Capitolo 9 – La fine

[06. Presagio]- [07. Da questi silenzi] – [08. Punto di rottura]

Poche cose comunicano “levatevi dai marroni” come le luci del banco che si spengono assieme alla musica. Appena fuori dal locale ci piomba in testa il caldo soffocante di una Bologna svuotata. Somiglia al paese dei balocchi dopo mezzanotte: rimaniamo noi quattro, pochi ubriachi ed una pattuglia che passa con il braccio fuori dal finestrino senza degnarci di uno sguardo.

«Mi sa che s’è fatto tardi» suggerisce Nadia all’amica.
«Vi accompagnamo, dove state?»
«Uhm, non serve»
«Abbiamo la macchina, se siete lontane» insisto.

L’idea di prendere un autobus alle quattro e mezza di mattina, a Bologna, non è il massimo. Acconsentono con malcelato disagio, penso preoccupate dal momento in cui partirà il ballo del “grazie ma non entrate a scoparci, addio”.

«Siamo subito fuori dalle mura»
«E’ lontano?»
«Un po’» ammette Chantal «dove avete l’auto?»
«In un parcheggio privato qui vicino, son due passi»
Acconsentono.

Ale s’è fatto taciturno, così i nostri passi sul pavè suonano amplificati come cannonate. Dovrei sforzarmi di tenere un po’ alto l’umore, ma ridotto come sono non mi viene in mente niente da dire e non ho idea cosa ci aspetti, quindi sono teso. Per fortuna Chantal farnetica cazzate su un suo amico e crea un piacevole sottofondo. Attraversiamo portici, un costante cielo di pietra sopra la testa che complice l’afa aumenta l’idea di claustrofobia. Giriamo l’angolo per il vicolo da cui siamo venuti e vediamo alla fine un furgone in doppia fila da cui due tizi scaricano casse. Sono due cinesi, vanno e vengono senza dire una parola. La camminata è lunga, fino a loro, così ho il tempo di studiare gli intervalli. Stanno dentro il negozio per un minuto e mezzo abbondante. Ale fa per passare dall’altra parte del marciapiede, ma io son curioso e vado dritto.

«Nebo, resta in compagnia» fa Ale.
Lo ignoro.

Quando arrivo i due sono appena rientrati. Mi fermo a guardare gli scatoloni, la solita straccivendoleria di jeans truzzi. Nel furgone non c’è nessuno. Chantal, Nadia e Ale rallentano. Mi guardo attorno; Bologna è diventata un cimitero, poca luce e nessuno in giro. I miei pantaloni fanno schifo, rotti su due punti all’altezza della coscia e macchioline dei miei globuli rossi ormai ossidati e marroni. Da dentro il negozio provengono rumori di cartoni tagliati. Ci penso un secondo, poi allungo le mani e afferro il primo paio di jeans che mi capita, un rotolo tra i rotoli tenuti con lo spago. Faccio tre passi svelti e raggiungo il gruppo.

«Cos’è quella roba?» fa Chantal.
«Ehm, un paio di pantaloni di scorta, non so se noti come sono presi i miei»
Le ragazze scoppiano a ridere. Ale si gira, gli occhi conficcati nei miei: «Come “pantaloni di scorta”?»
«Dopo la camicia hawaiana a Jesolo mi viene facile»
E’ bloccato. Guarda alle mie spalle, rimette gli occhi nei miei: «Li hai presi da quelli?»
«Ssssì, magari se non ti metti a urlare e ce ne andiamo»
«MA SEI COGLIONE?» sibila a denti stretti, strappandomeli di mano.

Sono confuso.
Le ragazze ammutoliscono.

«Ale, son due jeans da cinesi, varranno sì e no due euro» dico, cercando di prenderglieli.

