05. Solo una festa di compleanno

05. Solo una festa di compleanno

[01. La chiamata dell’eroe] – [02. Un paese tranquillo] – [03. La faccia della paura] – [04. Un mazzo di chiavi]

«Statemi a sentire. La porta era chiusa dall’interno. La finestra era aperta di recente, dentro non c’erano foglie né sporcizia. L’unica spiegazione è che c’è un’altra entrata» dico «E qualcuno, quando ci ha sentiti, è scappato.»

Ma di seconde entrate noi ne avevamo viste. L’idea che qualcuno ci fosse rimasto chiuso dentro ci metteva i brividi, ma era impossibile. Quel collegio era chiuso da mesi. E se anche fosse, perché barricarsi dentro una stanza e scappare dalla finestra? L’ipotesi più sensata che avevamo formulato era che ci fosse stato un terremoto e il paese fosse stato evacuato. Dopotutto nessuno di noi leggeva i giornali o seguiva i TG, per quel che ne sapevamo poteva anche esserci stata una bomba atomica.

Ma non tornava.

Il prosciutto in busta che avevamo dato a Zombie era recente. I bicchieri di birra sui tavolini erano ancora pieni. In un paesino abbandonato non c’è elettricità e nessuno pulisce le strade. Quelle erano state pulite al mattino. E poi dov’erano le ambulanze, le auto della polizia o della protezione civile? Dov’erano i camion dei pompieri e dell’esercito che scavavano tra le macerie? L’aria avrebbe dovuto essere una cacofonia di sirene e di gente in divisa che latrava ordini.

Invece c’erano solo pioggia e silenzio.

Dal cielo continua a scendere acqua che forma ruscelli sui pavè, cola dalle pareti di mattoni e rende le case lucide. Mi rannicchio sotto la tettoia a leggere quel pacco di fogli. Alcune sono lettere scritte a mano con una calligrafia maschile, altre battute a macchina piene di cancellazioni, e poi vecchi articoli di giornale e due lettere scritte da una donna con “RISERVATO SPGM” sottolineato tre volte. Apro la prima.

Direttore,
suor Rosanna mi ha riferito dell’incidente. Meglio continuare a tenerla isolata, in vista della festa con i genitori, anche se dubito che tra ventotto o ventinove allievi qualcuno noti la differenza. Se stare tra quelle vecchie lavagne impedisce a Sabrina di fare uno scandalo è tanto di guadagnato. Ovviamente, mio marito e mia cognata sono d’accordo.

K.

Zombie

Riconto i volti nelle foto. Sono ventotto. Noto una bambina alla finestra, in fondo, dietro la finestra al centro della foto, appena riconoscibile. Leggo a caso finché trovo un articolo di cronaca bianca. L’istituto dà una festa per l’inaugurazione della nuova ala con una biblioteca e una sala congressi. Sono presenti i genitori, l’arcivescovo, il sindaco, il direttore dell’istituto e il finanziatore, il commendator…

«Fioi» dico «Cosa vi viene in mente se dico il nome Riccardo Grandi?»
Luca si gratta i capelli bagnati: «Quello dei capannoni anni ’70, no? Avevano anche lo slogan… hmm… Dai, ti ricordi quei capannoni strani? Quelli che hanno demolito per fare la strada dell’Area city? Capannoni Grandi. E la tua impresa è un’opera d’arte

Ario scatta in piedi e ci tira una manata: «E basta, perdìo, basta! Noi siamo qui per chiavare o no?»
Sguardi tutt’altro che allegri: «Ario, è andata. Torniamo a casa.»
«MA NEANCHE PER SOGNO, pavidi sodomiti, io non lascio la coscia di Antosha» fa Ario a denti stretti «Siamo quattro giovani, gagliardi e determinati. Non v’è segno di sbirrume o cavernicoli con la spingarda: a rubare, per la madonna, avanti!»

Raggiungiamo la 127, salgo sul posto del navigatore e partiamo verso il collegio, con Zombie seduto dietro tra Luca e Atza. L’edificio è come l’abbiamo lasciato, con le grondaie che buttano acqua e la porta sfondata. Ario parcheggia la 127 in mezzo alla strada con la pioggia che entra dal finestrino scassato. Scavalchiamo il cancello. Zombie ci guarda curioso per qualche istante, poi torna in auto all’asciutto. Facciamo il giro a vedere la finestra aperta. Torniamo all’ingresso ed entriamo usando le pietrine degli accendini. Atza suggerisce di creare delle torce con degli stracci e la benzina della 127 e viene deriso, poi il buio e il temporale ci tolgono la voglia di parlare o ridere.

