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Recensioni d’arte per hipster del 2300 d.C.

“Dualismi irrisolti”, Italia, 2011, autore ignoto
In quest’opera è lampante come il talento dell’artista emerga.

Le casse d’acqua frizzante su cui è seduta la donna sono una rivisitazione giovane della simbologia cristiana, il Gesù che cammina sulle acque. Citazione trendy che non mancherà di soddisfare i palati più intellectual. A destra la colonna è dipinta con un delizioso spatolato rosa modello miseria proletaria fine 2000, dove la pigrizia del pittore si mescola alla sua presunzione di sentirsi moderno ed alternativo grazie a riviste di bricolage redatte da persone che oggi consideriamo “donatori di organi coatti”.

L’artista ha voluto guardarla con noia e distacco.

Subito sotto, attenzione a cogliere il continuum temporale, un paio di scarpe da ginnastica messe di sbieco, a cui le scarpe della modella – più larghe di due taglie, probabilmente della madre – si affiancano come a volere trasmettere un susseguirsi di eventi fondamentali, ma ciclici. E’ il dramma della monotonia familiare. A sinistra, invece – e qui la genialità dell’autrice – vi è un futuro squilibrato a cui la modella è costretta a dare le spalle. Avanza una vecchia che tenta ancora di essere avvenente indossando una tigre scuoiata ed altri stracci immondi considerati sexy nei primi anni ’80.

Ovvio il riferimento alla vecchiaia che blocca l’uscita verso la luce, verso il futuro sereno di quella sedia di plastica irradiata dal sole. Notate inoltre le didascalie: quel “io puo” che vuole rompere le regole, imporsi sulla scena, con un urlo di autoproclamazione che nonostante tutto cade nel silenzio, sfumando dal rosso e perdendo lettere – e voce – nello spatolato.

Prezzo: 47.000 euro

“La domanda di Amleto”, Italia, 2010, autore ignoto
In quest’opera va valutata nuovamente l’inclinazione dell’obiettivo, che assieme alla posa plastica della modella crea un dinamismo iconoclasta.

Da notare la gestualità teatrale delle mani, chiaro riferimento al celebre monologo dell’Amleto di Shakespeare, che però mostra due sole dita con le nocche rivolte verso lo spettatore. Sebbene alcuni critici affermino si tratti di spasmi, il significato è volutamente ambiguo; da un lato esprime un desiderio di rinascita, dall’altro tenta di demolire gli antiquati cliché del passato e di riappropriarsi della propria essenza. Il colore viola infatti è da sempre stato considerato sfortunato nell’ambiente teatrale. Non è un caso che essa ne sia ricoperta, mentre con sguardo vitreo bacia il – mancante – teschio che nell’Amleto era appartenuto a Yorick, buffone del Re, forse addirittura in un parallelismo con il mondo dell’intrattenimento.

Le parole vergate con un fine stile che ricorda il fumetto anni ’80 cadono sulla modella, fondendosi alla sua aura, esprimendone i più profondi pensieri: un discorso ripreso con qualcuno, forse lo spettatore stesso, che terminano bruscamente, interrotti da sentimenti viscerali. Il blu esprime l’esteriorità della ragazza, o la sua incapacità ad usare il Paint di Windows. Non più l’autoproclamazione della propria femminile intimità, ma un attacco verso la società corrotta che opprime la sua anima ribelle.

Le lettere si perdono vicino al ritratto del bambino, quasi invisibile, che rappresenta gli occhi di ognuno di noi.
Prezzo: 32.500 euro

 

 

 

“L’uomo casertino”, Italia, 2010, autore ignoto
Quest’opera, definita da molti critici “la nuova Gioconda”, è uno dei maggiori punti di riferimento dell’avant guarde italiana di fine millennio.

Alcuni sospettano vi sia un riferimento all’opera del Da Vinci, sebbene manchino prove tangibili. La fronte del soggetto, ove risiede il pensiero, è coperta da un’impenetrabile coltre di capelli di chiaro taglio medioevale. Nessun raggio di luce può entrarvi, né riflesso (o riflessione, arguto gioco di parole) può uscirne.

Geniale l’orecchino di plastica ad indicare la preoccupante condizione degli omosessuali d’epoca.

Il naso indica un carattere altezzoso, di retaggio nobile, borbonico, subito addolcito dalla mascella sfuggente e dal taglio femmineo delle labbra piegate in un’espressione bovina. Ciò suggerisce una generazione lobotomica straziata dalle diatribe politiche (l’inclinazione a destra della testa sfugge ai più) ed incapace di assumere un’identità/ruolo all’interno della propria società.

Il bagno di casa, nello sfondo, viene trasformato in pixel, simbolo supremo della prima era digitale. E’ dunque in una sorta di bagno cibernetico che i ragazzi dell’epoca risolvono sé stessi, masturbandosi nell’afrore dei propri peti ed urlando al mondo la loro non-vita dai terminali. La didascalia rinnova la provocazione dell’orecchino: azzurro e rosa nello stesso soprannome, straziante dualismo maschio-femmina che strugge la sessualità dell’autore. Le parole “tossikello minimale” aggiungono drammaticità, sentenziando la dipendenza dalle droghe e dal divertimento, citando il famoso detto di Huxley “un tempo la religione era l’oppio dei popoli, ora l’oppio è la religione dei popoli”.
Prezzo: incalcolabile

Capitolo 9 – La fine

[06. Presagio]- [07. Da questi silenzi] – [08. Punto di rottura]

Poche cose comunicano “levatevi dai marroni” come le luci del banco che si spengono assieme alla musica. Appena fuori dal locale ci piomba in testa il caldo soffocante di una Bologna svuotata. Somiglia al paese dei balocchi dopo mezzanotte: rimaniamo noi quattro, pochi ubriachi ed una pattuglia che passa con il braccio fuori dal finestrino senza degnarci di uno sguardo.

«Mi sa che s’è fatto tardi» suggerisce Nadia all’amica.
«Vi accompagnamo, dove state?»
«Uhm, non serve»
«Abbiamo la macchina, se siete lontane» insisto.

L’idea di prendere un autobus alle quattro e mezza di mattina, a Bologna, non è il massimo. Acconsentono con malcelato disagio, penso preoccupate dal momento in cui partirà il ballo del “grazie ma non entrate a scoparci, addio”.

«Siamo subito fuori dalle mura»
«E’ lontano?»
«Un po’» ammette Chantal «dove avete l’auto?»
«In un parcheggio privato qui vicino, son due passi»
Acconsentono.

