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Gogne a cinque stelle, versione 2.1

Gogne a cinque stelle, versione 2.1

Sta andando avanti da settimane la storia della RAI contro il discorso di Fedez al concerto del primo maggio. Il popolo è incondizionatamente dalla parte del rapper, perché ha fatto nomi e cognomi di consiglieri di provincia, autori di dichiarazioni che è difficile definire se omofobe o vere istigazioni a delinquere.

I giornali gli vanno dietro in un afflato d’entusiasmo: Fedez è l’unico rimasto a fare politica, dicono alcuni. Fedez ha ragione. Altri – specie quelli intrecciati con l’amministrazione e il circolo RAI – sono più prudenti, dicendo che insomma, il concerto del Primo maggio non è il posto giusto per dire certe cose.

Il che è ridicolo: il concerto del Primo maggio fa polemiche ogni volta, sin dalla fondazione.
Alcune ridicole, altre più ridicole.

Basta pensare ai magici tempi dell’antiberlusconismo, in cui se non facevi almeno una dichiarazione sessista sulle Olgettine o una di bodyshaming sul presidente del Consiglio eri uno sfigato. Zelig era incentrato su Berlusconi, così come Colorado cafè o gli scaffali delle librerie. Quando è arrivato Beppe Grillo è stato il massimo del trionfo.

Peppe dava in pasto alla folla il suo cibo preferito: nomi e cognomi da linciare. Elencava politici condannati dal palco del V day e a ogni nome seguivano fischi e insulti; un abominio medievale da quarto mondo a cui avevano aderito cantanti e politici tra cui Fedez, che compose una canzone apposta.

E queste persone sognavano come “ministro di grazia e giustizia” una persona dalla fedina penale interessante quanto recidiva; recidiva perché pagare risarcimenti di 12,000, o 15,000 euro per diffamazione è una bazzecola rispetto agli incassi monstre che fanno le gogne.

È un calcolo che fanno anche le trasmissioni che spacciano linciaggi per giornalismo. Poi vengono querelate e pagano senza problemi, perché rispetto agli incassi derivanti da pubblicità sono il prezzo di un drink. Fedez quando ha messo alla gogna i consiglieri provinciali ha fatto LA STESSA IDENTICA COSA che ha ottenuto GLI STESSI IDENTICI RISULTATI.

 “Ma ha ragione! Quello che hanno detto i leghisti fa schifo!”

Oh, anche le Brigate rosse avevano ragione a prendersela con i padroni, in teoria. Peccato che nella pratica fossero una banda di fanatici assassini. Puoi avere tutte le ragioni del mondo, ma se usi il metodo sbagliato passi dalla parte del torto. Dire che gli omofobi/razzisti/sessisti vanno tutti ammazzati ti fa sembrare puro, duro, macho, progressista e oggi fa fare un sacco di like; se ammazzi una persona solo per le sue idee sei letteralmente un oppressore.

Quello che ha fatto Fedez è il problema, non la soluzione.

Non che sia colpa sua. Fedez come rapper aveva indiscutibilmente talento, e se un gigante come la Ferragni se l’è portato a casa significa molto. Credo davvero fosse spinto da buone intenzioni, ma come ognuno di noi è figlio di vent’anni di questo business milionario che si scrive “politica della gente” ma si chiama “diffamazione sistematica” grazie alla quale buona parte della popolazione ha perso qualsiasi rispetto verso gli organi d’informazione e rappresentanti; ha perso la capacità di trovare una propria filosofia politica e ha scelto di affidarsi a ciarlatani, farabolani, cospirazionisti e capipopolo.

La peggio stronzata scritta nei baci Perugina o nei meme di Mafalda è comunque meglio di “guarda cos’ha scritto/detto questo!!!! È una vergogna!!”. Perché è questo che è successo sul palco del 1°maggio: kondividete prima che cenzurano.

E io sono stanco di svuotare il mare con uno scolapasta.

