Via Piave, Mestre

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«Hai zigaretti?»
«No» dico.
«No?!» sbotta alzando la voce.
Sbuffa e si dedica ad una coppia di turisti alla biglietteria automatica.

«Dai me euro, por favor?»
«Sorry, what?»
«Dai me euro, dai?»

Esci dalla stazione, attraversi la strada e sei sotto il portico del Plaza, uno scannatoio per turisti che di recente s’è inventato un Lounge bar. Serve roba surgelata e succhi del Lidl a prezzi da guida Michelin. Oltrepassi botteghe di cinesi tra magrebini già ubriachi alle quattro di pomeriggio, ragazzi di età indefinibile che ti studiano come se fossero condor in attesa di una sigaretta, spicci, o commissioni di fumo. Arrivi di fianco ai giardini di via Sernaglia, 180 metri di fango ed erba con qualche panchina, territorio esclusivo di gente dell’est. Alcuni stan seduti sulle panchine a bere birra e vino in cartone, hanno il cappello a visiera corta, maglietta senza maniche, pantaloni dell’Adidas e sandali. Gli zingari di solito sono due ciccioni con la barba lunga, tre o quattro uomini male in arnese che campano strappando di mano le valigie alle donne in stazione e pretendendo una mancia per avergliele portate. A loro si aggiunge una mezza dozzina di ragazze vestite di stracci che rovistano nella spazzatura.

Alcune sarebbero bellissime, ma hanno sedici anni e riesci già a vedere come saranno da vecchie.

All’incrocio di via Sernaglia vedi il bar che la polizia ha fatto chiudere per spaccio, ora attivo più che mai. Internet point popolati da gente del bangladesh, sguardi curiosi che si distolgono in fretta. Nelle laterali trovi centri massaggi thailandesi che un giorno hanno il sigillo della polizia e quello dopo dei Carabinieri. Le donne che ci girano sono asiatiche minute, curatissime e vestite come pornodive. In queste strade, mi ha spiegato un tizio, puoi trovare di tutto: prostituzione minorile, eroina, ricette fasulle, documenti falsificati, sigarette di contrabbando, manodopera per lavori che non troveresti sugli annunci, persino armi da fuoco.

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Kebabbari con le scritte arcobaleno bruciate dal sole, la puzza di carne fritta che ti si attacca alle narici, le televisioni senza audio e la radio che gracchia sitar e gnaulii incomprensibili. Quelli dietro al bancone hanno barbe folte, fisici burrosi e flaccidi dentro magliette cinesi da cui spuntano peli e chiazze di sudore. Ti fissano studiandoti da quando entri a quando esci dal loro campo visivo. Col caldo i cassonetti mandano un puzzo ripugnante che l’afa rende stantìa e ti insegue per dieci metri. I pochi autoctoni rimasti sono vecchi in sandali, calzini bianchi, bermuda e giacca da pescatore che bazzicano intorno ai pochi bar gestiti da italiani.

Entro in un paio spacciandomi per turista inglese. In entrambi un caffè un euro e cinquanta, nessuno scontrino. Qui e lì botteghe di chincaglieria finto veneziana, televisori a tubo catodico, radio, cellulari del secolo scorso, lettori CD, gondoline di plastica al 350% del prezzo reale e orologi contraffatti.

Le italiane che vivono qui hanno tutte dai cinquant’anni in su. Quando ti vengono incontro sul marciapiede fanno un mezzo sorriso ma non osano alzare gli occhi, con l’andatura affrettata e impacciata di chi ha passato il punto di non ritorno sulla carta d’identità ma ancora sogna arrivi il principe azzurro a tirarle fuori dalle loro cucine in finto marmo e copridivani lisi. Le guardi, occhi scialbi dietro gli occhiali, l’aria confusa come cani randagi a caccia di uomini a cui far finta di essere legati per qualche metro.

Dall’angolo sbuca uno scooter con sopra un tunisino, ha i capelli grondanti gel, gli occhiali da truzzo e l’immancabile cicciona bianca seduta dietro. Altri negozi di cinesi gridano “promozione”, “sconti”, “moda” ed hanno tutti la stessa roba; felpe e magliette che se indossi per più di cinque minuti nuoti nel sudore e ti irritano la pelle. La chiesa di via Permuda, mattoni a vista su un pavè ben disegnato, è la cattedrale dove i vecchi fanno le serali di buona condotta in vista dell’esame con San Pietro. Pizze al trancio surgelate e lavatrici pubbliche profumano l’aria tra condomini grigi ed anonimi, residuati della vecchia edilizia anni ’70. Tutto attorno è un giardino di VENDESI, FITTASI, CEDESI.

