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Ario va a cena con i broker e truffa la spogliarellista

Ario va a cena con i broker e truffa la spogliarellista

«Bè, eeh… Nasdaq 32%, il… il Mibtel, percentuali…»
«Atza, più naturale, par che reciti il rosario.»
«Non dimentichiamo Wall street, 60-60%, titoli azionari posterdati.»
«Ecco, Nebo va già meglio. Business e transazione, pacchetto azionario, cosa ne pensi?»

Luca, con il viso ridotto a una maschera di sudore, si allarga il colletto della camicia perlustrando con lo sguardo il ristorante: «A ‘sto giro c’ammazzano» deglutisce «… io ve lo dico, ci trovano in un fosso.»

È il 2015. Siamo in quello che credevamo il ristorante più costoso di Mestre e siamo tutti in giacca e cravatta. A tavola c’è una ragazza bionda sui vent’anni, con zigomi perfetti, occhi azzurri, labbra alla Jolie che ci osserva con attenzione senza capire una parola di italiano. È il grande amore di Ario e si chiama Yelena.

Aveva una storia piuttosto banale.

Nata in un paesino dell’Ucraina, suo padre appena saputo della gravidanza aveva riscoperto la passione per la steppa; siccome laggiù si campava grattando patate a mani nude a -32° per tre centesimi al secolo, sua madre si era trasferita in Italia, a Mestre, in un miniappartamento in centro subaffittato a tre latitanti pakistani. Faceva pulizie per 10 euro l’ora nelle case della “Mestre bene” e inviava il grosso dei soldi in Ucraina per permettere a Yelena di studiare.

Lei invece era diventata una Instagrammer di successo, nel senso che esibiva carne e Photoshop per essere pagata in like e commenti. Un tripudio di borse Vuitton, macchinoni e locali Casamonica friendly la raccontavano come brillante dropout che aveva sfondato nel mondo delle webstar. Poi la madre era stata assassinata dal povero Maurizio, un uomo colpevole di amare troppo – così l’avevano definito i giornali – e di essere un pregiudicato. Il buon Maurizio aveva chiesto alla madre di Yelena 7000 euro, lei aveva rifiutato e lui aveva obiettato con 23 coltellate di cui 2 fatali; aveva vinto la discussione, ma anche un ergastolo. In Ucraina, Yelena affrontava un’improvvisa crisi di liquidità, così aveva presentato ai suoi followers il suo improvviso sogno: scoprire l’Italia.

Dopo aver fatto debiti con gente che firma assegni a revolverate era fuggita.

Aveva iniziato a proporsi come donna di servizio, ma in ogni singolo appartamento dove metteva piede i mariti tentavano di trombarla; una proposta dopo l’altra, in soli sei mesi era finita a lavorare come performer in un circolo di artisti molto ambito dalle parti di Preganziol: «Quello dove ci sono i pali e ricchi mecenati fanno offerte» ci aveva spiegato Ario, mettendo la mano a tulipano e facendola scattare verso l’alto con un gesto secco.

Le signore presenti ridono con garbo

Siccome la bacheca Facebook di Ario comprendeva solo escort, trans, meme da seconda media e pagine chiuse dalla Digos, quando il locale aveva presentato Yelena come novità, lui aveva iniziato a chattarci. Tramite un terrificante innesto di italiano, inglese, dialetto veneto ed emoticon era riuscito a convincerla di essere un broker di successo che aveva subito il sequestro dei beni. Si erano visti, l’aveva portata a passeggio per Venezia e davanti a palazzo Franchetti aveva detto “you see, zis essere mai house before evil polis”. Lei gli aveva creduto senza indugio e proprio per questo aveva tenuto le gambe ben strette: era convinta d’aver trovato marito e voleva dimostrarsi donna d’altri tempi.

Un giorno Ario si era presentato al bar e supplicancoci di vestirci in giacca e cravatta per fingere una cena di lavoro nel ristorante che credeva più chic di Mestre.

«Tanto non capisce un cazzo d’italiano» ci aveva rassicurato «Vi presentate, chiacchieriamo di quello che volete, basta che ogni tanto dite Nasdaq, Dow Jones, Ftse, sparate cifre a caso e poi torniamo a parlare di fantacalcio.»
«Ma chi paga il ristorante?»
«Scappiamo senza pagare, ovvio. Tanto chi ci tornerà mai più?»

Il ristorante esclusivissimo era stato tale fino ai primi anni ’90. Alla morte del gestore, i figli avevano deciso di svecchiare il brand: basta materie di prima scelta, basta cuochi costosi, basta camerieri in livrea, basta con l’ambiente ingessato. In sei mesi era finito in un turbine di intossicazioni alimentari e recensioni al napalm su Tripadvisor, ma agli occhi di una contadina ucraina pareva ancora la reggia di Caserta.

