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La vera trama di Man of steel

 

Siamo sul pianeta Krypton, tra animali scartati da Avatar e tizi con l’armatura, abito fondamentale in un mondo dove esistono solo armi da fuoco che sparano lucine azzurre di Harry Potter. Krypton è diviso in due fazioni: una sostiene che il pianeta stia per esplodere, l’altra sostiene che il pianeta stia per esplodere tanto. A causa di queste divergenze passano gli ultimi giorni di vita a spararsi in faccia per non rovinare le armature.

Tu guardi questo emozionante scontro a fuoco sul Titanic domandandoti chi sopravvivrà per altri cinque minuti, quando la moglie di Russell Crowe partorisce assistita da un clitoride di mercurio fluttuante. Russell per festeggiare si tuffa in una vasca dove coltivano i bambini come su Matrix, prende un teschio, lo mette in un teletrasporto con le lucine azzurre di Prometheus e spara suo figlio nello spazio. Il generale Zodd, capo dei sostenitori dell’ “esplodiamo tanto”, pugnala Russell dimostrando senza tema di smentita l’inutilità delle armature, ma dopotutto l’intero pianeta è un unico monumento all’inutilità. Fuori dal palazzo imperiale la terra si spacca, geyser di fuoco e magma squarciano la superficie e dentro, soldati impettiti processano il generale e i suoi sgherri ribelli. Altrove, la madre del piccolo cosmonauta osserva il muro di fuoco in arrivo e pensa che deve stirare le camicie del marito. Il pianeta esplode.

Tempo rimanente alla fine del film: 2.08.00

 

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Siamo al polo nord, sulla Terra. Una giornalista si presenta in un campo di ricercatori militari. Hanno trovato una strana struttura metallica sotto la neve. Lei è bionda, bellissima, professionalissima, determinata. Fa domande pungenti, coglie in castagna i ricercatori, lancia sguardi di superiorità ai militari e ti auguri sia una comparsa che muore squarciata da La Cosa di Carpenter, invece è Lois Lane, futura morosa di Superman. Se mettevano un cesso con gli occhi disegnati era uguale.
Lois con un cannocchiale vede un ragazzo che passeggia per il polo Nord con addosso solo una camicetta sportiva. Lo segue in un sinistro sotterraneo di ghiaccio. Potrebbe esserci suspance o tensione, è quindi il momento di giocare la carta maestra per non rischiare di interessare lo spettatore: un flashback.

Per capire cosa intendo con “flashback” dovete leccarla alla vostra ragazza; appena sta per venire staccatevi, fate partire il filmato di lei da bambina che giocava con il suo amato cagnolino, montatele sopra e scorreggiatele in faccia urlando “ORAMAI LA CARCASSA DI FUFI AVRA’ QUEST’ODORE”.
Questo è un flashback di Man of steel.
E ce ne sono molte migliaia.

Siamo in Kansas.
Una coppia trova l’astronave del bimbo alieno in cortile e invece di chiamare la CIA in preda al panico, la traina nel garage e decide di allevare l’alieno come un figlio, rimanendo “in attesa il governo degli Stati Uniti si faccia sentire”. Certo, pare l’inizio di un horror, ma in Kansas è normale. Sono abituati a scopare tra parenti e un nuovo ceppo genetico fa comodo. Il bimbo cresce. A scuola sta per essere aggredito da un bullo QUANDO ALL’IMPROVVISO
Fine del flashback.

Siamo nel sottosuolo del polo nord, quando ormai non frega più un cazzo a nessuno. Superman inserisce un ciondolo e fa apparire suo padre che fa uno spiegone. I poteri di Superman vengono dal fatto che su Krypton la forza di gravità era diversa e quindi lui sulla Terra può fare salti enormi e volare. Come Goku. O come John Carter. Inoltre è immune al caldo e al fuoco, ha un udito straordinario, la vista a raggi X e spara raggi dagli occhi in grado di fondere tutto. Segue dibattito sui grandi valori della vita e della giustizia, grandi poteri, grandi responsabilità, essere una guida per il genere umano che

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Superman che vola via.
Poi anche l’astronave conficcata nel ghiaccio vola via.
Poi siamo nella redazione del Daily mail, dove Lois cerca di convincere il suo caporedattore a pubblicare tutto quello che ha visto.

«ALLORA l’uomo se n’è andato volando, l’astronave è scomparsa e
«Arriva alla parte in cui eri lucida.»
«Ero lucidissima. Dobbiamo pubblicarla subito.»
«Ma mnnaggia alla pentecoste» sospira il caporedattore, sedendosi «ti mando al polo nord e mi porti la versione sotto acido di uno stupro tra la neve. Se hai i referti medici possiamo buttarla sul vittimista. Facciamo così: articolo di spalla, titolo accattivante, qualcosa tipo “superstupro”.»
«Cosa?»
«Sì, sì. Mi piace. Senti qui. Occhiello: “Dramma femminicidio, caso tra gli Innuit”. Titolo: “SUPERSTUPRO TRA I GHIACCI”. Catenaccio: “Brutale carotaggio al polo nord, parla la reporter”. Dai, è perfetto. Dentro ci mettiamo un’infografica sulla lunghezza media delle stalattiti nel mondo, due foto della fregna straziata e vavavuma.»
«Non mi ha stuprata! L’astronav
«L’ASTRONAVE, LOIS, DICE CHE SEI UNA DROGATA» ulula il caporedattore, scagliandole addosso un fermacarte «SE IO APRO LA PORTA LO DICE ANCHE LA REDAZIONE, VUOI VEDERE?»
Il capo apre la porta: «LOIS E’ UNA DROGATA, VERO?»
Ovazioni, applausi, pugni sul cuore, gente in ginocchio.
«Ora capisci» ansima l’uomo, chiudendo la porta «speravo tra i ghiacci perenni tu non trovassi niente da infilarti in brogna, ma avevo sbagliato i conti. Dio, se stavi un’altra settimana partorivi pinguini tetraplegici. Adesso mi trovo uomini volanti, astronavi congelate, militari antipatici e una sceneggiatura che par scritta da uno Youtuber. Perché?»

