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05. Solo una festa di compleanno

05. Solo una festa di compleanno

[01. La chiamata dell’eroe] – [02. Un paese tranquillo] – [03. La faccia della paura] – [04. Un mazzo di chiavi]

«Statemi a sentire. La porta era chiusa dall’interno. La finestra era aperta di recente, dentro non c’erano foglie né sporcizia. L’unica spiegazione è che c’è un’altra entrata» dico «E qualcuno, quando ci ha sentiti, è scappato.»

Ma di seconde entrate noi ne avevamo viste. L’idea che qualcuno ci fosse rimasto chiuso dentro ci metteva i brividi, ma era impossibile. Quel collegio era chiuso da mesi. E se anche fosse, perché barricarsi dentro una stanza e scappare dalla finestra? L’ipotesi più sensata che avevamo formulato era che ci fosse stato un terremoto e il paese fosse stato evacuato. Dopotutto nessuno di noi leggeva i giornali o seguiva i TG, per quel che ne sapevamo poteva anche esserci stata una bomba atomica.

Ma non tornava.

Il prosciutto in busta che avevamo dato a Zombie era recente. I bicchieri di birra sui tavolini erano ancora pieni. In un paesino abbandonato non c’è elettricità e nessuno pulisce le strade. Quelle erano state pulite al mattino. E poi dov’erano le ambulanze, le auto della polizia o della protezione civile? Dov’erano i camion dei pompieri e dell’esercito che scavavano tra le macerie? L’aria avrebbe dovuto essere una cacofonia di sirene e di gente in divisa che latrava ordini.

Invece c’erano solo pioggia e silenzio.

Dal cielo continua a scendere acqua che forma ruscelli sui pavè, cola dalle pareti di mattoni e rende le case lucide. Mi rannicchio sotto la tettoia a leggere quel pacco di fogli. Alcune sono lettere scritte a mano con una calligrafia maschile, altre battute a macchina piene di cancellazioni, e poi vecchi articoli di giornale e due lettere scritte da una donna con “RISERVATO SPGM” sottolineato tre volte. Apro la prima.

Direttore,
suor Rosanna mi ha riferito dell’incidente. Meglio continuare a tenerla isolata, in vista della festa con i genitori, anche se dubito che tra ventotto o ventinove allievi qualcuno noti la differenza. Se stare tra quelle vecchie lavagne impedisce a Sabrina di fare uno scandalo è tanto di guadagnato. Ovviamente, mio marito e mia cognata sono d’accordo.

K.

Zombie

Riconto i volti nelle foto. Sono ventotto. Noto una bambina alla finestra, in fondo, dietro la finestra al centro della foto, appena riconoscibile. Leggo a caso finché trovo un articolo di cronaca bianca. L’istituto dà una festa per l’inaugurazione della nuova ala con una biblioteca e una sala congressi. Sono presenti i genitori, l’arcivescovo, il sindaco, il direttore dell’istituto e il finanziatore, il commendator…

«Fioi» dico «Cosa vi viene in mente se dico il nome Riccardo Grandi?»
Luca si gratta i capelli bagnati: «Quello dei capannoni anni ’70, no? Avevano anche lo slogan… hmm… Dai, ti ricordi quei capannoni strani? Quelli che hanno demolito per fare la strada dell’Area city? Capannoni Grandi. E la tua impresa è un’opera d’arte

Ario scatta in piedi e ci tira una manata: «E basta, perdìo, basta! Noi siamo qui per chiavare o no?»
Sguardi tutt’altro che allegri: «Ario, è andata. Torniamo a casa.»
«MA NEANCHE PER SOGNO, pavidi sodomiti, io non lascio la coscia di Antosha» fa Ario a denti stretti «Siamo quattro giovani, gagliardi e determinati. Non v’è segno di sbirrume o cavernicoli con la spingarda: a rubare, per la madonna, avanti!»

Raggiungiamo la 127, salgo sul posto del navigatore e partiamo verso il collegio, con Zombie seduto dietro tra Luca e Atza. L’edificio è come l’abbiamo lasciato, con le grondaie che buttano acqua e la porta sfondata. Ario parcheggia la 127 in mezzo alla strada con la pioggia che entra dal finestrino scassato. Scavalchiamo il cancello. Zombie ci guarda curioso per qualche istante, poi torna in auto all’asciutto. Facciamo il giro a vedere la finestra aperta. Torniamo all’ingresso ed entriamo usando le pietrine degli accendini. Atza suggerisce di creare delle torce con degli stracci e la benzina della 127 e viene deriso, poi il buio e il temporale ci tolgono la voglia di parlare o ridere.

Camminiamo lungo il corridoio, con gli scatti di quattro pietrine alternati che sembrano una stroboscopica in una giostra dell’orrore. Lo studio è come l’abbiamo lasciato. Senza sapere perché, iniziamo a parlare sottovoce. I passi crocchiano sul pavimento e rimbombano nel buio, mentre andiamo sempre più avanti, sempre più silenziosi, fino ad arrivare alla scalinata. Sollevo l’accendino sopra la testa. E in quel momento di pausa, dove il silenzio è tanto fitto da sentire il sibilo del gas della fiammella, qualcuno chiude una porta a chiave.

