Blue mamba, i ragni della toscana e un racconto erotico realmente avvenuto



Mauro, un fighetto di Treviso convinto di diventare CEO della Gas studiando scienze della comunicazione, torna da casa della sua ragazza e, arrivato al suo condominio, qualcosa sotto i suoi piedi scricchiola. Osserva. E’ un pezzo di vetro. Attorno trova bicchieri distrutti e tazze stranamente familiari. Alza la testa e nota che la finestra del suo appartamento è aperta.


Non che ci sia niente di strano. E’ una caldissima domenica e l’intera Trieste s’è trasferita a barcola per sole, culi e clanfe. Lui abita al quarto piano di un condominio di via Tigor, a Trieste, di fronte alla vecchia facoltà di scienze della comunicazione. Dubbioso, apre e sale le scale. Si avvicina alla porta. Dall’interno dell’appartamento non provengono suoni. Mauro ruota la chiave e spinge. Qualcosa, dall’altra parte, occlude l’ingresso. 

«Oh, c’è nessuno?» chiede, bussando. 
Dall’interno provengono gridolini sommessi, tipo “iiih” ed “eeek”. 

«Dai, non fate i coglioni, aprite la porta» 






Silenzio. 
Mauro si guarda attorno. 





«Nebo? Ivan? Che state combinando?» 
Bisbigli. 

«SEI MAURO?!» 
«E chi dev’essere?» 

Ulteriori bisbigli. 

«PUOI PROVARLO?» 
«Dai, basta, devo studiare» 
«Fai scivolare un documento sotto la porta» 

Mauro inizia a incazzarsi. Le due matricole con cui è finito in appartamento sono un disastro. Uno è un rapper che fa basi dalla mattina alla sera, l’altro è un fancazzista tracagnotto che mangia sandwich burro e arighe alle 3 di mattina. Tuttavia, nella voce dall’altra parte della porta c’è qualcosa di sbagliato. Fa scorrere la carta d’identità. 

«SEI SOLO?!» 
«Sì che sono da solo, con chi dovrei essere?» 
«E Shabir de Juana?» 
«Chi?» 
«E’ ANCORA LI FUORI, SHABIR DE JUANA?» 

«Ma che cazzo dite? Chi è Shabir de Juana?» 

La porta si schiude, poi dall’interno c’è un tramestio. Mauro apre lentamente la porta e si paralizza in preda al panico. Sembra che qualcuno abbia messo il contenuto della casa in uno shaker. C’è acqua per terra, sui muri, abiti e scarpe fradici sono sparpagliati su ogni mensola e scaffale. La porta della cucina è sprangata da un materasso. Da qualche parte sente una ragazza piangere. Prima che riesca a dire qualcosa, dall’angolo sbucano fuori i suoi due coinquilini. 

«NON TI MUOVERE O L’AMMAZZIAMO» grido, puntandogli contro il deodorante da bagno. Ivan è di fianco e tiene un coltello alla gola di un pelouche, regalo della ragazza di Mauro. Per un lungo istante ci studiamo.

«Ivan, perché…» mormora Mauro, sotto shock «…perché hai una lampadina in bocca?» 
«E’ acceFa?» domanda Ivan, allarmato, girandosi verso di me. 
«No» dico. 
«ALLOFA NON FE’ TEMFO DI FPIEGAFE, CHIUFI LA FORTA» 














Elena ha occhi azzurri, colorito emaciato, caschetto nero tinto, vestiti neri, piercing, un fisico esile e genitori divorziati. In teoria studia scienze dell’interculturalità, in pratica archivia droga con la bocca e cazzi con il culo, tranne quando si confonde. Quelle come Elena sono l’equivalente femminile degli spogliarellisti, vanno trombati in fretta perché in uno o due anni crepano a causa delle sostanze che assumono. Ivan la rimorchia al bar dell’università all’ora di pranzo e la porta a casa. Mi viene presentata, lei è languida e già barcollante, Ivan è chiacchierone. Mollo la base che stavo facendo e ci sediamo tutti e tre in cucina. Dopo dieci minuti di allusioni c’è così tanta tensione sessuale che Ivan sborra steroidi dalle orecchie e potremmo trombarla senza problemi, se non fosse che io a Mestre ho la ragazza. 

