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Il sequel che tutti temevano

Il sequel che tutti temevano

Dopo Il colore della tempesta per Salani, dopo essere rientrato in possesso dei diritti del primo La Storia la fanno gli idioti, era tempo di mettere nero su bianco tutte le aberrazioni scritte qui. Per quelli di voi che hanno molto pelo sullo stomaco, ebbene sì: il sequel è uscito. All’interno troverete molte storie che conoscete e una che non solo non conoscete: non è nemmeno il caso scriverla in Internet.

Buona lettura.

Qui formato cartaceo e qui formato Kindle.

Attraverso la serratura

Attraverso la serratura

Sopra il frinire dei grilli si sente il latrato allarmato dei babbuini, il ronzare delle zanzare, il richiamo cupo e ripetuto di un leopardo e il lento, annoiato verso dei barbagianni.

Attraverso una grande serratura di ottone, alla luce di una candela, c’è un paravento di legno massiccio e vimini intrecciati, una toletta con spazzole d’argento e boccette di vetro. La mano dalla pelle marrone, con le unghie rosse e due anelli d’argento, stringe il cotone di una camicia verde militare con le tasche sui pettorali. Una mano bianca con un orologio d’acciaio la ferma e la abbassa, poi risale e si insinua in un mare di capelli neri. Le unghie rosse scendono verso il cinturone di cuoio che regge due pantaloni bianchi sporchi di terra.

In qualche stanza lì attorno, qualcuno prova a suonare un pianoforte.

Le unghie rosse trovano la fibbia e la fanno tintinnare. La voce di un uomo sussurra in una lingua strana. La voce della donna risponde divertita in un’altra. Le dita affusolate s’appoggiano sui fianchi dei pantaloni bianchi, si contraggono e stringono il cotone sporco di polvere e fango. La mano con l’orologio d’acciaio è ancora tra i capelli mori che sotto di lei si muovono piano, avanti e indietro, mentre si sentono schiocchi liquidi e una voce roca geme.

Il pianoforte manda note lunghe e malinconiche.

La mano con l’orologio accarezza i capelli, si solleva fino allo schiocco di un bacio. C’è una tunica azzurra che risale, si volta mostrando una collana di legno intagliato. Il suono della cerniera è minuscolo e risuona appena nel frusciare dei vestiti, poi la tunica scivola giù e mostra un seno minuscolo, capezzoli neri e una cicatrice poco sopra l’ombelico.

La mano con le unghie rosse la copre.
La mano con l’orologio la scosta e la gira.

Ci sono glutei neri, lisci e lucidi di sudore, una mano bianca li stringe e la luce giallastra della candela li fa risplendere. La camicia verde sparisce, mostra peli bianchi e neri e un ciondolo con una zanna di leone. L’avambraccio di peli schiariti dal sole si stringe attorno alla pelle nera, mentre le unghie rosse massaggiano avanti e indietro, muovendo il polso con pazienza ed esperienza, finché la fibbia dei pantaloni tintinna contro il pavimento.

Distante e ovattata dai muri, la voce di una donna chiama e ripete un nome che rimbomba in androni e corridoi.

C’è un cigolare di molle e legno. Un refolo di vento fa tremolare la candela. Su vecchie lenzuola bianche di fiandra sgualcite c’è un piede nero con la pianta bianca, alla caviglia c’è un filo di conchiglie, le cosce nere sopra gambe bianche, pelose e nervose.

La mano con l’orologio stringe i fianchi neri che si muovono avanti e indietro. Una voce femminile geme e trema, tra schiocchi di baci che diventano un ansimare sovrapposto. Quando la voce maschile sale, la voce femminile sibila per richiamare al silenzio. Braccia bianche e robuste cingono la schiena e sussurrano qualcosa.

Da qualche parte, sandali di cuoio risuonano sul marmo di un pavimento e rimbombano in un androne.

Le braccia bianche girano il corpo nero, affondando tra le lenzuola nella penombra. Sollevano i fianchi neri come fossero un giocattolo. C’è un grido strozzato femminile, poi gemiti soffocati dalla stoffa. Una schiena bianca sgraziata e asciutta s’inarca all’indietro e poi in avanti, abbracciando l’ombra che gli va incontro in uno schioccare di carne secco e veloce.

Il suono dei sandali sia avvicinano assieme a un tintinnare metallico.