È incredibile come un suono tanto semplice sia una prova inequivocabile della presenza umana. Aperta o chiusa, il movimento degli ingranaggi vibra nel metallo e nel legno come le corde di una chitarra, senza lasciare alcuna possibilità d’equivoco. A dieci metri sulla nostra destra, qualcosa di vivo ha fatto scattare una serratura. Io inspiro a denti stretti e perdo l’accendino. Atza grida. Luca e Ario si bloccano. Nessuno si muove né parla. Stiamo in attesa con i sensi all’erta, stretti in un quadrato, per una trentina di secondi. C’è solo il suono della pioggia, ovattato e distante. Faccio per raccoglierlo a tentoni. La mano di Luca mi ferma.

«Da dove veniva?» sussurro.
«Sotto le scale» fa Luca «C’è una porta.»

Passano altri venti secondi. Qualcuno, lì dietro, è immobile come noi. Forse è armato. Forse ci aspetta. Forse ha paura. Ripenso a quella ragazza di Venezia, quando in dialetto stretto, camminando in bilico sul parapetto di un ponte delle Zattere, mi insegnava e raccontava. Le minacce nel buio sono la peggiore tortura, diceva. I bambini, a istinto, giocano a nascondino apposta per addestrarcisi. Un minuto. Nel silenzio sentiamo il minuscolo scricchiolare di un cardine che sta venendo aperto molto lentamente. Sento i nervi caricarsi di energia elettrica come un accumulatore.
I miei reggono. Quelli di Luca reggono. Quelli di Atza reggono.
Ario…

«È L’ORA DELLE BOTTE» urla, scattando in avanti a testa bassa «FANTASMA BUCCHINO DI QUESTO PAIO DI-

Ario centra la porta e precipita all’esterno, incespicando nell’erba e franando di testa dentro un’aiuola di nasturzi che circonda un alberello di rosmarino. Noi diventiamo tre blocchi di cemento mentre la musica e il chiacchiericcio garbato c’investono come una folata. Ha smesso di piovere. C’è solo odore di erba tagliata, e i lampioncini illuminano un giardino all’inglese, con un prato grande come un campo da calcio circondato da querce e cipressi. In fondo, distante, c’è un palchetto e dei ragazzi della nostra età che ballano. La luce e le voci vengono dalla nostra sinistra. Una scalinata di pietra conduce a un patio a forma di mezzaluna. Ci sono adulti in abito da sera parlano e bevono.

Ario emerge dai nasturzi come una ninfa, se solo le ninfe bestemmiassero.

Uno dopo l’altro usciamo, camminando rasenti al muro verso le luci del patio. È come guardare una festa in obitorio con i cadaveri ancora scoperti; la musica è quieta, le donne sorridono, i vestiti sono belli, ma ogni cosa attorno a te suona l’allarme. Alle spalle del patio c’è una portafinestra che illumina un salotto. Un cameriere ci passa di fianco senza badarci. Gli adulti hanno occhiali spessi e quadrati, baffi e cravatte larghe. Le donne sembrano appena tornate da una vacanza in India. Pare il set di un film ambientato venti anni fa. È la festa più bella che abbia mai visto e ho una tale paura che sento le mani e le piante dei piedi fradice di sudore.

Restiamo lontani dai lampioncini e protetti da una quercia.

La discomusic che fa ballare quel gruppetto di ragazzi è un misto tra funky e canzoni italiane lente. Sento l’odore dell’erba tagliata e qualcuno deve aver spanto un cocktail con il gin. Tocco la corteccia dell’albero, è ruvida e asciutta. C’è un tavolo con una tovaglia di lino. La stropiccio, è liscia e fresca, con le pieghe appena fatte che mi solleticano i polpastrelli. Strappo dei fili d’erba, impastandomeli tra indice e pollice fino a trasformarli in vermetti verdi che mi macchiano le dita. È asciutta. Mostro la mano a Luca.
«Ma che cazzo succede, qui?» soffia fuori lui.
«È palesemente un mio trip tossico» fa Ario «Va detto che a ‘sto giro non mi sono tenuto. Chissà dove cazzo sono in realtà. Mille lire che mi sto pisciando addosso sul divano di casa, haha.»

Saliamo le scale fino a raggiungere gli adulti. Saranno una cinquantina. Ci avviciniamo a una coppia. La donna ci vede e corruga la fronte, squadrandoci con un velo di disgusto.

«Scusi» dico «Ci può aiutare?»
«La festa per voi è lì in fondo» dice l’uomo in completo, indicando il palchetto alla fine del giardino.
«No, è che… cos’è successo al paese?»
«Quale paese?»
«Quello lì fuo-
Mi blocco. L’edificio non è il collegio. È diverso. È una villa veneta.
«Scusi, dove siamo?» domanda Luca.
La donna e l’uomo sembrano divertiti: «Alla festa del commendator Grandi»

Quando gli chiedo se siamo ad Astorzi di Boion, l’uomo pare divertirsi un mondo e si fa ripetere il nome due volte, poi ci spiega che no, siamo a Treviso e ora lui dovrebbe parlare di cose serie. È la donna ad accorgersi del panico che abbiamo stampato sulla faccia. Ci chiede se c’è qualcosa che non va.

«Seh, seh, venga» fa Ario, scendendo le scale e facendo cenno di seguirlo. Gli adulti ci accompagnano fino alla porta buia da cui siamo entrati. Ario indica la porta proprio quando dal buio emerge un cameriere con un vassoio pieno di bicchieri, strappandoci un grido. Ci guarda incuriosito e tira dritto. L’uomo ci domanda che problema abbiamo con le cucine. Luca spinge via Atza e attraversa la porta, facendo un paio di passi nel collegio fino a essere a malapena visibile.

«Vi sembra una cucina?» sbotta, allargando le mani.