Un’oasi popolata da ventenni e trentenni è Galliano’s, un piccolo bar gestito da un vecchio che negli anni ’80 era discretamente famoso nell’ambiente gay. Il locale saranno sette metri quadri tutti ricoperti di foto che lo ritraggono assieme a personaggi famosi. Ci entri e sembra di visitare il vittoriale sotto acido. Di pomeriggio fa gelati in coppa, la sera migliaia di spritz per una cinquantina di ventenni hipster che non ho idea da dove vengano.

Passi l’Adecco e affianchi la vecchia caserma della Guardia di finanza. Sui muri sono depositati strati e strati di cartelloni strappati e reincollati che pubblicizzano eventi, concerti, manifestazioni. Quasi tutti gridano no, niente, basta, stop, via. Non importa a cosa. La gente che passa li ignora anche perché la stragrande maggioranza non capisce la lingua. Qui i quartieri si sono decomposti su sé stessi lasciando ogni tanto case di un’epoca che non esiste più a spuntare nel marciume senza un ordine preciso. Casupole a due piani anni ’50 tenute alla perfezione, castelli delle fiabe spuntati come verruche e restaurati nella vana speranza qualcuno sia tanto idiota da comprare una bomboniera senza vedere il porcile che ha attorno. Di solito i padroni hanno sessant’anni e ancora credono il mattone sia destinato a salire. Quando crepano i figli si affrettano a svendere, non ci riescono e il castello diventa Eroinoland in meno di un anno.

Alla fine arrivi alla fontana di Aricò, un obrobrio che tutti i mestrini detestano: figure distorte e verdognole di contadini ed operai che ogni tanto grondano sudore su vecchi marmi rovinati dalla ruggine.

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Orde di africane seminude ci camminano sopra a piedi scalzi cercando refrigerio prima che arrivi la sera, quando andranno in stazione a prendere il treno e prostituirsi a Verona o Vicenza coi reggiseni imbottiti di carta igienica marca FS.
Invio mail.

 

 

 

 

Driiiin.
«Ciao Mauri, piaciuto il pezzo?»
«Mi prendi per il culo?»
«Ahia»
«Dovevi farmi il pezzo sull’inaugurazione della fontana, CHE CAZZO E’ STA ROBA???»
«Ho pensato fosse più…»
«TU NON DEVI PENSARE, PORCA PUTTANA, ti sei bevuto il cervello?!? Poi tutta la parte sugli stranieri, le pistole, come cazzo le sai ‘ste cose?»
«Ho un amico in polizia, me l’ha raccontato lui»

«MA NON PUOI SCRIVERLO, IDIOTA! Metti solo lo stretto indispensabile, ok? E cose belle. Via Piave e la fontana sono la prima cosa che i turisti vedono quando scendono in stazione, se leggono ‘sta roba manco arrivano in piazza Ferretto. E più breve, per Dio, PIU’ BREVE»

«Maurì, ma se scriviamo ‘ste menate chi vuoi che se ne freghi?»
«Fammi capire, Nebo: tu sei un diplomato che fino ad un anno fa segava legna a Gaggio di Marcon, mi stai insegnando a fare il mio mestiere?»

«Hai ragione. Scusami»
«Va bene. Mi fai ‘sta inaugurazione o la faccio io?»
«Arriva»
«Bravo»

 

“Si è svolta questa mattina alla presenza, tra gli altri, del vicesindaco Sandro Simionato, dell’assessore comunale alle Attività culturali e Toponomastica, Tiziana Agostani, del presidente della Municipalità di Mestre Carpenedo, Massimo Venturini, la cerimonia di riconsegna alla città della fontana di via Piave. L’opera dell’artista Gianni Aricò è stata ripristinata sia nella sua funzionalità che nel suo aspetto esterno, dopo essere rimasta in disuso per alcuni anni. L’intervento è stato eseguito da Veritas grazie alla sensibilità della famiglia Tura, gestore dell’Hotel Bologna, in occasione dei suoi cento anni di attività.

Soddisfazione per il ripristino della fontana è stata espressa dalle autorità presenti, concordi nell’affermare non solo il valore artistico dell’opera, ma anche l’importanza dell’ennesimo intervento di riqualificazione e di crescita di via Piave, in quanto luogo centrale per lo sviluppo della Mestre del futuro. Determinante – hanno ribadito assessori e presidente – il ruolo svolto dai cittadini, protagonisti attivi della trasformazione e valorizzazione della loro città”.

Driiin.
«Come andava?»
«Questo va bene. Rimani su ‘ste righe, per favore»
Era il 2004.

 

 

 

 

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Questo invece era il 2011.