente nel contenitore perché ormai tanto vale. Vorrei disperarmi ma sorge un secondo problema: crampi da diarrea post sbronza. Il culo s’è innescato e sta per esplodere, ma dove?

Il cassettino è oramai ricolmo.

Mi sporgo dalla finestra del soggiorno e glasso il panettiere? Una pioggia di merda desta sospetti anche negli individui più primitivi. Potrei tempestare di pugni la porta della zona notte urlando al mondo la mia vergogna. Essere un signore, cacare sul pavimento e deglutire l’orrore a cucchiaiate. Me ne manca il coraggio. Piegato in due dal dolore giungo in cucina, apro lo sportellino sotto il lavello dove tutti tengono il cesto dell’immondizia e ci cago dentro. E’ come se l’inferno avesse ghermito le mie natiche, le avesse spalancate e decine e decine di dèmoni le avessero varcate per seminare morte. Il rombo mi squassa. Aria, acqua, terra e fuoco si fondono per attraversare il mio timbramutande e obnubilano il tanfo della monnezza, soverchiandone l’afrore. Tutto è squallore e rovina, ma sono salvo.

Posso farcela.
Gli ho trasformato il salottino nelle stanze di Hostel, ma posso farcela.

Certo, lì per lì non penso che il mobiletto con la sorpresina non si sarebbe autodistrutto e che quando papizappa l’avrebbe aperto per cercare le caramelle di nonnina avrebbe trovato Sarlacc del cazzo, ma ero molto ubriaco. Devo liberarmi del figlio di Satana che ho partorito e dedicarmi alla pulizia, ma siamo al sesto piano. Chiudo il sacchetto della monnezza, decido di scagliarlo dalla finestra della cucina ma è alta, non so cosa c’è sotto e temo l’omicidio colposo. Allora vado dall’altra parte, il fornaio non c’è più. Se lo lascio cadere finisce in strada, ma giusto dall’altra parte c’è un boschetto di cespugli. Devo tentare il lancio tipo bolas. Inizio. Faccio un giro, due giri, al terzo il sacchetto cede con uno schiocco, si squarta a parabola giusto mentre l’orbita attraversa il salotto e un uragano immondo dipinge la parete, la libreria, il televisore, il tappetino, i muri, lo specchio.

Non oso girarmi.
Aspiro l’aria della notte, conscio che alle mie spalle si è consumato il dramma. Il sacchetto squarciato mi penzola dalla mano, vuoto involucro dei miei incubi peggiori che gocciola gli ultimi rimasugli dell’innominabile. Senza nulla dire, il mio viso si contorce in una smorfia di dolore. Piango come un condannato che guarda il muro della fucilazione.

Mi volto.
E’ l’armageddon.

Gusci d’uovo putrefatto sulla tovaglia ricamata, assorbenti usati tra i libri, scatolette di tonno, fazzoletti sporchi, lische di pesce sul ventilatore, piatti di plastica unti sul tappeto, diarrea che gronda dal soffitto. Non v’è rimedio. La casa va demolita, le macerie sparate nel Sole. A essere un uomo aprirei il gas e mi farei detonare con la famiglia, ma me ne manca il fegato. In un ultimo atto di pietà piego con cura le coperte miracolosamente immacolate. Sono tentato di lasciare un biglietto ove spiegare tutto, ma nessuna parola vale il rischio di lasciare le mie impronte digitali. Getto un’ultima occhiata al mobiletto contenente i drink della serata, poi apro la porta e me ne vado per sempre.

Da allora smisi di frequentare il Mojito. Il buttafuori disse che la polizia andò a fargli qualche domanda. Lui fu evasivo, data la mole di erba che si fumava grazie alle piantine di Ario. Io preferii vagare nelle tenebre della notte e fare il writer, dopotutto avevo un talento innato nel pitturare muri. Ecco perché le dico che da qualche parte qualcuno vuole uccidermi, dottoressa»

La psicologa della scuola tiene la bocca semiaperta.
«Dice che sono pazzo?» chiedo.
Non risponde.

E’ domenica.