In fondo, il DJ passa dal funk a una canzone così sintetica e fuori posto che tanti si girano verso la consolle. Dei synth di plastica e sonorità anni ’80 preparano l’arrivo di due voci femminili che cantano in inglese. It’s true, dice una tizia, I feel my burning heart, it cries. Oh yeah I need it. L’uomo e la donna fissano l’ingresso con aria assente e inespressiva, come si qualcuno li avesse ipnotizzati. Spostano il peso da un piede all’altro, poi ci domandano che problema c’è. Quando gli chiedo di entrare l’uomo stringe le spalle e fa un passo in avanti. Gli sto fissando la giacca quando varca la soglia e scompare, lasciandomi di fronte agli occhi sbarrati e la bocca aperta di Luca. Io salto all’indietro e quasi finisco in braccio ad Ario. Un istante dopo l’uomo riappare, guardandomi con la testa inclinata: «Allora?»

Luca esce con la bocca semiaperta e mi guarda cercando aiuto. Non lo trova.
Restiamo in silenzio come lapidi cadute sulla nostra razionalità.

L’uomo si volta verso la donna con un sorriso divertito, indicandomi con il palmo della mano: «Ah, questi ragazzini» dice, scuotendo la testa «Quattro derivate del Versore e si parla di cinque morti e decine di feriti. La cagna aveva il collo spezzato.»
Lei ride e lo prende per il braccio: «È una funzione olomorfa iniettiva, tesoro. »

Il ritornello è così stucchevole e ingenuo da ricordarmi quando ancora bevevo succhi di frutta Derby al gusto d’uva alle elementari. We’re heart to heart, all i wanna do is love you, soul to soul, come, carry my love.

«Fioi» dice Luca, con la voce roca «Leviamoci dal cazzo di qui.»
«Ma sai che sì?» fa Ario «Mi sta pigliando male.»
«Via, cazzo, via, via» dico, scattando verso la porta.

A metà del secondo ritornello il cielo rimbomba di un orrore stridulo e metallico, simile a una bambina che grida in un tubo d’acciaio distorto e gracchiante.


[prossimo capitolo: 06. Versore di fuga]

Quel che mia nonna mi ha raccontato prima e durante l’era fascista

Quel che mia nonna mi ha raccontato prima e durante l’era fascista

Nel 1917 avevi quattro anni, e mamma aveva impiegato un bel po’ di energie a convincere te e i tuoi fratelli che quell’uomo senza una gamba era vostro padre. Per te papà era quello nella foto, giovane e bello nella sua divisa. Quello tornato due anni dopo aveva la faccia sfregiata, zoppicava sulla gamba di legno e si bagnava sempre le labbra come se dovesse dire qualcosa, ma non lo faceva mai. Quando gli capitavi davanti sentivi il suo sguardo sulla schiena, per il resto o confabulava con mamma o stava seduto a fissare il fuoco.

Di notte urlava. Tu e i tuoi fratelli vi eravate abituati a sentirlo dal piano di sopra, tanto che quelle frasi sconnesse erano diventate un vostro tormentone quando giocavate in cortile: le cartucce! Le cartucce! Tutti ammazzati! Sergente! Sergente! In giro ce n’erano tanti come lui. Non avevano i soldi nemmeno per comprarsi una camicia o un abito; chiedevano la carità con la divisa addosso, a un popolo che preferiva sentire il tintinnare delle monete nelle cassette delle offerte, piuttosto del clùnc in un barattolo per strada.

Papà non era in grado di lavorare nei campi, ma aveva talento con il cuoio. Quando aveva trovato da lavorare dal calzolaio era migliorato, ma spesso mamma doveva recuperarlo all’osteria. Si ubriacava e s’azzuffava coi contadini. Tu e la tua famiglia stavate lontani dalle città. Arrivavano voci di violenze, insurrezioni, sparatorie. I giornali raccontavano di D’Annunzio, di Marinetti, di assalti alle redazioni e manifestazioni finite in tragedia. Papà, pian piano, si era fatto un’idea politica: aveva trovato finalmente qualcuno a cui importava di lui e di quelli come lui!

Quando il 24 marzo 1921 gli anarchici avevano ucciso 21 persone nell’hotel Diana, papà era tornato dall’osteria con due coltellate. Il dottor Tomasi l’aveva rattoppato da ubriaco, con gli occhiali che gli calavano sul naso rosso. “Mi pagherete quando dovrò solare gli stivali”, aveva detto, andandosene sul calesse. L’auto è ancora un lusso, in strada ci sono solo barrocci e carrozze. Ora è un freddo venerdì di gennaio 1932, tu hai vent’anni, sei sposata con Antonio – che lavora nei campi di di famiglia – e ti sono rimasti cinque figli su sette. Il primo è morto di un raffreddore misterioso e incurabile, il terzo di fame, perché nell’autunno del ’22 un gruppo di camicie nere aveva preso di mira il vostro villaggio rubando animali e beni di prima necessità.

Il medico dice che per te è troppo rischioso avere altri figli, ma tu devi correre questo rischio. Alle madri vengono date 6000 lire se hanno più di sei figli, mentre c’è la tassa sul celibato. Al matrimonio ne arrivano 500. Più figli fai, meno tasse paghi e più terra puoi ottenere. Ognuno dei tuoi cinque bimbi ha una divisa, e come tutti sono iscritti all’ONB (Opera Nazionale Balilla). La tessera costa 5 lire. Dai 6 agli 8 anni sono tutti “figli della Lupa”, dagli 8 ai 14 sei un “maschio balilla” o una “piccola italiana”. Dai 14 ai 18 sei un “avanguardista” o una “giovane italiana”. Poi i maschi diventano “fascio giovanile di combattimento” mentre le ragazze sono “giovani fasciste”. Le divise sono mantello nero, camicia nera, pantaloni neri e spilla del fascismo per i maschi, mentre le “piccole italiane” hanno maglia bianca e gonna nera a pieghe. Niente scarpe marroni né cappotto, sono troppo informali. Meglio la capparella.