Lois Lane fa una faccia contrita, poi si lancia in un monologo sul fatto che lei è una giornalista, è suo dovere riportare i fatti perché la gente deve sapere la verità. Il popolo americano ha il diritto di sapere che il governo nasconde probabili invasioni aliene perché sì, forse lei è un’idealista, ma ancora crede nel buon giornalismo, nei grandi valori che

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Flashback su Clark Kent che da piccolo porta jella pesa.
Va in barca? Una piattaforma petrolifera esplode.
Va in gita con la scuola? L’autobus precipita in un dirupo.
Entra in un bar? La gente si mena.
Va in macchina coi genitori? Appare un tornado.
In questa sequenza drammatica il suo cane resta in macchina, così il padre di Clark deve correre a salvarlo. Rimane incastrato. Clark vorrebbe aiutarlo, ma il padre lo ferma con un gesto: il mondo non deve sapere che è Superman. Cosa farà Clark? Salverà il padre o rimarrà a guardarlo? Sono queste le piccole cose che ci fanno empatizzare coi personaggi. Qualsiasi padre di famiglia con moglie e figlio a carico si suiciderebbe per salvare una bestia. Immaginate la gioia della moglie che per campare farà due lavori dormendo tre ore a notte, però tornando a casa troverà una cacata sul divano e un uccello morto sulla soglia.
Fine del flashback.

Nell’orbita della Terra appare un’astronave aliena. Hackera le TV del pianeta e scrive in tutte le lingue del mondo “non siete soli”.
Quelli di Anonymous replicano hackerando l’astronave.

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Gli alieni non capiscono lo sfottò. Comunicano che sulla Terra vive un alieno mascherato da umano e danno 24 ore per consegnarlo, altrimenti fanno cacao meravigliao.

Qui l’interruzione di credibilità crolla.

Se ciò accadesse, in breve tempo ogni stazione di polizia verrebbe presa d’assalto da grillini, grassone coi gatti, sciachimisti, microchippari e cospirazionisti i quali sosterrebbero di essere l’alieno, intonando “extraterrestre portami viaaa”. L’FBI, incapace di distinguere quelli veri da quelli falsi, sarebbe costretta a mandarli sull’astronave in blocco. Nel frattempo tutti i nerd del pianeta hackererebbero l’astronave intasandola di manga porno, furry e meme alternati a trombonate esistenzialiste. Nel giro di 24 ore gli alieni fuggirebbero in preda al panico. Non succede. Gli alieni stanno per ucciderci. L’unica speranza è Superman. Da un lato non deve mostrarsi, dall’altra può salvarci solo rivelandosi. COSA FARA’? COSA CAZZO FARA’, IL GRANDE SUP
Flashback.

 

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Il padre di Superman viene ucciso dal tornado.
La madre è da sola a casa col cane, piove, Superman non abita più lì, stronzi qualsiasi dicono cose qualsiasi sui grandi valori della vita quali l’amore, l’amicizia e il cazzo che mi sto cagando.
Fine del flashback.

Superman si presenta dall’FBI
no
in un deserto
no
ora è imprigionato nell’astronave aliena con Lois Lane. Russell Crowe appare uso Obi Wan e spalanca le porte liberandoli. Lois viene sparata in una capsula danneggiata verso la Terra, roteando come una centrifuga. Superman la rincorre, spacca la capsula e la tira fuori appena prima dello schianto. Tutti si aspettano una palla di carne informe coperta di vomito, merda, sangue e urina, invece esce fresca, flirta con Superman, si ravviva i capelli, ordina cinese.
Gli alieni lanciano due tridenti agli estremi del pianeta per terraformarlo e ricreare Krypton, dato che nel sangue di Superman è contenuto tutto il DNA degli abitanti. La Terra è scossa da terremoti. Le città vengono distrutte.
Mezz’ora di una comparsa incastrata tra le macerie.
Dieci minuti di primissimi piani di occhi.
Venti minuti di Superman che si mena con il capo degli alieni distruggendo città, cosa che è stata trasposta sullo schermo andando in un cantiere con un razzo fumogeno e prendendo a martellate calcinacci con l’inquadratura da vicino.

Superman vince e sono tutti felici.
Io resto della mia idea: prendere tutto l’oro della Terra, farci un enorme cazzo e incastrarci dentro un HD contenente questo video. Poi spararlo nello spazio.

nebo

Che cazzo vi aspettavate?



OCCHIO, CONTIENE SPOILER SULLA SERIE TV “GAME OF THRONES”


Siamo in mondo fantasy.


Il Re di tutto muore. Le famiglie più potenti reclamano il trono. Ci sono gli Stark, che siccome siamo in un fantasy sono gli unici emo benvoluti da tutti. C’è una Thargarian che sarebbe la più autorizzata a reclamarlo ma sta dall’altra parte del mondo e quando non è impegnata a farsi stuprare da zingari palestrati con l’eyeliner mangia cuori e partorisce draghi. Ci sono i Baratheon, a cui Wanna Marchi ruberebbe anche le mutande e i Lannister che sono ricchi, belli e intelligenti.

Morto il Re, i Lannister mettono sul trono Facciadimerda, uno sbarbino maniaco e frignone. Appena eletto, questo idiota decide di decapitare Ned Stark tra lo sgomento generale. Chi se lo aspettava? Del resto Facciadimerda nel tempo libero picchiava puttane e mutilava menestrelli, sembrava tanto una brava persona. Il decapitato era capo della casata degli Stark, un tempo amici del Re. Robb Stark, il figlio, viene a sapere che papi non avrà mai più bisogno di Moment e se la prende a male. Lui e la sua ottusa madre partono per la guerra.