C’è lo scatto della serratura e una voce roca femminile lancia un urlo di rabbia. Le gambe nere si annichiliscono, il torso bianco e sudato scatta di lato. Le unghie rosse si stringono attorno alle lenzuola, il braccio bianco con l’orologio si protende a mano aperta. Lo sparo rimbomba tanto da far fischiare le orecchie. Il braccio bianco cade e qualcosa di rosso chiazza il paravento. C’è il suono dei piedi nudi, il corpo minuto e perfetto di una ragazzina nera che corre su un pavimento di marmo grigio.

Dalla stanza provengono urla roche di una donna che inveisce in una lingua strana. Attorno a lei porte, passi e serrature crescono attorno come un temporale.

Un’altra donna grida.
Da qualche parte un neonato piange.

“San Marco 1 e 2 in acqua”

“San Marco 1 e 2 in acqua”

Quando uscirono dal portellone di tribordo vennero investiti da una folata di pioggia. Il cielo era nero, percorso da nuvole e lampi. Decine di marinai si accalcavano sulla paratia. Vide dei ragazzi in uniforme mimetica con dei fucili a tracolla che scendevano giù. Mario gli infilò un giubbotto di salvataggio arancione, stringendoglielo bene attorno ai fianchi, poi gli calcò un elmo bianco sulla testa. Appena Domenico vide i fucili fece dietrofront. Mario gli afferrò il braccio.

«Donde galoppi?»
«Siete pazzi?» urlò Domenico per sovrastare il temporale «Cosa volete fare con questo tempo? Perché quelli sono armati?»
«Ci sono i pirati della Malesia, amigo!» esclamò Mario con gli occhi spiritati sotto la pioggia.
Un tuono fece vibrare l’intero scafo.

«Ma voi siete fuori di testa!» gridò Domenico, divincolandosi e correndo dentro. Mario lo inseguì, gli afferrò il braccio e lo lanciò contro la parete.
«Vamonos! Dirai alla Tigre di Mompracem che sei un cittadino del mondo e andrete a puttane insieme!»
«Chi l’ha detto che io devo andare lì!? Sono un civile!»
Il ceffone lo tramortì, paralizzandolo per lo schiocco e la vergogna.
«Ooh, era da quando t’ho visto che volevo farlo» disse Mario «Senti, ricordi a Singapore, quando avevi paura di scopare?»
«Cos… cosa c’entra?!»


«Avevi paura delle piattole, delle malattie, che ci volessero ammazzare? No! Eppure era statisticamente probabile. Anzi, ho un vago prurito che promette sorprese. Tu…»
Domenico tentò ancora di divincolarsi, ma Mario lo tenne fermo: «… Tu avevi solo paura venisse palesata la tua verginità. È vero o no?»
«Quelle sono armi! Le odio, va bene? Mi fanno paura!»

«Domenico, ascolta questo balordo marinaio drogato: se sconigli diventerai uno dei tanti intellettuali che scrivono sui giornali perché non hanno mai vissuto niente. Se esci potrai sempre guardarti allo specchio e dire sì, sono mezzo giallo, ma almeno non scrivo su “Repubblica”. E questo nessuno te lo potrà mai togliere: vuoi salvare i peones o vuoi scrivere su “Repubblica”?»

Domenico digrignò i denti. Non voleva scrivere su “Repubblica”.
Solo che non riusciva a prendersi la responsabilità di pronunciare una risposta.

Fuori, il mare si stava gonfiando. Il Veneto rollava su onde grandi e minacciose. Folate di pioggia entravano dal boccaporto lasciato aperto, infradiciandogli le scarpe, con l’aria che odorava di salsedine e paura. Si frugò in tasca e tirò fuori un foglio bianco stropicciato e fradicio, reduce di una delle tante bozze per le lettere dei marinai. Prese una matita e scribacchiò in fretta una lettera farneticante, poi la diede in mano a un marinaio.

«Se muoio, per favore, dallo a qualcuno.»
«Pure a mi’ madre va bene?» chiese quello.
Mario lo spinse fuori.

Scese la scaletta di corda finché i piedi toccarono il fondo dello Zodiac. Il medico abbronzato lo fece sedere al centro, mentre su entrambi i lati quelli del San Marco si erano sistemati con i fucili puntati verso l’alto. Mario gli piombò quasi in braccio e andò al timone, poi appoggiò il piede sullo scafo e allontanò il gommone dalle rassicuranti fiancate grigie del Veneto, dando gas.

«Rega’, me raccomanno!» gridò il medico «Mantenete le distanze e non salite a bordo finché non abbiamo capito cosa succede. Teneteve i guanti! Se per caso entrate in contatto con uno di loro poi nun ve toccate la faccia, la bocca o gli occhi!» gridò per coprire il frastuono del motore e della pioggia.