Dò un primo strattone, ma lui non molla. Alzo gli occhi su di lui e come per incanto monto i pezzi. La botta di alcool, ematomi, dolore, ricordi, down da bamba, scompaiono. Scompaiono le ragazze. Scompare Bologna. Scompare la Gioia e scompare la Miriam. Ogni pelo del mio corpo si drizza, la percezione telefona al cervello latrando, il cuore spara tutta l’adrenalina che ha a disposizione ed in quella piccola frazione di secondo realizzo che ho fatto una cosa talmente idiota, talmente stupida, da essere impensabile. Bulgari. Una settimana lì davanti. Il nome falso. Treviso. Il gestore Tony M, figlio di quel M., col negozio in piazza Ferretto. Il pacchetto di sigarette. Jesolo, poi subito Bologna, il locale esattamente all’angolo, la chiacchierata col gestore e “la cosa che doveva farmi vedere” ce l’ho sbadatamente in mano.

Pesa troppo.
Un po’, non tantissimo, ma abbastanza da non essere solo un paio di jeans.

Riesco solo a dire una parola, che ricordo dentro di me come un guaito strozzato: «Bulgari?»

Ale pallido mi strappa di mano i jeans, si gira verso due tizi sbucati dall’angolo che ci stanno correndo incontro, quando le ragazze fanno la cosa più ovvia: gridano e scappano. Alessio grida qualcosa con le mani in alto. I due sono uomini sulla quarantina, cinesissimi, vestiti della loro roba, con una combinazione di occhi e corsa che non avevo mai visto in un uomo, prima. A cinque metri Ale sta ancora parlando quando uno dei due tira fuori un coltello. Ci giriamo sui tacchi e scattiamo appena in tempo prima che ci prendano. Butto per terra i jeans e corro con tutta la forza che ho. Le ragazze e Ale corrono con me. Una perde le scarpe. Della corsa mi ricordo il senso di disperazione, di terrore assoluto nel trovarmi in un luogo sconosciuto, ostile, inseguito da gente che mi vuole fare la pelle per davvero. Non botte, morte. Quella con i medici che ti si accalcano sopra e tu che non senti niente, con la bara e i parenti in lacrime, l’articolo sul Gazzettino e i commenti sotto.

Quella.

Una urla “aiuto”. Nello scatto la differenza di anni ci dà un vantaggio di qualche metro. Cinque, poi dieci, ma stanno sempre lì dietro. Attraversiamo un marciapiede e corriamo giù per il parcheggio aspettandoci di trovare il guardiano, ma non c’è. La cabinetta è vuota. Illuminata, col televisore e le telecamere, ma nessuno dentro. Facciamo la discesa con quelli dietro che gridano nella loro lingua, con la coda dell’occhio ne conto quattro. Il secondo livello ha una macchina che sta partendo, le corriamo incontro ma quello dentro appena vede spuntare Chinatown alle nostre spalle ci schiva e accelera. C’è una porta antincendio. Si apre al primo colpo. Entriamo, chiudiamo e teniamo ferma la maniglia. Due secondi dopo arrivano strattoni forti e ripetuti. Le ragazze piangono, Chantal è in crisi isterica, io tremo come una foglia. Nessuno dice niente. Aspettiamo. Ogni tanto qualcuno dà un altro strattone, a cui seguono strilli delle ragazze. Dopo minuti che sembrano un’eternità gli strattoni cessano.

Sto fermo immobile, con le orecchie attente.
Sono fuori che parlano.

«COSA VOLETE?» urla Nadia «ANDATE VIA!»
«CHING CHONG WANG DENG POTATO»

Dall’esterno, qualcuno tira un pugno alla porta.
Silenzio: «Dì, era questo che volevi mostrarmi?» chiedo «guardami»

Si gira, trasognato. Mi fissa un attimo, fa scorrere gli occhi su di me, torna a girarsi.

«Te quelli li conosci, vero?»
«Io? No!»
«EH, NO»
Da fuori provengono rumori incomprensibili.

«La mano, Nebo» fa lui.
«Che mano?»
«La tua. Perdi sangue.»

Guardo.
Oh, ma dai.