Per strada Robb fa su una sparuta crew di nazi ansiosi di menare le mani. Catturano per caso il figlio preferito dei Lannister, ma la madre lo libera perché avere una donna a bordo è sempre un’idea del cazzo. Essendo pochi, e privati dell’unico ostaggio, hanno bisogno di ingrossare le fila di peones. Tra i tanti alleati gli farebbe comodo l’esercito di un vecchio bavoso, che chiameremo Bellosguardo. Bellosguardo dice che si alleerà con gli Stark a patto che Robb sposi una delle sue figlie, scegliendo a caso tra una ventina di trippone inqualificabili che l’unico schizzo che meriterebbero varia dal vomito alla dissenteria. Robb dice sì, promette, giura, poi per strada s’ingrifa di una stracciona con l’aria da zozza che chiameremo Stapputtana. Una sera Robb va da mammina e dichiara:

«Voglio sposarla»

«Ma la tua promessa? Il tuo esercito? Il tuo popolo? La tua casata?» domanda mamma.

«Voglio sposare Stapputtana, lei mi fa i bucchini»

«Perderai un supporto tattico fondamentale e gli uomini si demoralizzeranno»

«Sono belli, i bucchini»

«Cristo, devo avere la fica maledetta, ogni cosa che entra o esce qua dentro è sfigata»

Robb sposa Stapputtana.

Dopo tot tempo, Robb scopre che farsi fare i bucchini non risolve i problemi. Anzi. Molti tra i suoi soldati notano che il loro futuro Re perde tempo. Bisticciano tra loro e l’unica cosa a cui pensa Robb è filosofeggiare con Stapputtana, che fino a ieri beveva fango e succhiava gonadi gusto Emmenthal, quindi ci tiene a fargli sapere la sua opinione riguardo alla guerra e al senso della vita. Robb annuisce, stregato da tali meravigliosi argomenti perché vaffanculo la tattica militare, qui si parla di libertà e di uguaglianza tra i popoli dall’alto di una monarchia ereditaria a circolo chiuso che pratica esecuzioni capitali.

Chi volete che pensi alla guerra, con questi concetti sul tavolo?

I soldati di Robb, per esempio.

Per sbaglio catturano dei cugini di fratelli di zii amici dei cognati dei Lannister e li trucidano. Robb, per alzare il morale della truppa, fa giustiziare gli autori rimarcando che “il Re è lui” e se sua madre libera un ostaggio vabbé, ma se i soldati accoppano gli ostaggi vanno giustiziati. Gli amici dei novelli cadaveri capiscono di stare a fianco di un demente e lo mollano. Ora Robb ha più che mai bisogno dei soldati di Bellosguardo. Tratta. Dice che ormai s’è sposato Stapputtana, ma che c’ha un tizio nobile e sposabile sottomano.

«Che cazzo, Robb, se tu sposi Stapputtana, perché io devo sbattermi la cessa?»

«Devi pensare al regno, egoista»

«Scusa, tu preferisci una gnocca al popolo, perché devo fare l’altruista io?»

«Perché sono il Re. Ora sposala o c’ammazzano tutti»

 

«Mi hai convinto»

Confidando nel fatto che Bellosguardo sia comprensivo si presentano al suo castello, sposano il nobile e tutto procede per il meglio, finché Bellosguardo fa chiudere la porta, suona la canzone che celebra il trapasso dei traditori e in successione: A) fa squartare il ventre di Stapputtana macinando lei e il feto che si porta dentro B) fa trasformare Robb in un puntaspilli e lo finisce con una cartolina dai Lannister C) fa sgozzare la madre di Robb che, come ultimo atto di intelligenza, risolve a Bellosguardo le pratiche di divorzio.

“OH NO!” piangono in rete, disperati.
“Povero Robb”, uggiolano.
“Povera regina regnante”, pigolano.
“Povera Stapputtana”, frignano.
“Lannister merda”, sbraitano.
“Anfami”, gridano.

Perché? La guerra si fa così.
La politica, l’intelligence, la strategia, la preparazione, la lungimiranza, la corruzione e l’inganno sono le cose che ti fanno vincere le guerre, non l’amore o la rabbia. L’amore ti fa fare bellissimi discorsi e stupendi monologhi, fa dare baci mozzafiato e rassicuranti carezze emotive, finché non vedi la lama di un coltello. A quel punto, terrorizzato e confuso, alzi gli occhi: non è possibile, ti dici, eppure noi siamo i buoni. Non ci state davvero per schiacciare come formiche, vero?





I servizi segreti nemici ti ricambiano l’occhiata.





E se hai un minimo di cervello capisci che a combattere non ci mandi un ragazzo “giovane, incensurato e onesto”. Sì, puoi metterlo a portar caffè o a fare bassa macelleria, ma in testa ci metti il peggior figlio di puttana che hai sottomano. Ecco, come si fa la guerra fuori da Hollywood – ed ecco come molte cose, nel mondo reale, si possono spiegare. Se si hanno gli occhi per andarle a cercare tra le righe delle notizie in fondo pagina.

Grazie Martin, è stata una scena bellissima.
Un giorno anch’io riuscirò a scrivere una cosa tanto figa e potente.


EDIT: quanto, quanto spacca i culi ‘sta bimba?

Di vita, di morte, di Ario

Bar Verdi, 22.30. Io, Atza, Luca, la Nadia e la Leo siamo un po’ mogi. Dal fondo della strada risuona “More” di Usher, poi un’auto inchioda e tira un colpo di clacson seguito da vaffanculi. Ci giriamo. La Nissan Almera di Ario ha appena tagliato la strada a una station wagon e si affianca a noi, mostrandoci la lingua tra due dita. Parcheggia sul posto degli handicappati e ci raggiunge.