Sanna, il comandante del San Marco, alzò la mano. Era un uomo basso e tarchiato, con la mascella squadrata e gli occhi gentili: «Aiò, nessuno spara se non ci sparano loro. Quando ci avviciniamo, tu ti distendi» disse a Domenico. Lui annuì a occhi sgranati, poi il gommone sobbalzò e si trovò sospeso per aria, crollando sul pavimento e battendo il casco contro il ginocchio di un fuciliere che imprecò.
L’altro gommone procedeva parallelo.

«Dio mio» mormorò Domenico, osservando il mare in tempesta «Dio mio, aiutami.»
«Pensa a “Repubblica”, Ching Chong!» gridò Mario.


A bordo della Stayin’ alive, Thanh guardò i motoscafi dei pirati arrivare come fossero un plotone d’esecuzione. Riconobbe il capitano con il turbante blu, che sogghignò e le mandò un bacio con un gesto plateale. Accostarono con una manovra rapida e collaudata e nessuno osò opporre resistenza. I pirati saltarono a bordo e mentre un paio scesero in coperta, gli altri gli puntarono i fucili in faccia. Il capitano si fece largo, afferrò Thanh per il collo e le sussurrò qualcosa, trascinandola verso il portellone. Lei si aggrappò ai bordi con tutta la forza che aveva, determinata a rendergli la vita difficile.

A mezzo miglio, Domenico si teneva alla cima per evitare d’essere sbalzato fuori dallo Zodiac che rimbalzava sulle onde, per poi farli ripiombare sulla superficie con un colpo secco. Sanna si sistemò a prua, lanciò un grido all’altro gommone e fece il gesto della vittoria. I gommoni si separarono; Mario virò a sinistra, gli altri a destra. Un marò afferrò Domenico per il giubbotto di salvataggio e lo distese contro il pavimento.

«Ajò, facciamoci sentire. Cantate!» ordinò Sanna, e i marò intonarono una versione prima timida e poi corale della sigla del Grande Mazinga. Sul fondo bagnato del gommone, Domenico aveva così tanta paura che si mise a piangere. Sarebbe morto lì, dall’altra parte del mondo, sotto un cielo di paura, tra gente che canta sigle dei cartoni animati.

Sulla Stayin’ alive il pirata lasciò il collo di Thanh e l’afferrò per i capelli, poi le assestò un pugno in pieno viso. Il naso già rotto le mandò una fitta di dolore e il mondo perse colore, ma continuò a stringere la maniglia del boccaporto. Lui tentò di strapparle via la mano senza riuscirci, poi sfilò il coltello dalla cintura e si fermò con l’arma a mezz’aria. Thanh capì che sarebbe morta lì, e a quel punto non le importava più. Chiuse gli occhi e nello scroscio della pioggia sentì esplodere una cacofonia di parole in una lingua che non conosceva. “Ah infami, annatevene o ve corcamo”, “cravadinci in su cunnu”, “Vaffammocc a mammeta”, “ande’ cagar sue ortiche, via!”.

Il pirata, viceversa, sembrò comprenderla molto bene.

Il colore della tempesta, Ed.Salani, 2022, pg.126 (link prevendita kindle e cartaceo)

Quando negli anni ’90 arrivarono i bestiali ritardati di Satana

Quando negli anni ’90 arrivarono i bestiali ritardati di Satana

È il 1990 in un paesino di provincia.
Una compagnia di ragazzini drogati, dato che la figa li evita, fonda una band di metallo pesante. Per sentirsi legittimati vanno in un pub a Milano coi teschietti e le ragnatele finte. Si drogano, bevono, si drogano, farneticano del diavolo, si drogano ed eleggono il loro leader, Grande Contado, unico dei presenti in grado di leggere e scrivere. Grande Contado decide di sottoporre i propri accoliti a delle prove di coraggio via via più idiote.

Si parte dal bere un’intera bottiglia di acqua gasata d’un fiato senza ruttare, con tragiche conseguenze. Poi si va in crescendo. Uno si getta da un ponte e atterra in piedi nella fanghiglia. Altri devono bere il sangue delle caprette del vicino. Altri si devono drogare moltissimo. Altri si fanno tatuaggi, piercing, tagli, uno addirittura decide di incidersi nella carne il pentacolo demoniaco e lo invia agli altri in cerca d’approvazione.

«Grande Contado, ammirami: stanotte ho inciso sulla pelle il mio amore per Satana.»