Ale s’è fatto taciturno, così i nostri passi sul pavè suonano amplificati come cannonate. Dovrei sforzarmi di tenere un po’ alto l’umore, ma ridotto come sono non mi viene in mente niente da dire e non ho idea cosa ci aspetti, quindi sono teso. Per fortuna Chantal farnetica cazzate su un suo amico e crea un piacevole sottofondo. Attraversiamo portici, un costante cielo di pietra sopra la testa che complice l’afa aumenta l’idea di claustrofobia. Giriamo l’angolo per il vicolo da cui siamo venuti e vediamo alla fine un furgone in doppia fila da cui due tizi scaricano casse. Sono due cinesi, vanno e vengono senza dire una parola. La camminata è lunga, fino a loro, così ho il tempo di studiare gli intervalli. Stanno dentro il negozio per un minuto e mezzo abbondante. Ale fa per passare dall’altra parte del marciapiede, ma io son curioso e vado dritto.

«Nebo, resta in compagnia» fa Ale.
Lo ignoro.

Quando arrivo i due sono appena rientrati. Mi fermo a guardare gli scatoloni, la solita straccivendoleria di jeans truzzi. Nel furgone non c’è nessuno. Chantal, Nadia e Ale rallentano. Mi guardo attorno; Bologna è diventata un cimitero, poca luce e nessuno in giro. I miei pantaloni fanno schifo, rotti su due punti all’altezza della coscia e macchioline dei miei globuli rossi ormai ossidati e marroni. Da dentro il negozio provengono rumori di cartoni tagliati. Ci penso un secondo, poi allungo le mani e afferro il primo paio di jeans che mi capita, un rotolo tra i rotoli tenuti con lo spago. Faccio tre passi svelti e raggiungo il gruppo.

«Cos’è quella roba?» fa Chantal.
«Ehm, un paio di pantaloni di scorta, non so se noti come sono presi i miei»
Le ragazze scoppiano a ridere. Ale si gira, gli occhi conficcati nei miei: «Come “pantaloni di scorta”?»
«Dopo la camicia hawaiana a Jesolo mi viene facile»
E’ bloccato. Guarda alle mie spalle, rimette gli occhi nei miei: «Li hai presi da quelli?»
«Ssssì, magari se non ti metti a urlare e ce ne andiamo»
«MA SEI COGLIONE?» sibila a denti stretti, strappandomeli di mano.

Sono confuso.
Le ragazze ammutoliscono.

«Ale, son due jeans da cinesi, varranno sì e no due euro» dico, cercando di prenderglieli.

Dò un primo strattone, ma lui non molla. Alzo gli occhi su di lui e come per incanto monto i pezzi. La botta di alcool, ematomi, dolore, ricordi, down da bamba, scompaiono. Scompaiono le ragazze. Scompare Bologna. Scompare la Gioia e scompare la Miriam. Ogni pelo del mio corpo si drizza, la percezione telefona al cervello latrando, il cuore spara tutta l’adrenalina che ha a disposizione ed in quella piccola frazione di secondo realizzo che ho fatto una cosa talmente idiota, talmente stupida, da essere impensabile. Bulgari. Una settimana lì davanti. Il nome falso. Treviso. Il gestore Tony M, figlio di quel M., col negozio in piazza Ferretto. Il pacchetto di sigarette. Jesolo, poi subito Bologna, il locale esattamente all’angolo, la chiacchierata col gestore e “la cosa che doveva farmi vedere” ce l’ho sbadatamente in mano.

Pesa troppo.
Un po’, non tantissimo, ma abbastanza da non essere solo un paio di jeans.

Riesco solo a dire una parola, che ricordo dentro di me come un guaito strozzato: «Bulgari?»

Ale pallido mi strappa di mano i jeans, si gira verso due tizi sbucati dall’angolo che ci stanno correndo incontro, quando le ragazze fanno la cosa più ovvia: gridano e scappano. Alessio grida qualcosa con le mani in alto. I due sono uomini sulla quarantina, cinesissimi, vestiti della loro roba, con una combinazione di occhi e corsa che non avevo mai visto in un uomo, prima. A cinque metri Ale sta ancora parlando quando uno dei due tira fuori un coltello. Ci giriamo sui tacchi e scattiamo appena in tempo prima che ci prendano. Butto per terra i jeans e corro con tutta la forza che ho. Le ragazze e Ale corrono con me. Una perde le scarpe. Della corsa mi ricordo il senso di disperazione, di terrore assoluto nel trovarmi in un luogo sconosciuto, ostile, inseguito da gente che mi vuole fare la pelle per davvero. Non botte, morte. Quella con i medici che ti si accalcano sopra e tu che non senti niente, con la bara e i parenti in lacrime, l’articolo sul Gazzettino e i commenti sotto.

Quella.

Una urla “aiuto”. Nello scatto la differenza di anni ci dà un vantaggio di qualche metro. Cinque, poi dieci, ma stanno sempre lì dietro. Attraversiamo un marciapiede e corriamo giù per il parcheggio aspettandoci di trovare il guardiano, ma non c’è. La cabinetta è vuota. Illuminata, col televisore e le telecamere, ma nessuno dentro. Facciamo la discesa con quelli dietro che gridano nella loro lingua, con la coda dell’occhio ne conto quattro. Il secondo livello ha una macchina che sta partendo, le corriamo incontro ma quello dentro appena vede spuntare Chinatown alle nostre spalle ci schiva e accelera. C’è una porta antincendio. Si apre al primo colpo. Entriamo, chiudiamo e teniamo ferma la maniglia. Due secondi dopo arrivano strattoni forti e ripetuti. Le ragazze piangono, Chantal è in crisi isterica, io tremo come una foglia. Nessuno dice niente. Aspettiamo. Ogni tanto qualcuno dà un altro strattone, a cui seguono strilli delle ragazze. Dopo minuti che sembrano un’eternità gli strattoni cessano.

Sto fermo immobile, con le orecchie attente.
Sono fuori che parlano.

«COSA VOLETE?» urla Nadia «ANDATE VIA!»
«CHING CHONG WANG DENG POTATO»

Dall’esterno, qualcuno tira un pugno alla porta.
Silenzio: «Dì, era questo che volevi mostrarmi?» chiedo «guardami»

Si gira, trasognato. Mi fissa un attimo, fa scorrere gli occhi su di me, torna a girarsi.

«Te quelli li conosci, vero?»
«Io? No!»
«EH, NO»
Da fuori provengono rumori incomprensibili.

«La mano, Nebo» fa lui.
«Che mano?»
«La tua. Perdi sangue.»

Guardo.
Oh, ma dai.