Ho l’avambraccio destro completamente coperto di sangue. I miei mi hanno insegnato che non importa quanto sembra brutta una ferita, finché non è pulita. Ingoio il panico, indago. E’ un taglio lungo, verticale, che attraversa le vene per lungo. Esce piano, rosso intenso. Se era un minimo più profondo ero fottuto. Inizio a chiedermi quando e come me lo sono fatto, poi ripenso a come sono iniziate le cose. Il primo Bruce Lee mi ha quasi preso. Cerco di non pensarci e mi concentro. Dovrei pulirla, disinfettarla e fasciarla. Mi guardo attorno, ci sono solo moci, stracci e ciarpame. Non è il caso di pulire una ferita con stracci luridi. Mi ciuccio lo spazio tra il pollice e l’indice della mano sinistra, lo tendo e lo faccio scorrere piano sulla ferita. Per un attimo non succede niente, poi il sangue ricomincia ad uscire. Chiedo alle ragazze se hanno dei fazzoletti, una mi allunga un Kleenex. Ce lo premo contro. Guardo sperando le macchie di sangue non arrivino all’ultimo strato. Una macchiolina, due, due e mezzo. Ok, non è profondo. Sto con la mano premuta contro il braccio, in attesa. Le ragazze si ripigliano un po’, provano i cellulari. Niente. Ale fa lo stesso, poi io, con il medesimo risultato. Non c’è compagnia telefonica che tenga sotto il cemento armato.

Ale appoggia l’orecchio alla porta.
Provo io. Niente, nemmeno un fruscio.

«Forse sono andati via» dico.
«Forse.»
«Proviamo ad aprire?»
«NO!» urla Nadia, scattando in piedi «NON APRITE!»
«Solo una fessura per vedere!»
«E se ci stanno aspettando?!»
«Non è detto che sappiano che questo è uno sgabuzzino» fa Ale «magari credono che abbiamo chiuso una porta e siamo scappati via da un’altra.»
Il discorso fila.

«Che alternative abbiamo? Restiamo chiusi qui dentro?»
«Arriverà qualcuno, siamo in centro Bologna. Poi che abbiamo da perdere?»
«Non so, Ale… tutto?» dico.
«Tipo? Che ha di tanto importante la tua vita, Nebo?»
Oh Cristo.

«ME L’HA FATTA LA MIA MAMMA E CI TENGO, VA BENE, FLIPPATO DI MERDA?»
«Ok, ok, aspettiamo» fa spallucce Ale.

Guardo l’ora. Le quattro e un quarto.
Quando la riguardo sono le quattro e mezza.

«Sono andati via, dai» dice Ale.

Anche l’adrenalina ha lasciato il posto ad una specie di incubo claustrofobico. Non ci sono parole adatte per spiegare cosa si prova ad essere blindati dentro un sotterraneo con il terrore qualcuno sbuchi e ti accoltelli. Mi sento come se qualcuno mi avesse catapultato in terza media, quando la professoressa d’italiano spiegava il minotauro nel labirinto. Stranamente siamo tutti apatici, quasi assenti. Quando c’è troppa tensione per troppo tempo la gente tende ad astrarsi dal contesto, come se non fosse davvero lì. Le ragazze parlottano tra di loro, stringendo il cellulare come se fosse un crocifisso. Prendo uno scopettone a mò di arma e mi sistemo dietro di lui. So che è ridicolo, ma non ho idee migliori. Ale mette la mano sulla maniglia e si volta a guardarmi. Le ragazze trattengono il fiato. Annuisco e sposto lo sguardo verso la porta. Che non si apre.

«…mbè?» dico.
«Ci sto provando» fa lui «è bloccata»

Provo io. La maniglia non scende di un millimetro. Rompo gli indugi e dò una spallata. Tutti gli ematomi che ho in corpo urlano all’unisono, facendomi quasi svenire dal male. Caccio un gemito.

«CI HANNO CHIUSI DENTRO?!» sbotta Nadia.
«Meglio, meglio, tranquilla» dico.
«COME MEGLIO?!»
«Per me è arrivato qualcuno e son telati. Oppure davvero hanno pensato ci fosse un’altra uscita. L’unica cosa che conta è che non c’è più nessuno. Siamo in un parcheggio, no? Prima o poi passa qualcuno, facciamo casino e ci aprono»
«IO VOGLIO USCIRE ADESSO! APRITE LA PORTA!»
«ZITTI!» fa Ale.

