03. La faccia della paura

03. La faccia della paura

La stradina percorsa all’andata è una linea grigia, ripida e stretta che si inerpica tra le colline. A sinistra, un muretto di mezzo metro fatto con lo sputo ci separa da una vallata. A destra una muraglia di sassi e cemento sopra cui sorgono siepi e cipressi. Davanti a noi ci sono le colonnine e il paese. La strada verso il basso non ha nemmeno lampioni. Vediamo solo ombre grigie di prati e file di vigneti tra cui spuntano ville. L’aria profuma di bosco e asfalto caldo. Forse l’hanno rimossa, ma in questo silenzio avremmo sentito i rumori.

«Non con Atza che farneticava di pirati» dice Luca.
«Corsari.»
«Taci.»

C’è una carreggiata sola. Non c’è spazio di manovra e nemmeno il foglietto color evidenziatore. L’unica spiegazione è che l’abbiano rubata. Ma chi? Dalla dimensione delle abitazioni, il reddito medio è alto. Case a due piani con le finestre rifinite, alcune casupole coi mattoni a vista, quell’architettura stupenda e semplice dei paesini. In un giorno d’autunno, qui, ci sarebbe l’odore acre del vin brulè, legna bruciata, castagne e qualche turista. Invece non c’è niente. Nessun segno di umanità. A una folata di vento segue un rombo distante. Sembro notarlo solo io.

«ZAPPATERRA BASTARDI, USCITE LA MACCHINA O FACCIO UN MACELLO!» grida Ario, tirando un calcio a un sasso «FINITE COME VERSACE, GIURO SU DIO!»

Aspettiamo un responso, qualcosa che riempia il silenzio dopo il riverbero di Ario. Facciamo quei dieci metri che separano la strada dal paese. Prendiamo a pugni porte, imposte, muri. Facciamo tutto il rumore possibile, cittadini di periferia in crisi d’astinenza dai suoni di città. Vedo un cestino di metallo. Gli tiro un calcio e vola per un paio di metri, atterrando sulla strada e rovesciandosi. Cartacce, stecchini di ghiaccioli, una bottiglia di Fanta di vetro, il volantino di qualche evento. Mi avvicino a raccoglierlo.

«Va bene, ho capito» fa Ario «I grezzi non avevano mai visto un carro capace di muoversi senza cavalli. L’avranno portato in piazza per venerarlo. Verranno derubati anche per questo.»
«Torniamo a piedi» dico, osservando il flyer.

È di una sagra con la data di oggi.
Si dovrebbe sentire musica, vedere macchine parcheggiate alla disperata, gente ubriaca. Nulla.

«Senza 127, negro? Non è mica una vostra zebra, che quando c’è la carestia vi mangiate la macchina. E poi non ce ne andremo da qui senza una corposa refurtiva, la coscia di Antosha richiede il giusto trib-
«COMUNQUE l’ultima volta che abbiamo visto un centro abitato sarà a venti chilometri da qui» interrompe Luca.

Il cielo s’è coperto. Un’altra folata d’aria fredda mi fa appiccicare la canottiera alla pelle sudata. Usando gli accendini studiamo la strada dove avevamo lasciato la 127, poco prima delle colonnine d’acciaio. Scendiamo fino all’ultimo lampione, guidati dalla luce fioca di un campanello vicino a una porta di legno: Dott.Carrai. Suoniamo. Dall’interno della casa sentiamo lo scampanellare, ma dopo cinque tentativi ci arrendiamo.

«Ma che è successo, in ‘sto posto?» chiedo.
«Sticazzi del contado, io voglio la 127 o faccio un massacro! Vivi, morti, donne, bambini, case, bestie! O salta fuori la macchina o vado giù di aiuti umanitari!» grida Ario, alzando il braccio e facendo scattare le pietrina dell’accendino «CAPITO, TROGLODITI?! L’UOMO BIANCO HA IL FIORE ROSSO DELLA MORTE!»

Senza aspettarci, scende la strada buia a passi cauti, tira fuori il suo accendino e fa scattare la pietrina finché vediamo il muretto collassato. Almeno quattro metri andati giù come fossero cartone. È integro, ma orizzontale. A terra ci sono calcinacci, terra smossa, pezzi di fanali e paraurti. Oltre il buco, l’erba è piegata. Dieci metri più in basso, ci risponde un riflesso: la targa.