Sono stanco di dovermi scontrare con stimaticolleghi di prestigiose testate che imbastiscono servizi, articoli e carriere su illazioni, speculazioni, diffamazioni o bugie spacciandoli per fatti. Stanco di capipopolo venerati come “vera politica” basata su gogne e vuoto spinto. Il vuoto del M5S. Il vuoto della Lega. Il vuoto delle Sardine. Il vuoto di Fedez. Il vuoto di bambinetti over 40 che si tirano i capelli, seduti davanti all’altare della patria, incapaci di fare mezzo castello di sabbia.

Atza tenta il colpo grosso al Tropicana, il finale è elettrico

Atza tenta il colpo grosso al Tropicana, il finale è elettrico

Nelle sale giochi degli anni ’90, all’ingresso, spesso troneggiava il primo tentativo di gioco d’azzardo su minorenni. Era una bacheca con dentro un’orgia di gettoni ammonticchiati, che il padrone sadico si premurava di rendere gargantuesco. Piramidi di gettoni. Colonne di gettoni. Oceani di gettoni che venivano mossi da uno stantuffo: in teoria, gettandone dentro altri, sovraccaricavi quella specie di deposito e ne facevi cadere di più.

Nella realtà non succedeva quasi mai.

Quello al Pool&Company si chiamava Tropicana, un nome che ispirava viaggi ai Caraibi grazie alle corpose vincite.
Atza ne era ossessionato.

Scialaquava tutti i soldi sparando agli zombie di House of the dead e finiva col dover raccogliere i mozziconi alle fermate degli autobus, scartare la parte bruciata, svuotare il tabacco in un astuccio di cuoio che chiamavamo la busta dell’AIDS e se lo girava con le cartine da cannoni. Ogni volta che entrava al Pool, il Tropicana gli faceva brillare gli occhi, anche perché in sala giochi bazzicavano truzzette ruspanti che andavano in giro a elemosinarli.

La passione di Atza era Gienson – scritto così – una grezza seminuda di sedici anni che passava metà del tempo a cavalcioni del flipper a chiacchierare con le amiche e fare la questua.

“Ce l’avresti un gettone da prestarmi?”, domandava.

Il gestore era un ex campione di pugilato dal passato oscuro nella malavita veneta, e bestemmiava scacciandole perché gli spaccavano il vetro. Poi aveva capito che il numero di gettoni aumentava vertiginosamente grazie a manodopera minorenne e le lasciava fare.

Atza, reso ormai pazzo dalle seghe, aveva giurato che avrebbe compiuto la rapina del secolo. Sognava di vedere i gettoni sgorgare dal Tropicana, così da poter sedurre Gienson. Siccome all’epoca faceva l’istituto tecnico, annunciò che avrebbe costruito una potente calamita. O meglio,

«Una poffente calamita.»
«Com’è che ti sei perso le S per strada?» domandò Luca.
«Mi hanno picchiato al fupermercato.»
«Di nuovo?»
«Fì. Ma feriamente, facciamolo. Penfate ai gettoni.»
«Io penso che tu non arriverai a trent’anni, Atza» gemetti.

Atza, va ammesso, ci mise dell’ingegno.

Faceva l’istituto tecnico e gli fu abbastanza facile costruire quello che aveva in mente, cioè una elettrocalamita. È una dimostrazione che viene fatta a tutti: avvolgi un filo di rame attorno a un chiodo, colleghi le due estremità a una batteria stilo e vedi che ci si attaccano le graffette.

Decise che bastava ingrandire le cose.

Segò la gamba di una sedia di scuola ottenendo un tubo di una ventina di centimetri, sventrò tutte le lampade di casa totalizzando metri di filo di rame e ce lo attorcigliò attorno, poi ci attaccò un interruttore sulla fase. Estrasse la batteria del motorino e li collegò, ottenendo una belva capace di sollevare senza problemi la coppa di ottone e marmo che suo padre aveva vinto in gioventù.

Pareva incollata. Ma Atza aveva fatto i test per tre, quattro secondi al massimo, quindi non aveva notato la grave carenza nel sistema, né la sua conseguenza. Era troppo impegnato a trovare un modo per occultare l’arnese.