Diventiamo tre statue di sale. Fuori sentiamo il motore di una macchina che passa e parcheggia in fondo. Sempre in silenzio, aspettiamo. Il motore si spegne. Pausa eterna, poi una portiera si apre. Altra pausa eterna, poi si richiude.

«Sono loro?»
«Dopo un’ora che stiamo qui? Non credo»
«Se hanno chiamato gli amici?»
«Aridagli. E’ un parcheggio, mica un quartiere del Bronx»
«A che ora apre?»
«E’ sempre aperto»

Aspettiamo. La gente fuori si avvicina. Si fermano davanti allo sgabuzzino. Sento le gocce di sudore che mi scivolano giù per la schiena. Da fuori si sente uno schiocco, poi la porta si apre di scatto. Le ragazze urlano. Io urlo alzando d’istinto lo scopettone che disintegra la lampada al neon facendomi piovere vetri e scintille sulla testa. Ale cade all’indietro.

 

 

 

 

L’Arma dei carabinieri è così chiamata perché è la prima arma dello Stato.

In realtà si dovrebbe dire “l’arma degli Alpini”, “l’arma dei bersaglieri”, “l’arma dei lagunari” e così via. L’Arma è la prima perché è più vecchia dell’Italia stessa. In questo caso il rappresentante dell’Arma è un brigadiere quarantenne, accento barese, pancia prominente, cappello malmesso ed ascella pezzata che con occhio sbarrato e voce imperiosa domanda cosa cazzo stiamo facendo. L’altro è un appuntato scelto sulla trentina che dopo un’occhiata capisce che non dovranno sparare e dedica la sua attenzione a quello che fino a prima aveva bloccato la porta: un bancale.

In pratica i chinaboys ci avevano inseguito per insegnarci il segreto delle katane, sì, ma forse avevano già pensato di desistere quando siamo entrati nel parcheggio. Quando ci siamo barricati hanno capito che serviva troppo tempo e han lasciato perdere, o forse hanno pensato davvero fossimo scappati da un’altra uscita ed hanno bloccato la porta per evitare tornassimo indietro. Non lo so. Il bancale l’han preso dall’angolo dove sono ammassati mattoni e attrezzi per una qualche ristrutturazione.

Mentre tutto questo accadeva il portiere del parcheggio è tornato al suo posto e s’è trovato sugli schermi delle telecamere una specie di assalto medioevale, così ha chiamato il 112. Al loro arrivo di Feng Dong e famiglia non c’era più traccia.

La benemerita prima domanda se ci serve un’ambulanza, poi prende i documenti e domanda cos’è successo. Quando spieghiamo l’accaduto chiamano un’altra auto e ci portano in caserma dove ascoltano tutta la storia fino alle sette e un quarto di mattina dopo avermi offerto un ettolitro d’acqua ed una sigaretta. Chiedono se i lividi me li hanno procurati gli aggressori. Dico di no. Ale è una specie di imprenditore professionale e tranquillo che spiega punto per punto l’accaduto, evitando di menzionare che tutto è partito dal mio furto. Le ragazze non so se siano più spaventate o stravolte, ma confermano qualunque cosa intramezzando la deposizione con decine di “ora perfavore possiamo andare a casa”.

Quando se ne vanno non ci guardano né salutano. La versione finale, riletta e firmata alle sette e trentasei di mattina, in una città come Bologna barcolla ma sta in piedi. Strette di mano, frasi di circostanza, tanti saluti.

Quando usciamo dalla caserma il sole è già alto. Le strade sono piene di scooter, autobus, macchine e studenti che ciondolano tra biciclette e bar. Il caldo e l’umidità sono opprimenti, ma il mio corpo ormai è entrato in quella fase di torpore dove dolore, carenza di sonno, caldo, disidratazione e fame sono un pulsare sordo. Ale si accende una sigaretta.

«Quando sei andato in bagno hai telefonato alla Gioia, vero?» chiede.
Annuisco. Stiamo zitti a guardare il traffico.

«Perché?» domanda.
«Perché ero convinto volessi ammazzarmi. Tanto pazzo già lo sei e non lo dico per scherzare, Alessio. Tu hai problemi di testa. Sei malato.»
«Addirittura.»
«Se fossi in uno stato migliore di gonfierei di botte. C’è UNA cosa vera di tutto quello che mi hai detto?»
«A te quasi tutto. Alla Gioia quasi niente.»

