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Salvataggio all’amatriciana

Salvataggio all’amatriciana

3 luglio 1979, ore 11.20

L’interno del Vittorio Veneto erano corridoi con troppi strati di vernice verde chiaro e pavimenti di linoleum nero. Sopra le loro teste si dipanavano tubi e cavi di ogni forma e dimensione. Scesero la scaletta dal ponte di coperta prora, passando di fianco alla camera di caricamento dei cannoni e scendendo nelle viscere di metallo. Gli odori si alternavano: detersivo per pavimenti con retrogusto amarognolo nei locali angusti, puzzo di sudore nei corridoi di passaggio. I ventilatori sui soffitti e sugli scaffali spostavano aria calda e umida senza generare alcun beneficio. Dopo aver toccato un paio di sostegni, le mani di Domenico erano già secche per la salsedine.

«Vado ora a iniziare la lezioncina su come funziona a bordo» disse Mario.

Domenico schivò due uomini a torso nudo che spostavano un grosso cavo nero. Passarono di fianco a una parete da cui proveniva un frastuono meccanico che lo costrinse a urlare: «Prima vorrei capire dove sono!»
«Sull’incrociatore lanciamissili Vittorio Veneto, amigo!» gli urlò Mario con occhio spiritato «La nave ammiraglia della Marina militare italiana: 73,000 cavalli vapore di maschia potenza e un sacco di tecnologia d’avanguardia, almeno se paragonata alle caravelle di Cristoforo Colombo. In questo momento sei due piani sotto il ponte di coperta prora. Tu dormirai qui» disse, indicando una botola sul pavimento. Davanti era incisa la targa INCR.V.VENETO.
«Ricordati il nome: alloggio 3.»
«Alloggio…? Lì sotto?»


«Avresti dovuto averne uno più bellino, ma quelli di noi sottufficiali sono stati riconvertiti in una seconda infermieria, quindi c’era poca scelta. All’alba gusterai il megafono di Capo cannone, dato che siamo vicini alla camera di lancio. Ora scendi che devo scorreggiare.»

«Oh, Dio.»
«Non temere, giallastro amigo, questi sono posti extralusso. C’è il locale 5 che fa 80 posti letto e ha seri problemi di ricambio aria, afrore di piedi a mille, ascelle atomiche, svenimenti. Sta vicino al locale agghiaccio timoni. Poi c’è il locale 6, che è a poppa sotto il giardinetto. Un paradiso, infatti ci dormo io. Il peggio è il locale 8 a poppa, giusto di fianco alle assi delle eliche. Un concerto di cuscinetti e assi che ad alcuni concilia il sonno, ma alla maggior parte conduce alla pazzia. Riescono a dormirci solo quelli della Mano nera.»
Domenico alzò un sopracciglio: «I fascisti?»
«Nah. Meccanici. Caldaisti, elettricisti, tecnici. Gente con le mani nere, appunto.»


Gli consegnò un paio di scarpe da ginnastica, una maglietta bianca, una camicia azzurra e un paio di pantaloni blu, più un tesserino da appuntare al petto con una pinza. Sul grado c’era scritto un semplice “interprete”, poi un quadrato colorato di bianco, una sua foto presa dalla carta d’identità con il timbro della Marina, lo spazio per cognome e nome su cui qualcuno aveva scritto in bella calligrafia Domenico Figgh-En-Drocch. Era difficile dire se l’autore fosse stato spiritoso o distratto. L’ultima cosa che gli venne consegnata era un opuscolo fotocopiato male di dodici pagine, intitolato

Provò a leggerlo, ma Mario era già ripartito e lui dovette corrergli dietro.

«Ora, devi sapere che qui dentro chiunque è indispensabile. Il cuoco di bordo come questa burba infame» disse Mario, menando un coppino a un marinaio che passava con in mano un cassone grigio. Quello proseguì come niente fosse. Mario, facendosi largo in quel costante viavai di uomini e merci, spiegò per sommi capi gli orari. La sveglia era alle sei e mezza, bisognava rifare il letto e alle sette presentarsi in sala mensa per colazione. Si avevano quarantacinque minuti per espletare le proprie funzioni fisiologiche e fare le abluzioni, poi bisognava presentarsi alle otto meno un quarto alla pre adunata.
«Se stai per fissarmi con l’aria dell’intellettuale introverso e confuso ma con un cuore grande così, ti fermo» disse Mario «Pre adunata vuol dire che hai un quarto d’ora di ritardo massimo per arrivare all’alzabandiera, poi punizioni corporali, botte, frustate.»
«Come il quarto d’ora accademico» annaspò Domenico, schiacciandosi contro la parete per evitare tre uomini che portavano dei sacchi. Perse l’equilibrio e finì contro il muro. Mario lo aiutò a rialzarsi: «Niente parole omosessuali a bordo.»
«Perché accademico sarebbe omosessuale?»
«E io che ne so» disse Mario, ricominciando a camminare.


Dopo l’alzabandiera i lavori a bordo cominciavano alle otto e un quarto.
Domenico scoprì che avrebbe ricevuto i propri compiti dagli ufficiali, quindi non aveva mansioni fisse. L’avrebbero chiamato dove serviva. Alle dieci e mezza c’era una pausa in cui si poteva andare allo spaccio, stare in cambusa o fare uno spuntino. Si ricominciava alle undici fino all’una e un quarto, quando ci si preparava per il rancio. Un’ora di pausa pranzo e si ricominciava fino alle sei, poi si andava in franchigia fino alle nove. Quando Domenico chiese cosa significasse quella parola, Mario fu lapidario: «Scendere nave, inserire alcolici, scopare puttane. Se invece sei in mare, filmetti e seghe. Per quelli come te ci sono anche i libri.»
Era a bordo da meno di un’ora e già non sopportava quel marinaio. Era l’opposto delle persone che aveva sognato di frequentare quand’era a Strassoldo. Grezzo, diretto, volgare, pieno di pregiudizi e con quell’atteggiamento da padrone di casa che aveva visto soltanto negli americani conosciuti a Trieste. Era curioso di conoscere gli ufficiali, per vedere quanto somigliassero ai ritratti dei film di Gian Maria Volontè.