«MA PORCO NAMIORE GANCHIORE» sbotta Ario, scavalcando e correndo giù, subito inseguito da noi.
«Non avevi messo il freno a mano?!» domando.
«Seh, ma una derapata oggi, una domani, mia madre che parte dimenticandoselo, forse s’è allentato» dice tutto d’un fiato.
«Forse» dico, ansimando «Ma non escludiamo i folletti dispettosi.»
«O il pirata guascone» dice Luca.

La 127 è precipitata in retromarcia, aumentando la velocità per una trentina di metri, poi in curva ha sfondato il muretto e avrebbe proseguito fino a valle se non avesse trovato un albicocco. Ora ha il lunotto posteriore sfondato, il paraurti distrutto ed è glassata di frutta, ma è ancora tra noi.

È andato tutto a monte.
Se vuoi svaligiare un posto dev’essere vergine. Domattina gli abitanti vedranno il muretto abbattuto; se la domenica successiva arriva una macchina di estranei col posteriore sfasciato, ci vuol poco a fare due più due. Se oltrepassi la soglia di sensibilità, devi aspettare che ritorni al punto di partenza. Non puoi svaligiare una casa appena svaligiata: la gente ti aspetta col fucile, per un po’.

Ti ti ti tic. Ti ti ti tic, sento da qualche parte.

Per la prima volta ho la sensazione di conoscere questo posto. Somiglia a quando tra la gente senti un profumo che aveva una persona cara; per un istante sei ancora in quel momento e in quel posto, ma appena cerchi di afferrarlo ti scappa via. Ario e gli altri dibattono su come riportare l’auto in carreggiata e decidono di costruire un binario con le pietre del muretto sfondato. C’è un suono ripetuto, verso il paese. Sembrano foglie secche sull’asfalto, ma è più duro. Sassolini che battono contro qualcosa.

«Se scivola abbatte l’albicocco e via verso il contado’s paradise» fa Ario «Buono il binario, ma serve qualcosa che la fermi.»
«Zitti tutti» fa Luca.

Ci blocchiamo, lui che indica il ciglio della strada buio e tiene l’altra mano aperta di lato, immobile. Per un istante non succede niente, poi vedo un’ombra muoversi, sporgersi dal muretto franato e tornare a nascondersi. Potrebbe essere un bambino piccolo, ma non si comporta come una persona. Muove la testa su e giù a scatti, come un piccione. Ario striscia contro la macchina, apre la portiera piano, si siede al posto di guida e accende i fari. Dal muretto emerge un san bernardo grande come un vitello.

«Ma vaffanculo» espira Ario, rimettendosi a studiare la macchina.

Il bestione scende a zig zag annusando l’erba, attento a non incrociare lo sguardo. Quando arriva davanti ai fari, il nostro sollievo diventa orrore. Ha un occhio chiuso e gonfio come una palla da tennis. La zampa sinistra è incrostata di sangue. Sul pelo ha polvere, fango, chiazze di pelle che mancano e grumi rossastri. Sembra felice di vederci. Sta seduto con la lingua penzoloni, cercando nei nostri occhi qualcosa che non capiamo. Ario tira fuori una bottiglia d’acqua e lui se la beve di gusto. Siamo tutti concentrati sull’animale, solo Luca è pallido e lo guarda a occhi sgranati.

«Fioi» dice a denti stretti «Andiamo via.»
«Guarda che mica morde. L’avranno investito» dico, accarezzandolo con cautela.
«Sì? E quand’è successo? Ieri? L’altroieri?» domanda Luca.
«Come faccio a saperlo?»
«Nebo, il sangue. È vecchio. Guardalo.»
«Quindi?»
«Quindi sono almeno dodici ore che ‘sta bestia gira senza un padrone che lo cerca o qualcuno che lo aiuta.»

«MA A PARTE IL PULCIOSO ZOMBI» fa Ario «Abbiamo due possibilità: o il carro attrezzi, o seghiamo l’albicocco e lasciamo andare la 127 nell’abisso sperando trovi una strada da sola evitando di capovolgersi, distruggersi, esplodere.»
«Con noi dentro?» fa Atza.
«Nooo, fa tutto il pilota automatico, vero, K.I.T.T.?» dice Ario, rivolgendosi al cofano «UOU UOU».


