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Capitolo 8 – Punto di rottura

La bionda si chiama Chantal, l’altra Nadia. Tutte e due sono al terzo anno di scienze politiche. Chantal ha due tette da competizione ma è silenziosa, Nadia ha una conversazione discretamente trucida e spigliata. I drink arrivano al terzo giro ed ormai ho abbastanza alcool in corpo da trasformare il dolore in un vago intorpidimento. Le braccia sul tavolo si fanno più vicine, i sorrisi più convinti, le tette di Chantal mi tengono su di morale. Stiamo andando bene. Ale racconta che fa il PR, una versione light della realtà. Sta ciarlando di un appartamento quando colgo l’occasione al volo, mi scuso e vado in bagno.

I cessi somigliano ad una sauna turca, mi caccio dentro quello degli handicappati e tiro fuori il cellulare. La Gioia è sotto la voce NonDaSbronzo. Squilla una, due, nove volte, poi risponde la segreteria telefonica del numero. Starà chiavando col tipo. Rimango in stato catatonico per una decina di secondi, la schiena appoggiata alle pietre, incapace di pensare. Il dolore si fa sentire come un padre pensionato che all’improvviso ha troppo tempo libero. Sto pensando di tornare quando il Nokia mi squilla in mano.
NonDaSbronzo.

«Gioia, ho bisogno che mi dici chi è quel tipo.»
«Dimmi come lo conosci TU, piuttosto!»
«Te l’ho scritto, eravamo in classe insieme.»
Istante di incertezza, poi: «cos’hai fatto al labbro?» domanda in tono dolce, memoria di un tempo che non esiste più.
«E’ stata una serata difficile. Ora non posso parlare. Dove l’hai conosciuto?»
«E’ stato a girare per una settimana davanti al mio negozio.»
«Come “al tuo negozio”?»
«Lavoro da Max&Co. da un mese, ormai. Alle Barche.»
«Va bene. Lui girava a caso, tipo maniaco?»
«No… No. Parlava con quelli di Bulgari, davanti a noi.»
«Parlava e basta.»
«Sì. Col gestore. Però buttava spesso occhiate, un paio di volte ha fatto giri strani, tipo avanti e indietro, come per vederci…»
Bè, la Gioia per esser gnocca è gnocca.

«E tu l’hai conosciuto di persona? Ci hai parlato?»
«Mmm… qualche volta. Due volte. Ha attaccato bottone lui. Mi ha detto che si chiamava Luca Bosio e che fa il rivenditore.»
«Di che?»
«Non so, penso tipo gioielli, da Bulgari che ci vai a fare di pomeriggio per una settimana? Credevo me l’avessi mandato tu a spiarmi.»
«Gioia, ti sembro tipo da far ‘ste stronzate? Onestamente.»
Sospira: «No. Ma la mia collega c’ha avuto un ex maniaco e m’ha messo la paranoia.»
«Lui cosa ti ha detto?»
«E’ entrato dicendo che voleva fare un regalo, gli ho fatto vedere cinque o sei capi e poi non ha comprato niente, non penso fosse vero. Chiacchierava tanto, era… carino. La seconda volta è passato per salutarmi dicendo che probabilmente non ci vedremo più perché lui è a Milano. Mi ha chiesto il numero ma non glie l’ho dato.»

Non voglio dirti che da quando mi hai mollata ho chiavato tutto il mondo. Gli ho dato il numero, ci siamo visti e abbiamo scopato, altrimenti non avevo quella reazione a Jesolo e non avevo quell’incertezza alla parola “carino”. Sto mentendo e tu hai la sfortuna di non essere abbastanza stupido.

Non è vero.
O forse non vuoi che lo sia.

Sono cazzate.
Allora perché le è passato a fianco sapendo che lei avrebbe fatto finta di niente?

«Giò, perché non ci hai salutati? Capisco me, ma perché non hai salutato lui?»
Silenzio.