Tra tubo e batteria del motorino, non si poteva tenere in tasca.

Quindi prese un marsupio dell’Invicta, lo sventrò e lo incollò sopra e attorno alla batteria. Rubò l’impermeabile in pelle nera della madre – ricordo di gloriosi anni ’70 – e decise che il travestimento era perfetto. Arrivò al Pool&Company un sabato sera, quand’era pieno di gente, tenendosi l’impermeabile ben chiuso davanti come un maniaco sessuale. Arrivato al tavolo si guardò attorno, poi ci fece vedere l’aggeggio.

«Dimmi solo quante possibilità ci sono che saltiamo in aria» disse Luca, già pronto a uscire.
«Neffuna. È folo una batteria.»
«Atza, in mano tua pure una Bic diventa un tasto di autodistruzione, sei tipo Rambo al contrario» disse Ario.
«Adeffo ferve che fate un diverfivo.»
«Un detersivo?»

Ci convinse ad andare a parlare con Ennio. Era burbero, ma gli faceva piacere scambiare quattro chiacchiere. Negli anni ‘90 non avevano ancora iniziato a dare i nomi alle generazioni, e le persone parlavano indipendentemente dall’età. Ennio vidde tre adolescenti arrivare con aria nervosa e attaccare bottone con scuse ridicole; impiegò meno di un minuto a capire che qualcosa non andava, eppure resse il gioco.

Ricordo la tensione tra noi, consapevoli che dall’altra parte del bancone stava per succedere, statisticamente, il dramma.

«Bè, insomma, Ennio, quand’è che ti fai il permesso per vendere alcolici?»
«Mai, sei pazzo? Se vuoi bere vai dall’altra parte della strada. Manca solo che vi ubriacate.»
THUNK, si sentì alle sue spalle.

«Bè-bè-bè però dai una birretta potrebbe starci, no? Magari mettiamo il bar lì in fondo» dico, indicando il lato opposto. Ario e Luca annuiscono con foga.
RR-R-R-RUNK
«harrcodd…» gemette Atza.

Ci fu una vibrazione elettrica, quelle minacciose e cupe che senti vicino ai tralicci dell’alta tensione e fanno vibrare le otturazioni. Noi tre eravamo sudati come cammelli, Ennio continua a passare da una faccia all’altra per capire come mai il suo campanello mentale stesse strillando. Poi aveva notato che vibrava tutto. Anche il bancone.

Alle spalle di Ennio vedemmo Gienson passare di fianco ad Atza, guardare in basso e vedere che il bacino del metallaro è incollato al bordo d’acciaio, come se si stesse scopando il Tropicana.

«Atza, ti sei innamorato?» domandò.
«GIENSONhaiuthami tira… premi i-il… oh Dio scottaAAAGLALA’.»

Gienson sgranò gli occhi e fece un passo indietro, poi l’insegna del Tropicana tirò due botti con scintille, la luce saltò contemporaneamente al boato di vetri infranti a cui seguì ferraglia e strilli dei presenti. Nel buio si alzò un odore acre di circuiti bruciati, Atza era dentro il Tropicana a pecora e non dava segni di vita. Gli stivali di cuoio penzolavano inermi, torso e braccia erano coperti di gettoni e schegge di vetro. Ennio lo afferrò privo di sensi e lo scagliò fuori dalla sala giochi, annunciando in dialetto «Se uno di voi teste di merda fiata si piglia una coltellata.»

Le macchinette come il Tropicana non esistono più perché illegali.

C’era un motivo se le colonne e le piramidi di gettoni stavano in piedi e nessuna moneta cadeva mai: le superfici erano magnetizzate. La spiegazione più razionale che trovammo è che quando Atza aveva puntato l’elettromagnete non aveva raccolto le monete, erano troppo distanti. In compenso s’era incollato al bordo metallico, milluplicando il magnetismo delle piattaforme e incollando le monete così forte che lo stantuffo s’era inceppato, fondendo il motorino elettrico. A questo problema si aggiungeva che Atza non aveva isolato il filo di rame, che si era surriscaldato ustionandogli le mani.