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La sveglia sul cellulare mi strappa dal sonno a sberle. Tento di spegnerla, un bagliore accecante mi brucia la cornea e mi propone un quiz matematico. Tento la soluzione, sbaglio e il suono diventa più aggressivo. Riprovo, sbaglio ancora e il suono muta in un urlo digitale. Piangendo in preda al panico lo batto contro il tavolino per distruggerlo quando oramai è una sirena antiaerea che mi fa tremare le otturazioni. Il dannato attrezzo segnala all’NSA un comportamento antiamericano e si disattiva. Per un istante assaporo il silenzio. Faccio un respiro, scendo. Appoggio il piede sulla coda del cane che detona in una selva di latrati e sveglia l’intero condominio, scatenando un tamburellare di pareti a destra, sinistra, sopra e sotto. Ovattati vaffanculi provenienti dagli altri appartamenti mi accompagnano al cesso. Rilascio la vescica un istante prima di ricordare che è mattina, quindi il prepuzio è incollato. Faccio solo in tempo a urlare “N..” poi lo vedo gonfiarsi come un pallone ed esplodere in un caleidoscopio di schizzi che vanno ovunque tranne nella direzione giusta. Ricalibro il tiro non prima di essermi pisciato in faccia, nell’occhio, sulla tavoletta, sulle riviste di moda oramai cementate, sulla vasca. Espello il restante alla cieca, il cane entra e tenta di farmisi la gamba. Lo scaccio e la spinta mi sbilancia. Mia moglie mi trova disteso per terra che singhiozzo col cazzo di fuori e il cane che mi scopa la testa.

Posso fare colazione.

In cucina guardo con nostalgia la macchinetta del caffè a capsule che non viene ricaricata dal 2009. Il motivo è che i rivenditori sono tre in tutto l’universo e hanno prezzi da gioielleria con cui hanno violato ogni mio orifizio. Carico la moka dal manico liquefatto. Bevo, fumo, cago pensando a pensare, mi lavo ed esco il pulcioso. Si tratta di una dolorosa maratona il cui premio consiste nel raccogliere merda calda con le mani e gettarla nel cestino. Nell’attesa che la bestia si decida ad espellere l’abominio di soldi che mangia consulto sullo smartphone l’età media di un cane, anelando la tragedia. Il canide piazza due stronzi monstre, raschia il cemento per coprirla e s’allontana. Ritirato il premio sogno divano e Playstation, ma vedo il mio utero in affitto semestrale che mi guarda con le chiavi della macchina in mano. E’ tempo di andare al centro commerciale.

Muoio dentro.

Partiamo.
Venti metri dopo siamo in coda.

Un SUV sorpassa tutta la fila, giunge al semaforo e mette la freccia per immettersi. Tutte le macchine si compattano in un unico stronzone d’acciaio per non farlo passare. Il SUV dà fiato alle trombe. Dietro di lui si crea una fila di macchine che vorrebbero girare. Suonano anche loro. Il SUV sgasa tentando d’immettersi. Le macchine resistono. Il semaforo diventa rosso e dal nulla appaiono branchi di zingari, cingalesi, slavi focomelici, bambini storpi e immigrati che assaltano le macchine offrendo rose mentre ti lavano il vetro e con il piede mutilato da un capodanno molto vivace chiedono l’elemosina. Scattano le sicure delle portiere. Il tram non può passare perché è ostruito dal SUV. Suona lui, suona il SUV, suona la fila, suono io, suona qualsiasi cosa. Qualcuno mette il cellulare fuori dal finestrino e suona anche quello. Suonano le campane. Il cane, dietro, ulula. Il semaforo diventa verde e gli storpi si lanciano nei tombini prima di venire falcidiati. Con sgasata nervosa il SUV s’immette davanti a tutti e stira tre ciclisti sulle strisce pedonali che si trovavano lì perché le donne con le carrozzine vanno sulla pista ciclabile perché il marciapiede è occupato dai motorini parcheggiati che si trovavano lì perché sui parcheggi dei motorini c’è un furgone dei vigili che stanno mettendo le multe alle macchine in divieto di sosta che sono lì perché hanno rimosso le strisce blu per fare la pista ciclabile.

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L’accesso agli uffici dell’ assessorato mobilità e trasporti di Venezia.