Luca, agente immobiliare, aveva dovuto prestare a tutti i completi e le camicie. Le cravatte le avevo fornite io rubandole da guardaroba paterno, giacché Luca ne aveva una sola con i colori dell’azienda. A questa tragedia andava aggiunto che ci eravamo caricati di Negroni a stomaco vuoto perché consapevoli del finale tragico, quindi abbiamo già un aspetto

«Non puoi mettere Handanovic con Abbiati, ti costa troppo. Nasdaq. Invece ho Agazzi che mi sta dando rendimento pazzesco» fa Ario «Mibtel Mibtel, transaction, deal.»
«Pure Viviano. Io ho fatto Viviano + Agazzi, De Sanctis + Consigli, Ujkani + Frison.»
«National security bank» dico, annuendo.
«Lavezzi se n’è andato, sicuro la prossima stagione faranno un 3-5-1-1 stracoperto per pigliare meno reti. Dow Jones, Wall street, money.»

La cena procede in un crescendo di nonsense.
Episodi degni di nota:

1. Atza che improvvisamente esplode. Nell’aria si forma una nuvola di pezzi di triglia alla livornese, lui attraversa tutti i colori della bandiera LGBTπ+√2^16, si alza col viso rosso pompeiano, si strappa la cravatta con le lacrime agli occhi, rantola, sputa, piazza un rutto tale da far tremare le otturazioni dei denti e crolla sulla sedia, spossato in un oceano di sudore.

2. Luca viene colto da attacchi di panico quando scopre che il personale un tempo professionista è stato sostituito da teppaglia chioggiotta dal coltello facile, ed è convinto la sua vita terminerà al momento di pagare. Sudato come un purosangue dopo la gara, mormora che c’ammazzeranno tutti. Due volte viene fermato da Ario con sguardi e torsioni del braccio mentre tenta di fuggire da solo.

3. Yelena, per mantenere la sua illusione, sul cellulare guarda foto di palazzo Franchetti e di tanto in tanto la mostra dicendo che qui cambiamo tappezzeria, qui ci mettiamo due divani, lì bisogna mettere cose moderne.

Alla fine, Ario si gira verso Yelena: «Tuto good?»
«I’m boring» sbuffa lei.

«Ghe sboring se è vero» mormora Luca.

«Do you want andare a home a fare el chumba chumba?» le domanda dolcemente, tenendole la mano mentre con l’altra muove il pugno avanti e indietro. Lei, ammaliata dall’arguta allusione, sorride. La cena volge al termine, e decidiamo di uscire fuori a fumare. Ario si affretta verso la macchina spiegandole che ha fatto mettere tutto sul suo conto, poi noi facciamo per emularlo ma ci accorgiamo che un cameriere ci tiene d’occhio e indossa, inspiegabilmente, scarpe da ginnastica.

Siccome a nessuno di noi tre piace l’idea di venire accoltellati, smembrati e serviti come scottona nei prossimi giorni, diamo fondo ai nostri risparmi. Ario promette che ci restituirà la parte sua e di Yelena. Atza, togliendosi la cravatta, scuote la testa e si domanda perché dobbiamo continuare a essere suoi amici.

«Atza te dopo il duello con le spadine devi stare zitto, cazzo, zitto» aveva ringhiato Luca.

Il cammino dell’uomo timorato e lo shabby chic

Il cammino dell’uomo timorato e lo shabby chic

L’appartamento di Ario consisteva in 52 metri quadri in una laterale di via dell’Elettricità, dove di giorno l’aria era pregna di esalazioni chimiche vagamente simili al ragù, e di notte profumava delle salsicce dei kebbabari che sfamavano puttanieri sfiancati.

Era un quartiere cosmopolita.
Al mattino potevi vedere tossici italiani, al pomeriggio rapinatori marocchini, la sera ubriachi moldavi, la notte prostitute ghanesi e la domenica massaggiatrici cinesi. Non era sempre stato così: Marghera era stato un sogno di benessere e lavoro, poi gli architetti avevano scoperto che i quartieri residenziali tra le fabbriche di fosgene non vanno a ruba. Ogni volta che suonavano le sirene, la gente accendeva la televisione per capire se era l’ora della pausa pranzo o della morte per asfissia.

Una giornata qualunque, a Marghera

La proprietaria precedente era stata la nonna della fidanzata.

L’anziana era recentemente trapassata per il male che affligge gli anziani di porto Marghera, ossia la rapina a mano armata. Era stata puntata da un giovane imprenditore armato di coltello da caccia, lei per sottrarsi dal suo dinamismo si era gettata in mezzo alla strada ed era stata arrotata da un furgone di operai ucraini, in fuga dal cantiere dov’era appena morto uno di loro. I giornalisti non avevano neppure tentato d’imbastire lo scandalo criminalità; nelle redazioni di Mestre Venezia si poteva parlare soltanto di baby gang, giacché i criminali più alti erano buoni amici dei direttori.