«Giò, la verità. Per favore, è importante. Questo non ci sta tanto con la testa, fa discorsi strani e c’ha giri anche peggio.»
«Te l’ha rotto lui il labbro?»
«No. Un buttafuori all’Avana.»
Ancora silenzio.

«Perché mi sono gelata. Siamo usciti insieme due settimane fa» sbuffa.
«…E?»
«E non ti riguarda.»
«PER. FAVORE.»
«Non è andata, l’ho scaricato e gli ho detto di non chiamarmi più. A metà serata volevo già andare via, mi metteva a disagio. Delle volte gli veniva uno sguardo da pazzo.»
«Gli hai parlato di me?»
Rumori.

«Giò, cosa gli hai detto?» dico, scavalcando la risposta.
«Le cose che si raccontano delle storie passate. Non sono stata gentile.»
«Gli hai detto cosa facevo, dove lavoravo?»

«Sì. Sì, glie l’ho detto. È stata una stronzata. Scusami.»
«Va bene. Ascoltami, sono a Bologna in un bar che pare una tomba romana con Alessio Seguso, quello che tu conosci come Luca Bosia, è un mio ex compagno di classe. Ci sono anche due tizie che studiano scienze politiche di nome Chantal e Nadia. Ti ricordi tutto?»
«Sì. Ma perché dovrei?»
«Perché perché perché. Perché magari dovrai dirlo a qualcuno. Ora vado.»
Chiudo il telefono.

Esco dal bagno, mi lavo la faccia, cerco di calmarmi. Son cinque minuti che sono qui dentro, non ho molto tempo. Mi guardo, faccio schifo. Non so cosa mi aspetti dietro quella porta. Non mi preoccupa quasi più, ora che so più o meno come sono andate le cose. Solo che le sensazioni dentro di me non si collegano con la realtà. Avrei potuto fargli mille domande mille volte e non l’ho fatto. Mi sono paralizzato come un animale quando gli spari la luce contro. Confuso, incredulo, spaventato. Eppure ho avuto paura altre volte, nella vita. Solo che questo è diverso. Mi esalta. Mi fa sentire bene sapere che là fuori esiste qualcuno come lui e una parte di me non vuole che si riveli essere una tra le mille storie come la mia, quelli che hanno un gruppo rap, vanno sulla rambla a Barcellona perché la morosa li ha mollati e si sentono cittadini del mondo. Non voglio scoprire che è solo un disturbato mentale con il sussidio d’invalidità e la madre che lo cerca. Non voglio l’ennesima risata amara su uno che si crede Dio spogliandosi dietro i giornalisti TV. No, non è il tizio seduto là fuori a farmi paura. Mi fa paura quello che vedo nello specchio.

E ora che le carte sono tutte sul tavolo mi chiedo chi dei due dovrò affrontare dietro quella porta.

«Nebo, stavamo perdendo le speranze» dice Ale vedendomi arrivare.
«E’ che pisciare diventa complesso quando sei infortunato.»
«Qui stanno per chiudere.»
«Bè, mostrami la roba per cui siamo venuti qui, Ale.»
Mi indica con la testa le ragazze dietro di lui: «Le molliamo?»
«Se vuoi puoi pagare da bere a tutti e magari sei più a tuo agio» sorrido.
«Già fatto.»
«Ma scherzi? Son due discreti pezzi di fica, eh.»
Tituba.

«A patto tu non sia un mitomane squilibrato, in quel caso sono testimoni scomodi, ammetto.»
Mò vediamo come risponde.
[continua]

"Le donne sono tutte puttane", disse un ciccione in uno strip bar di Praga

A dodici anni t’accorgi che ravanare le tue parti basse scaturisce sensazioni magiche. Il tuo primo orgasmo autoindotto è una rivelazione. Capisci che per raggiungere il nirvana ti è necessaria una femmina disposta a praticare quest’arcano rituale con te. Da quel momento in poi ogni maschio del pianeta trova il suo scopo: inserire il pene all’interno delle donne. Il momento più buio è immediatamente successivo, quando apprende che lo scopo delle femmine invece è conosciamoci, parlami un po’ di te, ti vesti sempre così?”.