«Paolo sei uno stronzo, questa è la stella di David.»
«David Beckham? Il calciatore?»
«È la stella degli ebrei, imbecille!»
«Beckham è ebreo?!»
«NO TU SEI STRONZO, PAOLO»

La vita procede verso il sert tra pentacoli mistici, droghe psichedeliche e seghe, finché Grande Contado scopre che Grezzina, la sua unica ex bipede, ha osato mettersi con un altro; Poldo, un ventiseienne disoccupato con la passione delle droghe pesanti, l’adorazione dello diabolo e la paghetta settimanale. In preda ai deliri dell’LSD, Grande Contado sancisce che Grezzina è la reincarnazione della madonna e dunque va assassinata.

I contadanisti non trovano obiezioni valide.

Il piano iniziale è sfidare Grezzina e Poldo a una prova di coraggio: dovranno restare dentro un’automobile in fiamme e fuggire un istante prima che esploda. Essi acconsentono perché… bè, perché anche concentrandosi in due non trovano un motivo valido per rifiutare. Il Grande Contado fa mettere dei petardi nel serbatoio della benzina. La macchina prende fuoco. Dopo una decina di minuti il fuoco si spegne, i due si stufano ed escono. Al bar con le bare di poliestere e gli scheletrini di plastica, purtroppo, c’è scorno e delusione.

Grande Contado se ne esce con un piano alternativo: condurre la madonna 2.0 e Mr.Produttivo nei boschi, poi trucidarli. Poldo e Grezzina ricevono quindi l’invito a presentarsi senza cellulare in un bosco nel cuore della notte con la raccomandazione di non dirlo a nessuno. I due innamorati accettano perché… bè, perché che c’è di male? Arrivati nel nulla trovano i contadanisti con dei coltelli in mano e una fossa già scavata. Li uccidono e li buttano dentro, poi Grande Contado ci piscia sopra.

«Capo, non dovrebbimo cancellare le tracce?» domanda un grezzo.
«No, no, domani vieni qui e versi un flacone di ammoniaca in giro e si crea un campo magico di invisibilità, l’ho visto su CSI.»
«Pale e picconi li portiamo via?»
«Noo, quelli li porta lo diabolo.»

Il padre di Poldo, non vedendo il figlio rincasare, fa domande ai contadanisti. Loro gli dicono che Poldo e Grezzina sono partiti per l’Europa in fuga d’amore. Il padre è scettico, calcolando che suo figlio non è mai uscito dalla campagna e gira con 1500 lire in tasca e tre MS senza filtro. Va dalla polizia e riferisce.
«Eh, sarà così» dice il poliziotto senza staccare gli occhi dal televisore «Ai ragazzi ci piace viaggiare.»
Anni ’90, veery nice!, canticchia la TV.
«Scusasse, potrebbi parlare col questore?» domanda il padre.
«No, sta in TV a parlare di dittatura sanitaria.»

Per i successivi sei anni il padre gira l’Europa in cerca di suo figlio mentre nel paesino partono per lunghi viaggi operai tossicodipendenti, motociclisti, prostitute e studenti; macchine prendono fuoco, c’è un’improvvisa moria di capre, appaiono simboli del cazzo tipo pentacoli e corna dovunque e i contadinisti hanno un’improvvisa disponibilità economica che gli consente di andare in vacanza e fare feste. Nessuno ci da peso.

La cumpa del Grande Contado è ormai allo sfascio più assoluto e distrutta da sostanze stupefacenti. Due membri vivono in uno chalet nel bosco, invitano una tizia per un threesome, ma essendo a corto di esperienza nel dubbio le sparano in faccia. In preda al panico chiamano Grande Contado, il quale arriva strafatto e vede la ragazza morente.

«Mi fai schifo, non sei nemmeno riuscito ad ammazzarla» dice.
«Eh figa scusa se a me i teschietti di plastica non hanno insegnato le basi.»

Grande Contado barcolla in giardino con la moribonda e la seppellisce lasciando fuori braccia e gambe, poi se ne va. La sua missione è compiuta. Raggiunge la fidanzata che è piena di alcool, eroina e cocaina, e decidono di farsi un giro in campagna con la loro Punto. Salgono su un ponticello e si incastrano, a quel punto Grande Contado fonde il motore tentando di disincastrarsi, poi fugge a piedi nella campagna in cerca di qualche contado da sequestrare, attraversa il ponte e gira a destra.

«Buongiorno.»