«UOU UOU»

Il cane si stacca da noi, risale di qualche metro la collina e si gira ad aspettarci. Uggiola. Mi avvicino facendogli cenno di seguirmi ma lui risale ancora. C’ un altro rombo che lo fa sussultare. Qualsiasi cosa vogliamo fare, bisogna decidere in fretta. Se piove il terreno diventerà bagnato e renderà le cose più difficili. O cerchiamo aiuto, o la facciamo scivolare a valle. Decidiamo di cercare una cabina telefonica. Il cane, prontamente ribattezzato Zombie, abbaia entusiasta.

Risaliamo fino al paese mentre lui ci anticipa, voltandosi per vedere se lo seguiamo.

Le folate di vento sono sempre più forti. C’è un altro rombo. A un bivio, Zombi va da una parte e noi dall’altra. Torna indietro e abbaia. Lo seguiamo. Il numero di campanelli che suoniamo diventa sempre più rado, perché la risposta è sempre lo stesso silenzio. Dopo un centinaio di metri i vicoli diventano più sporchi, poi Ario gira l’angolo e gli cade la sigaretta di mano.

«Sta scopata slava inizia a diventare complessa» dice, mettendosi le mani sui fianchi.

La piazza è sventrata. La chiesetta ha la facciata spaccata in due, le finestre in frantumi e il campanile è caduto sul tetto di una palazzina lì di fianco, sbranandola per tutto il primo piano. Il bar ha ancora i tavolini fuori coperti di detriti, tegole e calcinacci. Ci sono le sedie fatte con i fili di gomma rovesciate, delle tazzine da caffè, coppette di gelato liquefatto per terra, una birra ancora piena per metà.

Al centro della piazza vediamo tavoli e panche da sagra ancora da montare, sparpagliate.

Sul lato sinistro, una palazzina a due piani è aperta come una casa di bambole. Vediamo un salottino con le piastrelle lucide anni ’70, un divano di pelle lisa, una madia sfondata con dentro piatti rotti e bicchieri, giocattoli per terra. Sotto, una farmacia ha le vetrate spaccate e le saracinesche abbassate per metà, storte e deformate. Tre tegole cadono dal soffitto, poi il piano s’inclina rovesciandole tutte e franando a terra con un rombo che ci fa sobbalzare. Il resto del paese, dietro, è nelle stesse condizioni.

«Cazzo è successo?» domanda.
«Forse un terremoto» oso, ma dovrebbero esserci transenne, ambulanze, sirene, ruspe dei pompieri e della protezione civile, polizia e vigili.

È come se qualcosa fosse esploso costringendo la popolazione ad andarsene di corsa e in silenzio, abbandonando il paese senza lasciare traccia. Non ha senso. Comunque, da aspiranti topi d’appartamento siamo appena diventati sciacalli. Luca mi tiene gli occhi puntati addosso e non parla. Attraversiamo la piazza fino a quel che resta del bar, sussultando a ogni sasso o tegola che cade. Zombie ci trotta dietro annusando.

All’angolo, sotto una cupola di plastica trasparente sfondata, c’è un telefono a gettoni.

Mi frugo in tasca e tiro fuori cento lire, li appoggio sulla fessura. Non so il numero di un carro attrezzi. Dovrei chiamare il 113 e farmelo dire, ma questo ci collocherebbe all’ora e nel posto dove avviene un furto con scasso, in una situazione che di normale non ha nulla. Quando spiego il problema, l’unico a insistere per andarsene è Luca.

Si muove e cammina come se stesse aspettando di entrare a fare l’orale della maturità.

«Non voglio sentire deliri gay, noi tamponeremo Antosha costi quel che costi. Siamo la generazione di McGyver, cazzo. Uscitemi idee gagliarde mentre piscio su quell’altarino» dice Ario, abbassandosi la cerniera dei jeans e incamminandosi verso un qualche santo di provincia. Quand’è di ritorno, abbiamo ritrovato il sangue freddo. Dopotutto abbiamo un intero paese da saccheggiare. Atza e Luca troveranno delle corde, poi una o più cose dotate di motore. Sono le tre di mattina, ci restano altre tre ore. Concludiamo con la regola di trovarsi in piazza ogni ora per aggiornarsi.

«Tu e Nebo che fate?» domanda Atza.

«Andiamo a rubare il collegio» mormora Ario con un lampo negli occhi.
Sono le 23.01
[continua]