Mentre il suo scroto andava a fuoco aveva deciso di premere l’interruttore in un risibile tentativo di salvarsi la vita, ma essendo con il bacino incollato al vetro ne era impossibilitato. Il peso del torso aveva quindi sfondato la vetrina facendolo piombare dentro, mentre il motore interno esplodeva mandando in cortocircuito un gioco degli anni ’90, ovvero sprovvisto della presa a terra.

Atza indossava gli stivali di cuoio.

Si era quindi giustiziato con una batteria da motorino, e appena la corrente era saltata tutti i gettoni gli erano piombati addosso assieme alle schegge di vetro.

Era stato portato via dall’ambulanza mentre Ario e il resto della plebaglia saccheggiavano quel che restava del Tropicana. Aveva passato due giorni sotto osservazione e poi era stato dimesso, mentre Gienson recuperava senza fatica i gettoni. Venne bandito a vita dal Pool&Company – ovvero per oltre un mese – e passava i sabati sera in camera ad ascoltare Cemetery gates dei Pantera e a strimpellare il basso, mentre le ferite si rimarginavano.

Passavamo sotto casa sua a chiamarlo, ma non scendeva.

Il Tropicana venne sostituito da una colonnina di legno su cui troneggiava una felce, unico elemento d’arredo mai apparso in quel porcile. Qualche spiritoso ci appiccicò una di quelle targhette che si stampavano, e che recitava “per aspera ad Atza”.

Ennio la toglieva ma ricompariva il giorno dopo.
Alla fine la lasciò lì.

Ario va a cena con i broker e truffa la spogliarellista

Ario va a cena con i broker e truffa la spogliarellista

«Bè, eeh… Nasdaq 32%, il… il Mibtel, percentuali…»
«Atza, più naturale, par che reciti il rosario.»
«Non dimentichiamo Wall street, 60-60%, titoli azionari posterdati.»
«Ecco, Nebo va già meglio. Business e transazione, pacchetto azionario, cosa ne pensi?»

Luca, con il viso ridotto a una maschera di sudore, si allarga il colletto della camicia perlustrando con lo sguardo il ristorante: «A ‘sto giro c’ammazzano» deglutisce «… io ve lo dico, ci trovano in un fosso.»

È il 2015. Siamo in quello che credevamo il ristorante più costoso di Mestre e siamo tutti in giacca e cravatta. A tavola c’è una ragazza bionda sui vent’anni, con zigomi perfetti, occhi azzurri, labbra alla Jolie che ci osserva con attenzione senza capire una parola di italiano. È il grande amore di Ario e si chiama Yelena.

Aveva una storia piuttosto banale.

Nata in un paesino dell’Ucraina, suo padre appena saputo della gravidanza aveva riscoperto la passione per la steppa; siccome laggiù si campava grattando patate a mani nude a -32° per tre centesimi al secolo, sua madre si era trasferita in Italia, a Mestre, in un miniappartamento in centro subaffittato a tre latitanti pakistani. Faceva pulizie per 10 euro l’ora nelle case della “Mestre bene” e inviava il grosso dei soldi in Ucraina per permettere a Yelena di studiare.

Lei invece era diventata una Instagrammer di successo, nel senso che esibiva carne e Photoshop per essere pagata in like e commenti. Un tripudio di borse Vuitton, macchinoni e locali Casamonica friendly la raccontavano come brillante dropout che aveva sfondato nel mondo delle webstar. Poi la madre era stata assassinata dal povero Maurizio, un uomo colpevole di amare troppo – così l’avevano definito i giornali – e di essere un pregiudicato. Il buon Maurizio aveva chiesto alla madre di Yelena 7000 euro, lei aveva rifiutato e lui aveva obiettato con 23 coltellate di cui 2 fatali; aveva vinto la discussione, ma anche un ergastolo. In Ucraina, Yelena affrontava un’improvvisa crisi di liquidità, così aveva presentato ai suoi followers il suo improvviso sogno: scoprire l’Italia.