La fidanzata, entrata in possesso della magione, aveva subito dichiarato di volerla arredare in stile shabby chic. Consisteva nel prendere mobilio antico, verniciarlo di bianco e buttarci in mezzo cuoricini e ricamini a tinte pastello. Dopo spese folli, debiti e tentativi falliti, il risultato era un abominio panna in cui l’occhio faticava a distinguere mobili e spigoli, e le scritte motivazionali “home sweet home”, “love”, “la belle jardinière” creavano un bel contrasto con le spaventose bestemmie che scaturivano da mignoli fratturati, rotule polverizzate e zigomi distrutti.

L’incidente accadde un venerdì sera. Ario era tornato stanco morto dalla fabbrica, si era seduto sul divano rosa per drogarsi, quando il gatto era saltato sullo schienale facendgli crollare sul cranio una simpatica natura morta composta da spartiti, rami secchi finti e uova di quaglia finte in cornice “Rosier de France Paris”.

Ario aveva quindi espresso obiezioni sull’operato di nostro Signore, poi aveva scagliato il suppellettile verso la finestra aperta. Ruotando come un freesbee, il rosier de France era precipitato nel lunotto di una Fiat Punto da cui era uscita una punkabbestia dagli occhi iniettati di sangue. Il nugulo di blasfemie urlate a voce roca l’aveva costretto ad alzarsi dal divano e andare alla finestra.

«Allora, cos’è ‘sto casino? Qui c’è gente che vuole drogarsi» aveva tuonato.
«L’hai buttata tu questa roba?!»
«No, no, l’ho vista passare dalla finestra anch’io» aveva sbuffato «È da un po’ che gira.»
«Che cazzo dici?! Vuoi che chiamo gli sbirri e vediamo?»
Una finestra si era spalancata di colpo, e un uomo sulla quarantina era intervenuto: «Che cazzo avete da urlare?!»
«Ma niente, le solite manifestazioni femministe» aveva minimizzato Ario stingendo le spalle.
«Avete rotto i coglioni, siete tutte puttane!» le aveva urlato l’uomo, e lei era esplosa in un boato d’improperi e minacce mentre Ario, annuendo gravemente, aveva chiuso la finestra.

La rissa era degenerata in rispettive telefonate alla polizia, che era arrivata giusto mentre la donna aveva lanciato il Rosier de France addosso all’uomo sceso in strada in canotta, braghe della tuta e cattive intenzioni. Il finale era stato impietoso; lui aveva violato gli arresti domiciliari, lei aveva in macchina due grammi di cocaina e siringhe “per il cane che ha il diabete” ed erano finiti in commissariato tra urla e querele. Erano solo i primi della lunga lista di nemici che Ario si stava facendo in quartiere.

«Il cammino dell’uomo timorato di Dio è minacciato da ogni parte dalle iniquità degli esseri egoisti e dalla tirannia degli uomini malvagi» sospirava, sorseggiando il mojito e chiedendo sigarette.

Ario entra in politica e mi rilascia un’intervista

Ario entra in politica e mi rilascia un’intervista

 

«Raccontami com’è cambiata Mestre»
«Mah, i divertimenti sono gli stessi, è diversa la classe dirigente. La Grande Purga del 2018 ha cambiato tutto. L’eroina oggi è Marghera, abbiamo perso il primato di capitale dei morti. Adesso il giro grosso è lì, gente d’ogni fede e sesso che si droga sotto il sole, socializza, si spara, tutto grazie ai nuovi imprenditori cosmopoliti. Mestre dovrà inventarsi qualcosa per riuscire a stare al passo. Per quanto riguarda chi invece della droga sceglie la vita, sì, c’è il Terraglio, storica eccellenza mestrina. Possiamo dire che è il nostro Colosseo. Certo, anche qui Marghera avanza; hanno saputo vedere il futuro. Finché noi mestrini ci trinceriamo dietro la rassicurante prostituzione casalinga continueremo a vivacchiare. Si sta vedendo un’impennata vuoi per la quarantena, vuoi per una clientela più esigente che cerca la moglie fedifraga, lo studentello prestante, l’universitaria non pro. Insomma, il degrado nazionale sopravvive grazie all’artigianato del bucchino.»

«Come hai passato il lockdown?»
«Ho viaggiato. Viaggiare apre la mente, ti fa scoprire culture diverse, t’insegna l’umiltà.»

«Come sarebbe? Ario, era tutto chiuso.»
«No, no, i trip ce li procurava un mio collega. Ogni sera nel locale dei contatori del mio palazzo ci mettevamo ad ascoltare musiche mistiche e via verso nuove destinazioni. I palazzi di ghiaccio su Alpha Centauri, le riarse pianure di Marte, il parco del Piraghetto…»

«Va bene, parliamo della qualità della vita»
«Siamo nella media. Di recente si parla di riqualificare il Pertini, com’è che hanno detto? Tipo interventi mirati al target di popolazione anziana indifesa di fronte alla presenza di barriere architettoniche. Ma io dico, comunque offrono un riparo durante le sparatorie. I cittadini hanno tentato di spiegarlo ma niente, quelli al potere capiscono solo “più aree cani”. Intenderanno quelli della cinofila, vai a sapere. Si potrebbe pensare a un gilet da pescatore in versione antiproiettile, ma io ormai sono padre di famiglia, certe cose mi riguardano sì e no. Sono i giovani che dovrebbero credere nell’Italia e investire.»