Perché?
Perché dev’essere così difficile?

Perché devo ascoltare le sue idiozie, se si gira in un attimo in due secondi abbiamo finito. Perché film equosolidali indipendenti? Perché le amiche? Perché tollerare i vaniloqui di questa psicopatica? Gli scarafaggi hanno risolto il problema, si sono fatti crescere un pene perforante con cui trafiggono le femmine nel petto sborrandole nell’utero dall’ingresso secondario. Allora perché io sono in piedi davanti a Max Mara da venti minuti?

Certo, se guardassero il nostro pavimento con il luminol chiederebbero il bombardamento aereo. Se la banca del seme paga davvero 40 euro a donazione le nostre mutande valgono come una Maserati. Ci laviamo i denti pisciando nel lavandino. Da quando abbiamo internet nel cellulare ci si secca la merda addosso prima di alzarsi dal wc per pulirla.

Ci regalano un orologio che si ricarica col sole, muore.
Ci regalano un orologio che si ricarica col movimento del polso, esplode.

Una ci racconta in lacrime che a tredici anni l’hanno violentata e ci viene duro. La nostra barra dei preferiti contiene gli stessi link che hanno trovato nel PC di Bin Laden. Ammorbidente, prelavaggio, centrifuga, pare un film di Lynch. Se non c’è nessun nostro amico nei paraggi al sesto mojito c’inculeremmo ciccione, trans, cessi, tutto. Battere sul tempo lo sciacquone è un grande traguardo. Ci annusiamo il cerume. Per ammazzare un ragno devastiamo la stanza con il lanciafiamme Badedas decorando le pareti di fiammate, incendiando abat-jour e rendendola inagibile dal tanfo. Lasciamo i cadaveri per anni, il salotto pare il set di Predator. “Curare il nostro aspetto” significa raschiarci via le croste dagli occhi, collezionare salsicce di pelle morta e stabilire l’usabilità dei pantaloni annusando la zona pacco. Ridiamo come scimmie coglionando Schettino mentre su una nave c’è gente che affoga nel buio. Il nostro contributo al pianeta è condividere su facebook. Rubacchiamo dove e quando possiamo perché “c’è di peggio”. Abbiamo manie e fissazioni da autistici. Socialmente ci stanno tutti sui coglioni. Viviamo nella nostra città da vent’anni e non sappiamo quali locali sono aperti, su Skyrim sappiamo arrivare a Markarth senza guardare la mappa.  Siamo un branco di falliti autoproclamatisi geni incompresi che quando vedono gente di successo spruzzano invidia od ostentano indifferenza posticcia. Onanisti del disfattismo laureati in sovranalisi con master in insicurezza.

Perché Cristina del Basso non vuole darcela?

 

 

Perché non sono ricco, ecco perché.

 

Dopo questo impeccabile esame di realtà iniziamo a cercare fiche stellari interessate a quello che siamo davvero, ossia una distorta utopia che mescola Bruce Willis a Dalì e Neo. Dopotutto siamo maschi eterosessuali che hanno un mac e leggono Repubblica, Cristo. L’ideale sarebbe una tizia con il viso da modella, il corpo da pornodiva ma di scarsa esperienza, con noi troia insaziabile e con il mondo donna pudica e monogama, priva di carattere ma in grado di farci fare bella figura quando parla.

Purtroppo, tutte le donne che troviamo sono affette da gravi tare mentali. Una ha tendenze paranoidi. Un’altra ha 25 gatti. Un’altra si droga da tutta la vita. Un’altra si eccita solo a farsi massacrare di botte mentre la strangoli. La cosa fastidiosa è che nonostante siano dei catorci mentali si mettono a criticare noi. Noi, che le abbiamo salvate dalla dannazione.