Dopo aver fatto debiti con gente che firma assegni a revolverate era fuggita.

Aveva iniziato a proporsi come donna di servizio, ma in ogni singolo appartamento dove metteva piede i mariti tentavano di trombarla; una proposta dopo l’altra, in soli sei mesi era finita a lavorare come performer in un circolo di artisti molto ambito dalle parti di Preganziol: «Quello dove ci sono i pali e ricchi mecenati fanno offerte» ci aveva spiegato Ario, mettendo la mano a tulipano e facendola scattare verso l’alto con un gesto secco.

Le signore presenti ridono con garbo

Siccome la bacheca Facebook di Ario comprendeva solo escort, trans, meme da seconda media e pagine chiuse dalla Digos, quando il locale aveva presentato Yelena come novità, lui aveva iniziato a chattarci. Tramite un terrificante innesto di italiano, inglese, dialetto veneto ed emoticon era riuscito a convincerla di essere un broker di successo che aveva subito il sequestro dei beni. Si erano visti, l’aveva portata a passeggio per Venezia e davanti a palazzo Franchetti aveva detto “you see, zis essere mai house before evil polis”. Lei gli aveva creduto senza indugio e proprio per questo aveva tenuto le gambe ben strette: era convinta d’aver trovato marito e voleva dimostrarsi donna d’altri tempi.

Un giorno Ario si era presentato al bar e supplicancoci di vestirci in giacca e cravatta per fingere una cena di lavoro nel ristorante che credeva più chic di Mestre.

«Tanto non capisce un cazzo d’italiano» ci aveva rassicurato «Vi presentate, chiacchieriamo di quello che volete, basta che ogni tanto dite Nasdaq, Dow Jones, Ftse, sparate cifre a caso e poi torniamo a parlare di fantacalcio.»
«Ma chi paga il ristorante?»
«Scappiamo senza pagare, ovvio. Tanto chi ci tornerà mai più?»

Il ristorante esclusivissimo era stato tale fino ai primi anni ’90. Alla morte del gestore, i figli avevano deciso di svecchiare il brand: basta materie di prima scelta, basta cuochi costosi, basta camerieri in livrea, basta con l’ambiente ingessato. In sei mesi era finito in un turbine di intossicazioni alimentari e recensioni al napalm su Tripadvisor, ma agli occhi di una contadina ucraina pareva ancora la reggia di Caserta.

Luca, agente immobiliare, aveva dovuto prestare a tutti i completi e le camicie. Le cravatte le avevo fornite io rubandole da guardaroba paterno, giacché Luca ne aveva una sola con i colori dell’azienda. A questa tragedia andava aggiunto che ci eravamo caricati di Negroni a stomaco vuoto perché consapevoli del finale tragico, quindi abbiamo già un aspetto

«Non puoi mettere Handanovic con Abbiati, ti costa troppo. Nasdaq. Invece ho Agazzi che mi sta dando rendimento pazzesco» fa Ario «Mibtel Mibtel, transaction, deal.»
«Pure Viviano. Io ho fatto Viviano + Agazzi, De Sanctis + Consigli, Ujkani + Frison.»
«National security bank» dico, annuendo.
«Lavezzi se n’è andato, sicuro la prossima stagione faranno un 3-5-1-1 stracoperto per pigliare meno reti. Dow Jones, Wall street, money.»

La cena procede in un crescendo di nonsense.
Episodi degni di nota:

1. Atza che improvvisamente esplode. Nell’aria si forma una nuvola di pezzi di triglia alla livornese, lui attraversa tutti i colori della bandiera LGBTπ+√2^16, si alza col viso rosso pompeiano, si strappa la cravatta con le lacrime agli occhi, rantola, sputa, piazza un rutto tale da far tremare le otturazioni dei denti e crolla sulla sedia, spossato in un oceano di sudore.