In stato d’agitazione spiega ai militari che venti, forse trenta uomini li hanno assaltati per sdrupare la sua fidanzata, ma egli ha resistito alle armate di Mordor conducendoli su un ponte stretto, dove il loro numero non contava niente, e una volta lì ha fatto strage dei bruti. Terminata l’arringa vomita e sviene. I Carabinieri raggiungono la Punto dove trovano la fidanzata collassata con la schiuma alla bocca. Portati all’ospedale, lei urla che hanno ammazzato questo e quella e che ci vorrebbe proprio un pippotto per riprendersi. Le indagini consistono nell’andare qui e lì, fotografare, mettere le manette e condurre gli idioti in questura.

Nel 2004 comincia il processo.

L’avvocato difensore chiede subito al giudice se è possibile sentire il parere di un esorcista, indispensabile per capire se questi ragazzi erano in grado di intendere e di volere oppure erano in preda a una possessione demoniaca. Il pubblico ministero invece, forte del fatto che stringe a sé un crocifisso, percepisce nell’aria “la presenza del maligno”. Tutto vero. La notizia della setta diabolica fa il giro del mondo, così al processo arrivano addirittura le telecamere della CNN. I giornalisti italiani martellano intervistando preti, esorcisti, raccontando dell’incombente minaccia, tra i giovani, dei giochi di ruolo e soprattutto dei violenti videogiochi per computer, capaci di avvicinare i fanciulli al diavolo.


Dopo un mese la gente si rompe i coglioni.
Ma non i giornalisti.

Per loro quella storia è lo scoop del secolo. Peccato che tanto per cambiare sono arrivati tardi e quello che hanno trovato non somiglia affatto a uno scoop, quanto a un abisso di ignoranza, imbecillità, incapacità, nullafacenza, lassismo, disinteresse e superstizione. Quindi hanno un’idea: mentire senza vergogna.

Nel 2006 fanno apparire strani testimoni irriconoscibili, ma che a differenza dei contadinisti parlano in uno splendido e aulico italiano pur dicendosi zappaterra. Essi raccontano di un fantomatico terzo cerchio di mandanti, ricchissimi e internazionali, che avrebbero assistito ai riti. Perché notoriamente Epstein&Co. affiderebbero la propria reputazione a tre drogati analfabeti in provincia di Varese che s’inculano le capre e infilano mortaretti nei serbatoi delle utilitarie. Purtroppo, a differenza delle redazioni, l’Italia non vive più nel 1950 ma nell’epoca di Internet. Il tentativo di millanteria funziona vendendo documentari negli Stati Uniti, che essendo la patria del ritardo mentale li comprano entusiasti.

In Italia viene snobbato perché a differenza delle redazioni, siamo usciti dal medioevo.

Salvataggio all’amatriciana

Salvataggio all’amatriciana

3 luglio 1979, ore 11.20

L’interno del Vittorio Veneto erano corridoi con troppi strati di vernice verde chiaro e pavimenti di linoleum nero. Sopra le loro teste si dipanavano tubi e cavi di ogni forma e dimensione. Scesero la scaletta dal ponte di coperta prora, passando di fianco alla camera di caricamento dei cannoni e scendendo nelle viscere di metallo. Gli odori si alternavano: detersivo per pavimenti con retrogusto amarognolo nei locali angusti, puzzo di sudore nei corridoi di passaggio. I ventilatori sui soffitti e sugli scaffali spostavano aria calda e umida senza generare alcun beneficio. Dopo aver toccato un paio di sostegni, le mani di Domenico erano già secche per la salsedine.

«Vado ora a iniziare la lezioncina su come funziona a bordo» disse Mario.

Domenico schivò due uomini a torso nudo che spostavano un grosso cavo nero. Passarono di fianco a una parete da cui proveniva un frastuono meccanico che lo costrinse a urlare: «Prima vorrei capire dove sono!»
«Sull’incrociatore lanciamissili Vittorio Veneto, amigo!» gli urlò Mario con occhio spiritato «La nave ammiraglia della Marina militare italiana: 73,000 cavalli vapore di maschia potenza e un sacco di tecnologia d’avanguardia, almeno se paragonata alle caravelle di Cristoforo Colombo. In questo momento sei due piani sotto il ponte di coperta prora. Tu dormirai qui» disse, indicando una botola sul pavimento. Davanti era incisa la targa INCR.V.VENETO.
«Ricordati il nome: alloggio 3.»
«Alloggio…? Lì sotto?»


«Avresti dovuto averne uno più bellino, ma quelli di noi sottufficiali sono stati riconvertiti in una seconda infermieria, quindi c’era poca scelta. All’alba gusterai il megafono di Capo cannone, dato che siamo vicini alla camera di lancio. Ora scendi che devo scorreggiare.»