«Dunque? Pronto a morire combattendo i pirati della Malesia?» domandò Mario.
«C’è pericolo?» chiese Domenico, sperando di non far trasparire la paura.
«A bestia. Queste navi sono fatte per il Mediterraneo, non per l’oceano. Inoltre ci andiamo nella stagione peggiore; quindi tifoni, maelstrom, tentacoli giganti. E poi sì, claro che c’è Yanez con la sciabola.»
«Ma… Sei serio?»


«Quien sabe? Il mio motto è pensa sempre al peggio: se accade non ci resti male, se va bene sei felice.»
Chi me l’ha fatto fare, pensò Domenico, e Mario sembrò leggergli nel pensiero.
«Sei qui perché un uomo non resiste al richiamo dell’avventura, specie se conduce una vita sfighina. La patria chiama, e chi sei tu per sottrarti?»
«Io non ho spirito di patria. Sono un cittadino del mondo.»
«Devi parlare potabile, amigo, o mi partono le sberle traduttrici.»
«Per me i confini non esistono. Siamo tutti fratelli. E io voglio vedere il mondo, conoscerli, non fermarmi per colpa di qualche linea immaginaria.»
«Scoprire e scopare, grande filosofia.»
«Io non ho detto questo!»
«Ma sì, gringo, è palese l’intento: tu vuoi presentarti con lo sputafigli di fuori dove non ti conosce nessuno, fare due foto, trapanare qualche fighino e fuggire senza pagare. E lo rispetto, è una maschia missione. Il problema sono i padri delle squinzie. Bastonarti diventa la loro missione di vita, ti braccano per assassinarti. Ma grande è la ricompensa, certo. C’è un motivo se buona parte delle burbe qui attorno avrebbe potuto sbarcare, ma si sono offerti volontari.»
Domenico corrugò la fronte. Tralasciando l’interpretazione animalesca della sua frase, era straniante pensare che ogni ragazzo attorno a lui, invece di tornare a casa, avesse preferito rischiare la pelle per salvare degli sconosciuti. Le facce che gli passavano davanti erano sbarbate e innocenti come le matricole dell’università, ma a differenza dei suoi compagni di corso sembravano felicissimi. Si accorse che Mario proseguiva senza di lui e gli corse dietro.

Arrivato al proprio alloggio si fermò, guardando marinai che accatastavano montagne di viveri. C’era più pastasciutta che in un supermercato, e casse di verdure continuavano ad arrivare e scomparire dietro altre porte. L’atmosfera gli ricordò la cascina di suo nonno quando s’era sposata una nipote. Lui era piccolissimo e giocava in cortile, correndo tra le gambe di uomini e donne che sistemavano fiori, portavano viveri e preparavano un grande tavolo in giardino, con i quattro pastori tedeschi che abbaiavano e saltavano senza capire niente, i gatti stavano sulla finestra a prendere il sole e le scarpe si sporcavano dell’arancio delle albicocche lasciate a marcire nell’erba. Poi quelle feste avevano smesso di colpo. Forse i nonni si stancavano, o forse la politica aveva infettato anche i nuclei familiari.

Si tastò in cerca di una penna per correggere il nome sul tesserino, e trovò la biro che gli aveva prestato quel tizio in aereo. Era una Bic gialla, sul cui fianco era stampato l’indirizzo di una pizzeria di Trieste. Se la rigirò in mano, quasi a cercare qualche trucco come nei film di James Bond. Era soltanto una biro. Gli tornò in mente Alfio. Avrebbe potuto vederlo seduto di fianco a lui in una pizzeria, o in corriera e non gli sarebbe mai passato per la testa che appartenesse al SID, o come si chiamavano adesso i servizi segreti. Anche a parlarci somigliava a un mezzo malavitoso, o a uno dei tanti slandroni che sentiva pontificare dai tavolini dei bar. Quelli che tra una birra e una sigaretta inneggiavano a colpi di Stato e fischiavano dietro alle studentesse di passaggio come lupi impotenti. Alfio invece stava su un volo di Stato assieme a tonnellate di grana e a due africani in costume tradizionale, diretto chissà dove e a fare chissà cosa.

Il fatto che sembrasse un uomo così comune, anzi improbabile, forse lo rendeva ancora più sinistro. Aveva ragione Poe: il miglior nascondiglio è sotto gli occhi di tutti. Anche i ragazzi che strascicavano i piedi attorno a lui erano quei tipi qualsiasi, stanchi e svaccati, che potevi trovare in uno spogliatoio.


Si spogliò, gettò il completo beige e la camicia sulla branda e s’incamminò in mutande verso i bagni, facendosi largo tra altri ragazzi indaffarati. Si diede una rinfrescata e indossò quello che gli era stato dato: camicia azzurra e pantaloni blu. Rimase a guardarsi allo specchio, ascoltando battute e risate degli altri, ognuno con un’inflessione dialettale diversa. Aveva già vissuto quella stessa situazione durante la visita. Erano posti dove il cervello taceva, troppo impegnato ad analizzare ed elaborare informazioni per produrne di proprie. Osservava e ascoltava, incuriosito dal vociare, la frenesia e lo scricchiolare metallico delle fiancate.
«Sei bellissimo» disse Mario all’ingresso. Domenico sorrise e lui gli tirò una pacca sulla spalla: «Scherzo, stai una merda, ma va bene così. Adesso vamonos, ti mostro quello che devi sapere della nave.»


Domenico riprese a correre dietro il marinaio attraverso stanze e corridoi, più spaventato all’idea di perdersi che di memorizzare quello che gli stava dicendo. C’era troppa confusione, troppa gente, troppi ostacoli e troppo rumore. Sbucarono a poppa, in uno stanzone che dava sul ponte di volo. La vista dell’aria aperta quasi lo accecò. L’hangar era stato diviso a metà. Sulla sinistra, una fila di letti a castello stava venendo ordinata da ragazzi a torso nudo e l’aria di chi su quei letti ci si sarebbe disteso volentieri. A destra c’erano attrezzi da meccanico ammassati alla bell’e meglio.
«Questo è l’hangar» fece Mario, allargando le braccia «Ci dormiranno donne e bambini. Una volta in mare, qui potrà entrare solo il comandante, il personale di volo, i segaossa e forse voi interpreti. Poi ovvio che andrà tutto in vacca, ma gli ordini sono questi.»