C’è così tanta povertà che molti non si possono comprare una bicicletta e per andare a scuola fanno sette chilometri a piedi. D’inverno, siccome le scuole non hanno riscaldamento, ogni alunno a turno deve portare della legna da mettere nella stufa. Ogni volta che si entra in classe si fa il saluto alla foto di Mussolini. Le maestre usano le punizioni corporali sui bambini: legano i capelli ai banchi, picchiano, pizzicano, minacciano. Tu tutto questo lo sai perché te lo raccontano, ma non ti sei mai mossa dal tuo paese. Non avete i soldi per comprare un bue o un cavallo, quindi dovete arare i campi con l’aratro in spalla tu e tuo marito.

Ogni sabato è un sabato fascista.

Ci si trova presso il gruppo rionale d’appartenenza, gli insegnanti in uniforme sahariana, i ragazzi in uniforme Balilla. Vengono inquadrati a ritmo di tamburo, i più piccoli col moschetto giocattolo in spalla, e tutti si addestrano al combattimento. Chi non partecipa paga una multa, oppure un genitore va in prigione una notte. I giornali hanno il divieto di dare notizie disfattiste come incidenti ferroviari, suicidi, tragedie familiari o personali, violenze e stupri. Anche quando nel 1919 a Venezia il piroscafo San Spiridione esplode uccidendo oltre un centinaio di persone, il paese ne è all’oscuro.

Alcuni credono i loro parenti siano svaniti nel nulla.

C’è il culto del lavoro, le fabbriche sono “stabilimenti” dove gli operai vengono perquisiti e urlano 8 ore al giorno tra macchinari senza possibilità di ritardo, malattia o carriera. C’è il terrore di essere spiati dall’OVRA, che ti potrebbe far arrestare e sparire per mille motivi, nessuno dei quali legato al fascismo quanto alla delazione. Non puoi fidarti di nessuno, giovane o vecchio, né puoi rischiare di dire ad alta voce cosa pensi. Chiunque può essere un informatore, l’usciere o l’oste, la prostituta o la sorella. Quando nell’agosto 1933 si viene a sapere che nell’osteria di Domenico di Terlizzi qualcuno ha cantato “bandiera rossa”, lui non riesce a confermare né smentire i nomi degli avventori che avrebbero cantato. Finisce complice.

Quando viene dichiarata l’entrata in guerra, in piazza San Marco ci sono gli altoparlanti, ma nessuno gioisce né applaude. Sono tutti zitti e immobili. Le cose iniziano a peggiorare quasi subito. Ogni volta che prendi un treno senti i pianti e le suppliche dei ragazzi mandati al fronte. Uno seduto davanti a te si chiama Giovanni, ha la pelle olivastra, i lineamenti mediorientali e trema come una foglia. Scendete insieme in una stazione di campagna, lo porti in un boschetto dietro un fienile e sei così gentile da fargli conoscere com’è fatta la vita prima che conosca com’è fatta la morte. Non lo rivedrai mai più, e sarà l’unica volta che tradisci tuo marito.

Andrà in Africa. Quello che l’Italia compie lì è talmente abominevole, talmente spaventoso, da essere interamente censurato e ancora oggi, volutamente trascurato.

Molte famiglie vengono sfollate o perdono la casa per i bombardamenti.

Quando suonano le sirene antiaeree bisogna spegnere tutte le luci e chiudere le finestre. Devi assicurarti di avere sempre ben nascosti dei sacchetti di zucchero per sfamare i bambini, e secchi di sabbia per spegnere gli incendi. Viene chiesto alle famiglie di collezionare le fedi e le pentole di rame da donare allo sforzo bellico. Nelle città ci sono epidemie di tifo. Per il cibo servono le tessere in cui il Duce prefissa una quantità di cibo giornaliero, timbrate a ogni acquisto. La sera ci si riunisce nelle stalle per scaldarsi, ci si racconta storie e si mangiano patate, polenta o zucca con bicchieri di latte appena munto. Nei panifici si scambia la farina con il pane. Per avere la grappa si deve pagare una tassa, quindi la nascondete sottoterra con un filo di ferro che sporge da terra. Alla fine della guerra lo zucchero è finito e nel caffè mettono sale.

Poi arrivano i tedeschi.

Ci sono perquisizioni tedesche in piena notte con il mitra puntato. La morte diventa è cosa naturale e quotidiana. Passano aerei e sparano a civili inermi nella strada principale, perciò tuo zio esce per fare la spesa e non torna più. A tutte le donne è morto almeno un figlio. Quando gli Alleati sbarcano e il re scappa “per salvare Roma“, stare nelle grandi città diventa pericoloso. In campagna arrivano soldati sbandati e disperati, prigionieri fuggiti, banditi. Russi, Sudafricani, brasiliani, polacchi. C’è così tanta fame che le pizzerie fanno un Castagnaccio cotto male. E alla fine, tutto questo diventa un odio profondo e silenzioso che ammanta tutto di silenzio e sguardi. L’odio verso il vicino di casa gerarca che protetto dalle SS ha fatto cose abominevoli. L’odio verso chi ha fatto stragi e rapine con la scusa di essere un partigiano. L’odio per chi l’ha scampata e l’odio per chi la vissuta. Un odio fratricida che si perpetua di padre in figlio, in una narrazione sempre più farsesca e distorta dal telefono senza fili della Storia.