«Oh, Dio.»
«Non temere, giallastro amigo, questi sono posti extralusso. C’è il locale 5 che fa 80 posti letto e ha seri problemi di ricambio aria, afrore di piedi a mille, ascelle atomiche, svenimenti. Sta vicino al locale agghiaccio timoni. Poi c’è il locale 6, che è a poppa sotto il giardinetto. Un paradiso, infatti ci dormo io. Il peggio è il locale 8 a poppa, giusto di fianco alle assi delle eliche. Un concerto di cuscinetti e assi che ad alcuni concilia il sonno, ma alla maggior parte conduce alla pazzia. Riescono a dormirci solo quelli della Mano nera.»
Domenico alzò un sopracciglio: «I fascisti?»
«Nah. Meccanici. Caldaisti, elettricisti, tecnici. Gente con le mani nere, appunto.»


Gli consegnò un paio di scarpe da ginnastica, una maglietta bianca, una camicia azzurra e un paio di pantaloni blu, più un tesserino da appuntare al petto con una pinza. Sul grado c’era scritto un semplice “interprete”, poi un quadrato colorato di bianco, una sua foto presa dalla carta d’identità con il timbro della Marina, lo spazio per cognome e nome su cui qualcuno aveva scritto in bella calligrafia Domenico Figgh-En-Drocch. Era difficile dire se l’autore fosse stato spiritoso o distratto. L’ultima cosa che gli venne consegnata era un opuscolo fotocopiato male di dodici pagine, intitolato

Provò a leggerlo, ma Mario era già ripartito e lui dovette corrergli dietro.

«Ora, devi sapere che qui dentro chiunque è indispensabile. Il cuoco di bordo come questa burba infame» disse Mario, menando un coppino a un marinaio che passava con in mano un cassone grigio. Quello proseguì come niente fosse. Mario, facendosi largo in quel costante viavai di uomini e merci, spiegò per sommi capi gli orari. La sveglia era alle sei e mezza, bisognava rifare il letto e alle sette presentarsi in sala mensa per colazione. Si avevano quarantacinque minuti per espletare le proprie funzioni fisiologiche e fare le abluzioni, poi bisognava presentarsi alle otto meno un quarto alla pre adunata.
«Se stai per fissarmi con l’aria dell’intellettuale introverso e confuso ma con un cuore grande così, ti fermo» disse Mario «Pre adunata vuol dire che hai un quarto d’ora di ritardo massimo per arrivare all’alzabandiera, poi punizioni corporali, botte, frustate.»
«Come il quarto d’ora accademico» annaspò Domenico, schiacciandosi contro la parete per evitare tre uomini che portavano dei sacchi. Perse l’equilibrio e finì contro il muro. Mario lo aiutò a rialzarsi: «Niente parole omosessuali a bordo.»
«Perché accademico sarebbe omosessuale?»
«E io che ne so» disse Mario, ricominciando a camminare.


Dopo l’alzabandiera i lavori a bordo cominciavano alle otto e un quarto.
Domenico scoprì che avrebbe ricevuto i propri compiti dagli ufficiali, quindi non aveva mansioni fisse. L’avrebbero chiamato dove serviva. Alle dieci e mezza c’era una pausa in cui si poteva andare allo spaccio, stare in cambusa o fare uno spuntino. Si ricominciava alle undici fino all’una e un quarto, quando ci si preparava per il rancio. Un’ora di pausa pranzo e si ricominciava fino alle sei, poi si andava in franchigia fino alle nove. Quando Domenico chiese cosa significasse quella parola, Mario fu lapidario: «Scendere nave, inserire alcolici, scopare puttane. Se invece sei in mare, filmetti e seghe. Per quelli come te ci sono anche i libri.»
Era a bordo da meno di un’ora e già non sopportava quel marinaio. Era l’opposto delle persone che aveva sognato di frequentare quand’era a Strassoldo. Grezzo, diretto, volgare, pieno di pregiudizi e con quell’atteggiamento da padrone di casa che aveva visto soltanto negli americani conosciuti a Trieste. Era curioso di conoscere gli ufficiali, per vedere quanto somigliassero ai ritratti dei film di Gian Maria Volontè.

«Dunque? Pronto a morire combattendo i pirati della Malesia?» domandò Mario.
«C’è pericolo?» chiese Domenico, sperando di non far trasparire la paura.
«A bestia. Queste navi sono fatte per il Mediterraneo, non per l’oceano. Inoltre ci andiamo nella stagione peggiore; quindi tifoni, maelstrom, tentacoli giganti. E poi sì, claro che c’è Yanez con la sciabola.»
«Ma… Sei serio?»