Separare le famiglie pareva un atto di crudeltà, invece era l’unica scelta intelligente. Era stata pianificata dagli ufficiali che ben conoscevano la vita in mare. Fin da prima della scoperta dell’America si diceva che una donna a bordo di una nave portasse sfortuna. Il motivo era prosaico quanto concreto: i viaggi duravano anni, e i marinai finivano a contendersi l’unica donna a coltellate. Questo creava un clima cupo che sfociava in insubordinazione, ammutinamenti e tragedie. Per assicurarsi che il concetto entrasse nelle menti più semplici si optava per il paranormale, quella Dea fortuna bizzosa e irrequieta che nessun uomo di mare avrebbe mai osato infastidire. Sul Veneto avevano preso la stessa decisione: i maschi sarebbero rimasti a dormire negli alloggi di prua, le donne e i bambini a poppa.

Scesero una scalinata e si trovarono sotto il ponte, dove le murature esterne – reti metalliche – erano state chiuse per trasformarlo in sala ricreativa. C’erano pacchi di acqua minerale, succhi di frutta, sacchi di riso e montagne di vestiti che venivano separati e ordinati. Quando uscirono sul ponte di volo, Domenico restò allibito. Rispetto ai locali angusti della nave, pareva grande e lungo come un campo da calcio. Avrebbero potuto starci quattro elicotteri. L’ultima tappa fu la plancia. Appena si trovò davanti alle vetrate notò un brusco cambio d’atmosfera. Le uniformi erano più in ordine, le schiene dritte e le parole più misurate. C’erano macchinari, indicatori e tubi che sparivano nel soffitto, blocchi grigi di apparecchiature fissati a paratie biancastre e pavimenti di linoleum verde su cui buona parte dei marinai stava in piedi, armeggiando tra carte e altri indicatori. Gli venne presentato il quadro ufficiali e sottufficiali composto da uomini in bianco con occhiaie e palpebre che si abbassavano troppo lente, ma si sforzavano di essere cordiali.
Scordò nomi e gradi l’istante dopo averli sentiti.

Arrivata l’ora di pranzo aveva la testa che gli scoppiava. Più che appetito, sentiva un disperato bisogno di rimanere solo. Ogni angolo della nave era un delirio schizofrenico di uomini, merci e ordini. Chiese a Mario di tornare in cabina, ma quello scosse la testa: «A bordo di una nave militare si sta coi gringos. Si lavora, si parla e si gioca sempre in batteria. Si isolano sulle mercantili, sai. Moldavi, italiani, filippini stanno in camerino 20 ore a segarsi ed escono solo per lavorare. Appena qualcosa s’introia diventa una lotta tra bande. Qui ci sono pure armi, quindi diventerebbe mezzogiorno di fuoco. Non se puede. Tutti devono sapere chi sei e a cosa servi.»
A quanto pare la Marina aveva risolto i suoi problemi esistenziali prima di lui: «Nella terra di frontiera…» canticchiò.
«… troppa gente ha paura» gli fece il coro Mario «Vamos, gringo, tra due ora salpiamo per l’altra parte del mondo.»

Salvataggio all’amatriciana, p.39, Salani, 2022

Nell’ufficio del Cremlino scoprono il motivo dell’improvvisa reazione compatta della NATO

Nell’ufficio del Cremlino scoprono il motivo dell’improvvisa reazione compatta della NATO

«DOVEVA ESSERE UNA GUERRA LAMPO!» urla Putin, sfasciando l’ufficio «A QUEST’ORA DOVEVO PASSEGGIARE PER KIEV GIOCANDO A BOCCE CON LA TESTA DI ZELENSKY!»

Il ministro della difesa, generale Kasparov, sta a testa bassa, mentre Putin distrugge l’ufficio usando la bandiera russa come una mazza. Dopo aver fracassato un mappamondo, due portatili e un ritratto di Lenin, lancia la bandiera contro la finestra blindata e crolla a sedere: «Qui fuori è pieno di ragazzini che frignano. Ho i gerarchi incazzati che non possono andare sul lago di Como. In Internet trovo solo gente che mi schifa e mi deride, mentre Zelensky ogni volta che parla sembra l’eroe di un film anni ’80. M’è arrivata persino la delegazione delle puttane incazzate perché non pigliano più soldi su OnlyFans. E PERCHÈ CAZZO accendo la TV per guardare il telegiornale e trovo punkabbestia ucraini che cantano It’s my life con la fisarmonica da settantadue ore? Me lo spieghi?»

mai har iz laik a brokin aiueiiiiii

«Sono quelli di Anonymous» dice il generale, con un sospiro.
Putin crolla sulla sedia: «Kasparov, ma cosa succede? Doveva essere una roba facile come con la Georgia o la Crimea. Perché l’Europa s’è svegliata coesa, così di botto? Eppure con i meme per ritardati abbiamo fatto un lavoro eccezionale. Li abbiamo persino convinti che il vaccino era una cosa di sinistra. Dovevano essere dalla nostra parte.»

«Posso essere sincero?»
«Ma certo, le miniere della Siberia pullulano di persone sincere.»

«Allora non saprei.»
«Già, è un mistero. Torniamo alle operazioni. Perché non abbiamo ancora sfondato?»
«Guardi, le dico solo che non riusciamo a trovare gli obiettivi. Google maps non funziona. Dentro i blindati i cellulari non prendono, ma tanto fuori ci sono problemi con l’operatore. Nel 2022 nessun ventenne possiede una mappa stradale né la sa leggere, quindi siamo costretti a basarsi sui cartelli stradali. Ma sono già stati vandalizzati o imputtanati apposta, perciò i nostri uomini vagano nel nulla finché finiscono la benzina. A quel punto…»

Putin socchiude gli occhi: «… a quel punto cosa? Continui.»
«Bè, arrivano gli zingari, presidente.»
«Gli…?»
«Gli zingari. Ci rubano tutto. Armi, munizioni, camion, blindati, hanno iniziato a rubare persino i carri armati. Se li portano via coi trattori. Poi c’è il problema che i nostri soldati combattono pena la fucilazione, ma di base li abbiamo mandati al fronte raccontandogli un mare di cazzate e pagandoli pochissimo. Dall’altra parte abbiamo cittadini ucraini motivatissimi. Studenti e casalinghe a cui abbiamo bombardato casa che combattono per scelta. Poi immagini cosa succede a un ragazzino di vent’anni che si trova di colpo davanti alle ucraine, le uniche donne al mondo con il buco del culo rosa e morbido come un marshmellow.»

