Appunti di lavoro



Giorno 1

Parto la mattina con una borsa per tre giorni. In stazione trovo un bosniaco che ride sbavando e mi improvvisa un monologo di denti fracassati e versi mostruosi. Sto iniziando a capire di che parla quando passa una tizia in minigonna e lui decide di dedicare le sue attenzioni alla vagina. Aiuto una vecchia a mettere la valigia sul freccia rossa, trovo il posto che l’azienda in questione mi ha prenotato, apro Moby Dick. Due ore e mezza dopo sono a Milano.


In stazione mi faccio largo tra la solita foresta di fiche stellari, piglio la metro e arrivo a Porta Genova. Mezzo chilometro di navigli a piedi e mi trovo con Ferrari e Minoggi. Un’ora dopo siamo sbronzi seduti sul marciapiede che farnetichiamo e beviamo Zacapa. Una bambina romena, tredici anni, si ferma a chiedermi soldi. Arriva la Beltramini con il suo loquace fidanzato. All’una siamo abbastanza schioppati da scavalcare un recinto assieme ad altri sconosciuti per fare il bagno nudi in una piscina, ma per motivi che non ricordo rinunciamo. A ripensarci, se in quegli stati avessi messo piede in acqua, non so cosa sarebbe successo. Arrivo a casa di Minoggi, gli vomito in uno dei tre lavandini che vedo, vorrei pulire ma sono troppi. Ne scelgo uno a caso – con difficoltà, perché i bastardi si muovono – e mi addormento. 










Giorno 2

Quattro ore dopo suona la sveglia, ho la lingua di carta assorbente e dai rubinetti non esce nulla.

– Han tagliato l’acqua per fare dei lavori – spiega il nostro.
Certo, ma io devo cagare.

Minoggi è così gentile da passarmi due Moment. Giriamo in macchina per una Milano ingorgata a causa dello sciopero dei mezzi pubblici, il sole è una coltellata ed io ho ancora problemi di equilibrio. Facciamo colazione in un bar che Minoggi dice “il migliore del quartiere”. Mangio due brioche e un latte macchiato. Da quel che sento i sapori, potrei aver appena mangiato pollo. O vongole. Arriviamo in studio, mi barrico in cesso e quello che esce dal mio corpo fa tremare i pilastri del cielo. Spossato dal parto fumo una sigaretta appoggiato all’androne. Una tizia passa con le borse della spesa.

– Buongiorno – mormora.
– No – replico.

Saluto tutti raccomandando di non entrare in bagno per la salvezza della loro anima, raggiungo l’angolo e prendo un taxi. Mentre salgo una donna con bambino chiede se possiamo salire insieme e fare a metà della corsa.

– No – replico.

25 euro di taxi dopo sono davanti alla sede della Mondadori a Segrate. Con l’andatura di uno zombie di Romero faccio il simpatico con il tizio all’ingresso sperando non si accorga delle mie precarie condizioni umane. Entro in redazione, ci ripenso, torno indietro e faccio una jam session intestinale nei bagni della Mondadori. Finirà. Questo inferno sulla terra, questa pestilenziale piaga, finirà. Già che ci sono mi dò una lavata in fretta, cambio la maglietta e mi presento in forma smagliante davanti al mio caposervizio. Mi spiega il da farsi, mi riempie di carte, mi dà una pacca sulla schiena e me ne vado. Uscito faccio un paio di telefonate a colleghi in sede per fare un po’ di pubbliche relazioni. Uno è stato licenziato ed è a casa con la figlia di 8 mesi, l’altro ha una camicia fatta su misura, due mocassini Prada, pantaloni Fay ed un SUV che pare un carroarmato. Dice che devo scusarlo ma non ha tempo, è di fretta, deve scappare.