Troie.
Finalmente in un lap dance troviamo Anna Strapovinia.

È perfetta. Linee, proporzioni, pelle, viso, ogni millimetro è impeccabile. Tette di gomma. Culo di marmo. Quando va a posarsi sulle ginocchia di tutti i maschi presenti noi non lo vediamo, impegnati come siamo a guardare lo spacco, il tacco, la bocca. Arriva da noi, ha la pelle che sembra velluto. E’ amore. Ci parliamo per ore offrendole da bere, si instaura tra noi quella specie di magia che è tipica degli innamorati. Ci perdiamo l’uno negli occhi dell’altra: nessuna donna ci aveva mai guardati così, e se non fosse per quello stronzo del gestore saremmo rimasti qui a parlare tutta la notte, come due vecchi amici. Si chiama Svetlana. Ai miei amici ha detto un altro nome, segno che con me è diverso. Le chiedo se possiamo rivederci. Mi dà il suo numero di cellulare. Esco, tutti i miei amici sono infoiati come draghi e trapanano culi moldavi in puttan tour, ma io no. Io voglio restare puro, immacolato. Lei è il mio solo pensiero.

Ci vediamo il giorno dopo.
E’ ancora più bella, senza quei vestiti volgari. Mentre totalizzo 300 euro tra cena di pesce e champagne lei mi racconta della sua famiglia. Una storia straziante, intensa, altro che le stronze viziate qui in Italia. Andiamo a casa ed il sesso è stupendo, i nostri corpi reagiscono all’unisono, come se lei sapesse perfettamente cosa fare. Lei gode tantissimo, dice che ha avuto addirittura 72 orgasmi. Siamo perfetti. E’ la donna della mia vita. La sposo tre mesi dopo.

Un anno dopo lei ha la mia casa, la mia macchina, i miei figli e metà del mio stipendio. Dormo sul divano di un mio amico e non posso avvicinarmi a più di 500 metri da lei perché una volta le ho dato una spinta.

C’è poco da fare: le donne sono tutte puttane.

Dio mi è apparso in sogno, e portava con sé una torta al limone.



Riso in bianco. Insalata. Pollo. Olio centellinato. Burro d’arachidi biologico. Tabelle d’allenamento, massimali, percentuali, ripetizioni negative, superserie, serie a circuiti, tempi di recupero, picchi d’insulina. E’ difficile spiegare perché mi sto sottoponendo a tutto questo, visto che la mia vita sessuale è anche troppo soddisfacente. 

La vita me l’ha cambiata il lavoro manuale.



Quando stavo in falegnameria o in cantiere avevo delle soddisfazioni enormi. Arrivavano i camion con la legna, la segavamo, piallavamo, inchiodavamo e voilà: una settimana dopo vedevi uscire cinquanta armadi. Li avevi fatti tu dal niente, li conoscevi chiodo per chiodo ed erano un tuo piccolo parto. Lavoravamo dalle sei di mattina alle cinque di pomeriggio. In base a dove t’avevano messo sapevi cosa ti aspettava: scarico camion e seghe? Spalle e schiena massacrati. Pialla, verniciatura e cambio aspiratori? Braccia intorpidite che per farti una sega dovevi alternarli. La pausa pranzo durava un’ora, dalle 12 alle 13. Era un momento speciale. Pieni di fame, tutti appoggiati dove capitava, ognuno tirava fuori quello che aveva e mangiavi ascoltando le cagate di qualcuno a turno. C’erano polvere e segatura dappertutto, l’odore della legna, dolciastro e penetrante, era onnipresente. Fumavo Lucky Strike solo per non sentirlo. Dopo sei ore di quell’odore il profumo del cibo ti mandava in fibrillazione. C’era Giovanni, un vecchio artigiano, che si portava la gamella di acciaio con le robe preparate dalla moglie. Le scaldava con l’accendino, un vecchio Zippo della Marina militare. Mario aveva i Tupperware con robe salutiste dopo essere sopravvissuto ad un cancro all’intestino. Alessandro era il fighetto di turno ed aveva una specie di corredo da pic nic con tanto di posate di plastica e bicchierino. Christian mangiava quattro merendine ed un cappuccino solubile. Dopo pranzo fumavamo MS senza filtro prendendo il sole fuori in cortile.   In autobus al ritorno mi addormentavo, c’era una vecchia che si era affezionata a furia di vedermi isterico perché avevo perso la fermata. Ogni giorno, per due anni, mi ha sgorlato il bavero della maglietta quando eravamo in vista di Mestre. Ringraziavo e uscivo. Non ho mai saputo il suo nome. Quando arrivavo a casa avevo imparato a cambiarmi ma a non fare la doccia, perché rilassava i muscoli e crollavo addormentato alle otto prima ancora di cenare.