Giunto al parcheggio spengo la macchina, ma la lustramelanzane emette rumori fastidiosi. Siamo troppo distanti dall’ingresso, dice. Dopotutto quest’aspirapolvere di carne paga 50 euro di palestra al mese per fare finta di fare fatica, non può certo fare fatica qui gratis. La corsia di parcheggi centrale è sovraccarica, le altre sono deserte. Faccio notare che c’è il parcheggio sotterraneo. Risponde che è per chi si vergogna della propria macchina. Entriamo.

«Alice in cassa quattro», dice l’altoparlante.

Dentro, famiglie provenienti dalle più remote provincie i cui pargoli leccano il pavimento chiedendo come mai è freddo. Genitori col vestito buono attovagliati nei punti ristoro che sorseggiano mikshake con l’aria di scafati cosmopoliti. Esibizionisti di mezz’età. Donna vestita come una passeggiatrice rumena e marito dieci metri dietro che osserva con occhio arrapato se qualcuno la punta. Hanno passato gli ultimi mesi a preparare questa scenetta sognando i più improbabili rimorchi da parte di aitanti giovanotti. Non avvengono giacché una cinquantenne vestita da troia ventenne può infoiarti se sei abituato a vederla in ciabatte e bigodini; il resto del mondo vomita nel cestino dei rifiuti.

«ALICE»

Proseguo. Il tugurio che deglutisce il mio sperma strattona e squittisce indicando oggetti che vuole io acquisti con carta di credito perché le donne, se non vedono i soldi in mano alla commessa, non te li hanno fatti spendere davvero e si sentono meno in colpa. Le faccio presente che quegli oggetti stonano addosso a butrone che si sono schiantate di Pan di stelle perché “tanto il moroso ce l’hanno già”. Entra in fase silenzio passivo aggressivo nell’attesa io le domandi cos’ha. Mi segno sul telefonino l’orario ottimale in cui farlo e mi godo la pace.

«Alice, ‘sto cazzo di cassa quattro»

Trans sudamericani scatenano il panico tra i mariti con moglie al braccio che si chinano a scrutare etichette nel terrore di essere riconosciuti e salutati. Una bambina di quattro anni vestita come una spogliarellista dice “POCCODDIO”. I genitori ridono felici, sgomitandosi e cercando consensi tra i clienti presenti.

«Alice, ti ucciderò»

Vecchi. A centinaia. Dopo aver girato tutti i supermercati della provincia hanno selezionato il centro d’acquisto prescelto e per risparmiare due centesimi spendono 20 euro di benzina in più. Hanno votato Rifondazione e l’hanno preso nel culo, hanno votato Lega e l’hanno preso nel culo, hanno votato Grillo e il finale non butta bene, così sfogano i propri bisogni di giustizialismo tra gli scaffali di zuppe Knorr. La loro trappola preferita consiste nell’abbandonare il carrello in centro corsia e attendere si crei una fila di gente che smadonna. Appena qualcuno apre bocca o tenta di spostare l’ingombro il vecchio esplode in un vortice di cazzate dove l’Italia è una merda, i giovani fanno schifo e comunque Berlusconi è un puttaniere. Come otto noni dei maschi presenti, lui e me compreso.

«Alice, se non vieni qui subito ti spacco i denti con un ciocco di legno e poi ti stupro con un trapano»

Venditrici promozionali. Uomini e donne vestiti come rincoglioniti che nella vita hanno fatto tutte le scelte sbagliate m’inseguono per proporre prodotti imbarazzanti. Assaggini, caffè, abbonamenti telefonici non rescindibili senza bollo papale. Vivono sottomessi da capivendita che si credono Gordon Gekko, praticano la PNL e pippano più bamba di Fiorello quando faceva ridere. Incrocio lo sguardo di questi minions e vedo persone che si addormentano davanti a Badoo convinti di stare seducendo una lesbica di vent’anni. Non sanno che sono io, che non so che sono loro. Dieci anni a farmi le seghe con un altro imbecille.