«Nei giubbotti antiproiettile?»
«No, no, investire i vecchi. Arrotarli, uno per uno. Vrooom e via dritti. Largo ai giovani.»

«Diresti che Mestre è una città per famiglie?»
«Assolutamente! Mio figlio è in prima elementare e già mi regala soddisfazioni. Pensa che ieri han chiamato da scuola perché ha rubato un astuccio. Gli ho sempre insegnato che le cose importanti della vita di solito appartengono agli altri. Loro non sembra ma ascoltano, guardano, imitano. La mia ex moglie mi fa “devi andare a parlare con la maestra”. Lei, capito, che passa le domeniche a saltellare sui camerieri. Scusa, se hai tempo di giuocare alla liana rosa c’hai tempo di andare a parlare con quella che voleva cambiare il mondo studiando scienze della formazione, io ho da fare.»

«Cos’ha da fare uno come te?»
«Sto valutando la politica.»

«Ario, tu che hai sì e no la terza media?»
«Cosa c’entra, un politico non è un tecnico. Il compito di un politico è prendere i muggiti analfabeti dei drogati, i ghirigori in stampatello separati col puntino degli operai, i cartelli a lutto che amano fare i commercianti e tradurli in una lingua comprensibile per il governo. Prendi quella banda di ladri in centro, hai presente? Son trent’anni che fanno ‘sti cazzo di cartelli a lutto è morta la democrazia, è morto il commercio, è morto l’artigianato, e ogni domenica a inscenare i funerali. Chi se li caga? Nessuno. Ma se prendi due bei trans, gli metti una telecamera davanti, tiri fuori il cazzo e dici “ora t’inculo come c’incula lo Stato”; tempo 72 ore siamo sui giornali nazionali. A questo serve un politico.»

«Che credibilità pensi di avere con il tuo passato e la tua fedina penale?»
«Io? Credibilità? A cosa serve?»

«A essere votato.»
«Ma a me frega cazzi d’essere votato, io voglio far conoscere i problemi di Mestre al resto del paese, stargli tra le balle finché non si decidono a capire che il vero business dell’Italia è la droga, la prostituzione, la ricettazione, il malaffare! Se non lo faccio io quei ritardati continueranno a guardare i conti e a dire “oh fioi arriva la crisi economica, gli italiani non guadagnano, il lockdown ci ha uccisi”. Ma cosa? La bucchina del terzo piano faceva ballare il materasso sei giorni su sette, in condominio c’era la coda per le scale che manco a Gardaland. Son pure venuti i vigili, sono stato io a spiegargli che in realtà erano tutti commercianti in coda per gettarsi dal palazzo e che io li dissuadevo uno per uno. Poi gli ho lasciato il biglietto da visita e se ne sono andati.»

«Hai un biglietto da visita?»
«Sì, ho le banconote da 200, quelle gialle. Sopra ci scrivo Ario el mejo in piccolo.»

«Temo la tua carriera politica avrà poco futuro.»
«Almeno potrò guardarmi allo specchio e vedere un tossico che ci ha provato.»

Tesoro, il dildo parla con la CIA

Tesoro, il dildo parla con la CIA

 

Domenica mattina.

La donna con cui ho fatto sesso è scomparsa, chiunque essa fosse. Verifico sui social quanti like hanno ricevuto le nostre prestazioni sessuali grazie ad i.Con, lo smart goldone. Traccia calorie bruciate, durata del rapporto, velocità media, frequenza, intensità, temperatura del corpo e numero di posizioni. Purtroppo lo smart materasso, basandosi sulla mia respirazione e il mio battito cardiaco, decide che ho riposato abbastanza e mi eietta fuori dal letto. La smart coperta si mette in ordine da sola. In casa fa un freddo mostruoso. Purtroppo il mio riscaldamento è stato hackerato e per riaverlo devo versare 1,000 euro oppure tradire due miei amici e infettare anche il loro.

Non mi lamento, comunque.
A San Francisco l’intera rete ferrotramviaria è tenuta in ostaggio.

Afferro il cellulare e vago nella nebbia gelida della mia abitazione. Potrei riposare sullo smart divano. Peccato gli altoparlanti surround siano stati hackerati e ogni volta che qualcuno ci si siede urlano “Ipot! Ipot! Ipot!” che significa “stronzo” in filippino. Non posso nemmeno staccare la presa della corrente, il divano si chiuderebbe su sé stesso come un’ostrica pressando tutto ciò che è a bordo. È così che il mio gatto è trapassato.

Farò colazione.