Ho l’avambraccio destro completamente coperto di sangue. I miei mi hanno insegnato che non importa quanto sembra brutta una ferita, finché non è pulita. Ingoio il panico, indago. E’ un taglio lungo, verticale, che attraversa le vene per lungo. Esce piano, rosso intenso. Se era un minimo più profondo ero fottuto. Inizio a chiedermi quando e come me lo sono fatto, poi ripenso a come sono iniziate le cose. Il primo Bruce Lee mi ha quasi preso. Cerco di non pensarci e mi concentro. Dovrei pulirla, disinfettarla e fasciarla. Mi guardo attorno, ci sono solo moci, stracci e ciarpame. Non è il caso di pulire una ferita con stracci luridi. Mi ciuccio lo spazio tra il pollice e l’indice della mano sinistra, lo tendo e lo faccio scorrere piano sulla ferita. Per un attimo non succede niente, poi il sangue ricomincia ad uscire. Chiedo alle ragazze se hanno dei fazzoletti, una mi allunga un Kleenex. Ce lo premo contro. Guardo sperando le macchie di sangue non arrivino all’ultimo strato. Una macchiolina, due, due e mezzo. Ok, non è profondo. Sto con la mano premuta contro il braccio, in attesa. Le ragazze si ripigliano un po’, provano i cellulari. Niente. Ale fa lo stesso, poi io, con il medesimo risultato. Non c’è compagnia telefonica che tenga sotto il cemento armato.

Ale appoggia l’orecchio alla porta.
Provo io. Niente, nemmeno un fruscio.

«Forse sono andati via» dico.
«Forse.»
«Proviamo ad aprire?»
«NO!» urla Nadia, scattando in piedi «NON APRITE!»
«Solo una fessura per vedere!»
«E se ci stanno aspettando?!»
«Non è detto che sappiano che questo è uno sgabuzzino» fa Ale «magari credono che abbiamo chiuso una porta e siamo scappati via da un’altra.»
Il discorso fila.

«Che alternative abbiamo? Restiamo chiusi qui dentro?»
«Arriverà qualcuno, siamo in centro Bologna. Poi che abbiamo da perdere?»
«Non so, Ale… tutto?» dico.
«Tipo? Che ha di tanto importante la tua vita, Nebo?»
Oh Cristo.

«ME L’HA FATTA LA MIA MAMMA E CI TENGO, VA BENE, FLIPPATO DI MERDA?»
«Ok, ok, aspettiamo» fa spallucce Ale.

Guardo l’ora. Le quattro e un quarto.
Quando la riguardo sono le quattro e mezza.

«Sono andati via, dai» dice Ale.

Anche l’adrenalina ha lasciato il posto ad una specie di incubo claustrofobico. Non ci sono parole adatte per spiegare cosa si prova ad essere blindati dentro un sotterraneo con il terrore qualcuno sbuchi e ti accoltelli. Mi sento come se qualcuno mi avesse catapultato in terza media, quando la professoressa d’italiano spiegava il minotauro nel labirinto. Stranamente siamo tutti apatici, quasi assenti. Quando c’è troppa tensione per troppo tempo la gente tende ad astrarsi dal contesto, come se non fosse davvero lì. Le ragazze parlottano tra di loro, stringendo il cellulare come se fosse un crocifisso. Prendo uno scopettone a mò di arma e mi sistemo dietro di lui. So che è ridicolo, ma non ho idee migliori. Ale mette la mano sulla maniglia e si volta a guardarmi. Le ragazze trattengono il fiato. Annuisco e sposto lo sguardo verso la porta. Che non si apre.

«…mbè?» dico.
«Ci sto provando» fa lui «è bloccata»

Provo io. La maniglia non scende di un millimetro. Rompo gli indugi e dò una spallata. Tutti gli ematomi che ho in corpo urlano all’unisono, facendomi quasi svenire dal male. Caccio un gemito.

«CI HANNO CHIUSI DENTRO?!» sbotta Nadia.
«Meglio, meglio, tranquilla» dico.
«COME MEGLIO?!»
«Per me è arrivato qualcuno e son telati. Oppure davvero hanno pensato ci fosse un’altra uscita. L’unica cosa che conta è che non c’è più nessuno. Siamo in un parcheggio, no? Prima o poi passa qualcuno, facciamo casino e ci aprono»
«IO VOGLIO USCIRE ADESSO! APRITE LA PORTA!»
«ZITTI!» fa Ale.

Diventiamo tre statue di sale. Fuori sentiamo il motore di una macchina che passa e parcheggia in fondo. Sempre in silenzio, aspettiamo. Il motore si spegne. Pausa eterna, poi una portiera si apre. Altra pausa eterna, poi si richiude.

«Sono loro?»
«Dopo un’ora che stiamo qui? Non credo»
«Se hanno chiamato gli amici?»
«Aridagli. E’ un parcheggio, mica un quartiere del Bronx»
«A che ora apre?»
«E’ sempre aperto»

Aspettiamo. La gente fuori si avvicina. Si fermano davanti allo sgabuzzino. Sento le gocce di sudore che mi scivolano giù per la schiena. Da fuori si sente uno schiocco, poi la porta si apre di scatto. Le ragazze urlano. Io urlo alzando d’istinto lo scopettone che disintegra la lampada al neon facendomi piovere vetri e scintille sulla testa. Ale cade all’indietro.

 

 

 

 

L’Arma dei carabinieri è così chiamata perché è la prima arma dello Stato.

In realtà si dovrebbe dire “l’arma degli Alpini”, “l’arma dei bersaglieri”, “l’arma dei lagunari” e così via. L’Arma è la prima perché è più vecchia dell’Italia stessa. In questo caso il rappresentante dell’Arma è un brigadiere quarantenne, accento barese, pancia prominente, cappello malmesso ed ascella pezzata che con occhio sbarrato e voce imperiosa domanda cosa cazzo stiamo facendo. L’altro è un appuntato scelto sulla trentina che dopo un’occhiata capisce che non dovranno sparare e dedica la sua attenzione a quello che fino a prima aveva bloccato la porta: un bancale.

In pratica i chinaboys ci avevano inseguito per insegnarci il segreto delle katane, sì, ma forse avevano già pensato di desistere quando siamo entrati nel parcheggio. Quando ci siamo barricati hanno capito che serviva troppo tempo e han lasciato perdere, o forse hanno pensato davvero fossimo scappati da un’altra uscita ed hanno bloccato la porta per evitare tornassimo indietro. Non lo so. Il bancale l’han preso dall’angolo dove sono ammassati mattoni e attrezzi per una qualche ristrutturazione.

Mentre tutto questo accadeva il portiere del parcheggio è tornato al suo posto e s’è trovato sugli schermi delle telecamere una specie di assalto medioevale, così ha chiamato il 112. Al loro arrivo di Feng Dong e famiglia non c’era più traccia.

La benemerita prima domanda se ci serve un’ambulanza, poi prende i documenti e domanda cos’è successo. Quando spieghiamo l’accaduto chiamano un’altra auto e ci portano in caserma dove ascoltano tutta la storia fino alle sette e un quarto di mattina dopo avermi offerto un ettolitro d’acqua ed una sigaretta. Chiedono se i lividi me li hanno procurati gli aggressori. Dico di no. Ale è una specie di imprenditore professionale e tranquillo che spiega punto per punto l’accaduto, evitando di menzionare che tutto è partito dal mio furto. Le ragazze non so se siano più spaventate o stravolte, ma confermano qualunque cosa intramezzando la deposizione con decine di “ora perfavore possiamo andare a casa”.