«Quelle hanno il…?»
«Tantissimo.»

Putin si passa una mano sui pochi capelli rimasti. Ha settant’anni, la prostata grossa come una pallina da golf e l’uccello in disarmo da vent’anni. Ripensa a quando mise una manciata di rubli in mano a tre ragazzini con un computer. Anni. Decenni di lavoro e investimenti per corrompere la NATO dall’interno, una stronzata dopo l’altra, facendo in modo che destra e sinistra si polarizzassero in posizioni indifendibili l’un l’altro in un tripudio di instabilità e odio fratricida. Anni di chirurgia plastica e paranoie, di miliardi versati nelle tasche di oligarchi che adesso gli telefonano incazzati per le sanzioni. Anni a fare show per sedurre gli occidentali sprovvisti di figure paterne, per affascinare intellettuali frustrate e capitalizzare la rabbia dei codardi. Anni di palle, invenzioni, improvvisazioni, imprevisti, incluso quel coglione di Yuri che aveva cambiato bandiera ed era corso a spiattellare tutti i piani a lungo termine già nel 1985. E adesso che poteva sognare di ricostituire i confini dell’URSS, saltava fuori…

«Ma rosa rosa?» fa Putin.
«Presidente, guardi lei stesso» dice Kasparov, allungandogli il cellulare.
Putin sbircia, poi scuote la testa: «Vabbè, ormai è fatta. Metto in allerta le nucleari.»
«Ma per cosa? Poi cosa governiamo? Al posto dell’Ucraina ci troveremmo un ampio parcheggio pieno di cadaveri e trenta minuti prima che ci piovano in testa nucleari americane, francesi, inglesi, forse pure israeliane. Oppure l’intera razza umana ci attacca in massa da ogni parte, tranne i nordcoreani. Diventiamo come Dune, Cristo. Se invece restiamo lì a smitragliare ucraini, sarà la nostra Belfast. Decenni di attentati, guerriglia urbana e figli che rientrano in casse di legno con gli AN-124. Ed evito di parlare dei costi mostruosi, con la nostra economia che deve importare pure i preservativi.»

«Senti, è solo che non volevo la NATO ai confini.»

«Ma se l’Ucraina diventava Russia, avevamo lo stesso la NATO al confine.»
«HAHAHAHA FIGA SERGEI C’HAI RAGIONE HAHAHAHA»

«Bè, quindi cosa proponi?» dice Putin.
«Senta, lei è vecchio decrepito e s’è autoconvinto della propaganda machista che spaccia da anni. Non le è bastata la figura di merda col Polonio, non le è bastata la figura di merda con le spie che spiattellano tutto al telefono, la figura di merda delle spie che avvelenano per sbaglio e poi, sgamate, dicono che sono appassionati di architettura

«Hahaha, c’è la famosa cattedrale di Salesbury…»

«… non le è bastata la figura di merda dell’intera classe dell’FSB che si fa i video autocelebrativi su Youtube a volto scoperto, adesso ha mostrato anche che si fa rubare i carri armati dagli zingari.»

«Dunque cosa suggerisce?»
«Dica ai diplomatici di tirarsela un po’ e poi accetti la tregua. L’Ucraina resta neutrale, riconosce la Crimea come russa, fine. Conclude la sua carriera con qualche centinaio di morti e la dimostrazione che lei è uno che fa sul serio. Fine. Per quanto possiamo campare con le sanzioni? Essù, manco abbiamo i soldi per la benzina.»

«Ci penso. Intanto fammi rivedere un attimo la foto.»

05. Solo una festa di compleanno

05. Solo una festa di compleanno

[01. La chiamata dell’eroe] – [02. Un paese tranquillo] – [03. La faccia della paura] – [04. Un mazzo di chiavi]

«Statemi a sentire. La porta era chiusa dall’interno. La finestra era aperta di recente, dentro non c’erano foglie né sporcizia. L’unica spiegazione è che c’è un’altra entrata» dico «E qualcuno, quando ci ha sentiti, è scappato.»

Ma di seconde entrate noi ne avevamo viste. L’idea che qualcuno ci fosse rimasto chiuso dentro ci metteva i brividi, ma era impossibile. Quel collegio era chiuso da mesi. E se anche fosse, perché barricarsi dentro una stanza e scappare dalla finestra? L’ipotesi più sensata che avevamo formulato era che ci fosse stato un terremoto e il paese fosse stato evacuato. Dopotutto nessuno di noi leggeva i giornali o seguiva i TG, per quel che ne sapevamo poteva anche esserci stata una bomba atomica.

Ma non tornava.

Il prosciutto in busta che avevamo dato a Zombie era recente. I bicchieri di birra sui tavolini erano ancora pieni. In un paesino abbandonato non c’è elettricità e nessuno pulisce le strade. Quelle erano state pulite al mattino. E poi dov’erano le ambulanze, le auto della polizia o della protezione civile? Dov’erano i camion dei pompieri e dell’esercito che scavavano tra le macerie? L’aria avrebbe dovuto essere una cacofonia di sirene e di gente in divisa che latrava ordini.

Invece c’erano solo pioggia e silenzio.

Dal cielo continua a scendere acqua che forma ruscelli sui pavè, cola dalle pareti di mattoni e rende le case lucide. Mi rannicchio sotto la tettoia a leggere quel pacco di fogli. Alcune sono lettere scritte a mano con una calligrafia maschile, altre battute a macchina piene di cancellazioni, e poi vecchi articoli di giornale e due lettere scritte da una donna con “RISERVATO SPGM” sottolineato tre volte. Apro la prima.