Volevo metterli qui, perché i ricordi dei ricordi altrui spesso svaniscono.

Gogne a cinque stelle, versione 2.1

Gogne a cinque stelle, versione 2.1

Sta andando avanti da settimane la storia della RAI contro il discorso di Fedez al concerto del primo maggio. Il popolo è incondizionatamente dalla parte del rapper, perché ha fatto nomi e cognomi di consiglieri di provincia, autori di dichiarazioni che è difficile definire se omofobe o vere istigazioni a delinquere.

I giornali gli vanno dietro in un afflato d’entusiasmo: Fedez è l’unico rimasto a fare politica, dicono alcuni. Fedez ha ragione. Altri – specie quelli intrecciati con l’amministrazione e il circolo RAI – sono più prudenti, dicendo che insomma, il concerto del Primo maggio non è il posto giusto per dire certe cose.

Il che è ridicolo: il concerto del Primo maggio fa polemiche ogni volta, sin dalla fondazione.
Alcune ridicole, altre più ridicole.

Basta pensare ai magici tempi dell’antiberlusconismo, in cui se non facevi almeno una dichiarazione sessista sulle Olgettine o una di bodyshaming sul presidente del Consiglio eri uno sfigato. Zelig era incentrato su Berlusconi, così come Colorado cafè o gli scaffali delle librerie. Quando è arrivato Beppe Grillo è stato il massimo del trionfo.

Peppe dava in pasto alla folla il suo cibo preferito: nomi e cognomi da linciare. Elencava politici condannati dal palco del V day e a ogni nome seguivano fischi e insulti; un abominio medievale da quarto mondo a cui avevano aderito cantanti e politici tra cui Fedez, che compose una canzone apposta.

E queste persone sognavano come “ministro di grazia e giustizia” una persona dalla fedina penale interessante quanto recidiva; recidiva perché pagare risarcimenti di 12,000, o 15,000 euro per diffamazione è una bazzecola rispetto agli incassi monstre che fanno le gogne.

È un calcolo che fanno anche le trasmissioni che spacciano linciaggi per giornalismo. Poi vengono querelate e pagano senza problemi, perché rispetto agli incassi derivanti da pubblicità sono il prezzo di un drink. Fedez quando ha messo alla gogna i consiglieri provinciali ha fatto LA STESSA IDENTICA COSA che ha ottenuto GLI STESSI IDENTICI RISULTATI.

 “Ma ha ragione! Quello che hanno detto i leghisti fa schifo!”

Oh, anche le Brigate rosse avevano ragione a prendersela con i padroni, in teoria. Peccato che nella pratica fossero una banda di fanatici assassini. Puoi avere tutte le ragioni del mondo, ma se usi il metodo sbagliato passi dalla parte del torto. Dire che gli omofobi/razzisti/sessisti vanno tutti ammazzati ti fa sembrare puro, duro, macho, progressista e oggi fa fare un sacco di like; se ammazzi una persona solo per le sue idee sei letteralmente un oppressore.

Quello che ha fatto Fedez è il problema, non la soluzione.

Non che sia colpa sua. Fedez come rapper aveva indiscutibilmente talento, e se un gigante come la Ferragni se l’è portato a casa significa molto. Credo davvero fosse spinto da buone intenzioni, ma come ognuno di noi è figlio di vent’anni di questo business milionario che si scrive “politica della gente” ma si chiama “diffamazione sistematica” grazie alla quale buona parte della popolazione ha perso qualsiasi rispetto verso gli organi d’informazione e rappresentanti; ha perso la capacità di trovare una propria filosofia politica e ha scelto di affidarsi a ciarlatani, farabolani, cospirazionisti e capipopolo.

La peggio stronzata scritta nei baci Perugina o nei meme di Mafalda è comunque meglio di “guarda cos’ha scritto/detto questo!!!! È una vergogna!!”. Perché è questo che è successo sul palco del 1°maggio: kondividete prima che cenzurano.

E io sono stanco di svuotare il mare con uno scolapasta.

Sono stanco di dovermi scontrare con stimaticolleghi di prestigiose testate che imbastiscono servizi, articoli e carriere su illazioni, speculazioni, diffamazioni o bugie spacciandoli per fatti. Stanco di capipopolo venerati come “vera politica” basata su gogne e vuoto spinto. Il vuoto del M5S. Il vuoto della Lega. Il vuoto delle Sardine. Il vuoto di Fedez. Il vuoto di bambinetti over 40 che si tirano i capelli, seduti davanti all’altare della patria, incapaci di fare mezzo castello di sabbia.

Atza tenta il colpo grosso al Tropicana, il finale è elettrico

Atza tenta il colpo grosso al Tropicana, il finale è elettrico

Nelle sale giochi degli anni ’90, all’ingresso, spesso troneggiava il primo tentativo di gioco d’azzardo su minorenni. Era una bacheca con dentro un’orgia di gettoni ammonticchiati, che il padrone sadico si premurava di rendere gargantuesco. Piramidi di gettoni. Colonne di gettoni. Oceani di gettoni che venivano mossi da uno stantuffo: in teoria, gettandone dentro altri, sovraccaricavi quella specie di deposito e ne facevi cadere di più.