Poi le cose sono cambiate.
Il lavoro è cambiato.

Meno ripetitivo, più creativo, più rilassante, più sporadico. Le spalle allo specchio si sono abbassate, hanno smesso di essere aggressive. Le braccia si sono sgonfiate. Le gambe che una volta spostavano travi hanno cominciato a diventare molli e pigre. Non mi piaceva l’andazzo che stavo prendendo, così ho provato a fare sport. A basket sono una sega. A calcio non ne parliamo, manco riesco a guardarlo in TV. A rugby, col Mirano, ho fatto due mesi e poi ho capito che non faceva per me. Così ho scoperto i pesi, la sola cosa che somigliava al mio vecchio lavoro; sollevi oggetti fino a sfinirti, torni a casa, fine.

La palestra è un mondo esilarante. Ha una fauna tutta sua che va dal colosso imbottito di steroidi all’ultimo dei topi da ufficio che ti supplica di dirgli come perdere 80 chili in quattro settimane. La donna truccata con orecchini che se suda va a rifarsi il trucco, le amiche che cazzeggiano in attesa del rimorchio, il personal trainer obeso che pontifica sui benefici degli integratori. A me non interessava. Entravo, sollevavo cose, uscivo. Solo che dopo tre anni e mezzo qualunque cosa un uomo faccia si eleva. L’esperienza si forma in tutte le cose, dal pornodivo al barman. La prima volta è un disastro, dopo tre anni sei un artista. Così pian piano mi ha preso. Ho trovato un senso in tutto quel sollevare, una specie di disciplina catartica che il mio corpo associa ancora al lavoro manuale. Ogni giorno è un piccolo passo in più nel tuo piccolo mondo immaginario. Un po’ come un nuovo livello nei videogiochi. Son cagate ma ti danno soddisfazione, quando ci riesci. Più il livello è avanzato, più i progressi sono difficili – a patto tu non scelga di usare i cheats.


Ora sto ad una mia piccola sfida personale.
Solo che per ottenerla devo tenere sotto controllo un tale numero di variabili che ho la testa impegnatissima. Non come quando giocavo a Gothic 2, ma molto vicino. Mi diverte mettere alla prova la mia autodisciplina, il mio istinto e la mia capacità di sopportazione. Sto imparando molto di me, dei meccanismi inconsci che ho e di come il cervello tenti costantemente di raccontarmi palle. A volte ci caschi e ricominci a fumare, a volte tieni duro e passi impassibile davanti ad una pasticceria veneziana durante il carnevale. Il bello di tutto questo è che, per riflesso, mi fa scoprire nuovi lati delle persone che ho attorno.

Avrei novità da raccontare, ma devo pesarmi le proteine.
Vi lascio con Alexis Amore.



Close enough







A 2000 metri di quota, a bordo di un C-130, una troupe sta facendo un servizio fotografico sull’aeronautica militare inglese. Il portellone posteriore è abbassato, tutti sono assicurati con cavi. Il fotografo parla per radio al pilota dell’EFA dicendogli che tipo di manovre fare. 