«Ohelà, sfigati, ho una roba pazzesca da raccontarvi» esordisce.




«Ario, non è giornata» fa Atza.

«Perché?»


«E’ morto il padre di Nebo» fa Luca «no aspetta, volevi dirlo tu?»
Scuoto la testa.
«Maddai, quando?» domanda.
«Tre settimane fa, abbiamo già disperso le ceneri in mare»

«E allora è acqua passata, ha ha hahha»




Le ragazze sbarrano gli occhi.
«ARIO, MA CHE CAZZO»

«A posto, a posto» dico «è fatto così. E poi mica è morto ieri»
«Appunto, ne è passata di acqua sotto i ponti, ohohoHAHAHA HAHAHA HA»
«ARIO!!» sbotta Nadia.

«Adesso posso raccontare la mia storia?»
«Se proviamo ad avere un po’ di empatia?» dice Leonora.
«Ma è una storia fighissima»
«Prima chiedigli scusa, almeno!»
Sospira.

«Va bene, Nebo, scusa se ho pensato di buttarla sul ridere, rimaniamo qui a compiangerti e a fare finta di sapere cosa si prova, serve un casino»

Il tavolo sembra una scena di Pompei. Sono tutti immobili, nessuno osa alzare la testa, spostare lo sguardo o muovere gli oggetti. Atza ha un bicchiere a mezz’aria. Nadia è rossa come una Ferrari. Solo io e lui ci guardiamo. E’ lui. E’ sempre, solo lui. Un uomo che riesce a dire la cosa sbagliata nel momento sbagliato alla persona sbagliata e a farla diventare giusta. Mi spunta un sorriso, lui si gira verso Nadia:

«Adesso, prima che ‘sto stupro diventi un omicidio, posso raccontare?»










«Racconta» mormora lei.


«Ooh, allora, vi ricordate Edoardo? Quello nazi che odiava i froci, stava con la Martina e sono andati a convivere due anni fa? Beh, si sono mollati e lui è andato a Londra per farsi rivoltare il calzino»
«Il cosa?»
«Dai, il calzino rivoltato. I chirugi… chir…»
«Chirurghi»
«Quelli. Insomma, i dottori ti rivoltano l’uccello e te lo mettono dentro così sembra una fica. Per avere i soldi necessari a realizzare il suo sogno, nel frattempo, spurga gonadi negre col culo»

«Che storia» dice Luca.
«Quando l’ha capito dev’essere stata la giornata più di merda del mondo» ammette Atza, poggiando finalmente il bicchiere.
«Ma chi l’ha detto, magari è felice così» dico.

«Eh beh, ti svegli alle 6.00, ti lavi i denti, ti scarnifichi le gengive con il filo interdentale, gorgogli il Listerine che ti ustiona le ferite, accecato da lacrime di dolore ti radi amputando tre brufoli che sanguinano come la madonna di Civitavecchia, alché ridotto tipo Rob Zombie ti siedi per cagare, lo stronzo viene fuori a metà e anche se spingi lo senti ormai freddo che rientra, inculandoti. A quel punto sorpresa, ti piace il cazzo»


«MA NON FUNZIONA COSI’!» sbraita Nadia.

«Era anche finita la carta igienica»
«Hahaha»
«Ario, se ‘sta tragedia provi a guardarla dal punto di vista della donna…»

«Cioè dalla finestra della cucina?»

«Non ti interrompo più» soffia Nadia.


«Grazie. Dicevo, prima che lo scopo della vita di Edo fosse diventare la Tania Cagnotto del tuffo su minchia ha avuto tutta una specie di evoluzione personale che l’ha portato a diventare un impaziente sodomita. Prima sua morosa ha iniziato a notare che le sparivano i trucchi, poi in un armadio gli ha sgamato parrucche, tacchi, minigonne e biancheria femminile. Lei chiede spiegazioni, lui scappa di casa, poi torna e fanno finta di niente»

«Come sarebbe, scusa…»
«SAREBBE che se sei una donna che convive e pianifichi un figlio non tutte hanno il coraggio di ammettere che la loro casa è costruita su fondamenta falsate e ti racconti che va tutto bene» bercia Nadia, prendendo lo spritz dalla mano della Leo.

«Ah, questo pensa una donna?»
«Sì»
«Vabbè ma allora il femminicidio è un’attenuante»
«Vaffanculo»

«Comunque, lui a letto non funziona più. Niente. Zero. Lei fa mille acrobazie per avere un minimo di eccitamento ma nisba. Una notte lui finisce in pronto soccorso, ok? Quando il chirurgo ha visto le lastre ha detto “o questo s’è infilato una lampadina nel culo o il suo colon ha avuto una buona idea”. Era una lampadina. Una lampadina. Quanto devi essere coglione per infilarti nel culo una lampadina

«Dai, non è vero»
«La Martina dice di sì»
«Una lampadina? Perché una lampadina?»
«Avrà finito le pile»
«Siete delle bestie» dice la Leo.
«Vero. A ogni modo, è a quel punto che Edo si pente, ne parla con Martina e le regala uno strapon»
«Oh, Dio»
«Da allora Martina è costretta a giocarsi il nervo sciatico pur di sollevare una proboscide di lattice e schiaffarla nel culo del suo futuro marito/convivente. Te la immagini la Martina? Minuta, piccina, con ‘sto pitone attaccato davanti?»