Direttore,
suor Rosanna mi ha riferito dell’incidente. Meglio continuare a tenerla isolata, in vista della festa con i genitori, anche se dubito che tra ventotto o ventinove allievi qualcuno noti la differenza. Se stare tra quelle vecchie lavagne impedisce a Sabrina di fare uno scandalo è tanto di guadagnato. Ovviamente, mio marito e mia cognata sono d’accordo.

K.

Zombie

Riconto i volti nelle foto. Sono ventotto. Noto una bambina alla finestra, in fondo, dietro la finestra al centro della foto, appena riconoscibile. Leggo a caso finché trovo un articolo di cronaca bianca. L’istituto dà una festa per l’inaugurazione della nuova ala con una biblioteca e una sala congressi. Sono presenti i genitori, l’arcivescovo, il sindaco, il direttore dell’istituto e il finanziatore, il commendator…

«Fioi» dico «Cosa vi viene in mente se dico il nome Riccardo Grandi?»
Luca si gratta i capelli bagnati: «Quello dei capannoni anni ’70, no? Avevano anche lo slogan… hmm… Dai, ti ricordi quei capannoni strani? Quelli che hanno demolito per fare la strada dell’Area city? Capannoni Grandi. E la tua impresa è un’opera d’arte

Ario scatta in piedi e ci tira una manata: «E basta, perdìo, basta! Noi siamo qui per chiavare o no?»
Sguardi tutt’altro che allegri: «Ario, è andata. Torniamo a casa.»
«MA NEANCHE PER SOGNO, pavidi sodomiti, io non lascio la coscia di Antosha» fa Ario a denti stretti «Siamo quattro giovani, gagliardi e determinati. Non v’è segno di sbirrume o cavernicoli con la spingarda: a rubare, per la madonna, avanti!»

Raggiungiamo la 127, salgo sul posto del navigatore e partiamo verso il collegio, con Zombie seduto dietro tra Luca e Atza. L’edificio è come l’abbiamo lasciato, con le grondaie che buttano acqua e la porta sfondata. Ario parcheggia la 127 in mezzo alla strada con la pioggia che entra dal finestrino scassato. Scavalchiamo il cancello. Zombie ci guarda curioso per qualche istante, poi torna in auto all’asciutto. Facciamo il giro a vedere la finestra aperta. Torniamo all’ingresso ed entriamo usando le pietrine degli accendini. Atza suggerisce di creare delle torce con degli stracci e la benzina della 127 e viene deriso, poi il buio e il temporale ci tolgono la voglia di parlare o ridere.

Camminiamo lungo il corridoio, con gli scatti di quattro pietrine alternati che sembrano una stroboscopica in una giostra dell’orrore. Lo studio è come l’abbiamo lasciato. Senza sapere perché, iniziamo a parlare sottovoce. I passi crocchiano sul pavimento e rimbombano nel buio, mentre andiamo sempre più avanti, sempre più silenziosi, fino ad arrivare alla scalinata. Sollevo l’accendino sopra la testa. E in quel momento di pausa, dove il silenzio è tanto fitto da sentire il sibilo del gas della fiammella, qualcuno chiude una porta a chiave.

È incredibile come un suono tanto semplice sia una prova inequivocabile della presenza umana. Aperta o chiusa, il movimento degli ingranaggi vibra nel metallo e nel legno come le corde di una chitarra, senza lasciare alcuna possibilità d’equivoco. A dieci metri sulla nostra destra, qualcosa di vivo ha fatto scattare una serratura. Io inspiro a denti stretti e perdo l’accendino. Atza grida. Luca e Ario si bloccano. Nessuno si muove né parla. Stiamo in attesa con i sensi all’erta, stretti in un quadrato, per una trentina di secondi. C’è solo il suono della pioggia, ovattato e distante. Faccio per raccoglierlo a tentoni. La mano di Luca mi ferma.

«Da dove veniva?» sussurro.
«Sotto le scale» fa Luca «C’è una porta.»

Passano altri venti secondi. Qualcuno, lì dietro, è immobile come noi. Forse è armato. Forse ci aspetta. Forse ha paura. Ripenso a quella ragazza di Venezia, quando in dialetto stretto, camminando in bilico sul parapetto di un ponte delle Zattere, mi insegnava e raccontava. Le minacce nel buio sono la peggiore tortura, diceva. I bambini, a istinto, giocano a nascondino apposta per addestrarcisi. Un minuto. Nel silenzio sentiamo il minuscolo scricchiolare di un cardine che sta venendo aperto molto lentamente. Sento i nervi caricarsi di energia elettrica come un accumulatore.
I miei reggono. Quelli di Luca reggono. Quelli di Atza reggono.
Ario…

«È L’ORA DELLE BOTTE» urla, scattando in avanti a testa bassa «FANTASMA BUCCHINO DI QUESTO PAIO DI-

Ario centra la porta e precipita all’esterno, incespicando nell’erba e franando di testa dentro un’aiuola di nasturzi che circonda un alberello di rosmarino. Noi diventiamo tre blocchi di cemento mentre la musica e il chiacchiericcio garbato c’investono come una folata. Ha smesso di piovere. C’è solo odore di erba tagliata, e i lampioncini illuminano un giardino all’inglese, con un prato grande come un campo da calcio circondato da querce e cipressi. In fondo, distante, c’è un palchetto e dei ragazzi della nostra età che ballano. La luce e le voci vengono dalla nostra sinistra. Una scalinata di pietra conduce a un patio a forma di mezzaluna. Ci sono adulti in abito da sera parlano e bevono.

Ario emerge dai nasturzi come una ninfa, se solo le ninfe bestemmiassero.

Uno dopo l’altro usciamo, camminando rasenti al muro verso le luci del patio. È come guardare una festa in obitorio con i cadaveri ancora scoperti; la musica è quieta, le donne sorridono, i vestiti sono belli, ma ogni cosa attorno a te suona l’allarme. Alle spalle del patio c’è una portafinestra che illumina un salotto. Un cameriere ci passa di fianco senza badarci. Gli adulti hanno occhiali spessi e quadrati, baffi e cravatte larghe. Le donne sembrano appena tornate da una vacanza in India. Pare il set di un film ambientato venti anni fa. È la festa più bella che abbia mai visto e ho una tale paura che sento le mani e le piante dei piedi fradice di sudore.