Per un’inquadratura domanda al pilota di avvicinarsi.

















– Di quanto?
– Quanto riesci – taglia corto il fotografo.



– Così è abbastanza? – domanda alla radio il pilota.

Capitolo 7 – Da questi silenzi qualcosa potrebbe nascere

La percezione è una delle qualità più rare e preziose un essere umano possa avere. Ogni secondo il cervello immagazzina tonnellate d’informazioni che degli impiegati scartano. Rumori, persone, luci, gesti, azioni vengono catalogate come secondarie e passano oltre.

La percezione è un impiegato in più nella catena di montaggio che è addetto a rovistare tra gli scarti.

Ha un ufficio tutto suo, viene interpellato di rado e si disinteressa di quello che avviene fuori dal suo cubicolo, ha altro da fare. Nonostante questo è l’unico dotato di un filo diretto con il vertice della catena di comando. Dice “so che può sembrare una cazzata, ma”. E’ quello che ci fa capire quando è il momento di baciarla, ci fa prevedere un incidente, ci fa togliere dalla porta del ristorante un attimo prima che esca il cameriere. Quando gli chiedono come ha fatto a capirlo lui scuote la testa frastornato: non ne ha idea, è solo quello che sa fare. La percezione in questo momento mi sta tempestando di telefonate, domandando con insistenza se qualcuno sa dove sono e con chi sono.

Però è probabile siano i postumi della mia prima tirata. O forse il dolore sordo che mi pulsa all’altezza del petto e mi toglie lucidità. Il dolore fisico è come le sigarette. La prima volta basta un colpo e ti annienta, la seconda volta ne servono due e così via. Nel rugby devi cominciare da piccolo per quello. Se inizi a trent’anni non importa quanto in forma sei, al primo placcaggio sei da codice rosso e sirene spiegate. Cerco di concentrarmi. E’ un mio vecchio compagno di classe, l’ho incontrato per caso in un bar dove lavoro – non è strano, per piazza Ferretto passa tutto il veneto prima o poi – poi per caso siamo andati a Jesolo, dove per caso abbiamo incontrato la Giada che per caso lo conosce. Può essere. Però le fatalità sono come le isole, togli l’acqua e sono tutte collegate. Ho l’impressione di star tralasciando qualcosa ma appena mi sistemo sul sedile una fitta di dolore resetta tutto.

«Chi non ha problemi con le donne, Ale?» chiedo «oh, scusa.»
«Di che?»
«No, che tu non hai…»
Scoppia a ridere: «Chiavo più di te, tranquillo»
«Dicevo quelle non a pagamento.»
«Le donne mica le pago per scopare, le pago per levarsi dai coglioni dopo!»
«Se sono come quelle due a Treviso ti costava meno comprare una catapulta.»

«Costano meno della tua. Te per un pompino quanto credi di spendere tra tempo, cene, aperitivi, benzina e regalini? Mica te la danno gratis. E poi è più divertente. Quello che vuoi, hai. Non c’è “nel culo no perché non mi piace”. Non c’è “non mi va”. Poi cosa c’è di più affascinante che vedere una persona contorcersi e dimenarsi per tre pezzi di carta? Sai che in Giappone ci sono mignotte che partoriscono a comando?»

«Eh?»

«Sì. Sai, restano incinte. Quando gli si rompono le acque si crea istantaneamente una specie di asta per chi vuole assistere… comodamente, diciamo – spiega alzando e abbassando il pugno – o partecipare in vari modi. C’è anche in tanti paesi dell’est. Del resto ci sono quelli che si eccitano immaginando di essere mangiati, questa mi sembra tranquilla»

«Mangiati?»