Apro la app per il caffè, ma la smart moka non da segni di vita. A terra noto una pozzanghera congelata marrone. Ha fatto caffè tutta la notte, chissà perché. Provo lo smart bollitore, ma deve aggiornarsi e il tempo stimato è 11 ore. Apro lo smart frigo. Sul quadrante dovrebbero apparire temperatura e statistiche, invece c’è porno hentai e un avviso: devo versare 400 euro a un hacker sudcoreano per sistemarlo. All’interno è marcito tutto. Mi restano gallette di riso. Fanno schifo, ma non posso buttarle via. Lo smart cestino riconoscerebbe la confezione e ne ordinerebbe subito altre su Amazon. Io lo odio, Amazon. In casa c’è il suo emissario, Alexa. Un tubo nero che registra tutto quello che sente e si attiva se pronuncio parole chiave. Una volta ho detto alla mia ragazza “Alessia, qui stai facendo l’isterica” e Amazon ha capito “Alexa, acquista carta igienica”. Me ne sono arrivati 130,000 rotoli. Grazie a me, l’intera città si pulisce il culo gratis da anni. Sul cellulare appare una notifica:

«UMANO, DEVI ASSUMERE LIQUIDI NUTRITIVI.»

È il mio smart orologio, mi avvisa quando ho sete o devo svolgere funzioni corporali. Provo a bere dallo smart rubinetto, ma il touchscreen non risponde perché i chip sono ghiacciati. Dovrei provare a resettarlo ma non trovo più l’app. Ne ho 1498, morirei di sete prima di trovarla. Entro in bagno e vengo avvolto dal delizioso aroma della candela che profuma di iMac nuovo. Attivo la smart doccia e bevo da lì, ascoltando le prime pubblicità dagli altoparlanti inclusi nel rubinetto.
Dissetato, mi rassegno a mangiare le gallette.

«UMANO, DEVI VUOTARE IL TUO SFINTERE.»

 

 

Siedo sullo smart wc, che somiglia al quadro comandi di uno shuttle. Stringo i denti, la fronte mi si imperla di sudore e con uno sforzo pari a mille stratoreattori riesco a partorire una striminzita carruba. Il WC emette il suono delle monetine di Supermario. Premo il tasto “missione compiuta”, il WC comunica quanta acqua è necessaria a espellere le mie feci, premo ok e mi preparo: un geyser d’acqua mi penetra l’orifizio per pulirmi. Resto lì, ansimante e felice. Dal condominio odo provenire esplosioni, grida e notifiche Twitter. Tutto normale. Samsung è la marca di tendenza, nonostante ogni cosa che produca deflagri. E siccome le smart abitazioni appena rilevano fumo postano una notifica su Twitter, osservo l’annichilimento dei condomini in tempo reale. Plim, il frigorifero di Marco è detonato. Plim, la lavatrice di Katia è esplosa. Plim, il tuo vicino di casa è una palla di fuoco. Ormai la Samsung produce direttamente computer a forma di bomba apposta.

«UMANO, È TEMPO DI CAMBIARE IL TUO LIQUIDO SEMINALE.»
Cristo, devo masturbarmi.

La serratura di casa è crashata. Succede.

 

Vado sull’app di Youporn.
Mentre aspetto che il filmato si carichi connetto Pulse, un distributore automatico di lubrificante che lo mantiene sempre alla perfetta temperatura. Lo linko a Oomph, lo smart bucchino. Mi permette di avere le mani libere, così posso skippare le parti noiose del video mentre la bocca di Terminator sugge il mio pene. Purtroppo sbaglio di mezzo millimetro a premere la X della pubblicità, e si apre la pagina di un certo Kuvee, una bottiglia per bottiglie. Infili il vino dentro e lui ti dice che vino è, che marca è, con cosa si abbina. La mia erezione frana. Sarà il freddo. O il fatto che questo Kuvee mi ricorda troppo un amplesso gay.

Leggo le notizie. Una donna ha scoperto che il suo smart dildo trasmetteva informazioni sulla sua vagina in tempo reale a un’equipe di tecnici. Li ha denunciati ed è passata ad iLove, la cui azienda ambisce a diventare “la Apple dell’anal”. Per una donna è dura, vivere in questi tempi. Una mia ex aveva perso il cellulare in discoteca, senza il quale non poteva aprire la smart serratura di casa, né aprire la macchina, né accedere al proprio denaro o alla propria rubrica per chiamare aiuto. Il filmato di lei che muore assiderata sul suo smart zerbino ha fatto 120,000 like e 60,000 condivisioni. Non che potessi andarla a prendere. La mia macchina è stata abbattuta da un drone mentre correva a tavoletta verso il mercato nero bulgaro, pilotata in streaming da chissà chi.

Sono tempi interessanti.

04. Un mazzo di chiavi

04. Un mazzo di chiavi

[00. L’equazione di Sabrina] – [01. La chiamata dell’eroe] – [02. Un paese tranquillo] – [03. La faccia della paura]

Partiamo di corsa e impieghiamo una decina di minuti per arrivare e scavalcare il cancello. Studiamo il da farsi nel cortile, con il gorgogliare della fontanella e il vento del temporale che carica. Il piano di passare per le finestre è scartato causa inferriate, quindi resta solo il portone.