«Quien sabe? Il mio motto è pensa sempre al peggio: se accade non ci resti male, se va bene sei felice.»
Chi me l’ha fatto fare, pensò Domenico, e Mario sembrò leggergli nel pensiero.
«Sei qui perché un uomo non resiste al richiamo dell’avventura, specie se conduce una vita sfighina. La patria chiama, e chi sei tu per sottrarti?»
«Io non ho spirito di patria. Sono un cittadino del mondo.»
«Devi parlare potabile, amigo, o mi partono le sberle traduttrici.»
«Per me i confini non esistono. Siamo tutti fratelli. E io voglio vedere il mondo, conoscerli, non fermarmi per colpa di qualche linea immaginaria.»
«Scoprire e scopare, grande filosofia.»
«Io non ho detto questo!»
«Ma sì, gringo, è palese l’intento: tu vuoi presentarti con lo sputafigli di fuori dove non ti conosce nessuno, fare due foto, trapanare qualche fighino e fuggire senza pagare. E lo rispetto, è una maschia missione. Il problema sono i padri delle squinzie. Bastonarti diventa la loro missione di vita, ti braccano per assassinarti. Ma grande è la ricompensa, certo. C’è un motivo se buona parte delle burbe qui attorno avrebbe potuto sbarcare, ma si sono offerti volontari.»
Domenico corrugò la fronte. Tralasciando l’interpretazione animalesca della sua frase, era straniante pensare che ogni ragazzo attorno a lui, invece di tornare a casa, avesse preferito rischiare la pelle per salvare degli sconosciuti. Le facce che gli passavano davanti erano sbarbate e innocenti come le matricole dell’università, ma a differenza dei suoi compagni di corso sembravano felicissimi. Si accorse che Mario proseguiva senza di lui e gli corse dietro.

Arrivato al proprio alloggio si fermò, guardando marinai che accatastavano montagne di viveri. C’era più pastasciutta che in un supermercato, e casse di verdure continuavano ad arrivare e scomparire dietro altre porte. L’atmosfera gli ricordò la cascina di suo nonno quando s’era sposata una nipote. Lui era piccolissimo e giocava in cortile, correndo tra le gambe di uomini e donne che sistemavano fiori, portavano viveri e preparavano un grande tavolo in giardino, con i quattro pastori tedeschi che abbaiavano e saltavano senza capire niente, i gatti stavano sulla finestra a prendere il sole e le scarpe si sporcavano dell’arancio delle albicocche lasciate a marcire nell’erba. Poi quelle feste avevano smesso di colpo. Forse i nonni si stancavano, o forse la politica aveva infettato anche i nuclei familiari.

Si tastò in cerca di una penna per correggere il nome sul tesserino, e trovò la biro che gli aveva prestato quel tizio in aereo. Era una Bic gialla, sul cui fianco era stampato l’indirizzo di una pizzeria di Trieste. Se la rigirò in mano, quasi a cercare qualche trucco come nei film di James Bond. Era soltanto una biro. Gli tornò in mente Alfio. Avrebbe potuto vederlo seduto di fianco a lui in una pizzeria, o in corriera e non gli sarebbe mai passato per la testa che appartenesse al SID, o come si chiamavano adesso i servizi segreti. Anche a parlarci somigliava a un mezzo malavitoso, o a uno dei tanti slandroni che sentiva pontificare dai tavolini dei bar. Quelli che tra una birra e una sigaretta inneggiavano a colpi di Stato e fischiavano dietro alle studentesse di passaggio come lupi impotenti. Alfio invece stava su un volo di Stato assieme a tonnellate di grana e a due africani in costume tradizionale, diretto chissà dove e a fare chissà cosa.

Il fatto che sembrasse un uomo così comune, anzi improbabile, forse lo rendeva ancora più sinistro. Aveva ragione Poe: il miglior nascondiglio è sotto gli occhi di tutti. Anche i ragazzi che strascicavano i piedi attorno a lui erano quei tipi qualsiasi, stanchi e svaccati, che potevi trovare in uno spogliatoio.


Si spogliò, gettò il completo beige e la camicia sulla branda e s’incamminò in mutande verso i bagni, facendosi largo tra altri ragazzi indaffarati. Si diede una rinfrescata e indossò quello che gli era stato dato: camicia azzurra e pantaloni blu. Rimase a guardarsi allo specchio, ascoltando battute e risate degli altri, ognuno con un’inflessione dialettale diversa. Aveva già vissuto quella stessa situazione durante la visita. Erano posti dove il cervello taceva, troppo impegnato ad analizzare ed elaborare informazioni per produrne di proprie. Osservava e ascoltava, incuriosito dal vociare, la frenesia e lo scricchiolare metallico delle fiancate.
«Sei bellissimo» disse Mario all’ingresso. Domenico sorrise e lui gli tirò una pacca sulla spalla: «Scherzo, stai una merda, ma va bene così. Adesso vamonos, ti mostro quello che devi sapere della nave.»