Quando se ne vanno non ci guardano né salutano. La versione finale, riletta e firmata alle sette e trentasei di mattina, in una città come Bologna barcolla ma sta in piedi. Strette di mano, frasi di circostanza, tanti saluti.

Quando usciamo dalla caserma il sole è già alto. Le strade sono piene di scooter, autobus, macchine e studenti che ciondolano tra biciclette e bar. Il caldo e l’umidità sono opprimenti, ma il mio corpo ormai è entrato in quella fase di torpore dove dolore, carenza di sonno, caldo, disidratazione e fame sono un pulsare sordo. Ale si accende una sigaretta.

«Quando sei andato in bagno hai telefonato alla Gioia, vero?» chiede.
Annuisco. Stiamo zitti a guardare il traffico.

«Perché?» domanda.
«Perché ero convinto volessi ammazzarmi. Tanto pazzo già lo sei e non lo dico per scherzare, Alessio. Tu hai problemi di testa. Sei malato.»
«Addirittura.»
«Se fossi in uno stato migliore di gonfierei di botte. C’è UNA cosa vera di tutto quello che mi hai detto?»
«A te quasi tutto. Alla Gioia quasi niente.»

«Va bene. Ora la domanda più importante» faccio, ma mi interrompe con la mano.
«Ti va un caffè?»

E’ di nuovo lui. Splendido, allegro, cordiale. Una notte come questa e lui si comporta come se fosse il suo primo giorno di ferie. Entriamo in un bar anonimo, ancora discretamente pieno, dove ricevo la solita salva di sguardi incuriositi e preoccupati. Divoro tre brioches, bevo due bicchieri di latte ed un cappuccino.

«Ti ricordi Gianandrea? Quello grasso, in classe con noi? È stato lui a dirmi di te. Non ci credevo che eri finito a fare il barista, così sono passato a vedere. Un pomeriggio. Eri proprio tu, facevi il brillante con due turiste. Così sono andato anche a vedermi la tua ex.»
«E che ne sapevi?»
Ale tossisce il caffè: «A MESTRE?! Figa, mezza piazza non parlava d’altro!»
Su questa città puoi sempre contare.

«E in un moto di filantropia hai deciso di scopartela» concludo.
«Non davvero. Volevo solo capire com’era»
«Questa è una stronzata grande come una casa»
«Va bene, una botta glie l’avrei data volentieri»
«Non sei pratico di donne normali, ah?» sogghigno.
Abbassa gli occhi.
Bèh.

«Tu eri innamorato?» chiede.
«Arriviamo al punto, Alessio.»
«Che punto? Semplicemente ho deciso di passare una serata con te.»
«Ma perché tutto quel teatrino?»
«Non ho fatto niente, a parte fingere di essere lì per caso e di non conoscere la Gioia. T’ho solo fatto vivere una delle mie notti. Coi suoi imprevisti.»

«Tutto qui?»
«Tutto qui.»
«Ma… ma perché?!» quasi grido.
«Perché cosa?»
«PERCHÈ CHE CAZZO VUOI, PER ESEMPIO?»

Sul viso gli si dipinge un sorriso amaro. Rigira la tazzina vuota: «È che… Sai, c’è una specie di legge incorruttibile che svilisce la vita nella rassegnazione. Io la vedo così. È un discorso che passati i sedici anni va evitato come la peste, ma c’è. E’ facile saltarlo, per fortuna. Alcuni usano la bamba, altri la TV, altri
La musica, ride Gioia, a letto.

il cinismo. E’ bellissimo, il cinismo; è lo strapon degli impotenti. La rassegnazione più patetica diventa una Ferrari da esibire agli amici. Tu mi dai l’idea di uno che s’è perso, non sa dove o quando ha sbagliato strada ed è incerto se valga la pena tornare indietro a cercarla o restare
Sul soffitto come quella mosca, mormora lei, nuda, stiracchiandosi

.

dove sei. Ti aiuto: hai iniziato a sbagliare quando ti sei messo in testa di guadagnare tempo. Nel tuo cervello s’è creata la convinzione che si impiega meno tempo a criticare l’autostrada che a costruirsi un sentiero, così ti dedichi a far canzoni contro tutto e tutti e sei felice così. Hai vent’anni e già vivi rimpiangendo non si sa quali bei vecchi tempi.»
Il volo per te è un sogno che è bene rimanga tale, dice.

E’ che il tempo ti frega. Non ne guadagni, anzi. A furia di guardare indietro lo perdi a prendere una rincorsa troppo lunga che poi non avrai tempo di ripercorrere. Tempo per il lavoro, tempo per la famiglia, gli impegni in società; sono giustificazioni rispettabili, per l’amor di Dio. Scelte plausibili. Vite credibili. Ma ti fregano. Sai quanti scelgono di essere i bravi, buoni ed onesti cittadini che pagano le tasse? Nessuno. E’ solo che sono troppo codardi o pigri per essere altro. Quando hanno rigurgiti di coscienza dicono “ah, un giorno rapino una banca”, “ah, un giorno mollo tutto e apro un chiosco ai caraibi” ma mica lo fanno. Nella vita bisogna essere prudenti, rispettabili, accettati dalla propria comunità. Trovare il tempo, vagliare le ipotesi, studiare con attenzione. Cosa ne pensano i tuoi amici? E i tuoi ex compagni alle cene di classe? E i tuoi genitori? Per accontentare loro, puf! E’ passato troppo tempo per fare qualunque cosa. Hai fatto il bravo, sei stato buono, hai messo la testa a posto e ora quando ti chiedono “come stai” non è che stai male»
Non è che stai bene, dice a un centimetro dalle mie labbra.

«È solo che non te ne frega più niente» completo io.
Alessio mi guarda: «Ecco. Volevo sapere come stai.»
Mi aspetto grandi cose da te, Nebo, sorride Gioia.

Scendo dal treno a Mestre che è mezzogiorno. Faccio fatica a stare in piedi. Mi siedo da McDonald, prendo un McMenu e chiamo Ario. Mezz’ora dopo vedo il primo volto amico da tanto tempo spuntare dalla porta, unico momento in cui l’ho visto serio e preoccupato davvero per me. Chiede se voglio andare in pronto soccorso, rispondo che voglio solo dormire. Dall’arrivo a casa in poi non ricordo niente. Dodici ore filate di sonno nero senza un sogno, un inizio o una fine.

