Quel che mia nonna mi ha raccontato prima e durante l’era fascista

Quel che mia nonna mi ha raccontato prima e durante l’era fascista

Nel 1917 avevi quattro anni, e mamma aveva impiegato un bel po’ di energie a convincere te e i tuoi fratelli che quell’uomo senza una gamba era vostro padre. Per te papà era quello nella foto, giovane e bello nella sua divisa. Quello tornato due anni dopo aveva la faccia sfregiata, zoppicava sulla gamba di legno e si bagnava sempre le labbra come se dovesse dire qualcosa, ma non lo faceva mai. Quando gli capitavi davanti sentivi il suo sguardo sulla schiena, per il resto o confabulava con mamma o stava seduto a fissare il fuoco.

Di notte urlava. Tu e i tuoi fratelli vi eravate abituati a sentirlo dal piano di sopra, tanto che quelle frasi sconnesse erano diventate un vostro tormentone quando giocavate in cortile: le cartucce! Le cartucce! Tutti ammazzati! Sergente! Sergente! In giro ce n’erano tanti come lui. Non avevano i soldi nemmeno per comprarsi una camicia o un abito; chiedevano la carità con la divisa addosso, a un popolo che preferiva sentire il tintinnare delle monete nelle cassette delle offerte, piuttosto del clùnc in un barattolo per strada.

Papà non era in grado di lavorare nei campi, ma aveva talento con il cuoio. Quando aveva trovato da lavorare dal calzolaio era migliorato, ma spesso mamma doveva recuperarlo all’osteria. Si ubriacava e s’azzuffava coi contadini. Tu e la tua famiglia stavate lontani dalle città. Arrivavano voci di violenze, insurrezioni, sparatorie. I giornali raccontavano di D’Annunzio, di Marinetti, di assalti alle redazioni e manifestazioni finite in tragedia. Papà, pian piano, si era fatto un’idea politica: aveva trovato finalmente qualcuno a cui importava di lui e di quelli come lui!

Quando il 24 marzo 1921 gli anarchici avevano ucciso 21 persone nell’hotel Diana, papà era tornato dall’osteria con due coltellate. Il dottor Tomasi l’aveva rattoppato da ubriaco, con gli occhiali che gli calavano sul naso rosso. “Mi pagherete quando dovrò solare gli stivali”, aveva detto, andandosene sul calesse. L’auto è ancora un lusso, in strada ci sono solo barrocci e carrozze. Ora è un freddo venerdì di gennaio 1932, tu hai vent’anni, sei sposata con Antonio – che lavora nei campi di di famiglia – e ti sono rimasti cinque figli su sette. Il primo è morto di un raffreddore misterioso e incurabile, il terzo di fame, perché nell’autunno del ’22 un gruppo di camicie nere aveva preso di mira il vostro villaggio rubando animali e beni di prima necessità.

Il medico dice che per te è troppo rischioso avere altri figli, ma tu devi correre questo rischio. Alle madri vengono date 6000 lire se hanno più di sei figli, mentre c’è la tassa sul celibato. Al matrimonio ne arrivano 500. Più figli fai, meno tasse paghi e più terra puoi ottenere. Ognuno dei tuoi cinque bimbi ha una divisa, e come tutti sono iscritti all’ONB (Opera Nazionale Balilla). La tessera costa 5 lire. Dai 6 agli 8 anni sono tutti “figli della Lupa”, dagli 8 ai 14 sei un “maschio balilla” o una “piccola italiana”. Dai 14 ai 18 sei un “avanguardista” o una “giovane italiana”. Poi i maschi diventano “fascio giovanile di combattimento” mentre le ragazze sono “giovani fasciste”. Le divise sono mantello nero, camicia nera, pantaloni neri e spilla del fascismo per i maschi, mentre le “piccole italiane” hanno maglia bianca e gonna nera a pieghe. Niente scarpe marroni né cappotto, sono troppo informali. Meglio la capparella.

C’è così tanta povertà che molti non si possono comprare una bicicletta e per andare a scuola fanno sette chilometri a piedi. D’inverno, siccome le scuole non hanno riscaldamento, ogni alunno a turno deve portare della legna da mettere nella stufa. Ogni volta che si entra in classe si fa il saluto alla foto di Mussolini. Le maestre usano le punizioni corporali sui bambini: legano i capelli ai banchi, picchiano, pizzicano, minacciano. Tu tutto questo lo sai perché te lo raccontano, ma non ti sei mai mossa dal tuo paese. Non avete i soldi per comprare un bue o un cavallo, quindi dovete arare i campi con l’aratro in spalla tu e tuo marito.

Ogni sabato è un sabato fascista.