Domenico riprese a correre dietro il marinaio attraverso stanze e corridoi, più spaventato all’idea di perdersi che di memorizzare quello che gli stava dicendo. C’era troppa confusione, troppa gente, troppi ostacoli e troppo rumore. Sbucarono a poppa, in uno stanzone che dava sul ponte di volo. La vista dell’aria aperta quasi lo accecò. L’hangar era stato diviso a metà. Sulla sinistra, una fila di letti a castello stava venendo ordinata da ragazzi a torso nudo e l’aria di chi su quei letti ci si sarebbe disteso volentieri. A destra c’erano attrezzi da meccanico ammassati alla bell’e meglio.
«Questo è l’hangar» fece Mario, allargando le braccia «Ci dormiranno donne e bambini. Una volta in mare, qui potrà entrare solo il comandante, il personale di volo, i segaossa e forse voi interpreti. Poi ovvio che andrà tutto in vacca, ma gli ordini sono questi.»

Separare le famiglie pareva un atto di crudeltà, invece era l’unica scelta intelligente. Era stata pianificata dagli ufficiali che ben conoscevano la vita in mare. Fin da prima della scoperta dell’America si diceva che una donna a bordo di una nave portasse sfortuna. Il motivo era prosaico quanto concreto: i viaggi duravano anni, e i marinai finivano a contendersi l’unica donna a coltellate. Questo creava un clima cupo che sfociava in insubordinazione, ammutinamenti e tragedie. Per assicurarsi che il concetto entrasse nelle menti più semplici si optava per il paranormale, quella Dea fortuna bizzosa e irrequieta che nessun uomo di mare avrebbe mai osato infastidire. Sul Veneto avevano preso la stessa decisione: i maschi sarebbero rimasti a dormire negli alloggi di prua, le donne e i bambini a poppa.

Scesero una scalinata e si trovarono sotto il ponte, dove le murature esterne – reti metalliche – erano state chiuse per trasformarlo in sala ricreativa. C’erano pacchi di acqua minerale, succhi di frutta, sacchi di riso e montagne di vestiti che venivano separati e ordinati. Quando uscirono sul ponte di volo, Domenico restò allibito. Rispetto ai locali angusti della nave, pareva grande e lungo come un campo da calcio. Avrebbero potuto starci quattro elicotteri. L’ultima tappa fu la plancia. Appena si trovò davanti alle vetrate notò un brusco cambio d’atmosfera. Le uniformi erano più in ordine, le schiene dritte e le parole più misurate. C’erano macchinari, indicatori e tubi che sparivano nel soffitto, blocchi grigi di apparecchiature fissati a paratie biancastre e pavimenti di linoleum verde su cui buona parte dei marinai stava in piedi, armeggiando tra carte e altri indicatori. Gli venne presentato il quadro ufficiali e sottufficiali composto da uomini in bianco con occhiaie e palpebre che si abbassavano troppo lente, ma si sforzavano di essere cordiali.
Scordò nomi e gradi l’istante dopo averli sentiti.

Arrivata l’ora di pranzo aveva la testa che gli scoppiava. Più che appetito, sentiva un disperato bisogno di rimanere solo. Ogni angolo della nave era un delirio schizofrenico di uomini, merci e ordini. Chiese a Mario di tornare in cabina, ma quello scosse la testa: «A bordo di una nave militare si sta coi gringos. Si lavora, si parla e si gioca sempre in batteria. Si isolano sulle mercantili, sai. Moldavi, italiani, filippini stanno in camerino 20 ore a segarsi ed escono solo per lavorare. Appena qualcosa s’introia diventa una lotta tra bande. Qui ci sono pure armi, quindi diventerebbe mezzogiorno di fuoco. Non se puede. Tutti devono sapere chi sei e a cosa servi.»
A quanto pare la Marina aveva risolto i suoi problemi esistenziali prima di lui: «Nella terra di frontiera…» canticchiò.
«… troppa gente ha paura» gli fece il coro Mario «Vamos, gringo, tra due ora salpiamo per l’altra parte del mondo.»

Salvataggio all’amatriciana, p.39, Salani, 2022