Alle sei e mezza del giorno dopo mi sveglio, faccio la barba, metto la camicia bianca a maniche corte, i pantaloni, le scarpe e mi dirigo verso il bar. Cammino guardandomi attorno come se vedessi questa città per la prima volta. All’arrivo trovo Miriam che sgrana gli occhi e mi tempesta di domande sulle mie precarie condizioni fisiche. Svicolo. Prendo gli ordini, servo caffè, toast, spremute, succhi di frutta col pilota automatico. Sbaglio una comanda su due, così dopo mezz’ora la padrona ha pietà di me e mi dà la giornata libera.

A casa chiamo il dentista per un appuntamento, poi entro in uno stato catatonico. Sto seduto sul divano ad ascoltare i rumori del traffico guardando il cellulare. Dovrei chiamare Gioia. Dovrei fare la lavatrice. Dovrei farmi da mangiare.

Quando scoppio a piangere il groppo che ho in gola è così doloroso che ho paura mi spacchi la trachea.

 

Epilogo

 

A parte certi addii al celibato, è raro una notte ti cambi la vita. A me è successo. Tutte le più semplici convinzioni su cui si poggiava la mia esistenza crollarono. D’inverno, tornato a Trieste, guardavo i miei coinquilini dell’università e mi sentivo un estraneo. Il dente e i lividi guarirono a rilento. Sui palchi, mentre cantavo, ho iniziato a chiedermi se ero lì per scelta o per paura e la risposta non fu delle migliori. Nello stesso anno il mondo cambiò per i fatti suoi. Iniziava l’era del terrorismo internazionale, delle guerre in medioriente, del collasso dell’economia globale, la crisi, l’anticrisi. Lo vedevo cambiare dalla televisione defibrillando gli ultimi brandelli di me tra le gambe di una donna che amava un Nebo che non c’era più.

Un giorno ho deciso che non potevo andare avanti così e che forse era troppo tardi, ma anch’io volevo fare qualcosa di me stesso. Oggi faccio salti mortali per scrivere su qualunque cosa mi pubblichi e pian piano sto riuscendo a non tirare indietro il culo, anche grazie a gente che ha creduto in me – e ancora lo fa.

Miriam s’è sposata, ha fatto un figlio ed è sparita non so dove.
Gioia fa la commessa in aeroporto. Ogni tanto ci sentiamo.

Alessio è ancora là fuori da qualche parte. Da quella notte non l’ho mai più rivisto. Forse tra dieci anni salterà fuori che ha sterminato 49 bambini in Uganda, o che ha contrabbandato diamanti, o che ha fatto un’orgia da 1000 persone, o che ha fatto saltare in aria la metropolitana, o che ha salvato il mondo. Conoscendolo, è probabile abbia fatto tutto contemporaneamente.

Rimane il migliore amico io abbia mai avuto.

Fine

Via Piave, Mestre

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«Hai zigaretti?»
«No» dico.
«No?!» sbotta alzando la voce.
Sbuffa e si dedica ad una coppia di turisti alla biglietteria automatica.

«Dai me euro, por favor?»
«Sorry, what?»
«Dai me euro, dai?»

Esci dalla stazione, attraversi la strada e sei sotto il portico del Plaza, uno scannatoio per turisti che di recente s’è inventato un Lounge bar. Serve roba surgelata e succhi del Lidl a prezzi da guida Michelin. Oltrepassi botteghe di cinesi tra magrebini già ubriachi alle quattro di pomeriggio, ragazzi di età indefinibile che ti studiano come se fossero condor in attesa di una sigaretta, spicci, o commissioni di fumo. Arrivi di fianco ai giardini di via Sernaglia, 180 metri di fango ed erba con qualche panchina, territorio esclusivo di gente dell’est. Alcuni stan seduti sulle panchine a bere birra e vino in cartone, hanno il cappello a visiera corta, maglietta senza maniche, pantaloni dell’Adidas e sandali. Gli zingari di solito sono due ciccioni con la barba lunga, tre o quattro uomini male in arnese che campano strappando di mano le valigie alle donne in stazione e pretendendo una mancia per avergliele portate. A loro si aggiunge una mezza dozzina di ragazze vestite di stracci che rovistano nella spazzatura.

Alcune sarebbero bellissime, ma hanno sedici anni e riesci già a vedere come saranno da vecchie.

All’incrocio di via Sernaglia vedi il bar che la polizia ha fatto chiudere per spaccio, ora attivo più che mai. Internet point popolati da gente del bangladesh, sguardi curiosi che si distolgono in fretta. Nelle laterali trovi centri massaggi thailandesi che un giorno hanno il sigillo della polizia e quello dopo dei Carabinieri. Le donne che ci girano sono asiatiche minute, curatissime e vestite come pornodive. In queste strade, mi ha spiegato un tizio, puoi trovare di tutto: prostituzione minorile, eroina, ricette fasulle, documenti falsificati, sigarette di contrabbando, manodopera per lavori che non troveresti sugli annunci, persino armi da fuoco.

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Kebabbari con le scritte arcobaleno bruciate dal sole, la puzza di carne fritta che ti si attacca alle narici, le televisioni senza audio e la radio che gracchia sitar e gnaulii incomprensibili. Quelli dietro al bancone hanno barbe folte, fisici burrosi e flaccidi dentro magliette cinesi da cui spuntano peli e chiazze di sudore. Ti fissano studiandoti da quando entri a quando esci dal loro campo visivo. Col caldo i cassonetti mandano un puzzo ripugnante che l’afa rende stantìa e ti insegue per dieci metri. I pochi autoctoni rimasti sono vecchi in sandali, calzini bianchi, bermuda e giacca da pescatore che bazzicano intorno ai pochi bar gestiti da italiani.

Entro in un paio spacciandomi per turista inglese. In entrambi un caffè un euro e cinquanta, nessuno scontrino. Qui e lì botteghe di chincaglieria finto veneziana, televisori a tubo catodico, radio, cellulari del secolo scorso, lettori CD, gondoline di plastica al 350% del prezzo reale e orologi contraffatti.

Le italiane che vivono qui hanno tutte dai cinquant’anni in su. Quando ti vengono incontro sul marciapiede fanno un mezzo sorriso ma non osano alzare gli occhi, con l’andatura affrettata e impacciata di chi ha passato il punto di non ritorno sulla carta d’identità ma ancora sogna arrivi il principe azzurro a tirarle fuori dalle loro cucine in finto marmo e copridivani lisi. Le guardi, occhi scialbi dietro gli occhiali, l’aria confusa come cani randagi a caccia di uomini a cui far finta di essere legati per qualche metro.