«Va bene. Ora la domanda più importante» faccio, ma mi interrompe con la mano.
«Ti va un caffè?»

E’ di nuovo lui. Splendido, allegro, cordiale. Una notte come questa e lui si comporta come se fosse il suo primo giorno di ferie. Entriamo in un bar anonimo, ancora discretamente pieno, dove ricevo la solita salva di sguardi incuriositi e preoccupati. Divoro tre brioches, bevo due bicchieri di latte ed un cappuccino.

«Ti ricordi Gianandrea? Quello grasso, in classe con noi? È stato lui a dirmi di te. Non ci credevo che eri finito a fare il barista, così sono passato a vedere. Un pomeriggio. Eri proprio tu, facevi il brillante con due turiste. Così sono andato anche a vedermi la tua ex.»
«E che ne sapevi?»
Ale tossisce il caffè: «A MESTRE?! Figa, mezza piazza non parlava d’altro!»
Su questa città puoi sempre contare.

«E in un moto di filantropia hai deciso di scopartela» concludo.
«Non davvero. Volevo solo capire com’era»
«Questa è una stronzata grande come una casa»
«Va bene, una botta glie l’avrei data volentieri»
«Non sei pratico di donne normali, ah?» sogghigno.
Abbassa gli occhi.
Bèh.

«Tu eri innamorato?» chiede.
«Arriviamo al punto, Alessio.»
«Che punto? Semplicemente ho deciso di passare una serata con te.»
«Ma perché tutto quel teatrino?»
«Non ho fatto niente, a parte fingere di essere lì per caso e di non conoscere la Gioia. T’ho solo fatto vivere una delle mie notti. Coi suoi imprevisti.»

«Tutto qui?»
«Tutto qui.»
«Ma… ma perché?!» quasi grido.
«Perché cosa?»
«PERCHÈ CHE CAZZO VUOI, PER ESEMPIO?»

Sul viso gli si dipinge un sorriso amaro. Rigira la tazzina vuota: «È che… Sai, c’è una specie di legge incorruttibile che svilisce la vita nella rassegnazione. Io la vedo così. È un discorso che passati i sedici anni va evitato come la peste, ma c’è. E’ facile saltarlo, per fortuna. Alcuni usano la bamba, altri la TV, altri
La musica, ride Gioia, a letto.

il cinismo. E’ bellissimo, il cinismo; è lo strapon degli impotenti. La rassegnazione più patetica diventa una Ferrari da esibire agli amici. Tu mi dai l’idea di uno che s’è perso, non sa dove o quando ha sbagliato strada ed è incerto se valga la pena tornare indietro a cercarla o restare
Sul soffitto come quella mosca, mormora lei, nuda, stiracchiandosi

.

dove sei. Ti aiuto: hai iniziato a sbagliare quando ti sei messo in testa di guadagnare tempo. Nel tuo cervello s’è creata la convinzione che si impiega meno tempo a criticare l’autostrada che a costruirsi un sentiero, così ti dedichi a far canzoni contro tutto e tutti e sei felice così. Hai vent’anni e già vivi rimpiangendo non si sa quali bei vecchi tempi.»
Il volo per te è un sogno che è bene rimanga tale, dice.

E’ che il tempo ti frega. Non ne guadagni, anzi. A furia di guardare indietro lo perdi a prendere una rincorsa troppo lunga che poi non avrai tempo di ripercorrere. Tempo per il lavoro, tempo per la famiglia, gli impegni in società; sono giustificazioni rispettabili, per l’amor di Dio. Scelte plausibili. Vite credibili. Ma ti fregano. Sai quanti scelgono di essere i bravi, buoni ed onesti cittadini che pagano le tasse? Nessuno. E’ solo che sono troppo codardi o pigri per essere altro. Quando hanno rigurgiti di coscienza dicono “ah, un giorno rapino una banca”, “ah, un giorno mollo tutto e apro un chiosco ai caraibi” ma mica lo fanno. Nella vita bisogna essere prudenti, rispettabili, accettati dalla propria comunità. Trovare il tempo, vagliare le ipotesi, studiare con attenzione. Cosa ne pensano i tuoi amici? E i tuoi ex compagni alle cene di classe? E i tuoi genitori? Per accontentare loro, puf! E’ passato troppo tempo per fare qualunque cosa. Hai fatto il bravo, sei stato buono, hai messo la testa a posto e ora quando ti chiedono “come stai” non è che stai male»
Non è che stai bene, dice a un centimetro dalle mie labbra.