Dopo qualche tentativo di usare una vanga come leva rinunciamo. Non riusciamo a infilarla. Usiamo un vaso di cemento come ariete, e una decina di colpi dopo la porta si scassa abbastanza per infilarci sotto la pala. Ario tiene il portone verso l’esterno, io infilo sotto la vanga e ci salto sopra. Il portone salta su dal cardine e crolla al suolo con un boato attutito dalla ghiaia. C’è una seconda porta, metà legno e metà vetro. È chiusa a chiave. Dentro è troppo buio per vedere. Sospiro: «Bisognerà trovare un modo p-

«FULMINE DI PEGASUS» grida Ario alle mie spalle, poi il sasso di un’aiuola mi sfiora la faccia e risolve il problema in  un tripudio di schegge. Ci abbiamo messo mezz’ora e non ho tempo per protestare. Mi tolgo una scarpa, rimuovo i frammenti ancora attaccati, entriamo.

«BUONASERA, SIAMO I FASCISTI» annuncia Ario al buio davanti a noi.
Nessuno risponde.

«Ma perché i fascisti?» domando.
«Boh, a tema con l’ambiente» fa Ario, indicando la volta «È CON NOI ANCHE UN ABISSINO» aggiunge.
Silenzio.

«Non c’è davvero nessuno, a quest’ora sarebbero già tutti usciti sparando. Vamonos, è tempo di rubare.»

Sono le 23.15, ci restano tre quarti d’ora prima di tornare da Luca e Atza. Imposto l’allarme sul Casio e avanziamo. Per non consumare gli accendini facciamo solo scattare le pietrine, producendo lampi che mostrano un’anticamera vasta, alta, con quattro colonne di marmo, due porte davanti e quattro laterali. Sulle pareti ci sono delle bacheche, così lasciamo andare il gas e le studiamo. Avvisi, orari, corsi, poi la mappa del piano terra vicino a una vecchia pubblicità progresso.

«Impiegheremo giorni» dico, guardando la mappa «Sono quattro piani di roba. Cosa cerchiamo?»
«Casseforti, roba da soldi…»
«Ah, bastava dirlo. Guarda, qui c’è scritto “oggetti di valore incustoditi”.»
«Davvero?»
«No.»
«E io che spero sempre ‘sto paese faccia passi avanti» geme Ario «Vabbè, esplorazione alla Rocco: entri, sfasci, fuggi, avanti la prossima. In un’ora a piano ce la facciamo.»
«UN’ORA?! Ma hai visto quant’è grande?! In un’ora non facciamo una sola ala. Non abbiamo nemmeno una torcia.»
«Quella si può fare. Poi piantala di rognare, siamo dotati di cazzo, esso ci guiderà verso il tesoro» dice, attraversando l’anticamera.

Lo seguo coprendo la fiamma degli accendini perché evitare mi abbagli. Vedo il gabbiotto della segreteria, scrivanie anni ’70 coi cassetti aperti, armadietti, pareti costellate di rettangoli anneriti che dovevano essere quadri e diplomi. A sinistra il corridoio si perde nel nulla, a destra c’è un salottino d’attesa coi portacenere ad albero, portariviste, una fila di piante morte. Sugli angoli in alto, casse per la filodiffusione anni ’70 coperte di polvere.

La fiamma del mio accendino ha un sussulto.

Mi blocco e afferro la manica di Ario. Stiamo immobili ad ascoltare il vento tra gli alberi fuori e il rombo del sangue nelle orecchie. Gli spifferi in un edificio troppo grande e vecchio possono fare minuscole correnti, ma quella stramba ragazzina veneziana che mi insegnò tutto questo mi ha anche insegnato che le brutte sensazioni ignorate ti portano in questura. Ma non c’è niente. Solo una corrente d’aria. Ario si divincola.

«Nebo, guarda che non abbiamo la figa, rischi zero. Gli psicopatici vogliono solo scopare. Di noi che gli frega? Se trovi uno che smembra cadaveri ti scusi per il disturbo e te ne vai.»
«Sì, Ario, certo.»
«Fidati. Se non ci sono donne o soldi di mezzo, i maschi si mettono d’accordo. Te c’hai voglia di metterti a litigare, pestarsi… che palle. Noi siamo qui in cerca di quattrini per scopare, siamo in una botte di ferro. Massimo scatta la solidarietà, i consigli, lo scambio d’esperienze.»

«Non credo il problema siano gli psicopatici.»
«Nebo io capisco i tuoi antenati negri credano negli dèi della foresta, ma sei pur sempre a maggioranza bianca, dovrebbe prevalere il tuo lato pragmatico. Secondo te perché non esistono horror di soli uomini?»
«Che ne so.»
«Prendi l’Esorcista. Se invece di Emily il demonio possedeva un uomo, chi se ne accorgeva? Sputava, vomitava, bestemmiava, pensava a scopare, aveva una faccia di merda e camminava storto per le scale. Praticamente il rientro di qualunque uomo il sabato sera. Vero o no?»