Altri 25 euro dopo sono di nuovo in stazione.
Mi telefona quella della ditta, dice che il treno è prenotato e tutto il resto. Salgo a bordo del freccia argento, apro Moby Dick, chiudo gli occhi. Li riapro col capotreno che mi scuote, il vagone è deserto, sono le tre di pomeriggio e io sono a Roma. Grazie al telefonino trovo l’albergo, il Rasmussen o Rasmusson o qualcosa così. Uno di quegli alberghi per manager e rappresentanti con lo stile minimal chic, di solito una scusa per chiedere cifre oscene in cambio di camere orride e servizi pessimi. La tizia alla reception è più conciata di me. Non trova la prenotazione col mio nome, chiamo quella dell’azienda, lei dice di passargliela. Apparentemente la prenotazione è stata fatta a nome “Men’s health”. Quale individuo psicopatico prenota una stanza a nome “Men’s health” non lo so. La stanza puzza come una fogna ma, vivendo a Venezia, la cosa non mi tange. Per la terza volta bombardo le fogne romane con possenti peti e devastanti attacchi chimici sfogliando il catalogo dell’albergo, così scopro che al settimo piano c’è palestra, area wellness e piscina. Faccio una doccia, sistemo la borsa, metto in carica il cellulare, mi faccio una sega con la pubblicità di Intimissimi e dormo un’ora. 

Alle 21.00 c’è la cena con le ragazze dello staff e i colleghi al settimo piano. Arrivo alle 20.30 in polo e jeans, mi guardo attorno e c’è l’aperitivo con il free bar. Mangio l’impossibile – le cene di lavoro di solito sono nouvelle cuisine con porzioni terzomondiste – e con voce tremante oso un prosecco. Il cameriere versa, non succede niente così alle 20.45 sono al quarto prosecco e le cose sembrano avere un senso. Attorno a me la gente inneggia ad una certa Giulia. Mi squilla il cellulare, sono quelle dello staff che dicono di raggiungerle al tavolo. Siamo in quattro. Due dello staff, entrambe sulla trentina, la faccia di chi se gli dai l’uccello te lo ridanno quando torna il Voyager ed una vecchia pazza che è la collega e parla a sproposito con frasi che iniziano tutte con “io”.

– Io una volta ho conosciuto il marito di… come si chiamava… Puppini, Guido. Che poi era il fidanzato gay di Ezio Baricco, parente di secondo grado di… capite? Ecco, allora ero a questa riunione con… come si chiamava…

Oliar passere con questa prugna rinsecchita che recita l’elenco telefonico di Frigidlandia è complesso. Rinuncio, ascolto le straordinarie opportunità, le incredibili possibilità, le fantastiche occasioni che l’azienda mi ha dato, trangugio il pesce peggiore che abbia mai mangiato e lo affogo di Zacapa alla fine. Osservo con noncuranza la tizia firmare un conto di 331 euro. Se ne vanno, resto solo in piscina a finire il drink. Telefono alla Leo, fumo l’ennesima sigaretta e vado a dormire.











Giorno 3

L’iphone mi sveglia alle 9.30. La colazione in camera costa 21 euro e non ho voglia di addebitarla alla redazione, così mi doccio, vado di sopra e mi strafogo di tutto quello che ho a disposizione. Scendo, mi metto in costume, vado in palestra e faccio 45 minuti arrangiandomi con quello che trovo. La politica degli alberghi riguardo alle palestre è “i nostri clienti sono degli idioti e non è bene si uccidano sotto il nostro tetto”, così tutte le cose che possono facilitare il trapasso vengono rimosse. Niente panca piana, niente pesi seri, niente squat rack, niente barra per le trazioni: solo tapis roulant e manubri del peso massimo di 22 chili. Naturalmente non c’è nessuno. Terminato l’allenamento attraverso il settimo piano in costume tra gente in giacca e cravatta, sibilo “signori, buongiorno” e mi butto in acqua.