Camminiamo lungo il corridoio, con gli scatti di quattro pietrine alternati che sembrano una stroboscopica in una giostra dell’orrore. Lo studio è come l’abbiamo lasciato. Senza sapere perché, iniziamo a parlare sottovoce. I passi crocchiano sul pavimento e rimbombano nel buio, mentre andiamo sempre più avanti, sempre più silenziosi, fino ad arrivare alla scalinata. Sollevo l’accendino sopra la testa. E in quel momento di pausa, dove il silenzio è tanto fitto da sentire il sibilo del gas della fiammella, qualcuno chiude una porta a chiave.

È incredibile come un suono tanto semplice sia una prova inequivocabile della presenza umana. Aperta o chiusa, il movimento degli ingranaggi vibra nel metallo e nel legno come le corde di una chitarra, senza lasciare alcuna possibilità d’equivoco. A dieci metri sulla nostra destra, qualcosa di vivo ha fatto scattare una serratura. Io inspiro a denti stretti e perdo l’accendino. Atza grida. Luca e Ario si bloccano. Nessuno si muove né parla. Stiamo in attesa con i sensi all’erta, stretti in un quadrato, per una trentina di secondi. C’è solo il suono della pioggia, ovattato e distante. Faccio per raccoglierlo a tentoni. La mano di Luca mi ferma.

«Da dove veniva?» sussurro.
«Sotto le scale» fa Luca «C’è una porta.»

Passano altri venti secondi. Qualcuno, lì dietro, è immobile come noi. Forse è armato. Forse ci aspetta. Forse ha paura. Ripenso a quella ragazza di Venezia, quando in dialetto stretto, camminando in bilico sul parapetto di un ponte delle Zattere, mi insegnava e raccontava. Le minacce nel buio sono la peggiore tortura, diceva. I bambini, a istinto, giocano a nascondino apposta per addestrarcisi. Un minuto. Nel silenzio sentiamo il minuscolo scricchiolare di un cardine che sta venendo aperto molto lentamente. Sento i nervi caricarsi di energia elettrica come un accumulatore.
I miei reggono. Quelli di Luca reggono. Quelli di Atza reggono.
Ario…

«È L’ORA DELLE BOTTE» urla, scattando in avanti a testa bassa «FANTASMA BUCCHINO DI QUESTO PAIO DI-

Ario centra la porta e precipita all’esterno, incespicando nell’erba e franando di testa dentro un’aiuola di nasturzi che circonda un alberello di rosmarino. Noi diventiamo tre blocchi di cemento mentre la musica e il chiacchiericcio garbato c’investono come una folata. Ha smesso di piovere. C’è solo odore di erba tagliata, e i lampioncini illuminano un giardino all’inglese, con un prato grande come un campo da calcio circondato da querce e cipressi. In fondo, distante, c’è un palchetto e dei ragazzi della nostra età che ballano. La luce e le voci vengono dalla nostra sinistra. Una scalinata di pietra conduce a un patio a forma di mezzaluna. Ci sono adulti in abito da sera parlano e bevono.

Ario emerge dai nasturzi come una ninfa, se solo le ninfe bestemmiassero.

Uno dopo l’altro usciamo, camminando rasenti al muro verso le luci del patio. È come guardare una festa in obitorio con i cadaveri ancora scoperti; la musica è quieta, le donne sorridono, i vestiti sono belli, ma ogni cosa attorno a te suona l’allarme. Alle spalle del patio c’è una portafinestra che illumina un salotto. Un cameriere ci passa di fianco senza badarci. Gli adulti hanno occhiali spessi e quadrati, baffi e cravatte larghe. Le donne sembrano appena tornate da una vacanza in India. Pare il set di un film ambientato venti anni fa. È la festa più bella che abbia mai visto e ho una tale paura che sento le mani e le piante dei piedi fradice di sudore.

Restiamo lontani dai lampioncini e protetti da una quercia.