«Alice, se non vieni qui immediatamente t’ammazzo a bastonate, brucio il corpo e mi fumo le ceneri con un magrebino di Secondigliano che poi mi tromba il culo e ti sborra nell’urna»

Zingari. Non serve vederli per sapere che ci sono. Basta notare che tutti gli uomini presenti si tastano il portafogli con discrezione, rivelando dove si trova. Appena passano si tranquillizzano. Gli onesti cittadini tornano a intascare mozzarelle, sughi, deodoranti, spazzolini, caramelle. Se notano che li guardo fingono di leggere l’etichetta da vicino. Questa, per esempio, esamina con attenzione i valori nutritivi di un portasaponette. Mi giro dall’altra parte. Un uomo nasconde una piantina di basilico sotto la giacca appoggiata al carrello. Vede che lo vedo. Finge di sistemarla bene in bella vista. Mi giro a sinistra. Un uomo ha una confezione di tortellini sotto il maglione. Mia moglie s’infila un sacchetto d’aglio nella manica del cappotto. Prendo uno yogurt e me lo intasco. Alle mie spalle c’è un colpo di tosse. E’ l’addetto alla sicurezza. Un giorno l’onestà andrà di moda, dico. Annuisce. Appoggio lo yogurt.

«ALICE GIURO SU DIO»

Terminati gli acquisti possiamo metterci in fila per le casse. Ce ne sono ventisette, di cui venticinque chiuse, una con una cassiera dall’aria stravolta e una che sta spiegando a un vecchio isterico che la carta fedeltà COOP non è valida all’Auchan. Il solo avvicinarmi scatena il panico nella fila. Gli spazi si compattano e c’è un teso silenzio, occhiate torve che studiano la posizione dei miei piedi per vedere se per caso guido un SUV. Davanti, una donna crede la gente la giudichi in base a quello che ha comprato, mentre la giudica in base alla velocità con cui mette la sua merda sul nastro. Le casse automatiche sono intasate da gente che tenta di rubare tutto nei modi più disparati. Uno scarno sette percento viene fermato, tutto il resto esce a valanga con refurtive di ogni tipo. Vedo un distinto signore che sfila i lacci dalle scarpe in esposizione e se li infila in tasca.

Tornato a casa vorrei solo svenire con in mano il controller della Playstation, ma è ora di vincere un altro premio alla maratona canina. Rientro, mi distendo sul divano. Posso rilassarmi. Suona l’allarme del cellulare. Guardo. Ah, già.

«Cos’hai?» chiedo.
«Niente» risponde lei.

Orfani, un fumetto che dovete far leggere a vostro figlio

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E’ uscito in edicola Orfani, il nuovo fumetto della Bonelli concepito e realizzato da Roberto Recchioni. E’ scorrevole, ha disegni fichissimi e colori da orgasmo retinico. Soprattutto, è qualcosa di nuovo. Da quel poco che ne capisco, le ultime produzioni della Bonelli erano maldestri tentativi di fare Tex gggiovane. Orfani m’è piaciuto subito perché non vuole cercare di piacere. Non coccola i lettori di Tex, non racconta storielle dell’orrore per spompinare quelli di Dylan Dog. Si presenta dicendo “questo sono io, sul west e su craven road ci cago sopra, vaffanculo”.

Il che, ammetterete, è un inizio interessante.

E’ ambientata nel futuro post invasione aliena e si divide in due tronconi, passato e presente. Nel passato vediamo un’apocalisse, dei soldati che tirano fuori dalle macerie dei ragazzini e li mettono in un programma d’addestramento intensivo. Nel presente, i ragazzini sono cresciuti e spaccano il culo agli alieni in una task force speciale chiamata, appunto, “Orfani”. Il loro motto è che non fanno arte, fanno cadaveri e in effetti ce ne sono una marea.

Ho iniziato a leggere Tex da piccolo. Essendoci tutta la collezione in casa me lo leggeva mio padre, tenendomi in braccio e partendo dal primo numero. Io guardavo le figure e lui recitava le battute. Poi sono cresciuto e lo leggevo per i fatti miei, parlando con lui dell’ultima puntata. Quando è morto ho smesso di comprarlo. L’ultimo numero è del gennaio 2013, e in sostanza definisce tutta la mia vita col mio vecchio. Sarebbe fico che un giorno mio figlio si sieda sulle mie ginocchia chiedendomi di leggergli il primo albo di Orfani. Del resto dubito un bambino nato nel 2020 si possa appassionare ai cowboy, o forse lo spero.