Alle 10.30 sono sulla terrazza del pincio, 34 gradi, che guardo questa buffa manifestazione. I tizi hanno dei fisici pazzeschi. Nonostante dopo 4 anni di palestra mi sia fatto l’occhio non riesco a capire se sono bombati o natural, in entrambi i casi sono perfetti. Guardo, inizio a prendere appunti, butto giù una bozza dell’articolo. Sono l’unico che fuma, e godo del sottile piacere che la faccia schifata dei presenti mi comunica ogni volta che gli arriva una refolata. Biribì, biribì, biribì, la tizia dello staff domanda dove sono. Ci troviamo, stiamo tutta la mattina a guardare queste statue greche che si fanno un culo così sotto il sole, pranziamo in un ristorante megachic assieme ad un ciccione con telecamera che se la tira manco fosse Ludlum, uno del Giornale che è simpatico ma sembra non sapere che ci fa qui, la vecchia pazza che da quando mi sono cambiato la maglietta mi tampina e quelle dello staff che sono stanche morte. Beviamo tutti acqua. Io, soprattutto.

Arriva il VIP da intervistare. Guardo pantaloni, occhi, rughe, indice e pollice della mano destra ed aggiungo due domande. I fotografi scattano, l’MC incita il pubblico che è annichilito dal caldo, finisce che da un quarto d’ora a testa per quattro giornalisti abbiamo un quarto d’ora in quattro.

Secondo me quando intervisti qualcuno il supporto con cui lo intervisti incide moltissimo. La carta è deleteria. Non c’è niente di peggio che avere in mano carta e penna, leggere la domanda e scrivere con lui che parla alle farfalle. Anche se t’impari a memoria le domande – cosa obbligatoria che non fa mai nessuno – o le improvvisi, interrompere il contatto visivo è maleducazione e tende ad allontanare umanamente il soggetto. Il registratore è già meglio, se hai imparato le domande, ma quel cazzo di coso nero puntato alla bocca somiglia ad una pistola e può intimidire, oltre a dar luogo a sceneggiate patetiche. C’è quello che vuole prenderlo in mano. Quello che sta troppo distante. Il giornalista che tra un po’ glielo ficca in bocca.

La soluzione ideale che ho trovato io è l’iphone. Nessuno bada ad un telefono sul tavolo. Lo fanno tutti, nei bar, a casa di amici, a cena con la donna. Tutti mettono il telefono sul tavolo, tenerlo in tasca è fastidioso. Quindi tu lo metti in mezzo, attivi la registrazione vocale e parti. Sembra una chiacchierata (ma non lo è e lui lo sa), però toglie tutti i problemi e ti permette di guardarlo negli occhi. Non che queste cose le abbia studiate, chiariamo, son idee personali. Però ho visto che funzionano. 

Decido un approccio aggressivo, perché il tizio è troppo tranquillo e rilassato.

– Ciao, sono Nebo, di MH.
– Ciao Nebo.
– Prima di tutto: la cina sta aumentando la propria presenza militare nel Pacifico, la nuova manovra salva stati sembra non influire sullo spread, l’Italia ha un tasso di disoccupazione crescente, il nostro governo ha rafforzato la presenza di carabinieri in Libano e tu sei qui che spingi copertoni in vista delle olimpiadi. Come reggi la tensione?

Mi guarda confuso. I colleghi sono congelati. Con la vista periferica noto il suo addetto stampa che guarda gli altri terrorizzato. Le ragazze dello staff hanno la morte in viso.

– Bè…
– Sì?
– Sono molto contento di essere qui e di avere avuto questa splendida occasione, credo… credo lo sport…
Annuisco.

– …lo sport sia un modo per, per dimostrare… ma cosa c’entrano i carabinieri?
– Niente, contestualizzavo.
– Che facevi?
– Altra domanda: cosa pensi di questa disciplina?