La discomusic che fa ballare quel gruppetto di ragazzi è un misto tra funky e canzoni italiane lente. Sento l’odore dell’erba tagliata e qualcuno deve aver spanto un cocktail con il gin. Tocco la corteccia dell’albero, è ruvida e asciutta. C’è un tavolo con una tovaglia di lino. La stropiccio, è liscia e fresca, con le pieghe appena fatte che mi solleticano i polpastrelli. Strappo dei fili d’erba, impastandomeli tra indice e pollice fino a trasformarli in vermetti verdi che mi macchiano le dita. È asciutta. Mostro la mano a Luca.
«Ma che cazzo succede, qui?» soffia fuori lui.
«È palesemente un mio trip tossico» fa Ario «Va detto che a ‘sto giro non mi sono tenuto. Chissà dove cazzo sono in realtà. Mille lire che mi sto pisciando addosso sul divano di casa, haha.»

Saliamo le scale fino a raggiungere gli adulti. Saranno una cinquantina. Ci avviciniamo a una coppia. La donna ci vede e corruga la fronte, squadrandoci con un velo di disgusto.

«Scusi» dico «Ci può aiutare?»
«La festa per voi è lì in fondo» dice l’uomo in completo, indicando il palchetto alla fine del giardino.
«No, è che… cos’è successo al paese?»
«Quale paese?»
«Quello lì fuo-
Mi blocco. L’edificio non è il collegio. È diverso. È una villa veneta.
«Scusi, dove siamo?» domanda Luca.
La donna e l’uomo sembrano divertiti: «Alla festa del commendator Grandi»

Quando gli chiedo se siamo ad Astorzi di Boion, l’uomo pare divertirsi un mondo e si fa ripetere il nome due volte, poi ci spiega che no, siamo a Treviso e ora lui dovrebbe parlare di cose serie. È la donna ad accorgersi del panico che abbiamo stampato sulla faccia. Ci chiede se c’è qualcosa che non va.

«Seh, seh, venga» fa Ario, scendendo le scale e facendo cenno di seguirlo. Gli adulti ci accompagnano fino alla porta buia da cui siamo entrati. Ario indica la porta proprio quando dal buio emerge un cameriere con un vassoio pieno di bicchieri, strappandoci un grido. Ci guarda incuriosito e tira dritto. L’uomo ci domanda che problema abbiamo con le cucine. Luca spinge via Atza e attraversa la porta, facendo un paio di passi nel collegio fino a essere a malapena visibile.

«Vi sembra una cucina?» sbotta, allargando le mani.

In fondo, il DJ passa dal funk a una canzone così sintetica e fuori posto che tanti si girano verso la consolle. Dei synth di plastica e sonorità anni ’80 preparano l’arrivo di due voci femminili che cantano in inglese. It’s true, dice una tizia, I feel my burning heart, it cries. Oh yeah I need it. L’uomo e la donna fissano l’ingresso con aria assente e inespressiva, come si qualcuno li avesse ipnotizzati. Spostano il peso da un piede all’altro, poi ci domandano che problema c’è. Quando gli chiedo di entrare l’uomo stringe le spalle e fa un passo in avanti. Gli sto fissando la giacca quando varca la soglia e scompare, lasciandomi di fronte agli occhi sbarrati e la bocca aperta di Luca. Io salto all’indietro e quasi finisco in braccio ad Ario. Un istante dopo l’uomo riappare, guardandomi con la testa inclinata: «Allora?»

Luca esce con la bocca semiaperta e mi guarda cercando aiuto. Non lo trova.
Restiamo in silenzio come lapidi cadute sulla nostra razionalità.

L’uomo si volta verso la donna con un sorriso divertito, indicandomi con il palmo della mano: «Ah, questi ragazzini» dice, scuotendo la testa «Quattro derivate del Versore e si parla di cinque morti e decine di feriti. La cagna aveva il collo spezzato.»
Lei ride e lo prende per il braccio: «È una funzione olomorfa iniettiva, tesoro. »

Il ritornello è così stucchevole e ingenuo da ricordarmi quando ancora bevevo succhi di frutta Derby al gusto d’uva alle elementari. We’re heart to heart, all i wanna do is love you, soul to soul, come, carry my love.

«Fioi» dice Luca, con la voce roca «Leviamoci dal cazzo di qui.»
«Ma sai che sì?» fa Ario «Mi sta pigliando male.»
«Via, cazzo, via, via» dico, scattando verso la porta.

A metà del secondo ritornello il cielo rimbomba di un orrore stridulo e metallico, simile a una bambina che grida in un tubo d’acciaio distorto e gracchiante.


[prossimo capitolo: 06. Versore di fuga]