2. Luca viene colto da attacchi di panico quando scopre che il personale un tempo professionista è stato sostituito da teppaglia chioggiotta dal coltello facile, ed è convinto la sua vita terminerà al momento di pagare. Sudato come un purosangue dopo la gara, mormora che c’ammazzeranno tutti. Due volte viene fermato da Ario con sguardi e torsioni del braccio mentre tenta di fuggire da solo.

3. Yelena, per mantenere la sua illusione, sul cellulare guarda foto di palazzo Franchetti e di tanto in tanto la mostra dicendo che qui cambiamo tappezzeria, qui ci mettiamo due divani, lì bisogna mettere cose moderne.

Alla fine, Ario si gira verso Yelena: «Tuto good?»
«I’m boring» sbuffa lei.

«Ghe sboring se è vero» mormora Luca.

«Do you want andare a home a fare el chumba chumba?» le domanda dolcemente, tenendole la mano mentre con l’altra muove il pugno avanti e indietro. Lei, ammaliata dall’arguta allusione, sorride. La cena volge al termine, e decidiamo di uscire fuori a fumare. Ario si affretta verso la macchina spiegandole che ha fatto mettere tutto sul suo conto, poi noi facciamo per emularlo ma ci accorgiamo che un cameriere ci tiene d’occhio e indossa, inspiegabilmente, scarpe da ginnastica.

Siccome a nessuno di noi tre piace l’idea di venire accoltellati, smembrati e serviti come scottona nei prossimi giorni, diamo fondo ai nostri risparmi. Ario promette che ci restituirà la parte sua e di Yelena. Atza, togliendosi la cravatta, scuote la testa e si domanda perché dobbiamo continuare a essere suoi amici.

«Atza te dopo il duello con le spadine devi stare zitto, cazzo, zitto» aveva ringhiato Luca.

Il cammino dell’uomo timorato e lo shabby chic

Il cammino dell’uomo timorato e lo shabby chic

L’appartamento di Ario consisteva in 52 metri quadri in una laterale di via dell’Elettricità, dove di giorno l’aria era pregna di esalazioni chimiche vagamente simili al ragù, e di notte profumava delle salsicce dei kebbabari che sfamavano puttanieri sfiancati.

Era un quartiere cosmopolita.
Al mattino potevi vedere tossici italiani, al pomeriggio rapinatori marocchini, la sera ubriachi moldavi, la notte prostitute ghanesi e la domenica massaggiatrici cinesi. Non era sempre stato così: Marghera era stato un sogno di benessere e lavoro, poi gli architetti avevano scoperto che i quartieri residenziali tra le fabbriche di fosgene non vanno a ruba. Ogni volta che suonavano le sirene, la gente accendeva la televisione per capire se era l’ora della pausa pranzo o della morte per asfissia.

Una giornata qualunque, a Marghera

La proprietaria precedente era stata la nonna della fidanzata.

L’anziana era recentemente trapassata per il male che affligge gli anziani di porto Marghera, ossia la rapina a mano armata. Era stata puntata da un giovane imprenditore armato di coltello da caccia, lei per sottrarsi dal suo dinamismo si era gettata in mezzo alla strada ed era stata arrotata da un furgone di operai ucraini, in fuga dal cantiere dov’era appena morto uno di loro. I giornalisti non avevano neppure tentato d’imbastire lo scandalo criminalità; nelle redazioni di Mestre Venezia si poteva parlare soltanto di baby gang, giacché i criminali più alti erano buoni amici dei direttori.

La fidanzata, entrata in possesso della magione, aveva subito dichiarato di volerla arredare in stile shabby chic. Consisteva nel prendere mobilio antico, verniciarlo di bianco e buttarci in mezzo cuoricini e ricamini a tinte pastello. Dopo spese folli, debiti e tentativi falliti, il risultato era un abominio panna in cui l’occhio faticava a distinguere mobili e spigoli, e le scritte motivazionali “home sweet home”, “love”, “la belle jardinière” creavano un bel contrasto con le spaventose bestemmie che scaturivano da mignoli fratturati, rotule polverizzate e zigomi distrutti.