Dateci una letta, o regalatelo a vostro figlio.
Anche a vostra figlia, se legge Twilight. Magari si sveglia fuori.

Ho trovato me stesso mentre mia moglie emetteva peti in barattolo

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Bar Verdi, Mestre, ora d’aperitivo. In piedi tra birra, spritz e altri infreddoliti party-giani come noi chiacchieriamo del solito rilassante nulla. Maschi presenti io, Luca, Atza, Ario. Donne presenti Leonora, Pamela, Claudia e il nuovo acquisto della banda, tale Giulia, trentenne mollata dal moroso alle soglie della convivenza che fa la stronza per nascondere le ferite e la paura del futuro. Le ragazze giurano e spergiurano che quando non ci sono uomini è adorabile. Boh.

«Che fate ‘sto fine settimana?» domanda Claudia.
«Riesco a portare la Pamela allo stadio per la prima volta» annuncia Atza con orgoglio.
«Eccitante» commenta Giulia.
La ignoriamo.

«Noi ci spacchiamo in un agriturismo dalle parti di Padova, venite?»
«Nebo e Leo?»
«Trieste»
«Avete mai contemplato il concetto della coscienza di sé?» chiede Ario.

Bicchieri si fermano a mezz’aria.

«A che spritz sei?» chiedo.
«Rispondi»

«Ario, funziona così, ci si trova a fine giornata per non pensare a niente, dire cazzate e dimenticare che il nostro stipendio serve per pagare la raccolta differenziata»
«E quei bastardi dell’ACEGAS» precisa Atza «l’anno scorso 1100 euro. Quest’inverno attacco il riscaldamento al limite del sonno criogenico»

«No» scuote la testa Ario «diciamo puttanate perché conosciamo troppo bene i nostri difetti e se provassimo a dire cose sincere l’amicizia che ci lega se ne andrebbe affanculo. Già ci facciamo schifo, vedere che gli altri vedono in noi le stesse cose sarebbe intollerabile. Quindi non sto parlando del fatto che Atza non riesca ad ammettere di essere gay o di Nebo che ci ha tenuto nascosto per due anni che suo padre stava male perché non si fida di noi, o di Pamela che ha messo le corna con Luca la volta che l’ha accompagnata a casa. O del fatto che le donne presenti dicono cose orribili ai relativi morosi di quelle che qui baciano e abbracciano. O del fatto che passo metà della vita distrutto di droga perché sono un fallito con una vita di merda che ha mollato scuola a tredici anni credendomi furbo. Cioè, se volete parliamo di quello, ma io volevo sapere se voi coglioni avete mai pensato alla coscienza. A cosa ci fa essere noi e non qualcun altro. Cosa ci rende unici. Di cosa volete parlare?»

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Intervallo.

La cameriera si ferma con la mano a mezz’aria e gli occhi sgranati. Ario senza guardarla prende il bicchiere vuoto e glielo mette in mano. Lei non raccoglie gli altri e se ne va di fretta. Stiamo ancora cercando qualcosa da dire quando nella mano di Ario appare per magia un’altra birra. Non ringrazia e continua a fissarci.

«Sei veramente un animale, Ario» mormora Pamela.
«Allora parliamo di come ci sono arrivato»
«NO!» gridiamo tutti insieme.
Ride compiaciuto, annuendo.

«Illuminaci, cosa vuoi che ti dica» sbuffo, sedendomi.
«Ieri sera ho visto un film con svarznegher che c’erano i cloni e siccome ero fatto come un cavallo mi sono messo a pensare»

«Un prologo degno dell’Iliade»

«Vi siete mai chiesti cosa ci rende noi? Come facciamo a sapere di essere davvero noi e non qualcun altro? Se metti che mi clonassero uguale uguale, quale sarebbe l’originale? Quale sarei io? Mi potrei riconoscere? TU, mi riconosceresti? Sarei sempre io? Abbiamo coscienza di noi stessi. Sappiamo di essere noi e non qualcun altro. Ma è così? Noi siamo davvero noi? Dunque ho chiesto a mia moglie di scorreggiare nel barattolo del caffè»

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A Luca cade lo spritz sulle braghe. Io sussulto. Un tizio alle mie spalle sputa la birra tra convulsioni di tosse. La cameriera inciampa. Una macchina inchioda e si schianta contro il palo della luce nell’indifferenza generale. Il pilota con la testa sanguinante abbassa il finestrino e si sporge per sentire meglio.