«E’ diffusissima. Non solo il vore, ti ricordi in Germania il tizio che ha messo un annuncio in Internet? Papale papale, cerco gente disposta a farsi mangiare, punto. Hanno risposto in centinaia. Lui ne ha scelto uno, si sono trovati, prima gli ha tagliato l’uccello e se lo sono mangiati insieme, poi l’ha accoppato e c’ha fatto colazione. Si chiamava Meiwes qualcosa. Armin Meiwes, mi pare»

«Non è vero»
«Lo è. Ed è bellissimo.»
«…cosa?»
«E’ bellissimo. E’ una bellissima dimostrazione di quello che la mente umana può concepire dal nulla. A volte sono i viaggi nello spazio, a volte sono il cannibalismo. Sono la stessa cosa. Tu credi che gli scienziati della NASA si facciano le seghe guardando porno? Cristo, come minimo obbligano la moglie ad incularseli con un dildo a forma di Shuttle. O vivi fuori dagli schemi o ci stai dentro, non esistono vie di mezzo. E’ quello il bello, che parte tutto da un’idea. La dici, poi la metti in pratica, poi ti abitui a farla, poi diventa una tua caratteristica che decide la tua vita. Diventiamo quello che pensiamo, Nebo. Oppure diventiamo quello che pensano gli altri.»

«Quindi dici che è meglio essere un cannibale di un barista.»

«Una non esclude l’altra. Si dice sempre “un tranquillo impiegato di banca” e poi salta fuori che hanno segato e seppellito prostitute per mezzo triveneto. Nessuno dei vicini di casa dei serial killer ha mai detto “si vedeva che era sbroccato, aveva la cresta rossa e le catene”. Macché. Brave persone tutte casa e lavoro, tipo Michele Profeta. E’ solo che la testa o sta nella scatola o non ci sta, non importa dove sia il corpo. Guarda là fuori, che vedi?»

Guardo dal finestrino. Buio. Campi. Meravigliose colline italiane, fertili e rigogliose. File e file di vigneti che nel sole dell’estate sono uno spettacolo per gli occhi e circondano piccoli paesini sperduti nel nulla, dove senza macchina uscire è impossibile.

«Campi e paesini.»
«Ecco. T’immagini vivere lì? Non c’è niente. Una chiesa e un’osteria. Internet non arriva. La TV funziona si e no, la corrente elettrica c’è arrivata solo nei primi anni ’70. Quando sei lì hai un sacco di silenzio attorno – e dentro. Da quei silenzi, qualcosa potrebbe nascere. Dalle brave persone non è mai uscito un cazzo di niente, sono la fine della catena alimentare. Un insieme di animali che si rispettano l’un l’altro perché sguazzano nella merda cagata da un dinosauro che non li capisce. Tra loro c’è chi fa il verso al dinosauro, chi lo venera, è irrilevante. O lo sei o non lo sei. Adolf Hitler si faceva pisciare addosso. Napoleone chiedeva espressamente a sua moglie di non lavarsi qualche settimana prima di arrivare a casa a scoparsela. Ghandi odiava i negri, si scopava ragazzine e adorava farsi inculare da un culturista. Ebreo. D’Annunzio poi manco ne parliamo. Le persone mediocri sono mediocri anche nei difetti.»

 

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Forse ho le allucinazioni.
Forse tutto questo è un delirio, in questo momento sono in pronto soccorso imbottito di antidolorifici che gorgoglio puttanate ad un’infermiera con le tette grosse ed un lavoro normale. Sarebbe bello. In realtà dentro di me c’è qualcosa di peggio, uno di quei sussurri che senti prima di addormentarti e soffochi nel cuscino perché domani devi alzarti presto. Domani devi slegare i tavolini del bar che la sera rimetterai a posto in questa bellissima estate dei miei vent’anni. L’università, l’aria, le cosce della Miriam, era tutto così bello prima di salire su questa macchina. Tutto aveva un senso, un luogo, un posto.

Tipo il mio premolare sinistro.