L’incidente accadde un venerdì sera. Ario era tornato stanco morto dalla fabbrica, si era seduto sul divano rosa per drogarsi, quando il gatto era saltato sullo schienale facendgli crollare sul cranio una simpatica natura morta composta da spartiti, rami secchi finti e uova di quaglia finte in cornice “Rosier de France Paris”.

Ario aveva quindi espresso obiezioni sull’operato di nostro Signore, poi aveva scagliato il suppellettile verso la finestra aperta. Ruotando come un freesbee, il rosier de France era precipitato nel lunotto di una Fiat Punto da cui era uscita una punkabbestia dagli occhi iniettati di sangue. Il nugulo di blasfemie urlate a voce roca l’aveva costretto ad alzarsi dal divano e andare alla finestra.

«Allora, cos’è ‘sto casino? Qui c’è gente che vuole drogarsi» aveva tuonato.
«L’hai buttata tu questa roba?!»
«No, no, l’ho vista passare dalla finestra anch’io» aveva sbuffato «È da un po’ che gira.»
«Che cazzo dici?! Vuoi che chiamo gli sbirri e vediamo?»
Una finestra si era spalancata di colpo, e un uomo sulla quarantina era intervenuto: «Che cazzo avete da urlare?!»
«Ma niente, le solite manifestazioni femministe» aveva minimizzato Ario stingendo le spalle.
«Avete rotto i coglioni, siete tutte puttane!» le aveva urlato l’uomo, e lei era esplosa in un boato d’improperi e minacce mentre Ario, annuendo gravemente, aveva chiuso la finestra.

La rissa era degenerata in rispettive telefonate alla polizia, che era arrivata giusto mentre la donna aveva lanciato il Rosier de France addosso all’uomo sceso in strada in canotta, braghe della tuta e cattive intenzioni. Il finale era stato impietoso; lui aveva violato gli arresti domiciliari, lei aveva in macchina due grammi di cocaina e siringhe “per il cane che ha il diabete” ed erano finiti in commissariato tra urla e querele. Erano solo i primi della lunga lista di nemici che Ario si stava facendo in quartiere.

«Il cammino dell’uomo timorato di Dio è minacciato da ogni parte dalle iniquità degli esseri egoisti e dalla tirannia degli uomini malvagi» sospirava, sorseggiando il mojito e chiedendo sigarette.

Ario entra in politica e mi rilascia un’intervista

Ario entra in politica e mi rilascia un’intervista

 

«Raccontami com’è cambiata Mestre»
«Mah, i divertimenti sono gli stessi, è diversa la classe dirigente. La Grande Purga del 2018 ha cambiato tutto. L’eroina oggi è Marghera, abbiamo perso il primato di capitale dei morti. Adesso il giro grosso è lì, gente d’ogni fede e sesso che si droga sotto il sole, socializza, si spara, tutto grazie ai nuovi imprenditori cosmopoliti. Mestre dovrà inventarsi qualcosa per riuscire a stare al passo. Per quanto riguarda chi invece della droga sceglie la vita, sì, c’è il Terraglio, storica eccellenza mestrina. Possiamo dire che è il nostro Colosseo. Certo, anche qui Marghera avanza; hanno saputo vedere il futuro. Finché noi mestrini ci trinceriamo dietro la rassicurante prostituzione casalinga continueremo a vivacchiare. Si sta vedendo un’impennata vuoi per la quarantena, vuoi per una clientela più esigente che cerca la moglie fedifraga, lo studentello prestante, l’universitaria non pro. Insomma, il degrado nazionale sopravvive grazie all’artigianato del bucchino.»

«Come hai passato il lockdown?»
«Ho viaggiato. Viaggiare apre la mente, ti fa scoprire culture diverse, t’insegna l’umiltà.»