Restiamo lontani dai lampioncini e protetti da una quercia.

La discomusic che fa ballare quel gruppetto di ragazzi è un misto tra funky e canzoni italiane lente. Sento l’odore dell’erba tagliata e qualcuno deve aver spanto un cocktail con il gin. Tocco la corteccia dell’albero, è ruvida e asciutta. C’è un tavolo con una tovaglia di lino. La stropiccio, è liscia e fresca, con le pieghe appena fatte che mi solleticano i polpastrelli. Strappo dei fili d’erba, impastandomeli tra indice e pollice fino a trasformarli in vermetti verdi che mi macchiano le dita. È asciutta. Mostro la mano a Luca.
«Ma che cazzo succede, qui?» soffia fuori lui.
«È palesemente un mio trip tossico» fa Ario «Va detto che a ‘sto giro non mi sono tenuto. Chissà dove cazzo sono in realtà. Mille lire che mi sto pisciando addosso sul divano di casa, haha.»

Saliamo le scale fino a raggiungere gli adulti. Saranno una cinquantina. Ci avviciniamo a una coppia. La donna ci vede e corruga la fronte, squadrandoci con un velo di disgusto.

«Scusi» dico «Ci può aiutare?»
«La festa per voi è lì in fondo» dice l’uomo in completo, indicando il palchetto alla fine del giardino.
«No, è che… cos’è successo al paese?»
«Quale paese?»
«Quello lì fuo-
Mi blocco. L’edificio non è il collegio. È diverso. È una villa veneta.
«Scusi, dove siamo?» domanda Luca.
La donna e l’uomo sembrano divertiti: «Alla festa del commendator Grandi»

Quando gli chiedo se siamo ad Astorzi di Boion, l’uomo pare divertirsi un mondo e si fa ripetere il nome due volte, poi ci spiega che no, siamo a Treviso e ora lui dovrebbe parlare di cose serie. È la donna ad accorgersi del panico che abbiamo stampato sulla faccia. Ci chiede se c’è qualcosa che non va.

«Seh, seh, venga» fa Ario, scendendo le scale e facendo cenno di seguirlo. Gli adulti ci accompagnano fino alla porta buia da cui siamo entrati. Ario indica la porta proprio quando dal buio emerge un cameriere con un vassoio pieno di bicchieri, strappandoci un grido. Ci guarda incuriosito e tira dritto. L’uomo ci domanda che problema abbiamo con le cucine. Luca spinge via Atza e attraversa la porta, facendo un paio di passi nel collegio fino a essere a malapena visibile.

«Vi sembra una cucina?» sbotta, allargando le mani.

In fondo, il DJ passa dal funk a una canzone così sintetica e fuori posto che tanti si girano verso la consolle. Dei synth di plastica e sonorità anni ’80 preparano l’arrivo di due voci femminili che cantano in inglese. It’s true, dice una tizia, I feel my burning heart, it cries. Oh yeah I need it. L’uomo e la donna fissano l’ingresso con aria assente e inespressiva, come si qualcuno li avesse ipnotizzati. Spostano il peso da un piede all’altro, poi ci domandano che problema c’è. Quando gli chiedo di entrare l’uomo stringe le spalle e fa un passo in avanti. Gli sto fissando la giacca quando varca la soglia e scompare, lasciandomi di fronte agli occhi sbarrati e la bocca aperta di Luca. Io salto all’indietro e quasi finisco in braccio ad Ario. Un istante dopo l’uomo riappare, guardandomi con la testa inclinata: «Allora?»

Luca esce con la bocca semiaperta e mi guarda cercando aiuto. Non lo trova.
Restiamo in silenzio come lapidi cadute sulla nostra razionalità.

L’uomo si volta verso la donna con un sorriso divertito, indicandomi con il palmo della mano: «Ah, questi ragazzini» dice, scuotendo la testa «Quattro derivate del Versore e si parla di cinque morti e decine di feriti. La cagna aveva il collo spezzato.»
Lei ride e lo prende per il braccio: «È una funzione olomorfa iniettiva, tesoro. »

Il ritornello è così stucchevole e ingenuo da ricordarmi quando ancora bevevo succhi di frutta Derby al gusto d’uva alle elementari. We’re heart to heart, all i wanna do is love you, soul to soul, come, carry my love.

«Fioi» dice Luca, con la voce roca «Leviamoci dal cazzo di qui.»
«Ma sai che sì?» fa Ario «Mi sta pigliando male.»
«Via, cazzo, via, via» dico, scattando verso la porta.

A metà del secondo ritornello il cielo rimbomba di un orrore stridulo e metallico, simile a una bambina che grida in un tubo d’acciaio distorto e gracchiante.


[prossimo capitolo: 06. Versore di fuga]

Quel che mia nonna mi ha raccontato prima e durante l’era fascista

Quel che mia nonna mi ha raccontato prima e durante l’era fascista

Nel 1917 avevi quattro anni, e mamma aveva impiegato un bel po’ di energie a convincere te e i tuoi fratelli che quell’uomo senza una gamba era vostro padre. Per te papà era quello nella foto, giovane e bello nella sua divisa. Quello tornato due anni dopo aveva la faccia sfregiata, zoppicava sulla gamba di legno e si bagnava sempre le labbra come se dovesse dire qualcosa, ma non lo faceva mai. Quando gli capitavi davanti sentivi il suo sguardo sulla schiena, per il resto o confabulava con mamma o stava seduto a fissare il fuoco.

Di notte urlava. Tu e i tuoi fratelli vi eravate abituati a sentirlo dal piano di sopra, tanto che quelle frasi sconnesse erano diventate un vostro tormentone quando giocavate in cortile: le cartucce! Le cartucce! Tutti ammazzati! Sergente! Sergente! In giro ce n’erano tanti come lui. Non avevano i soldi nemmeno per comprarsi una camicia o un abito; chiedevano la carità con la divisa addosso, a un popolo che preferiva sentire il tintinnare delle monete nelle cassette delle offerte, piuttosto del clùnc in un barattolo per strada.