Che mi mollerà due mesi dopo per un tennista con la TT, certo. 
Succede sempre così, certo. 

Tutte puttane, certo. 



Continuo a buttare in vacca le allusioni spinte e decido di disimpegnarmi per lasciarli soli, ma Elena non è d’accordo. Quando pronuncio la frase più ridicola possibile (“devo studiare”) lei batte le mani sul tavolo e grida: «Blue mamba!» 

Io e Ivan ci guardiamo. 
«Che vuol dire?» 
«Ecco, c’ha l’AIDS»
«Ma no, Lsd! Vi va?» 

Ravana in tasca ed estrae una bustina con tre pezzettini quadrati blu scuro con un rettangolo nero al centro. Li tira fuori con una pinzetta da unghie e li appoggia sul tavolo. Ci sporgiamo a guardarli. E’ in casi come questi che bisogna essere responsabili. Purtroppo il parto cesareo mi ha invertito le sinapsi e da allora inverto le frasi matrimonio/droga. Così, mentre sull’altare risponderò al prete “i vincenti non si drogano”, davanti a un cartone di LSD rispondo 

«Sì, lo voglio» dico. 
E mi siedo. 

Ivan è preoccupato, poi si rende conto che farebbe la figura del pavido e annuisce. E’ strano come nella vita basti un ritardato per generarne altri venti. 

«E’ la prima volta?» 
«Sì» dico. 
«U-uh» 
«Questo ve lo smezzate» dice, tagliando un cartoncino e prendendolo con la pinzetta «Fuori la lingua» 

Il contatto del metallo sulla lingua è l’unica cosa che sento. Lo tengo fermo in bocca, aspettando di esplodere come i nemici di Kenshiro. Non succede. 

«Mettete un po’ di musica» 
«Che tipo?» 
«Lllllllenta» fa lei, mostrando la lingua. 

Vado in camera, scorro i CD, programmo lo stereo che spari Portishead, Smoke city e Nightmare on wax, dimenticandomi che c’era anche la quarta piastra occupata. Torno di là. Elena ascolta, annuisce. S’infila in bocca l’acido e si muove a tempo, lenta. Io ho sempre in bocca il cartone e non so bene che fare. Deglutisco? Sputo? Chiedere mi sembra brutto. Lo sento diventare pastoso. Ivan sposta lo sguardo tra me e lei. Mi siedo, verso tre bicchieri di Tavernello e mando giù. Elena si alza e balla a occhi chiusi, poi invita Ivan. Mi accendo una sigaretta e Elena me la strappa di bocca. Aspira una boccata e la soffia in faccia a Ivan, poi si baciano. Si baciano tanto. Lei si stacca, si gira e mi sorride.

Mi sento in bermuda nelle prime file di un funerale di Stato.

Mi chiama col dito e le mie gambe non fanno quello che dovrebbero, così mi trovo a strusciare un’erezione contro il suo culo evitando di incrociare gli occhi con Ivan, che già di suo ha l’espressione di una gallina davanti a un’equazione. Al secondo bacio con Ivan cerco di allontanarmi, ma lei mi afferra la mano e mi tiene lì. Si stacca da lui e si gira verso di me. Faccio in tempo a pensare “sto per assaggiare la cazzo di saliva di Ivan” e la sto limonando. La situazione mi sfugge di mano come solo i titoli di studio sanno fare. Noto che una mano di lei è ancorata all’inguine di Ivan. La seconda arriva al mio, trovando solidi argomenti per rimanervi. Mi infila il dito nell’asola della cintura, lo stratoreattore nel mio cervello porta la coscienza vicina allo stallo, la canzone finisce, le dita di Elena sfiorano il mio sparafigli e nell’aria risuona l’inno di Mameli. Ci blocchiamo. 