«È solo che non te ne frega più niente» completo io.
Alessio mi guarda: «Ecco. Volevo sapere come stai.»
Mi aspetto grandi cose da te, Nebo, sorride Gioia.

Scendo dal treno a Mestre che è mezzogiorno. Faccio fatica a stare in piedi. Mi siedo da McDonald, prendo un McMenu e chiamo Ario. Mezz’ora dopo vedo il primo volto amico da tanto tempo spuntare dalla porta, unico momento in cui l’ho visto serio e preoccupato davvero per me. Chiede se voglio andare in pronto soccorso, rispondo che voglio solo dormire. Dall’arrivo a casa in poi non ricordo niente. Dodici ore filate di sonno nero senza un sogno, un inizio o una fine.

Alle sei e mezza del giorno dopo mi sveglio, faccio la barba, metto la camicia bianca a maniche corte, i pantaloni, le scarpe e mi dirigo verso il bar. Cammino guardandomi attorno come se vedessi questa città per la prima volta. All’arrivo trovo Miriam che sgrana gli occhi e mi tempesta di domande sulle mie precarie condizioni fisiche. Svicolo. Prendo gli ordini, servo caffè, toast, spremute, succhi di frutta col pilota automatico. Sbaglio una comanda su due, così dopo mezz’ora la padrona ha pietà di me e mi dà la giornata libera.

A casa chiamo il dentista per un appuntamento, poi entro in uno stato catatonico. Sto seduto sul divano ad ascoltare i rumori del traffico guardando il cellulare. Dovrei chiamare Gioia. Dovrei fare la lavatrice. Dovrei farmi da mangiare.

Quando scoppio a piangere il groppo che ho in gola è così doloroso che ho paura mi spacchi la trachea.

 

Epilogo

 

A parte certi addii al celibato, è raro una notte ti cambi la vita. A me è successo. Tutte le più semplici convinzioni su cui si poggiava la mia esistenza crollarono. D’inverno, tornato a Trieste, guardavo i miei coinquilini dell’università e mi sentivo un estraneo. Il dente e i lividi guarirono a rilento. Sui palchi, mentre cantavo, ho iniziato a chiedermi se ero lì per scelta o per paura e la risposta non fu delle migliori. Nello stesso anno il mondo cambiò per i fatti suoi. Iniziava l’era del terrorismo internazionale, delle guerre in medioriente, del collasso dell’economia globale, la crisi, l’anticrisi. Lo vedevo cambiare dalla televisione defibrillando gli ultimi brandelli di me tra le gambe di una donna che amava un Nebo che non c’era più.

Un giorno ho deciso che non potevo andare avanti così e che forse era troppo tardi, ma anch’io volevo fare qualcosa di me stesso. Oggi faccio salti mortali per scrivere su qualunque cosa mi pubblichi e pian piano sto riuscendo a non tirare indietro il culo, anche grazie a gente che ha creduto in me – e ancora lo fa.

Miriam s’è sposata, ha fatto un figlio ed è sparita non so dove.
Gioia fa la commessa in aeroporto. Ogni tanto ci sentiamo.

Alessio è ancora là fuori da qualche parte. Da quella notte non l’ho mai più rivisto. Forse tra dieci anni salterà fuori che ha sterminato 49 bambini in Uganda, o che ha contrabbandato diamanti, o che ha fatto un’orgia da 1000 persone, o che ha fatto saltare in aria la metropolitana, o che ha salvato il mondo. Conoscendolo, è probabile abbia fatto tutto contemporaneamente.

Rimane il migliore amico io abbia mai avuto.

Fine