Ora è terrorizzato al punto giusto, so che ha poco senso dell’umorismo ma che ha discrete capacità d’improvvisazione, non è colto ma è simpatico e, nel suo, intelligente. L’intervista prosegue senza intoppi, così riesce a rilassarsi. Si mette a suo agio quando scopre che so il nome di sua morosa e del cane, rimane abbastanza confuso dalla mancanza di interrogativi sul suo sport o sul suo mondo. Siamo a 10 minuti, è ora di dargli un’altra ravanata.

– Schwarzenegger quando ha vinto mister Olympia s’è fatto riprendere che fumava una canna sul divano. Phelp s’è fatto fotografare da un suo amico mentre era a letto con due donne nude che fumava un bong. Parlando d’altro, tu come hai festeggiato la volta che hai vinto?

Lo guardo. L’occhio prima è vacuo, poi s’illumina, poi si sgrana, poi sorride ed immediatamente ritorna a posto.





– No, bè, io non faccio quelle cose, non sono assolutamente contrario ma per me non va bene, sono uno sportivo.
– Certo.
– Poi ti dico, a volte ci starebbe appizzarsi una bomba, ma… – mima con le mani.
– IL NOSTRO TEMPO E’ SCADUTO – dice l’addetto stampa, pallido.
Chiudo.


Saluto tutti, scambio numeri di telefono, prendo un taxi con la vecchia pazza e partiamo per la stazione io, lei per l’albergo perché c’ha lasciato la borsa. Roma è intasata da uno sciopero e contemporaneamente dal gay pride. La babbiona premette che lei viene da una famiglia di anarchici e che suo nonno è stato disertore durante la seconda guerra mondiale, quindi è di vedute aperte, ma lei i froci proprio non li capisce. Il taxi rinuncia, ci molla a 400 metri dalla stazione perché più avanti non può andare. Scendiamo, prendo una birra ad un chiosco ed un panino mentre accompagno la pazza verso la stazione.

– Io proprio non capisco, Nebo. Già uno è gay, perché deve fare queste cose? Intasare il traffico così, poi… ecco! GUARDA!

E io guardo.
Vedo una camionata di lesbiche, gay, travoni che attraversano Roma con musica assordante, tette di silicone, culi rifatti, tette vere e pitturate, fiori, arcobaleni, dildi enormi e strapon viola attaccati al bacino di una mulatta bella come una dea. Due bionde su un tandem col cappello di paglia, la gonna a fiori, un sorriso inaudito. Due uomini pelosi e seminudi che limonano per la gioia dei fotografi. Trans alti due metri. Una Citroen anni ’70 dipinta con dentro la palla da discoteca, la bicicletta rosa, cani di pelouche, il bagagliaio aperto che vomita milioni di bolle di sapone che s’infrangono sull’uniforme della carabiniera che chiude la fila con un sorriso malcelato. 






Dietro, una sola camionetta coi finestrini aperti.

– Ma tu cosa ne pensi? – domanda.

Passa un autobus vecchio stile, a bordo, con la porta aperta, un travone urla “ripetete con me: siamo tutti u-gua-li! Ripet… VIENI, FRATELLO, VIENI! SALI!”

Perché io ho guardato la babbiona, ho lanciato la birra e sono corso a bordo del pullman tra ali di folla festante. Accolto come un figliol prodigo, salgo, lancio le braccia in alto e grido “YAAAAH!”, loro rispondono “YEEEH!”, finisco a petto nudo a ballare Immanuel Casto bevendo vodka a sbafo. Cinquecento metri dopo scendo tra i saluti, rifaccio la strada, entro in stazione Termini. Ho una fame atroce, mangio un hamburger al Roadhouse – nsomma – e prendo il freccia argento. Arrivo a Venezia alle 23.30 dopo un viaggio di 4 ore. Vorrei dormire, ma il cellulare suona e il Dining room aspetta con la Lightfoot, lo Zacapa ed il mio migliore amico. 

Arrivo a casa alle 2.30.