«E’ così» annuisce, sorseggiando la birra con aria assente «era l’unico modo»
«Prosegui, ti prego» dice Luca, asciugandosi con le salviette.
«Tieni» fa un tizio mai visto prima porgendogli dei fazzoletti.
Luca li prende.

«Scusa, possiamo sederci in due?» chiede una donna alla Leo.
Annuisce.

«Avete presente quel fenomeno per cui scorreggi fetido, tutti hanno sforzi di vomito ma tu no? Anzi, te ne compiaci. E’ un ottimo odore, non ti infastidisce per niente. Lo senti diverso, perché è tuo. Allora mi sono chiesto: se un mio clone scorreggiasse, il tanfo mi darebbe fastidio o no? Quella sarebbe la prova definitiva che io sono io. Quindi ho preso due barattoli di caffè vuoti, sotto ci ho scritto A e B. Ho chiesto a mia moglie di scorreggiare dentro uno e lei l’ha fatto»

«Non ci credo che hai convinto tua moglie a scoreggiare in un barattolo» mormora la Leo.
«Mia moglie fa tutto quello che dico io, se vuole continuare a trombarsi il personal trainer»
«Ma tua moglie ogni tanto te la scopi anche tu?» chiede la Giulia.

«Di rado, mi fa fatica. Andiamo avanti a leccate di passera e pompini, il lavoro pesante lo faccio fare al sottoproletariato che io devo giocare a GTA»
«Ma che razza di matrimonio è?!»
«Felice. Tu a trent’anni hai uno che ti sposa? No. Quindi sono il più esperto in materia, come su quasi tutto. Altre obiezioni?»

«Ma come ti permetti?!» sbotta Giulia.
«Si sente l’odore della tua passera»
«…cosa?» chiede, mentre il suo viso diventa rosso carminio.
«Dico, si sente l’odore della tua passera. Non ti sei cambiata le mutande, solo i jeans, pensando che tanto non ti deve trombare nessuno. Si sente»

Giulia per un attimo rimane immobile, poi prende e se ne va.
Nessuno la segue.

«Davvero…?» inizia la Leo.
«No, sfigati, non sentivo niente. Ma tanto è così per tutte le donne single, ho sparato a caso. Posso andare avanti?»
«E vai avanti» gemo.

«Allora, lei scorreggia nel barattolo del caffè e lo richiude subito. Io appena mi viene faccio lo stesso in un barattolo identico. Sotto scrivo col pennarello A e B, poi li mescolo a occhi chiusi. Ora non so quale sia il mio e quale sia il suo, ci siete?»

Atza annuisce.
Nel bar Verdi il silenzio è imponente.

«Bene. A quel punto apro e annuso prima uno e poi l’altro. Indovinate? Indistinguibili. Facevano da cagare tutti e due. Roba tremenda, eh, mia moglie mangia quasi solo erba che le fermenta e fa la merda verde che paiono ghirlande di natale. Comunque, indistinguibili. Ergo, l’odore dei nostri peti è nostro solo perché lo sappiamo. Se ci clonassero non esisterebbe più un originale o una copia. Non ci sarebbe un prima o un dopo. L’anima non esiste e io sono io solo finché voglio credere di esserlo. L’essenza dell’uomo, in sostanza, sono i suoi limiti. Di conseguenza è per questo che non troviamo il senso della vita, perché la risposta travalica la nostra identità e quindi la capacità di comprenderla»

Nessuno fiata. 

 

 

 

 

 

 

«Questo è il mio numero di telefono» sorride la cameriera, consegnandogli platealmente una salvietta «quando vuoi, dove vuoi, come vuoi, non c’è problema. Altra birra?»
«Altra birra»