Dall’angolo sbuca uno scooter con sopra un tunisino, ha i capelli grondanti gel, gli occhiali da truzzo e l’immancabile cicciona bianca seduta dietro. Altri negozi di cinesi gridano “promozione”, “sconti”, “moda” ed hanno tutti la stessa roba; felpe e magliette che se indossi per più di cinque minuti nuoti nel sudore e ti irritano la pelle. La chiesa di via Permuda, mattoni a vista su un pavè ben disegnato, è la cattedrale dove i vecchi fanno le serali di buona condotta in vista dell’esame con San Pietro. Pizze al trancio surgelate e lavatrici pubbliche profumano l’aria tra condomini grigi ed anonimi, residuati della vecchia edilizia anni ’70. Tutto attorno è un giardino di VENDESI, FITTASI, CEDESI.

Un’oasi popolata da ventenni e trentenni è Galliano’s, un piccolo bar gestito da un vecchio che negli anni ’80 era discretamente famoso nell’ambiente gay. Il locale saranno sette metri quadri tutti ricoperti di foto che lo ritraggono assieme a personaggi famosi. Ci entri e sembra di visitare il vittoriale sotto acido. Di pomeriggio fa gelati in coppa, la sera migliaia di spritz per una cinquantina di ventenni hipster che non ho idea da dove vengano.

Passi l’Adecco e affianchi la vecchia caserma della Guardia di finanza. Sui muri sono depositati strati e strati di cartelloni strappati e reincollati che pubblicizzano eventi, concerti, manifestazioni. Quasi tutti gridano no, niente, basta, stop, via. Non importa a cosa. La gente che passa li ignora anche perché la stragrande maggioranza non capisce la lingua. Qui i quartieri si sono decomposti su sé stessi lasciando ogni tanto case di un’epoca che non esiste più a spuntare nel marciume senza un ordine preciso. Casupole a due piani anni ’50 tenute alla perfezione, castelli delle fiabe spuntati come verruche e restaurati nella vana speranza qualcuno sia tanto idiota da comprare una bomboniera senza vedere il porcile che ha attorno. Di solito i padroni hanno sessant’anni e ancora credono il mattone sia destinato a salire. Quando crepano i figli si affrettano a svendere, non ci riescono e il castello diventa Eroinoland in meno di un anno.

Alla fine arrivi alla fontana di Aricò, un obrobrio che tutti i mestrini detestano: figure distorte e verdognole di contadini ed operai che ogni tanto grondano sudore su vecchi marmi rovinati dalla ruggine.

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Orde di africane seminude ci camminano sopra a piedi scalzi cercando refrigerio prima che arrivi la sera, quando andranno in stazione a prendere il treno e prostituirsi a Verona o Vicenza coi reggiseni imbottiti di carta igienica marca FS.
Invio mail.

 

 

 

 

Driiiin.
«Ciao Mauri, piaciuto il pezzo?»
«Mi prendi per il culo?»
«Ahia»
«Dovevi farmi il pezzo sull’inaugurazione della fontana, CHE CAZZO E’ STA ROBA???»
«Ho pensato fosse più…»
«TU NON DEVI PENSARE, PORCA PUTTANA, ti sei bevuto il cervello?!? Poi tutta la parte sugli stranieri, le pistole, come cazzo le sai ‘ste cose?»
«Ho un amico in polizia, me l’ha raccontato lui»

«MA NON PUOI SCRIVERLO, IDIOTA! Metti solo lo stretto indispensabile, ok? E cose belle. Via Piave e la fontana sono la prima cosa che i turisti vedono quando scendono in stazione, se leggono ‘sta roba manco arrivano in piazza Ferretto. E più breve, per Dio, PIU’ BREVE»

«Maurì, ma se scriviamo ‘ste menate chi vuoi che se ne freghi?»
«Fammi capire, Nebo: tu sei un diplomato che fino ad un anno fa segava legna a Gaggio di Marcon, mi stai insegnando a fare il mio mestiere?»

«Hai ragione. Scusami»
«Va bene. Mi fai ‘sta inaugurazione o la faccio io?»
«Arriva»
«Bravo»

 

“Si è svolta questa mattina alla presenza, tra gli altri, del vicesindaco Sandro Simionato, dell’assessore comunale alle Attività culturali e Toponomastica, Tiziana Agostani, del presidente della Municipalità di Mestre Carpenedo, Massimo Venturini, la cerimonia di riconsegna alla città della fontana di via Piave. L’opera dell’artista Gianni Aricò è stata ripristinata sia nella sua funzionalità che nel suo aspetto esterno, dopo essere rimasta in disuso per alcuni anni. L’intervento è stato eseguito da Veritas grazie alla sensibilità della famiglia Tura, gestore dell’Hotel Bologna, in occasione dei suoi cento anni di attività.

Soddisfazione per il ripristino della fontana è stata espressa dalle autorità presenti, concordi nell’affermare non solo il valore artistico dell’opera, ma anche l’importanza dell’ennesimo intervento di riqualificazione e di crescita di via Piave, in quanto luogo centrale per lo sviluppo della Mestre del futuro. Determinante – hanno ribadito assessori e presidente – il ruolo svolto dai cittadini, protagonisti attivi della trasformazione e valorizzazione della loro città”.

Driiin.
«Come andava?»
«Questo va bene. Rimani su ‘ste righe, per favore»
Era il 2004.

 

 

 

 

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Questo invece era il 2011.

Appunti di lavoro



Giorno 1

Parto la mattina con una borsa per tre giorni. In stazione trovo un bosniaco che ride sbavando e mi improvvisa un monologo di denti fracassati e versi mostruosi. Sto iniziando a capire di che parla quando passa una tizia in minigonna e lui decide di dedicare le sue attenzioni alla vagina. Aiuto una vecchia a mettere la valigia sul freccia rossa, trovo il posto che l’azienda in questione mi ha prenotato, apro Moby Dick. Due ore e mezza dopo sono a Milano.


In stazione mi faccio largo tra la solita foresta di fiche stellari, piglio la metro e arrivo a Porta Genova. Mezzo chilometro di navigli a piedi e mi trovo con Ferrari e Minoggi. Un’ora dopo siamo sbronzi seduti sul marciapiede che farnetichiamo e beviamo Zacapa. Una bambina romena, tredici anni, si ferma a chiedermi soldi. Arriva la Beltramini con il suo loquace fidanzato. All’una siamo abbastanza schioppati da scavalcare un recinto assieme ad altri sconosciuti per fare il bagno nudi in una piscina, ma per motivi che non ricordo rinunciamo. A ripensarci, se in quegli stati avessi messo piede in acqua, non so cosa sarebbe successo. Arrivo a casa di Minoggi, gli vomito in uno dei tre lavandini che vedo, vorrei pulire ma sono troppi. Ne scelgo uno a caso – con difficoltà, perché i bastardi si muovono – e mi addormento. 










Giorno 2

Quattro ore dopo suona la sveglia, ho la lingua di carta assorbente e dai rubinetti non esce nulla.

– Han tagliato l’acqua per fare dei lavori – spiega il nostro.
Certo, ma io devo cagare.