Nella realtà non succedeva quasi mai.

Quello al Pool&Company si chiamava Tropicana, un nome che ispirava viaggi ai Caraibi grazie alle corpose vincite.
Atza ne era ossessionato.

Scialaquava tutti i soldi sparando agli zombie di House of the dead e finiva col dover raccogliere i mozziconi alle fermate degli autobus, scartare la parte bruciata, svuotare il tabacco in un astuccio di cuoio che chiamavamo la busta dell’AIDS e se lo girava con le cartine da cannoni. Ogni volta che entrava al Pool, il Tropicana gli faceva brillare gli occhi, anche perché in sala giochi bazzicavano truzzette ruspanti che andavano in giro a elemosinarli.

La passione di Atza era Gienson – scritto così – una grezza seminuda di sedici anni che passava metà del tempo a cavalcioni del flipper a chiacchierare con le amiche e fare la questua.

“Ce l’avresti un gettone da prestarmi?”, domandava.

Il gestore era un ex campione di pugilato dal passato oscuro nella malavita veneta, e bestemmiava scacciandole perché gli spaccavano il vetro. Poi aveva capito che il numero di gettoni aumentava vertiginosamente grazie a manodopera minorenne e le lasciava fare.

Atza, reso ormai pazzo dalle seghe, aveva giurato che avrebbe compiuto la rapina del secolo. Sognava di vedere i gettoni sgorgare dal Tropicana, così da poter sedurre Gienson. Siccome all’epoca faceva l’istituto tecnico, annunciò che avrebbe costruito una potente calamita. O meglio,

«Una poffente calamita.»
«Com’è che ti sei perso le S per strada?» domandò Luca.
«Mi hanno picchiato al fupermercato.»
«Di nuovo?»
«Fì. Ma feriamente, facciamolo. Penfate ai gettoni.»
«Io penso che tu non arriverai a trent’anni, Atza» gemetti.

Atza, va ammesso, ci mise dell’ingegno.

Faceva l’istituto tecnico e gli fu abbastanza facile costruire quello che aveva in mente, cioè una elettrocalamita. È una dimostrazione che viene fatta a tutti: avvolgi un filo di rame attorno a un chiodo, colleghi le due estremità a una batteria stilo e vedi che ci si attaccano le graffette.

Decise che bastava ingrandire le cose.

Segò la gamba di una sedia di scuola ottenendo un tubo di una ventina di centimetri, sventrò tutte le lampade di casa totalizzando metri di filo di rame e ce lo attorcigliò attorno, poi ci attaccò un interruttore sulla fase. Estrasse la batteria del motorino e li collegò, ottenendo una belva capace di sollevare senza problemi la coppa di ottone e marmo che suo padre aveva vinto in gioventù.

Pareva incollata. Ma Atza aveva fatto i test per tre, quattro secondi al massimo, quindi non aveva notato la grave carenza nel sistema, né la sua conseguenza. Era troppo impegnato a trovare un modo per occultare l’arnese.

Tra tubo e batteria del motorino, non si poteva tenere in tasca.

Quindi prese un marsupio dell’Invicta, lo sventrò e lo incollò sopra e attorno alla batteria. Rubò l’impermeabile in pelle nera della madre – ricordo di gloriosi anni ’70 – e decise che il travestimento era perfetto. Arrivò al Pool&Company un sabato sera, quand’era pieno di gente, tenendosi l’impermeabile ben chiuso davanti come un maniaco sessuale. Arrivato al tavolo si guardò attorno, poi ci fece vedere l’aggeggio.

«Dimmi solo quante possibilità ci sono che saltiamo in aria» disse Luca, già pronto a uscire.
«Neffuna. È folo una batteria.»
«Atza, in mano tua pure una Bic diventa un tasto di autodistruzione, sei tipo Rambo al contrario» disse Ario.
«Adeffo ferve che fate un diverfivo.»
«Un detersivo?»

Ci convinse ad andare a parlare con Ennio. Era burbero, ma gli faceva piacere scambiare quattro chiacchiere. Negli anni ‘90 non avevano ancora iniziato a dare i nomi alle generazioni, e le persone parlavano indipendentemente dall’età. Ennio vidde tre adolescenti arrivare con aria nervosa e attaccare bottone con scuse ridicole; impiegò meno di un minuto a capire che qualcosa non andava, eppure resse il gioco.

Ricordo la tensione tra noi, consapevoli che dall’altra parte del bancone stava per succedere, statisticamente, il dramma.

«Bè, insomma, Ennio, quand’è che ti fai il permesso per vendere alcolici?»
«Mai, sei pazzo? Se vuoi bere vai dall’altra parte della strada. Manca solo che vi ubriacate.»
THUNK, si sentì alle sue spalle.

«Bè-bè-bè però dai una birretta potrebbe starci, no? Magari mettiamo il bar lì in fondo» dico, indicando il lato opposto. Ario e Luca annuiscono con foga.
RR-R-R-RUNK
«harrcodd…» gemette Atza.

Ci fu una vibrazione elettrica, quelle minacciose e cupe che senti vicino ai tralicci dell’alta tensione e fanno vibrare le otturazioni. Noi tre eravamo sudati come cammelli, Ennio continua a passare da una faccia all’altra per capire come mai il suo campanello mentale stesse strillando. Poi aveva notato che vibrava tutto. Anche il bancone.

Alle spalle di Ennio vedemmo Gienson passare di fianco ad Atza, guardare in basso e vedere che il bacino del metallaro è incollato al bordo d’acciaio, come se si stesse scopando il Tropicana.