Ci si trova presso il gruppo rionale d’appartenenza, gli insegnanti in uniforme sahariana, i ragazzi in uniforme Balilla. Vengono inquadrati a ritmo di tamburo, i più piccoli col moschetto giocattolo in spalla, e tutti si addestrano al combattimento. Chi non partecipa paga una multa, oppure un genitore va in prigione una notte. I giornali hanno il divieto di dare notizie disfattiste come incidenti ferroviari, suicidi, tragedie familiari o personali, violenze e stupri. Anche quando nel 1919 a Venezia il piroscafo San Spiridione esplode uccidendo oltre un centinaio di persone, il paese ne è all’oscuro.

Alcuni credono i loro parenti siano svaniti nel nulla.

C’è il culto del lavoro, le fabbriche sono “stabilimenti” dove gli operai vengono perquisiti e urlano 8 ore al giorno tra macchinari senza possibilità di ritardo, malattia o carriera. C’è il terrore di essere spiati dall’OVRA, che ti potrebbe far arrestare e sparire per mille motivi, nessuno dei quali legato al fascismo quanto alla delazione. Non puoi fidarti di nessuno, giovane o vecchio, né puoi rischiare di dire ad alta voce cosa pensi. Chiunque può essere un informatore, l’usciere o l’oste, la prostituta o la sorella. Quando nell’agosto 1933 si viene a sapere che nell’osteria di Domenico di Terlizzi qualcuno ha cantato “bandiera rossa”, lui non riesce a confermare né smentire i nomi degli avventori che avrebbero cantato. Finisce complice.

Quando viene dichiarata l’entrata in guerra, in piazza San Marco ci sono gli altoparlanti, ma nessuno gioisce né applaude. Sono tutti zitti e immobili. Le cose iniziano a peggiorare quasi subito. Ogni volta che prendi un treno senti i pianti e le suppliche dei ragazzi mandati al fronte. Uno seduto davanti a te si chiama Giovanni, ha la pelle olivastra, i lineamenti mediorientali e trema come una foglia. Scendete insieme in una stazione di campagna, lo porti in un boschetto dietro un fienile e sei così gentile da fargli conoscere com’è fatta la vita prima che conosca com’è fatta la morte. Non lo rivedrai mai più, e sarà l’unica volta che tradisci tuo marito.

Andrà in Africa. Quello che l’Italia compie lì è talmente abominevole, talmente spaventoso, da essere interamente censurato e ancora oggi, volutamente trascurato.

Molte famiglie vengono sfollate o perdono la casa per i bombardamenti.

Quando suonano le sirene antiaeree bisogna spegnere tutte le luci e chiudere le finestre. Devi assicurarti di avere sempre ben nascosti dei sacchetti di zucchero per sfamare i bambini, e secchi di sabbia per spegnere gli incendi. Viene chiesto alle famiglie di collezionare le fedi e le pentole di rame da donare allo sforzo bellico. Nelle città ci sono epidemie di tifo. Per il cibo servono le tessere in cui il Duce prefissa una quantità di cibo giornaliero, timbrate a ogni acquisto. La sera ci si riunisce nelle stalle per scaldarsi, ci si racconta storie e si mangiano patate, polenta o zucca con bicchieri di latte appena munto. Nei panifici si scambia la farina con il pane. Per avere la grappa si deve pagare una tassa, quindi la nascondete sottoterra con un filo di ferro che sporge da terra. Alla fine della guerra lo zucchero è finito e nel caffè mettono sale.

Poi arrivano i tedeschi.

Ci sono perquisizioni tedesche in piena notte con il mitra puntato. La morte diventa è cosa naturale e quotidiana. Passano aerei e sparano a civili inermi nella strada principale, perciò tuo zio esce per fare la spesa e non torna più. A tutte le donne è morto almeno un figlio. Quando gli Alleati sbarcano e il re scappa “per salvare Roma“, stare nelle grandi città diventa pericoloso. In campagna arrivano soldati sbandati e disperati, prigionieri fuggiti, banditi. Russi, Sudafricani, brasiliani, polacchi. C’è così tanta fame che le pizzerie fanno un Castagnaccio cotto male. E alla fine, tutto questo diventa un odio profondo e silenzioso che ammanta tutto di silenzio e sguardi. L’odio verso il vicino di casa gerarca che protetto dalle SS ha fatto cose abominevoli. L’odio verso chi ha fatto stragi e rapine con la scusa di essere un partigiano. L’odio per chi l’ha scampata e l’odio per chi la vissuta. Un odio fratricida che si perpetua di padre in figlio, in una narrazione sempre più farsesca e distorta dal telefono senza fili della Storia.

Volevo metterli qui, perché i ricordi dei ricordi altrui spesso svaniscono.