Minoggi è così gentile da passarmi due Moment. Giriamo in macchina per una Milano ingorgata a causa dello sciopero dei mezzi pubblici, il sole è una coltellata ed io ho ancora problemi di equilibrio. Facciamo colazione in un bar che Minoggi dice “il migliore del quartiere”. Mangio due brioche e un latte macchiato. Da quel che sento i sapori, potrei aver appena mangiato pollo. O vongole. Arriviamo in studio, mi barrico in cesso e quello che esce dal mio corpo fa tremare i pilastri del cielo. Spossato dal parto fumo una sigaretta appoggiato all’androne. Una tizia passa con le borse della spesa.

– Buongiorno – mormora.
– No – replico.

Saluto tutti raccomandando di non entrare in bagno per la salvezza della loro anima, raggiungo l’angolo e prendo un taxi. Mentre salgo una donna con bambino chiede se possiamo salire insieme e fare a metà della corsa.

– No – replico.

25 euro di taxi dopo sono davanti alla sede della Mondadori a Segrate. Con l’andatura di uno zombie di Romero faccio il simpatico con il tizio all’ingresso sperando non si accorga delle mie precarie condizioni umane. Entro in redazione, ci ripenso, torno indietro e faccio una jam session intestinale nei bagni della Mondadori. Finirà. Questo inferno sulla terra, questa pestilenziale piaga, finirà. Già che ci sono mi dò una lavata in fretta, cambio la maglietta e mi presento in forma smagliante davanti al mio caposervizio. Mi spiega il da farsi, mi riempie di carte, mi dà una pacca sulla schiena e me ne vado. Uscito faccio un paio di telefonate a colleghi in sede per fare un po’ di pubbliche relazioni. Uno è stato licenziato ed è a casa con la figlia di 8 mesi, l’altro ha una camicia fatta su misura, due mocassini Prada, pantaloni Fay ed un SUV che pare un carroarmato. Dice che devo scusarlo ma non ha tempo, è di fretta, deve scappare.

Altri 25 euro dopo sono di nuovo in stazione.
Mi telefona quella della ditta, dice che il treno è prenotato e tutto il resto. Salgo a bordo del freccia argento, apro Moby Dick, chiudo gli occhi. Li riapro col capotreno che mi scuote, il vagone è deserto, sono le tre di pomeriggio e io sono a Roma. Grazie al telefonino trovo l’albergo, il Rasmussen o Rasmusson o qualcosa così. Uno di quegli alberghi per manager e rappresentanti con lo stile minimal chic, di solito una scusa per chiedere cifre oscene in cambio di camere orride e servizi pessimi. La tizia alla reception è più conciata di me. Non trova la prenotazione col mio nome, chiamo quella dell’azienda, lei dice di passargliela. Apparentemente la prenotazione è stata fatta a nome “Men’s health”. Quale individuo psicopatico prenota una stanza a nome “Men’s health” non lo so. La stanza puzza come una fogna ma, vivendo a Venezia, la cosa non mi tange. Per la terza volta bombardo le fogne romane con possenti peti e devastanti attacchi chimici sfogliando il catalogo dell’albergo, così scopro che al settimo piano c’è palestra, area wellness e piscina. Faccio una doccia, sistemo la borsa, metto in carica il cellulare, mi faccio una sega con la pubblicità di Intimissimi e dormo un’ora. 

Alle 21.00 c’è la cena con le ragazze dello staff e i colleghi al settimo piano. Arrivo alle 20.30 in polo e jeans, mi guardo attorno e c’è l’aperitivo con il free bar. Mangio l’impossibile – le cene di lavoro di solito sono nouvelle cuisine con porzioni terzomondiste – e con voce tremante oso un prosecco. Il cameriere versa, non succede niente così alle 20.45 sono al quarto prosecco e le cose sembrano avere un senso. Attorno a me la gente inneggia ad una certa Giulia. Mi squilla il cellulare, sono quelle dello staff che dicono di raggiungerle al tavolo. Siamo in quattro. Due dello staff, entrambe sulla trentina, la faccia di chi se gli dai l’uccello te lo ridanno quando torna il Voyager ed una vecchia pazza che è la collega e parla a sproposito con frasi che iniziano tutte con “io”.

– Io una volta ho conosciuto il marito di… come si chiamava… Puppini, Guido. Che poi era il fidanzato gay di Ezio Baricco, parente di secondo grado di… capite? Ecco, allora ero a questa riunione con… come si chiamava…

Oliar passere con questa prugna rinsecchita che recita l’elenco telefonico di Frigidlandia è complesso. Rinuncio, ascolto le straordinarie opportunità, le incredibili possibilità, le fantastiche occasioni che l’azienda mi ha dato, trangugio il pesce peggiore che abbia mai mangiato e lo affogo di Zacapa alla fine. Osservo con noncuranza la tizia firmare un conto di 331 euro. Se ne vanno, resto solo in piscina a finire il drink. Telefono alla Leo, fumo l’ennesima sigaretta e vado a dormire.











Giorno 3

L’iphone mi sveglia alle 9.30. La colazione in camera costa 21 euro e non ho voglia di addebitarla alla redazione, così mi doccio, vado di sopra e mi strafogo di tutto quello che ho a disposizione. Scendo, mi metto in costume, vado in palestra e faccio 45 minuti arrangiandomi con quello che trovo. La politica degli alberghi riguardo alle palestre è “i nostri clienti sono degli idioti e non è bene si uccidano sotto il nostro tetto”, così tutte le cose che possono facilitare il trapasso vengono rimosse. Niente panca piana, niente pesi seri, niente squat rack, niente barra per le trazioni: solo tapis roulant e manubri del peso massimo di 22 chili. Naturalmente non c’è nessuno. Terminato l’allenamento attraverso il settimo piano in costume tra gente in giacca e cravatta, sibilo “signori, buongiorno” e mi butto in acqua.

Alle 10.30 sono sulla terrazza del pincio, 34 gradi, che guardo questa buffa manifestazione. I tizi hanno dei fisici pazzeschi. Nonostante dopo 4 anni di palestra mi sia fatto l’occhio non riesco a capire se sono bombati o natural, in entrambi i casi sono perfetti. Guardo, inizio a prendere appunti, butto giù una bozza dell’articolo. Sono l’unico che fuma, e godo del sottile piacere che la faccia schifata dei presenti mi comunica ogni volta che gli arriva una refolata. Biribì, biribì, biribì, la tizia dello staff domanda dove sono. Ci troviamo, stiamo tutta la mattina a guardare queste statue greche che si fanno un culo così sotto il sole, pranziamo in un ristorante megachic assieme ad un ciccione con telecamera che se la tira manco fosse Ludlum, uno del Giornale che è simpatico ma sembra non sapere che ci fa qui, la vecchia pazza che da quando mi sono cambiato la maglietta mi tampina e quelle dello staff che sono stanche morte. Beviamo tutti acqua. Io, soprattutto.