«Come sarebbe? Ario, era tutto chiuso.»
«No, no, i trip ce li procurava un mio collega. Ogni sera nel locale dei contatori del mio palazzo ci mettevamo ad ascoltare musiche mistiche e via verso nuove destinazioni. I palazzi di ghiaccio su Alpha Centauri, le riarse pianure di Marte, il parco del Piraghetto…»

«Va bene, parliamo della qualità della vita»
«Siamo nella media. Di recente si parla di riqualificare il Pertini, com’è che hanno detto? Tipo interventi mirati al target di popolazione anziana indifesa di fronte alla presenza di barriere architettoniche. Ma io dico, comunque offrono un riparo durante le sparatorie. I cittadini hanno tentato di spiegarlo ma niente, quelli al potere capiscono solo “più aree cani”. Intenderanno quelli della cinofila, vai a sapere. Si potrebbe pensare a un gilet da pescatore in versione antiproiettile, ma io ormai sono padre di famiglia, certe cose mi riguardano sì e no. Sono i giovani che dovrebbero credere nell’Italia e investire.»

«Nei giubbotti antiproiettile?»
«No, no, investire i vecchi. Arrotarli, uno per uno. Vrooom e via dritti. Largo ai giovani.»

«Diresti che Mestre è una città per famiglie?»
«Assolutamente! Mio figlio è in prima elementare e già mi regala soddisfazioni. Pensa che ieri han chiamato da scuola perché ha rubato un astuccio. Gli ho sempre insegnato che le cose importanti della vita di solito appartengono agli altri. Loro non sembra ma ascoltano, guardano, imitano. La mia ex moglie mi fa “devi andare a parlare con la maestra”. Lei, capito, che passa le domeniche a saltellare sui camerieri. Scusa, se hai tempo di giuocare alla liana rosa c’hai tempo di andare a parlare con quella che voleva cambiare il mondo studiando scienze della formazione, io ho da fare.»

«Cos’ha da fare uno come te?»
«Sto valutando la politica.»

«Ario, tu che hai sì e no la terza media?»
«Cosa c’entra, un politico non è un tecnico. Il compito di un politico è prendere i muggiti analfabeti dei drogati, i ghirigori in stampatello separati col puntino degli operai, i cartelli a lutto che amano fare i commercianti e tradurli in una lingua comprensibile per il governo. Prendi quella banda di ladri in centro, hai presente? Son trent’anni che fanno ‘sti cazzo di cartelli a lutto è morta la democrazia, è morto il commercio, è morto l’artigianato, e ogni domenica a inscenare i funerali. Chi se li caga? Nessuno. Ma se prendi due bei trans, gli metti una telecamera davanti, tiri fuori il cazzo e dici “ora t’inculo come c’incula lo Stato”; tempo 72 ore siamo sui giornali nazionali. A questo serve un politico.»

«Che credibilità pensi di avere con il tuo passato e la tua fedina penale?»
«Io? Credibilità? A cosa serve?»

«A essere votato.»
«Ma a me frega cazzi d’essere votato, io voglio far conoscere i problemi di Mestre al resto del paese, stargli tra le balle finché non si decidono a capire che il vero business dell’Italia è la droga, la prostituzione, la ricettazione, il malaffare! Se non lo faccio io quei ritardati continueranno a guardare i conti e a dire “oh fioi arriva la crisi economica, gli italiani non guadagnano, il lockdown ci ha uccisi”. Ma cosa? La bucchina del terzo piano faceva ballare il materasso sei giorni su sette, in condominio c’era la coda per le scale che manco a Gardaland. Son pure venuti i vigili, sono stato io a spiegargli che in realtà erano tutti commercianti in coda per gettarsi dal palazzo e che io li dissuadevo uno per uno. Poi gli ho lasciato il biglietto da visita e se ne sono andati.»

«Hai un biglietto da visita?»
«Sì, ho le banconote da 200, quelle gialle. Sopra ci scrivo Ario el mejo in piccolo.»

«Temo la tua carriera politica avrà poco futuro.»
«Almeno potrò guardarmi allo specchio e vedere un tossico che ci ha provato.»