«Dunque, negli horror devi mettere la figa. Ne abbiamo? No. Botte di ferro.»
«Questo è l’ufficio del preside» dico, indicando una porta.

È anche l’unica porta chiusa a chiave. Ci diamo il turno prendendola a calci sopra la maniglia, con gli schianti del legno che rimbombano nei corridoi. La porta cede, colpisce il muro e quasi mi rimbalza in faccia. La scrivania è un piccolo capolavoro dell’artigianato dell’800. C’è una sola finestra aperta che dà sul retro del cortile, con le imposte che sbattono per il vento. Ai muri scaffali di legno impiallicciato e montanti di plastica nera. Nel complesso, è la solita mestizia sciapa da ufficio statale con qualche guizzo di tradizione e tonnellate di polvere.

Ario tira fuori i cassetti che si schiantano per terra. Quello al centro è chiuso a chiave, così capovolgiamo la scrivania e Ario salta sopra il cassetto finché si spacca, poi ci chiniamo a osservare. Buste affrancate e aperte, una fotografia di studenti, una Mont Blanc rossa a sfera e un mazzo di chiavi zigrinate per serrature a pistoni, più complicate di quelle a scatto unico che abbiamo visto fino adesso.

«Una madonna di niente» impreca Ario «Andiamo avanti. Le chiavi mi sanno di roba nascosta, casseforti, armadi dell’orrore.»
«Non ti dimentichi le chiavi della cassaforte nella scrivania e te ne vai per sempre» dico.
«Tutto è possibile. Via, via, studiare.»

M’infilo in tasca le carte e passiamo in rassegna le pareti, aiutati dalla luce diafana che viene dalla finestra, bussando in cerca di un suono vuoto. Quando arrivo vicino alla porta, il mio piede urta qualcosa di metallico.

È la chiave della porta. Con l’accendino guardo la serratura sfondata. Il blocco è fuori. La infilo nella toppa e giro: il blocco rientra. Era chiusa dall’interno. All’improvviso la stanza diventa interessante. Vado a vedere le imposte della finestra e le trovo integre. Qualcuno è entrato dalla porta, poi si è chiuso a chiave ed è uscito dalla finestra. Perché?

«Non voleva gli rompessero i coglioni mentre delinqueva» fa Ario «Interessante.»
«Ma chi?»
«Chi se ne frega? L’unica cosa certa è che il manolesta puntava a rubare qualcosa, e quello che interessa a lui interessa a noi.»
«Magari l’ha preso.»
«Ottimismo, negro, ottimismo!» gongola Ario, zompettando fino alla scrivania ribaltata e illuminando la serratura del cassetto sfondato: «A-HA!» esclama, indicando il bordo su cui ci sono scheggiature e graffi.
«Dunque il collega voleva qualcosa nel cassetto, ma è fuggito prima di riuscire. Qual era il bottino?» domanda. Mi frugo in tasca e tiro fuori tutto. Una foto di classe, buste con lettere e un mazzo di chiavi.
«Quelle» dice Ario, strappandomele di mano «Siamo a posto. Ora sgamiamo cosa aprivano ‘ste chia-
Il Casio al polso suona.

Dobbiamo raggiungere gli altri. Ario s’infila in tasca buste e foto, sale sul davanzale e salta nel cortile. Per un istante rimango solo. Sento il vento fuori, lo scalpicciare delle scarpe di Ario, l’imposta che sbatte. Guardo la porta da cui siamo entrati, un rettangolo nero e silenzioso: chi chiude a chiave una porta, in un edificio abbandonato? Cosa c’era, dall’altra parte, da costringerlo a scappare dalla finestra?

«Ah, namiore ganchiore» fa Ario, dall’esterno «Piove.»
«E quindi?» dico, saltando giù.
«La macchina, focomelico» sbotta, scattando verso la piazza mentre la pioggia aumenta. Lo seguo, lanciando un’ultima occhiata alla finestra aperta e a quella porta chiusa.

Arriviamo fradici e troviamo Luca e Atza seduti ai tavolini interni del bar che bevono Petrus Boonekamp e Fanta con due pompe d’irrigazione arrotolate per terra. Zombie si è mangiato un chilo di prosciutto cotto imbustato per toast, ha gradito qualche sottiletta, si è dissetato con l’acqua minerale e ora sta a guardia della refurtiva. Appena spuntiamo all’ingresso, Atza caccia un urlo e cade dalla sedia rovesciandosi il bicchiere addosso.

«Via, via, veloci!» fa Ario «È tutto lì?»
«Sì, prese dal dottor Carrai.»
«IL BUON DOTTOR CARRAI» esclama Ario, caricandosele in spalla «Motorini?»
«Son qui dietro» fa Luca «Niente chiavi, ma avviarli è una stronzata, basta aprire il blocco della chiave.»
«ANDALE, RECUPERATE LE MOTOZAPPE, NEBO, VIA» fa Ario, correndo fuori.