Papà non era in grado di lavorare nei campi, ma aveva talento con il cuoio. Quando aveva trovato da lavorare dal calzolaio era migliorato, ma spesso mamma doveva recuperarlo all’osteria. Si ubriacava e s’azzuffava coi contadini. Tu e la tua famiglia stavate lontani dalle città. Arrivavano voci di violenze, insurrezioni, sparatorie. I giornali raccontavano di D’Annunzio, di Marinetti, di assalti alle redazioni e manifestazioni finite in tragedia. Papà, pian piano, si era fatto un’idea politica: aveva trovato finalmente qualcuno a cui importava di lui e di quelli come lui!

Quando il 24 marzo 1921 gli anarchici avevano ucciso 21 persone nell’hotel Diana, papà era tornato dall’osteria con due coltellate. Il dottor Tomasi l’aveva rattoppato da ubriaco, con gli occhiali che gli calavano sul naso rosso. “Mi pagherete quando dovrò solare gli stivali”, aveva detto, andandosene sul calesse. L’auto è ancora un lusso, in strada ci sono solo barrocci e carrozze. Ora è un freddo venerdì di gennaio 1932, tu hai vent’anni, sei sposata con Antonio – che lavora nei campi di di famiglia – e ti sono rimasti cinque figli su sette. Il primo è morto di un raffreddore misterioso e incurabile, il terzo di fame, perché nell’autunno del ’22 un gruppo di camicie nere aveva preso di mira il vostro villaggio rubando animali e beni di prima necessità.

Il medico dice che per te è troppo rischioso avere altri figli, ma tu devi correre questo rischio. Alle madri vengono date 6000 lire se hanno più di sei figli, mentre c’è la tassa sul celibato. Al matrimonio ne arrivano 500. Più figli fai, meno tasse paghi e più terra puoi ottenere. Ognuno dei tuoi cinque bimbi ha una divisa, e come tutti sono iscritti all’ONB (Opera Nazionale Balilla). La tessera costa 5 lire. Dai 6 agli 8 anni sono tutti “figli della Lupa”, dagli 8 ai 14 sei un “maschio balilla” o una “piccola italiana”. Dai 14 ai 18 sei un “avanguardista” o una “giovane italiana”. Poi i maschi diventano “fascio giovanile di combattimento” mentre le ragazze sono “giovani fasciste”. Le divise sono mantello nero, camicia nera, pantaloni neri e spilla del fascismo per i maschi, mentre le “piccole italiane” hanno maglia bianca e gonna nera a pieghe. Niente scarpe marroni né cappotto, sono troppo informali. Meglio la capparella.

C’è così tanta povertà che molti non si possono comprare una bicicletta e per andare a scuola fanno sette chilometri a piedi. D’inverno, siccome le scuole non hanno riscaldamento, ogni alunno a turno deve portare della legna da mettere nella stufa. Ogni volta che si entra in classe si fa il saluto alla foto di Mussolini. Le maestre usano le punizioni corporali sui bambini: legano i capelli ai banchi, picchiano, pizzicano, minacciano. Tu tutto questo lo sai perché te lo raccontano, ma non ti sei mai mossa dal tuo paese. Non avete i soldi per comprare un bue o un cavallo, quindi dovete arare i campi con l’aratro in spalla tu e tuo marito.

Ogni sabato è un sabato fascista.

Ci si trova presso il gruppo rionale d’appartenenza, gli insegnanti in uniforme sahariana, i ragazzi in uniforme Balilla. Vengono inquadrati a ritmo di tamburo, i più piccoli col moschetto giocattolo in spalla, e tutti si addestrano al combattimento. Chi non partecipa paga una multa, oppure un genitore va in prigione una notte. I giornali hanno il divieto di dare notizie disfattiste come incidenti ferroviari, suicidi, tragedie familiari o personali, violenze e stupri. Anche quando nel 1919 a Venezia il piroscafo San Spiridione esplode uccidendo oltre un centinaio di persone, il paese ne è all’oscuro.

Alcuni credono i loro parenti siano svaniti nel nulla.

C’è il culto del lavoro, le fabbriche sono “stabilimenti” dove gli operai vengono perquisiti e urlano 8 ore al giorno tra macchinari senza possibilità di ritardo, malattia o carriera. C’è il terrore di essere spiati dall’OVRA, che ti potrebbe far arrestare e sparire per mille motivi, nessuno dei quali legato al fascismo quanto alla delazione. Non puoi fidarti di nessuno, giovane o vecchio, né puoi rischiare di dire ad alta voce cosa pensi. Chiunque può essere un informatore, l’usciere o l’oste, la prostituta o la sorella. Quando nell’agosto 1933 si viene a sapere che nell’osteria di Domenico di Terlizzi qualcuno ha cantato “bandiera rossa”, lui non riesce a confermare né smentire i nomi degli avventori che avrebbero cantato. Finisce complice.

Quando viene dichiarata l’entrata in guerra, in piazza San Marco ci sono gli altoparlanti, ma nessuno gioisce né applaude. Sono tutti zitti e immobili. Le cose iniziano a peggiorare quasi subito. Ogni volta che prendi un treno senti i pianti e le suppliche dei ragazzi mandati al fronte. Uno seduto davanti a te si chiama Giovanni, ha la pelle olivastra, i lineamenti mediorientali e trema come una foglia. Scendete insieme in una stazione di campagna, lo porti in un boschetto dietro un fienile e sei così gentile da fargli conoscere com’è fatta la vita prima che conosca com’è fatta la morte. Non lo rivedrai mai più, e sarà l’unica volta che tradisci tuo marito.

Andrà in Africa. Quello che l’Italia compie lì è talmente abominevole, talmente spaventoso, da essere interamente censurato e ancora oggi, volutamente trascurato.

Molte famiglie vengono sfollate o perdono la casa per i bombardamenti.