«E’ una storia tremenda» dico.
«Perché?»
«Come “perché”? Il sogno di farsi una famiglia finisce in cenere, scusa…»
«Nebo, che cazzo, adesso non è che finisce sempre tutto in cenere, eh»
«Mangiati una merda»

«Comunque, in breve, ho deciso di andare a Londra»
«Scusa, a fare…?»
«A incularmi Edoardo, no?» sbotta «quando ti ricapita d’incularti un nazi?»


Ci scambiamo occhiate furtive.

«E’ una cosa gay, Ario»
«No»
«E’ una cosa tanto gay» annuisco.
«Quindi vi fidereste a lasciarmi vostra morosa nuda in casa?»
«No»
«No»
«No»
«Allora non sono gay, sono un giustiziere, la giustizia non ha orientamento sessuale»
«E a tua moglie cosa dici?»
«Che ci vado per lavoro»
«Ma se fai l’operaio»
«Mbè? Lei fa “colloqui” da tre mesi che durano fino a mezzanotte e mezza, cosa rompe i coglioni?»

Io e Luca l’abbiamo accompagnato stamattina in aeroporto.

Blue mamba, i ragni della toscana e un racconto erotico realmente avvenuto



Mauro, un fighetto di Treviso convinto di diventare CEO della Gas studiando scienze della comunicazione, torna da casa della sua ragazza e, arrivato al suo condominio, qualcosa sotto i suoi piedi scricchiola. Osserva. E’ un pezzo di vetro. Attorno trova bicchieri distrutti e tazze stranamente familiari. Alza la testa e nota che la finestra del suo appartamento è aperta.


Non che ci sia niente di strano. E’ una caldissima domenica e l’intera Trieste s’è trasferita a barcola per sole, culi e clanfe. Lui abita al quarto piano di un condominio di via Tigor, a Trieste, di fronte alla vecchia facoltà di scienze della comunicazione. Dubbioso, apre e sale le scale. Si avvicina alla porta. Dall’interno dell’appartamento non provengono suoni. Mauro ruota la chiave e spinge. Qualcosa, dall’altra parte, occlude l’ingresso. 

«Oh, c’è nessuno?» chiede, bussando. 
Dall’interno provengono gridolini sommessi, tipo “iiih” ed “eeek”. 

«Dai, non fate i coglioni, aprite la porta» 






Silenzio. 
Mauro si guarda attorno. 





«Nebo? Ivan? Che state combinando?» 
Bisbigli. 

«SEI MAURO?!» 
«E chi dev’essere?» 

Ulteriori bisbigli. 

«PUOI PROVARLO?» 
«Dai, basta, devo studiare» 
«Fai scivolare un documento sotto la porta» 

Mauro inizia a incazzarsi. Le due matricole con cui è finito in appartamento sono un disastro. Uno è un rapper che fa basi dalla mattina alla sera, l’altro è un fancazzista tracagnotto che mangia sandwich burro e arighe alle 3 di mattina. Tuttavia, nella voce dall’altra parte della porta c’è qualcosa di sbagliato. Fa scorrere la carta d’identità. 

«SEI SOLO?!» 
«Sì che sono da solo, con chi dovrei essere?» 
«E Shabir de Juana?» 
«Chi?» 
«E’ ANCORA LI FUORI, SHABIR DE JUANA?» 

«Ma che cazzo dite? Chi è Shabir de Juana?» 

La porta si schiude, poi dall’interno c’è un tramestio. Mauro apre lentamente la porta e si paralizza in preda al panico. Sembra che qualcuno abbia messo il contenuto della casa in uno shaker. C’è acqua per terra, sui muri, abiti e scarpe fradici sono sparpagliati su ogni mensola e scaffale. La porta della cucina è sprangata da un materasso. Da qualche parte sente una ragazza piangere. Prima che riesca a dire qualcosa, dall’angolo sbucano fuori i suoi due coinquilini. 

«NON TI MUOVERE O L’AMMAZZIAMO» grido, puntandogli contro il deodorante da bagno. Ivan è di fianco e tiene un coltello alla gola di un pelouche, regalo della ragazza di Mauro. Per un lungo istante ci studiamo.

«Ivan, perché…» mormora Mauro, sotto shock «…perché hai una lampadina in bocca?» 
«E’ acceFa?» domanda Ivan, allarmato, girandosi verso di me. 
«No» dico. 
«ALLOFA NON FE’ TEMFO DI FPIEGAFE, CHIUFI LA FORTA» 














Elena ha occhi azzurri, colorito emaciato, caschetto nero tinto, vestiti neri, piercing, un fisico esile e genitori divorziati. In teoria studia scienze dell’interculturalità, in pratica archivia droga con la bocca e cazzi con il culo, tranne quando si confonde. Quelle come Elena sono l’equivalente femminile degli spogliarellisti, vanno trombati in fretta perché in uno o due anni crepano a causa delle sostanze che assumono. Ivan la rimorchia al bar dell’università all’ora di pranzo e la porta a casa. Mi viene presentata, lei è languida e già barcollante, Ivan è chiacchierone. Mollo la base che stavo facendo e ci sediamo tutti e tre in cucina. Dopo dieci minuti di allusioni c’è così tanta tensione sessuale che Ivan sborra steroidi dalle orecchie e potremmo trombarla senza problemi, se non fosse che io a Mestre ho la ragazza. 

Che mi mollerà due mesi dopo per un tennista con la TT, certo. 
Succede sempre così, certo. 

Tutte puttane, certo. 



Continuo a buttare in vacca le allusioni spinte e decido di disimpegnarmi per lasciarli soli, ma Elena non è d’accordo. Quando pronuncio la frase più ridicola possibile (“devo studiare”) lei batte le mani sul tavolo e grida: «Blue mamba!» 

Io e Ivan ci guardiamo. 
«Che vuol dire?» 
«Ecco, c’ha l’AIDS»
«Ma no, Lsd! Vi va?» 