Sotto una doccia gelida, inseguiti da Zombie, sento in lontananza il ronzio metallico dei motorini che mi sorpassano pochi minuti dopo. Esperti adolescenti, saliamo dietro e raggiungiamo il muretto. La 127 è ancora lì, ma l’erba è già fradicia e scivolosa. Facciamo un cappio che fissiamo al sedile dei due Piaggio, Luca e Atza arretrano per mettersi in posizione, io e Ario scendiamo a fissare le pompe alla 127 che non ha ganci anteriori. L’unica soluzione che ci viene in mente è aprire le portiere, far passare le gomme nell’intercapedine che le collega alla macchina e farci il nodo.

La pancia della macchina s’è interrata in un dosso e le ruote non toccano terra. Risaliamo a prendere i sassi franati del muretto e ammassiamo in fretta un binario. Ario si mette al volante: «Riferisci ai due idioti di andare lentisssssimo e costante» grida per sovrastare la pioggia.
«Lento e costante, ok.»
«No, lentissimo e costante; deve sembrare la tua carriera da rapper.»

La strada è invasa dal fumo dei motorini. A valle, Ario accende il motore e io faccio cenno agli altri; le pompe si tendono, l’albicocco sussulta e sento il motore salire di giri. Si muove. Ogni volta che un sasso del nostro binario si sposta la ruota scivola sull’erba, e ogni volta Ario tira una bestemmia diversa, più intensa e appassionata. Lo osservo con un misto di terrore e incredulità. Ario è il fantino che sta cavalcando il Cristo verso il traguardo, è Saruman contro Gandalf, è il vento che muove le vele del destino.

Da chissà quale antro segreto della sua mente, il giovane sciamano evoca sante semisconosciute, beati dimenticati nei libri di Storia, arcangeli, interi concili vaticani elencati in ordine temporale da prima delle crociate e li unisce in una gigantesca sfera genkidama di blasfemia con cui alimentare il motore della 127. I due Piaggio sgommano sull’asfalto bagnato sollevando fumo bianco e acre, Luca e Atza danno a manetta, nel cielo tuoni e fulmini, a terra fumo, luci rosse, Armageddon.

All’ultimo metro dalla bocca di Ario escono Brigida di Svezia, Demetrio di Alessandria, Eustochia Smeralda Calafato e quel San Brendano di Clonfert che ogni bestemmiatore professionista conosce bene perché si può pronunciare ruttando, poi la gomma legata al motorino di Atza si spezza catapultandolo contro il muro con un guaito.

Ora è solo pioggia e silenzio.

La 127 è metà sulla strada e metà giù, ma le ruote anteriori hanno frenato in tempo. Luca molla il motorino e soccorre Atza, Ario rimette la 127 in strada di traverso, ingrana la marcia, io gli metto due sassi dietro le ruote per prudenza. I fari illuminano i vigneti in basso. Zombie è sotto un albero che ci osserva con l’aria ottusa e ottimista che hanno i cani, quando ti guardano fare cose che non capiscono ma sono certi tu abbia un ottimo motivo per farlo.

«Avevo detto pianissimo» fa Ario, sbattendo la portiera. Il finestrino va in pezzi. Lo osserva, poi scrolla le spalle: «Vabbè, tanto… Come sta il pirata guascone?»
«MI DONO DODDO IL DAZO» bercia Atza, rialzandosi con il sangue che gli cola fino sul mento e la faccia piena di graffi.
«Dai, non è grave» fa Luca, osservandolo.
Ario va a prendere dei fazzoletti di carta appallottolati dalla macchina e li porge ad Atza.
«Grazie» dice mettendoseli contro le narici: «DON ZONO UZADI, VERO?»
«No, no.»

Siamo bagnati fradici, stanchi e demotivati. Andiamo a sederci sotto una tettoia subito raggiunti dal claudicante Zombie, per fumare una sigaretta e decidere il da farsi nella speranza che smetta di piovere. Atza, premendo e rigirandosi i fazzoletti contro il naso vede un preservativo che sporge, tira un urlo in falsetto e li lancia in faccia ad Ario, che reagisce a cazzotti. Mentre i due idioti si azzuffano e la pioggia cade, Luca mi aggiorna. Oltre a motorini e pompe hanno rubato soldi dalla cassetta delle offerte in chiesa e dalla cassa del bar, totalizzando la considerevole somma di 31,250 lire. Io gli racconto com’è andata a noi. Un pacco di lettere, un mazzo di chiavi e una domanda su una stanza chiusa dall’interno.

«Scusa, ma la finestra era rotta, rovinata?» fa Luca «Dentro c’erano foglie?»
«No. Niente di diverso dalle altre.»
«Quindi è stata aperta di recente?»

Mi torna in mente la fiamma dell’accendino che balla all’improvviso, indice che una corrente d’aria è stata disturbata. Succede quando chiudi una porta, per esempio. Ecco di cos’aveva paura l’apritore di finestre: di noi.

«FIOI!» sbotto «C’è qualcuno in città.»
Atza e Ario si fermano: «Che ne sai?»
Tiro fuori le lettere e la foto.

 

[Continua]