«Tu quando vai a letto con una donna credi di essere nudo?» domanda Ale.
«Stando alla mia esperienza, sì.»
«E invece no. Sei nudo quando dici chi sei, non quando ti levi un vestito. Sei nudo quando chiedi ad una puttana di chiamarti “papà”, non quando scopi a pecorina una stronza con cui parli di economia per far colpo. Per questo tanti divorziano. Puoi fingere di essere qualcosa che non sei solo per un periodo limitato di tempo, poi smetti e la persona che hai a fianco chiede

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E tu chi cazzo sei?

«E’ un circolo vizioso. Conosciamo le persone per i loro pregi. Sono belle, educate, ricche, intelligenti… tutte cazzate. Tutti i pregi si possono fingere, per un po’. I difetti invece sono genuini. I difetti ci dicono chi siamo.»

 

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Una voce nella mia testa inizia a dirmi che ascoltare quest’uomo, forse, è più pericoloso che fare un tiro di bamba o farsi pestare da dei buttafuori. Perché dentro di me sta succedendo qualcosa che non deve succedere per nessuna ragione al mondo.
Fitta.

«Ahoia» gemo.
«Che hai?»
«Mi fa male qui, punge.»
«T’han conciato bene. Dai, non pensarci.»
«Una parola.»
«Se il discorso non ti piace lasciamo stare, eh!»

Ecco, questa è una bella domanda.
Mi piace, questo discorso?

Bologna ci accoglie come tutte le città grandi italiane. Uno scorcio di periferia squallidina, un centro storico stupendo. Sono le quattro di notte, ma in giro è ancora pieno di macchine e studenti che sbraitano ubriachi. Molliamo la macchina in un parcheggio a pagamento, due piani di cemento armato sotto i pavé bolognesi. Fa un caldo umido soffocante. Scendo dalla macchina con un gemito, facciamo le scale ed usciamo. La mia camicia attira gli sguardi, ma la faccia e le ferite dissuadono dai commenti. Ale va sul sicuro e mi guida attraverso un dedalo di viuzze che per me hanno nomi incomprensibili. Bar, locali, volantini, bottiglie vuote, studenti sbronzi che si fanno canne per strada senza problemi. Mi piace, Bologna. Ora devo solo capire che ci faccio qui.

«Allorallorallora, il locale dovrebbe essere da queste parti. Cerca una specie di scultura romana piena di fica che esce con un bicchiere. No, petta, non serve. Eccolo lì!»

All’ingresso rimango incredulo. Sono nelle fogne romane. Anzi, in una cripta. Statue, pietre, candele, teschi e decine di stronzi che ci bevono tra luci viola e musica elettronica in sottofondo. Ale puntualmente sparisce, così mi siedo ad un tavolino ad aspettare. L’età media è la mia. Al tizio vestito di nero con grembiule dico una birra, che mi arriva insieme a mora&bionda vestite da studentesse giapponesi. Tra tutti, queste mi guardano più con curiosità che con orrore.

«Ehm, questo sarebbe il nostro tavolino» dice la mora indicando la sedia al mio fianco.
C’è una borsa.

«Scusami, non l’avevo vista» dico, alzandomi.
«Va tutto bene?» domanda lei, guardandomi incerta.
«Sì, ho solo litigato con un buttafuori. Non fidarti delle apparenze, vedessi come sono ridotte le sue nocche.»
L’altra sorride.

«La camicia invece l’ho presa a Jesolo perché il sangue spaventa i camerieri, solo che ora questa spaventa le ragazze.»
«Non è così tremenda…»
«Questa bugia vale un drink» dico «facciamo tu caipiroska e lei mojito.»
Si guardano, titubanti: «Ma sei qui da solo?»
«No» dice Ale, dietro «è male accompagnato. Non so se possiamo raccontare in giro quello che è successo stanotte, Nebo.»

All’esame visivo Ale sembra tanto una brava persona. Mora e bionda si siedono, io ordino da bere domandandomi se finiremo tutti e tre squartati da qualche parte. E indovina indovinello, non ci vado così distante.
[continua]