Ravana in tasca ed estrae una bustina con tre pezzettini quadrati blu scuro con un rettangolo nero al centro. Li tira fuori con una pinzetta da unghie e li appoggia sul tavolo. Ci sporgiamo a guardarli. E’ in casi come questi che bisogna essere responsabili. Purtroppo il parto cesareo mi ha invertito le sinapsi e da allora inverto le frasi matrimonio/droga. Così, mentre sull’altare risponderò al prete “i vincenti non si drogano”, davanti a un cartone di LSD rispondo 

«Sì, lo voglio» dico. 
E mi siedo. 

Ivan è preoccupato, poi si rende conto che farebbe la figura del pavido e annuisce. E’ strano come nella vita basti un ritardato per generarne altri venti. 

«E’ la prima volta?» 
«Sì» dico. 
«U-uh» 
«Questo ve lo smezzate» dice, tagliando un cartoncino e prendendolo con la pinzetta «Fuori la lingua» 

Il contatto del metallo sulla lingua è l’unica cosa che sento. Lo tengo fermo in bocca, aspettando di esplodere come i nemici di Kenshiro. Non succede. 

«Mettete un po’ di musica» 
«Che tipo?» 
«Lllllllenta» fa lei, mostrando la lingua. 

Vado in camera, scorro i CD, programmo lo stereo che spari Portishead, Smoke city e Nightmare on wax, dimenticandomi che c’era anche la quarta piastra occupata. Torno di là. Elena ascolta, annuisce. S’infila in bocca l’acido e si muove a tempo, lenta. Io ho sempre in bocca il cartone e non so bene che fare. Deglutisco? Sputo? Chiedere mi sembra brutto. Lo sento diventare pastoso. Ivan sposta lo sguardo tra me e lei. Mi siedo, verso tre bicchieri di Tavernello e mando giù. Elena si alza e balla a occhi chiusi, poi invita Ivan. Mi accendo una sigaretta e Elena me la strappa di bocca. Aspira una boccata e la soffia in faccia a Ivan, poi si baciano. Si baciano tanto. Lei si stacca, si gira e mi sorride.

Mi sento in bermuda nelle prime file di un funerale di Stato.

Mi chiama col dito e le mie gambe non fanno quello che dovrebbero, così mi trovo a strusciare un’erezione contro il suo culo evitando di incrociare gli occhi con Ivan, che già di suo ha l’espressione di una gallina davanti a un’equazione. Al secondo bacio con Ivan cerco di allontanarmi, ma lei mi afferra la mano e mi tiene lì. Si stacca da lui e si gira verso di me. Faccio in tempo a pensare “sto per assaggiare la cazzo di saliva di Ivan” e la sto limonando. La situazione mi sfugge di mano come solo i titoli di studio sanno fare. Noto che una mano di lei è ancorata all’inguine di Ivan. La seconda arriva al mio, trovando solidi argomenti per rimanervi. Mi infila il dito nell’asola della cintura, lo stratoreattore nel mio cervello porta la coscienza vicina allo stallo, la canzone finisce, le dita di Elena sfiorano il mio sparafigli e nell’aria risuona l’inno di Mameli. Ci blocchiamo. 

FRATEEELLIII, D’IIIIITAAAAALIAAAAA 

«Ma» fa lei, tirando fuori la mano «ma che cazzo» 
«Oh, eh» dico, risistemandomi la cintura «ho masterizzato gli Inni nazionali» 
«Perché?» fa Ivan «perché, di tutti i motivi più del cazzo che esistano in questo sporco mondo di merda, hai masterizzato gli inni nazionali? E soprattutto, perché li hai messi?» 
«Cercavo… roba da campionare…» arrossisco «per le basi, sono u-un… faccio musica. Mi sono dimenticato il CD dentro» 

DEEELL’EEEELMOOOOO, DIIIII SCIIIIIPIOOOOO 

«E toglilo» sbuffa Ivan. 


Vado in camera e spengo. Mi passo le mani sul viso, faccio un respiro profondo. Va tutto bene. Potrei rimanere in stanza e lasciarli fare. Anzi, è una buona idea. Mi ucciderò di seghe, ma almeno non le metto le corna. Mi sono defilato in maniera naturale, ora basta lasciarli soli e si dimenticheranno di me. Chiudo la porta. E’ incredibile quanto io stia bene in questa stanza. Questo è il mio posto sicuro. Qui nessuno mi porterà in un fossato dell’autostrada per spararmi un colpo nella nuca. Nessuno mi taglierà le dita con un coltello dorato. Nessuno mi troverà, qui. Nemmeno i ragni della Toscana. O i lupi dell’Arkansas. 

«Lupi di merda» mormoro. 

Dalla cucina sento Elena scoppiare a ridere. Forse sono stato cattivo con Ioro. Volevano solo giocare. Mi alzo dalla sedia, mi dirigo verso la porta e afferro la maniglia trovandola stranamente fredda. Entro in cucina da cui ormai provengono risate sguaiate e trovo Ivan che agita lo straccio dei piatti, menando fendenti verso la finestra. Elena ride isterica. L’orrore si impadronisce di me. 

«Che succede?!» chiedo, anche se nel cuore lo so già. 
«Ce ne sono un botto» grida Ivan «sono arrivati tutti in branco!» 
«I RAGNI DELLA TOSCANA» dico, indietreggiando «MI HANNO TROVATO» 

E’ a quel punto che li vedo. Sbucano da sopra la dispensa, lenti ma inesorabili, confusi con il marrone del legno. Entrano dalla finestra aperta, determinati a prendermi. Afferro il bicchiere sul tavolo e lo scaglio contro di loro. Il bicchiere vola fuori. Riprovo con le tazze appese, poi con i piatti che ho sottomano perché avvicinarmi sarebbe letale. La risata di Elena è diventata un muggito confuso e indistinto. Corro in bagno e vedo le piastrelle muoversi. Afferro il deodorante e corro in cucina con l’accendino, pronto a sterminare le bestie orribili. Ivan ha rovesciato la cesta degli spicci e delle chiavi per terra e se l’è messa in testa per evitare che delle bestie gli finiscano tra i capelli. 