Quando suonano le sirene antiaeree bisogna spegnere tutte le luci e chiudere le finestre. Devi assicurarti di avere sempre ben nascosti dei sacchetti di zucchero per sfamare i bambini, e secchi di sabbia per spegnere gli incendi. Viene chiesto alle famiglie di collezionare le fedi e le pentole di rame da donare allo sforzo bellico. Nelle città ci sono epidemie di tifo. Per il cibo servono le tessere in cui il Duce prefissa una quantità di cibo giornaliero, timbrate a ogni acquisto. La sera ci si riunisce nelle stalle per scaldarsi, ci si racconta storie e si mangiano patate, polenta o zucca con bicchieri di latte appena munto. Nei panifici si scambia la farina con il pane. Per avere la grappa si deve pagare una tassa, quindi la nascondete sottoterra con un filo di ferro che sporge da terra. Alla fine della guerra lo zucchero è finito e nel caffè mettono sale.

Poi arrivano i tedeschi.

Ci sono perquisizioni tedesche in piena notte con il mitra puntato. La morte diventa è cosa naturale e quotidiana. Passano aerei e sparano a civili inermi nella strada principale, perciò tuo zio esce per fare la spesa e non torna più. A tutte le donne è morto almeno un figlio. Quando gli Alleati sbarcano e il re scappa “per salvare Roma“, stare nelle grandi città diventa pericoloso. In campagna arrivano soldati sbandati e disperati, prigionieri fuggiti, banditi. Russi, Sudafricani, brasiliani, polacchi. C’è così tanta fame che le pizzerie fanno un Castagnaccio cotto male. E alla fine, tutto questo diventa un odio profondo e silenzioso che ammanta tutto di silenzio e sguardi. L’odio verso il vicino di casa gerarca che protetto dalle SS ha fatto cose abominevoli. L’odio verso chi ha fatto stragi e rapine con la scusa di essere un partigiano. L’odio per chi l’ha scampata e l’odio per chi la vissuta. Un odio fratricida che si perpetua di padre in figlio, in una narrazione sempre più farsesca e distorta dal telefono senza fili della Storia.

Volevo metterli qui, perché i ricordi dei ricordi altrui spesso svaniscono.

Gogne a cinque stelle, versione 2.1

Gogne a cinque stelle, versione 2.1

Sta andando avanti da settimane la storia della RAI contro il discorso di Fedez al concerto del primo maggio. Il popolo è incondizionatamente dalla parte del rapper, perché ha fatto nomi e cognomi di consiglieri di provincia, autori di dichiarazioni che è difficile definire se omofobe o vere istigazioni a delinquere.

I giornali gli vanno dietro in un afflato d’entusiasmo: Fedez è l’unico rimasto a fare politica, dicono alcuni. Fedez ha ragione. Altri – specie quelli intrecciati con l’amministrazione e il circolo RAI – sono più prudenti, dicendo che insomma, il concerto del Primo maggio non è il posto giusto per dire certe cose.

Il che è ridicolo: il concerto del Primo maggio fa polemiche ogni volta, sin dalla fondazione.
Alcune ridicole, altre più ridicole.

Basta pensare ai magici tempi dell’antiberlusconismo, in cui se non facevi almeno una dichiarazione sessista sulle Olgettine o una di bodyshaming sul presidente del Consiglio eri uno sfigato. Zelig era incentrato su Berlusconi, così come Colorado cafè o gli scaffali delle librerie. Quando è arrivato Beppe Grillo è stato il massimo del trionfo.

Peppe dava in pasto alla folla il suo cibo preferito: nomi e cognomi da linciare. Elencava politici condannati dal palco del V day e a ogni nome seguivano fischi e insulti; un abominio medievale da quarto mondo a cui avevano aderito cantanti e politici tra cui Fedez, che compose una canzone apposta.

E queste persone sognavano come “ministro di grazia e giustizia” una persona dalla fedina penale interessante quanto recidiva; recidiva perché pagare risarcimenti di 12,000, o 15,000 euro per diffamazione è una bazzecola rispetto agli incassi monstre che fanno le gogne.

È un calcolo che fanno anche le trasmissioni che spacciano linciaggi per giornalismo. Poi vengono querelate e pagano senza problemi, perché rispetto agli incassi derivanti da pubblicità sono il prezzo di un drink. Fedez quando ha messo alla gogna i consiglieri provinciali ha fatto LA STESSA IDENTICA COSA che ha ottenuto GLI STESSI IDENTICI RISULTATI.

 “Ma ha ragione! Quello che hanno detto i leghisti fa schifo!”

Oh, anche le Brigate rosse avevano ragione a prendersela con i padroni, in teoria. Peccato che nella pratica fossero una banda di fanatici assassini. Puoi avere tutte le ragioni del mondo, ma se usi il metodo sbagliato passi dalla parte del torto. Dire che gli omofobi/razzisti/sessisti vanno tutti ammazzati ti fa sembrare puro, duro, macho, progressista e oggi fa fare un sacco di like; se ammazzi una persona solo per le sue idee sei letteralmente un oppressore.

Quello che ha fatto Fedez è il problema, non la soluzione.

Non che sia colpa sua. Fedez come rapper aveva indiscutibilmente talento, e se un gigante come la Ferragni se l’è portato a casa significa molto. Credo davvero fosse spinto da buone intenzioni, ma come ognuno di noi è figlio di vent’anni di questo business milionario che si scrive “politica della gente” ma si chiama “diffamazione sistematica” grazie alla quale buona parte della popolazione ha perso qualsiasi rispetto verso gli organi d’informazione e rappresentanti; ha perso la capacità di trovare una propria filosofia politica e ha scelto di affidarsi a ciarlatani, farabolani, cospirazionisti e capipopolo.

La peggio stronzata scritta nei baci Perugina o nei meme di Mafalda è comunque meglio di “guarda cos’ha scritto/detto questo!!!! È una vergogna!!”. Perché è questo che è successo sul palco del 1°maggio: kondividete prima che cenzurano.

E io sono stanco di svuotare il mare con uno scolapasta.

Sono stanco di dovermi scontrare con stimaticolleghi di prestigiose testate che imbastiscono servizi, articoli e carriere su illazioni, speculazioni, diffamazioni o bugie spacciandoli per fatti. Stanco di capipopolo venerati come “vera politica” basata su gogne e vuoto spinto. Il vuoto del M5S. Il vuoto della Lega. Il vuoto delle Sardine. Il vuoto di Fedez. Il vuoto di bambinetti over 40 che si tirano i capelli, seduti davanti all’altare della patria, incapaci di fare mezzo castello di sabbia.