FRATEEELLIII, D’IIIIITAAAAALIAAAAA 

«Ma» fa lei, tirando fuori la mano «ma che cazzo» 
«Oh, eh» dico, risistemandomi la cintura «ho masterizzato gli Inni nazionali» 
«Perché?» fa Ivan «perché, di tutti i motivi più del cazzo che esistano in questo sporco mondo di merda, hai masterizzato gli inni nazionali? E soprattutto, perché li hai messi?» 
«Cercavo… roba da campionare…» arrossisco «per le basi, sono u-un… faccio musica. Mi sono dimenticato il CD dentro» 

DEEELL’EEEELMOOOOO, DIIIII SCIIIIIPIOOOOO 

«E toglilo» sbuffa Ivan. 


Vado in camera e spengo. Mi passo le mani sul viso, faccio un respiro profondo. Va tutto bene. Potrei rimanere in stanza e lasciarli fare. Anzi, è una buona idea. Mi ucciderò di seghe, ma almeno non le metto le corna. Mi sono defilato in maniera naturale, ora basta lasciarli soli e si dimenticheranno di me. Chiudo la porta. E’ incredibile quanto io stia bene in questa stanza. Questo è il mio posto sicuro. Qui nessuno mi porterà in un fossato dell’autostrada per spararmi un colpo nella nuca. Nessuno mi taglierà le dita con un coltello dorato. Nessuno mi troverà, qui. Nemmeno i ragni della Toscana. O i lupi dell’Arkansas. 

«Lupi di merda» mormoro. 

Dalla cucina sento Elena scoppiare a ridere. Forse sono stato cattivo con Ioro. Volevano solo giocare. Mi alzo dalla sedia, mi dirigo verso la porta e afferro la maniglia trovandola stranamente fredda. Entro in cucina da cui ormai provengono risate sguaiate e trovo Ivan che agita lo straccio dei piatti, menando fendenti verso la finestra. Elena ride isterica. L’orrore si impadronisce di me. 

«Che succede?!» chiedo, anche se nel cuore lo so già. 
«Ce ne sono un botto» grida Ivan «sono arrivati tutti in branco!» 
«I RAGNI DELLA TOSCANA» dico, indietreggiando «MI HANNO TROVATO» 

E’ a quel punto che li vedo. Sbucano da sopra la dispensa, lenti ma inesorabili, confusi con il marrone del legno. Entrano dalla finestra aperta, determinati a prendermi. Afferro il bicchiere sul tavolo e lo scaglio contro di loro. Il bicchiere vola fuori. Riprovo con le tazze appese, poi con i piatti che ho sottomano perché avvicinarmi sarebbe letale. La risata di Elena è diventata un muggito confuso e indistinto. Corro in bagno e vedo le piastrelle muoversi. Afferro il deodorante e corro in cucina con l’accendino, pronto a sterminare le bestie orribili. Ivan ha rovesciato la cesta degli spicci e delle chiavi per terra e se l’è messa in testa per evitare che delle bestie gli finiscano tra i capelli. 

«CAZZO, NEBO» urla «E’ PIENO DI ‘STE BESTIE, FAI QUALCOSA» 

Accendo l’accendino e spruzzo. Si spegne. Riprovo. Si spegne. Riprovo, ora l’accendino non va più. Elena ora è spaventata e grida qualcosa. 

«E’ ME CHE VOGLIONO» urlo «CHIUDITI NELLA MIA STANZA, E’ UN POSTO SICURO» 

Elena barcolla verso la mia camera, si distende sul letto, a quel punto io corro dentro, la lancio contro la scrivania per prendere il materasso e io e Ivan lo usiamo per tappare la porta della cucina. Da quel momento in poi non ricordo più niente. Nulla, nemmeno un frammento. Qualsiasi cosa sia successa in quell’appartamento, inclusi rapporti sessuali, non mi è dato sapere. Ivan mi raccontò che a metà abbiamo avuto una specie di barlume di lucidità e abbiamo blindato porte e finestre per evitare di suicidarci. Mauro fu tentato di chiamare i Carabinieri, ma fu comprensivo. Aspettò che ci passasse e fece uscire Elena, una donna di cui nessuno ha mai più avuto notizie. 

Quando Mauro si laureò ci chiese una foto che riproducesse “come ci aveva trovati quel giorno”. Non l’ho mai vista, perché al tempo le macchine fotografiche avevano la pellicola. 

Qualche giorno fa mi ha chiesto l’amicizia su Facebook. 
Mi ha detto che ce l’ha incorniciata in ufficio.