«CAZZO, NEBO» urla «E’ PIENO DI ‘STE BESTIE, FAI QUALCOSA» 

Accendo l’accendino e spruzzo. Si spegne. Riprovo. Si spegne. Riprovo, ora l’accendino non va più. Elena ora è spaventata e grida qualcosa. 

«E’ ME CHE VOGLIONO» urlo «CHIUDITI NELLA MIA STANZA, E’ UN POSTO SICURO» 

Elena barcolla verso la mia camera, si distende sul letto, a quel punto io corro dentro, la lancio contro la scrivania per prendere il materasso e io e Ivan lo usiamo per tappare la porta della cucina. Da quel momento in poi non ricordo più niente. Nulla, nemmeno un frammento. Qualsiasi cosa sia successa in quell’appartamento, inclusi rapporti sessuali, non mi è dato sapere. Ivan mi raccontò che a metà abbiamo avuto una specie di barlume di lucidità e abbiamo blindato porte e finestre per evitare di suicidarci. Mauro fu tentato di chiamare i Carabinieri, ma fu comprensivo. Aspettò che ci passasse e fece uscire Elena, una donna di cui nessuno ha mai più avuto notizie. 

Quando Mauro si laureò ci chiese una foto che riproducesse “come ci aveva trovati quel giorno”. Non l’ho mai vista, perché al tempo le macchine fotografiche avevano la pellicola. 

Qualche giorno fa mi ha chiesto l’amicizia su Facebook. 
Mi ha detto che ce l’ha incorniciata in ufficio.

Le origini del veneto



Mestre. Treviso. Verona. Vicenza. Bassano. Belluno. Il livello culturale di questa regione rasenta talmente tanto l’incapacità di intendere e di volere che al Gazzettino presero me per fare la cronaca bianca.

Figuratevi che cos’era la media degli altri curriculum.



Qui fioriscono partiti indipendentisti, il M5S ha grande seguito, l’abbigliamento è così omologato che pare la versione gay degli operai vietnamiti, la pettinatura più in voga è “Balotelli” per lui e “frisèe Non è la Rai” per lei. Le religioni dominanti sono videopoker e reality, gli sport più praticati pilates e prostituzione casalinga. Le sole razze tollerate sono quelle che hanno una categoria su youporn. Qui parole come “altruismo” significano sboccare nell’etilometro per salvare quelli dopo. In città girano prevalentemente SUV, quelli che non ce l’hanno si appiccicano “auto di cortesia” sulla propria per smettere di vergognarsi. Mutui trentennali ospitano esaurimenti nervosi e cani, di solito 3000 euro di pedigree che latri a ogni stronzo che passa il tuo essere zitella. Qui i risparmi vengono ben investiti: cause civili, antidepressivi e mutui per le ferie da postare su Facebook. 

Se proprio sei una che ha svoltato, avvocati divorzisti e stivali da cavallerizza.
Del resto si sa che il punto G delle venete è alla fine della parola shoppinG.



Un prodotto tipicamente veneto è il bar Ikea.

Si tratta di locali sbocciati dalla geniale pensata “apriamo un bar uguale a 989485 altri, ma alziamo i prezzi e avremo una clientela esclusiva”. Così mentre al mondo esistono posti come il Bennigan’s pub di Trieste, il Bella Vida cafè a Praga o il Trabuxu a La Valletta, in veneto i bar somigliano  all’incubo di un designer palleggiatesticoli. Dopo due anni chiudono in bancarotta tra piagnucolii e suppliche di aiuti statali, convinti che la loro chiusura “solleverà un polverone”. In realtà finiscono in sedicesima sul Gazzettino senza che freghi un cazzo a nessuno tranne a una coppia che esulta dicendo “e vai, sono falliti, ora potremo aprire un bar come il loro, ma per una clientela esclusiva”. Anni di questa strategia hanno fanno sì che oggi, in veneto, è possibile bere mojito annacquato a 12 euro seduti in una cucina Ikea.
Stranamente a nessuno piace strapparsi le palle e prendercisi a sberle, così questi posti rimangono deserti.



Allora come fanno a durare così tanto? 
Con la bamba.

I gestori la comprano dai magrebini, la tagliano con l’intonaco e la vendono nel retrobottega ai cosiddetti “avventori esclusivi”, ossia persone che pur di sopportare l’orrore della propria vita snifferebbero sperma incrostato. Dopotutto fanno un lavoro che detestano in grado di pagargli oggetti inutili atti a sedurre donne ignobili con cui far rosicare persone che odiano, però tengono duro in attesa di Equitalia.
Questo di letto di Procuste termina quando in caserma dei Carabinieri arriva il nuovo comandante, prende il fascicolo “coglioni inutili da spazzare via per fare bella figura” e seleziona le prime venti schede. BAM! Il centro città diventa un’ecatombe di AFFITTASI VENDESI CEDESI finché una coppia decide di investire l’eredità paterna e aprire un bar.

-Però per gente esclusiva, eh? – sgomita lui alla moglie, ammiccando.





L’economia veneta in breve.
Ma qual è la storia di questa gente?
Cosa li spinge a legarsi le palle alla turbina di un F-35 e con un sorriso smagliante fare pollice in su al pilota? 