«Atza, ti sei innamorato?» domandò.
«GIENSONhaiuthami tira… premi i-il… oh Dio scottaAAAGLALA’.»

Gienson sgranò gli occhi e fece un passo indietro, poi l’insegna del Tropicana tirò due botti con scintille, la luce saltò contemporaneamente al boato di vetri infranti a cui seguì ferraglia e strilli dei presenti. Nel buio si alzò un odore acre di circuiti bruciati, Atza era dentro il Tropicana a pecora e non dava segni di vita. Gli stivali di cuoio penzolavano inermi, torso e braccia erano coperti di gettoni e schegge di vetro. Ennio lo afferrò privo di sensi e lo scagliò fuori dalla sala giochi, annunciando in dialetto «Se uno di voi teste di merda fiata si piglia una coltellata.»

Le macchinette come il Tropicana non esistono più perché illegali.

C’era un motivo se le colonne e le piramidi di gettoni stavano in piedi e nessuna moneta cadeva mai: le superfici erano magnetizzate. La spiegazione più razionale che trovammo è che quando Atza aveva puntato l’elettromagnete non aveva raccolto le monete, erano troppo distanti. In compenso s’era incollato al bordo metallico, milluplicando il magnetismo delle piattaforme e incollando le monete così forte che lo stantuffo s’era inceppato, fondendo il motorino elettrico. A questo problema si aggiungeva che Atza non aveva isolato il filo di rame, che si era surriscaldato ustionandogli le mani.

Mentre il suo scroto andava a fuoco aveva deciso di premere l’interruttore in un risibile tentativo di salvarsi la vita, ma essendo con il bacino incollato al vetro ne era impossibilitato. Il peso del torso aveva quindi sfondato la vetrina facendolo piombare dentro, mentre il motore interno esplodeva mandando in cortocircuito un gioco degli anni ’90, ovvero sprovvisto della presa a terra.

Atza indossava gli stivali di cuoio.

Si era quindi giustiziato con una batteria da motorino, e appena la corrente era saltata tutti i gettoni gli erano piombati addosso assieme alle schegge di vetro.

Era stato portato via dall’ambulanza mentre Ario e il resto della plebaglia saccheggiavano quel che restava del Tropicana. Aveva passato due giorni sotto osservazione e poi era stato dimesso, mentre Gienson recuperava senza fatica i gettoni. Venne bandito a vita dal Pool&Company – ovvero per oltre un mese – e passava i sabati sera in camera ad ascoltare Cemetery gates dei Pantera e a strimpellare il basso, mentre le ferite si rimarginavano.

Passavamo sotto casa sua a chiamarlo, ma non scendeva.

Il Tropicana venne sostituito da una colonnina di legno su cui troneggiava una felce, unico elemento d’arredo mai apparso in quel porcile. Qualche spiritoso ci appiccicò una di quelle targhette che si stampavano, e che recitava “per aspera ad Atza”.

Ennio la toglieva ma ricompariva il giorno dopo.
Alla fine la lasciò lì.

Ario va a cena con i broker e truffa la spogliarellista

Ario va a cena con i broker e truffa la spogliarellista

«Bè, eeh… Nasdaq 32%, il… il Mibtel, percentuali…»
«Atza, più naturale, par che reciti il rosario.»
«Non dimentichiamo Wall street, 60-60%, titoli azionari posterdati.»
«Ecco, Nebo va già meglio. Business e transazione, pacchetto azionario, cosa ne pensi?»

Luca, con il viso ridotto a una maschera di sudore, si allarga il colletto della camicia perlustrando con lo sguardo il ristorante: «A ‘sto giro c’ammazzano» deglutisce «… io ve lo dico, ci trovano in un fosso.»

È il 2015. Siamo in quello che credevamo il ristorante più costoso di Mestre e siamo tutti in giacca e cravatta. A tavola c’è una ragazza bionda sui vent’anni, con zigomi perfetti, occhi azzurri, labbra alla Jolie che ci osserva con attenzione senza capire una parola di italiano. È il grande amore di Ario e si chiama Yelena.

Aveva una storia piuttosto banale.

Nata in un paesino dell’Ucraina, suo padre appena saputo della gravidanza aveva riscoperto la passione per la steppa; siccome laggiù si campava grattando patate a mani nude a -32° per tre centesimi al secolo, sua madre si era trasferita in Italia, a Mestre, in un miniappartamento in centro subaffittato a tre latitanti pakistani. Faceva pulizie per 10 euro l’ora nelle case della “Mestre bene” e inviava il grosso dei soldi in Ucraina per permettere a Yelena di studiare.

Lei invece era diventata una Instagrammer di successo, nel senso che esibiva carne e Photoshop per essere pagata in like e commenti. Un tripudio di borse Vuitton, macchinoni e locali Casamonica friendly la raccontavano come brillante dropout che aveva sfondato nel mondo delle webstar. Poi la madre era stata assassinata dal povero Maurizio, un uomo colpevole di amare troppo – così l’avevano definito i giornali – e di essere un pregiudicato. Il buon Maurizio aveva chiesto alla madre di Yelena 7000 euro, lei aveva rifiutato e lui aveva obiettato con 23 coltellate di cui 2 fatali; aveva vinto la discussione, ma anche un ergastolo. In Ucraina, Yelena affrontava un’improvvisa crisi di liquidità, così aveva presentato ai suoi followers il suo improvviso sogno: scoprire l’Italia.

Dopo aver fatto debiti con gente che firma assegni a revolverate era fuggita.