Arriva il VIP da intervistare. Guardo pantaloni, occhi, rughe, indice e pollice della mano destra ed aggiungo due domande. I fotografi scattano, l’MC incita il pubblico che è annichilito dal caldo, finisce che da un quarto d’ora a testa per quattro giornalisti abbiamo un quarto d’ora in quattro.

Secondo me quando intervisti qualcuno il supporto con cui lo intervisti incide moltissimo. La carta è deleteria. Non c’è niente di peggio che avere in mano carta e penna, leggere la domanda e scrivere con lui che parla alle farfalle. Anche se t’impari a memoria le domande – cosa obbligatoria che non fa mai nessuno – o le improvvisi, interrompere il contatto visivo è maleducazione e tende ad allontanare umanamente il soggetto. Il registratore è già meglio, se hai imparato le domande, ma quel cazzo di coso nero puntato alla bocca somiglia ad una pistola e può intimidire, oltre a dar luogo a sceneggiate patetiche. C’è quello che vuole prenderlo in mano. Quello che sta troppo distante. Il giornalista che tra un po’ glielo ficca in bocca.

La soluzione ideale che ho trovato io è l’iphone. Nessuno bada ad un telefono sul tavolo. Lo fanno tutti, nei bar, a casa di amici, a cena con la donna. Tutti mettono il telefono sul tavolo, tenerlo in tasca è fastidioso. Quindi tu lo metti in mezzo, attivi la registrazione vocale e parti. Sembra una chiacchierata (ma non lo è e lui lo sa), però toglie tutti i problemi e ti permette di guardarlo negli occhi. Non che queste cose le abbia studiate, chiariamo, son idee personali. Però ho visto che funzionano. 

Decido un approccio aggressivo, perché il tizio è troppo tranquillo e rilassato.

– Ciao, sono Nebo, di MH.
– Ciao Nebo.
– Prima di tutto: la cina sta aumentando la propria presenza militare nel Pacifico, la nuova manovra salva stati sembra non influire sullo spread, l’Italia ha un tasso di disoccupazione crescente, il nostro governo ha rafforzato la presenza di carabinieri in Libano e tu sei qui che spingi copertoni in vista delle olimpiadi. Come reggi la tensione?

Mi guarda confuso. I colleghi sono congelati. Con la vista periferica noto il suo addetto stampa che guarda gli altri terrorizzato. Le ragazze dello staff hanno la morte in viso.

– Bè…
– Sì?
– Sono molto contento di essere qui e di avere avuto questa splendida occasione, credo… credo lo sport…
Annuisco.

– …lo sport sia un modo per, per dimostrare… ma cosa c’entrano i carabinieri?
– Niente, contestualizzavo.
– Che facevi?
– Altra domanda: cosa pensi di questa disciplina?

Ora è terrorizzato al punto giusto, so che ha poco senso dell’umorismo ma che ha discrete capacità d’improvvisazione, non è colto ma è simpatico e, nel suo, intelligente. L’intervista prosegue senza intoppi, così riesce a rilassarsi. Si mette a suo agio quando scopre che so il nome di sua morosa e del cane, rimane abbastanza confuso dalla mancanza di interrogativi sul suo sport o sul suo mondo. Siamo a 10 minuti, è ora di dargli un’altra ravanata.

– Schwarzenegger quando ha vinto mister Olympia s’è fatto riprendere che fumava una canna sul divano. Phelp s’è fatto fotografare da un suo amico mentre era a letto con due donne nude che fumava un bong. Parlando d’altro, tu come hai festeggiato la volta che hai vinto?

Lo guardo. L’occhio prima è vacuo, poi s’illumina, poi si sgrana, poi sorride ed immediatamente ritorna a posto.





– No, bè, io non faccio quelle cose, non sono assolutamente contrario ma per me non va bene, sono uno sportivo.
– Certo.
– Poi ti dico, a volte ci starebbe appizzarsi una bomba, ma… – mima con le mani.
– IL NOSTRO TEMPO E’ SCADUTO – dice l’addetto stampa, pallido.
Chiudo.


Saluto tutti, scambio numeri di telefono, prendo un taxi con la vecchia pazza e partiamo per la stazione io, lei per l’albergo perché c’ha lasciato la borsa. Roma è intasata da uno sciopero e contemporaneamente dal gay pride. La babbiona premette che lei viene da una famiglia di anarchici e che suo nonno è stato disertore durante la seconda guerra mondiale, quindi è di vedute aperte, ma lei i froci proprio non li capisce. Il taxi rinuncia, ci molla a 400 metri dalla stazione perché più avanti non può andare. Scendiamo, prendo una birra ad un chiosco ed un panino mentre accompagno la pazza verso la stazione.

– Io proprio non capisco, Nebo. Già uno è gay, perché deve fare queste cose? Intasare il traffico così, poi… ecco! GUARDA!

E io guardo.
Vedo una camionata di lesbiche, gay, travoni che attraversano Roma con musica assordante, tette di silicone, culi rifatti, tette vere e pitturate, fiori, arcobaleni, dildi enormi e strapon viola attaccati al bacino di una mulatta bella come una dea. Due bionde su un tandem col cappello di paglia, la gonna a fiori, un sorriso inaudito. Due uomini pelosi e seminudi che limonano per la gioia dei fotografi. Trans alti due metri. Una Citroen anni ’70 dipinta con dentro la palla da discoteca, la bicicletta rosa, cani di pelouche, il bagagliaio aperto che vomita milioni di bolle di sapone che s’infrangono sull’uniforme della carabiniera che chiude la fila con un sorriso malcelato. 






Dietro, una sola camionetta coi finestrini aperti.

– Ma tu cosa ne pensi? – domanda.

Passa un autobus vecchio stile, a bordo, con la porta aperta, un travone urla “ripetete con me: siamo tutti u-gua-li! Ripet… VIENI, FRATELLO, VIENI! SALI!”

Perché io ho guardato la babbiona, ho lanciato la birra e sono corso a bordo del pullman tra ali di folla festante. Accolto come un figliol prodigo, salgo, lancio le braccia in alto e grido “YAAAAH!”, loro rispondono “YEEEH!”, finisco a petto nudo a ballare Immanuel Casto bevendo vodka a sbafo. Cinquecento metri dopo scendo tra i saluti, rifaccio la strada, entro in stazione Termini. Ho una fame atroce, mangio un hamburger al Roadhouse – nsomma – e prendo il freccia argento. Arrivo a Venezia alle 23.30 dopo un viaggio di 4 ore. Vorrei dormire, ma il cellulare suona e il Dining room aspetta con la Lightfoot, lo Zacapa ed il mio migliore amico. 

Arrivo a casa alle 2.30.