Se fosse un film partirebbe dalla fine, con lei in carcere che viene massacrata di botte da una prostituta romena e lui che si sta facendo spaccare i denti per succhiare meglio l’aidsburger di capitan Cazzoauncino. La telecamera indugia sui canini sanguinolenti a terra, indietreggia verso le sbarre mentre i suoni delle percosse svaniscono. Cielo bianco, poi azzurro. Nuvole. Scende adagio su una scuola e inquadra Cecilia, appoggiata al muretto, che legge Io e te 3MSCCecilia ha tredici anni, è figlia di un’imprenditrice e di un medico. Nessuno dei due genitori voleva che alla piccina mancasse niente. Le hanno presentato i rampolli delle famiglie bene, pagato rette in scuole cattoliche, iphone, iPad, iMac, vacanze in costa Smeralda, vestiti di Prada, scarpe Louboutin, trucchi di prima scelta e paghetta settimanale superiore allo stipendio di un operaio bosniaco.

Ma Cecilia è infelice.

Odia i genitori oppressivi, i professori che la criticano, i compagni di classe  che sono tutti bravi ragazzi. Lei vuole stare in mezzo a gente vera che sa stare al mondo, fa esperienze emozionanti e si ribella alla società. Per compensare le sue mostruose insicurezze Cecilia si accompagna a scarti da suburbia. In mezzo a loro è la più bella, la più intelligente, la meglio vestita, la più colta. Le donne del gruppo la odiano, gli uomini le muoiono tutti dietro e, cosa più importante, questo infastidisce molto sua madre.

Cecilia racconta aneddoti di inimmaginabili sofferenze patite per ingraziarsi i subumani affinché la compatiscano. Scopre che essere compatita le piace un sacco, così ingrandisce le storie fino a raccontare balle clamorose. Del resto, il pubblico è troppo stupido perché possa capirlo né ha le conoscenze per verificarlo. A sedici anni, fuori da una discoteca di gente vera – ossia scimmie impizzate di cartoni – conosce Manuel. Ha sette anni più di lei, è nato da una gangbang nei cessi di una discoteca di domenica pomeriggio. Tiene la voce in gola per sembrare più duro. A quindici anni ha mollato scuola per un lavoro di merda che gli possa comprare lo scooter e ora frequenta ragazzi che condividono la sua passione per le droghe, cosa che ne stermina alcuni con coltellate, incidenti stradali, eroina e/o suicidi post test HIV. 






Quando Cecilia sente queste storie capisce che è lui l’uomo della sua vita. Giovane, ribelle, duro, trasgressivo. Passano pomeriggi romantici a base di ketamina e coca cola light. Manuel deflora la fica di Cecilia su cui la madre aveva speso 600 euro di depilazione laser nella speranza che servisse a figli di commercialisti e avvocati. Dramma. Dolore. Tragedia. Conflitti. C’è tutto quello che Cecilia sognava. All’ennesima litigata a base di “smetti di vedere quel coglione” Cecilia fugge e va a vivere con i genitori di Manuel, persone semplici ma vere.

Lui disoccupato, lei finta invalida.

Insieme vedono milioni di volte gli unici film che Manuel capisce: il Padrino, Fast&furious, Blow e Scarface. Grazie a questi comprendono cosa devono fare: fottere il sistema, vivere come fuorilegge in fuga, una coppia innamorata contro il mondo omologato. Osare. Fare qualcosa che nessuno, NESSUNO, in quella città di fighetti, avrebbe il coraggio di fare: spacciare.

Partono con fumo e ganja, poi con cartoni e pastiglie fino a planare sulle dolci innevate  colline della cocaina. Le cose vanno benissimo. Loro sono più furbi delle forze dell’ordine e, quelle volte che la beccano, basta una telefonata alla madre di lei. Sono uniti. Inseparabili. Ribelli. Bellissimi. Cecilia come copertura lavora come banconiera, lui anche. 

Le amiche di lei si sposano, figliano, trovano lavori ordinari e patetici.
Cecilia le guarda e al mal di stomaco risponde, spavalda: “io sono migliore”.

Dopo qualche mese, con l’apertura mentale che solo la cultura ti dà, con l’esperienza che si ottiene solo confrontandosi con persone diverse, nasce il loro sogno: aprire un bar. Due anni dopo, grazie all’eredità dei genitori, Cecilia e Manuel consegnano al vecchio proprietario del locale una valigia di contanti e quando lui se ne va fanno l’amore sul vecchio bancone. Tre anni dopo gli affari vanno malissimo; nessuno vuole bere il loro mojito da 12 euro con menta di strada e rum cinese. Sono pieni di debiti, litigano sempre e Manuel ha un’altra.
Una mattina Cecilia sta pulendo il bancone, piangendo lacrime silenziose e facendosi molte domande, quando davanti al bar si fermano due volanti dei Carabinieri. Li osserva tra il terrore e l’incredulità. La telecamera la inquadra, sola in mezzo a un bar deserto. Le ombre dei militari si allungano verso di lei, percorrendo la lama di luce del mattino. L’inquadratura si sposta lentamente a sinistra e mette a fuoco il titolo del Gazzettino: “Nuovo comandante dei Carabinieri di Mestre”.
Primissimo piano del volto di Cecilia. Nelle iridi si intravedono riflesse due sagome, stagliate contro la luce esterna. Le labbra di lei tremano. Con un ultimo movimento che fa scendere le lacrime, Cecilia getta un’occhiata alla foto di Al Pacino in bianco e nero sul muro, poi un Carabiniere ci si para davanti. Ora la telecamera inquadra il bar dall’esterno e sale, lenta, verso i tetti e poi al cielo. Non c’è colonna sonora, solo il suono del traffico pigro del mattino. Lentamente riemergono i suoni delle sevizie e i gemiti di dolore del carcere. I titoli scorrono lassù, nel cielo che si fa via via più azzurro.

Benvenuti in veneto.