Aveva iniziato a proporsi come donna di servizio, ma in ogni singolo appartamento dove metteva piede i mariti tentavano di trombarla; una proposta dopo l’altra, in soli sei mesi era finita a lavorare come performer in un circolo di artisti molto ambito dalle parti di Preganziol: «Quello dove ci sono i pali e ricchi mecenati fanno offerte» ci aveva spiegato Ario, mettendo la mano a tulipano e facendola scattare verso l’alto con un gesto secco.

Le signore presenti ridono con garbo

Siccome la bacheca Facebook di Ario comprendeva solo escort, trans, meme da seconda media e pagine chiuse dalla Digos, quando il locale aveva presentato Yelena come novità, lui aveva iniziato a chattarci. Tramite un terrificante innesto di italiano, inglese, dialetto veneto ed emoticon era riuscito a convincerla di essere un broker di successo che aveva subito il sequestro dei beni. Si erano visti, l’aveva portata a passeggio per Venezia e davanti a palazzo Franchetti aveva detto “you see, zis essere mai house before evil polis”. Lei gli aveva creduto senza indugio e proprio per questo aveva tenuto le gambe ben strette: era convinta d’aver trovato marito e voleva dimostrarsi donna d’altri tempi.

Un giorno Ario si era presentato al bar e supplicancoci di vestirci in giacca e cravatta per fingere una cena di lavoro nel ristorante che credeva più chic di Mestre.

«Tanto non capisce un cazzo d’italiano» ci aveva rassicurato «Vi presentate, chiacchieriamo di quello che volete, basta che ogni tanto dite Nasdaq, Dow Jones, Ftse, sparate cifre a caso e poi torniamo a parlare di fantacalcio.»
«Ma chi paga il ristorante?»
«Scappiamo senza pagare, ovvio. Tanto chi ci tornerà mai più?»

Il ristorante esclusivissimo era stato tale fino ai primi anni ’90. Alla morte del gestore, i figli avevano deciso di svecchiare il brand: basta materie di prima scelta, basta cuochi costosi, basta camerieri in livrea, basta con l’ambiente ingessato. In sei mesi era finito in un turbine di intossicazioni alimentari e recensioni al napalm su Tripadvisor, ma agli occhi di una contadina ucraina pareva ancora la reggia di Caserta.

Luca, agente immobiliare, aveva dovuto prestare a tutti i completi e le camicie. Le cravatte le avevo fornite io rubandole da guardaroba paterno, giacché Luca ne aveva una sola con i colori dell’azienda. A questa tragedia andava aggiunto che ci eravamo caricati di Negroni a stomaco vuoto perché consapevoli del finale tragico, quindi abbiamo già un aspetto

«Non puoi mettere Handanovic con Abbiati, ti costa troppo. Nasdaq. Invece ho Agazzi che mi sta dando rendimento pazzesco» fa Ario «Mibtel Mibtel, transaction, deal.»
«Pure Viviano. Io ho fatto Viviano + Agazzi, De Sanctis + Consigli, Ujkani + Frison.»
«National security bank» dico, annuendo.
«Lavezzi se n’è andato, sicuro la prossima stagione faranno un 3-5-1-1 stracoperto per pigliare meno reti. Dow Jones, Wall street, money.»

La cena procede in un crescendo di nonsense.
Episodi degni di nota:

1. Atza che improvvisamente esplode. Nell’aria si forma una nuvola di pezzi di triglia alla livornese, lui attraversa tutti i colori della bandiera LGBTπ+√2^16, si alza col viso rosso pompeiano, si strappa la cravatta con le lacrime agli occhi, rantola, sputa, piazza un rutto tale da far tremare le otturazioni dei denti e crolla sulla sedia, spossato in un oceano di sudore.

2. Luca viene colto da attacchi di panico quando scopre che il personale un tempo professionista è stato sostituito da teppaglia chioggiotta dal coltello facile, ed è convinto la sua vita terminerà al momento di pagare. Sudato come un purosangue dopo la gara, mormora che c’ammazzeranno tutti. Due volte viene fermato da Ario con sguardi e torsioni del braccio mentre tenta di fuggire da solo.

3. Yelena, per mantenere la sua illusione, sul cellulare guarda foto di palazzo Franchetti e di tanto in tanto la mostra dicendo che qui cambiamo tappezzeria, qui ci mettiamo due divani, lì bisogna mettere cose moderne.

Alla fine, Ario si gira verso Yelena: «Tuto good?»
«I’m boring» sbuffa lei.

«Ghe sboring se è vero» mormora Luca.

«Do you want andare a home a fare el chumba chumba?» le domanda dolcemente, tenendole la mano mentre con l’altra muove il pugno avanti e indietro. Lei, ammaliata dall’arguta allusione, sorride. La cena volge al termine, e decidiamo di uscire fuori a fumare. Ario si affretta verso la macchina spiegandole che ha fatto mettere tutto sul suo conto, poi noi facciamo per emularlo ma ci accorgiamo che un cameriere ci tiene d’occhio e indossa, inspiegabilmente, scarpe da ginnastica.

Siccome a nessuno di noi tre piace l’idea di venire accoltellati, smembrati e serviti come scottona nei prossimi giorni, diamo fondo ai nostri risparmi. Ario promette che ci restituirà la parte sua e di Yelena. Atza, togliendosi la cravatta, scuote la testa e si domanda perché dobbiamo continuare a essere suoi amici.

«Atza te dopo il duello con le spadine devi stare zitto, cazzo, zitto» aveva ringhiato Luca.