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Kiska: il più grande disastro navale nella Storia della marina militare di tutti i tempi.

IL BRIEFING
E’ il primo agosto del 1943 a fort Lauderdale. Sulla lavagna luminosa vengono proiettate mappe dettagliate dell’isola di Kiska. Il colonnello Bishop suda davanti ai più alti vertici militari degli Stati Uniti. La sua promozione più ambita è a un passo, e grazie a un colpo di fortuna è entrato in possesso di un’informazione. Se ben sfruttata, potrebbe permettergli di scavalcare l’Ammiraglio Ellroy.

«Siamo a un passo dalla disfatta, signori» dichiara «I giapponesi occupano buona parte delle nostre isole. Stiamo perdendo l’oceano, e presto spunteranno Feng Dong da ogni angolo. I nostri figli mangeranno involtini primavera invece di hamburger. La fine, vi dico, è prossima.»

Occhiate scettiche.

«Colonnello» domanda il capo di Stato Maggiore «di che cazzo va farneticando?»
«Guardate da voi, signori!» esclama Bishop «L’AMERICA è in mano al nemico e voi non ve ne siete accorti. Un lavoro superlativo, vero, ammiraglio Ellroy?» termina sarcastico, poi fa partire le diapositive.

I militari si sporgono. Dal fondo della sala il capo dell’aeronautica punta il binocolo verso la parete. Scruta con attenzione. Abbassa. Scuote la testa.

«Ebbene?!» tuona Bishop.
Silenzio.

«Questo… questo significa» mormora la CIA «che potremmo avere trovato la leggendaria Isola che non c’è?»
Nessuno fiata.

«Era per darvi un’idea della posizione» minimizza Bishop «ora ingrandisco.»

Molti militari sono a pecora sul tavolo, protesi verso la parete. Alcuni fanno conchetta con le mani per vedere meglio.

«Lei vede qualcosa?»
«Pare uno schizzo sfuggito alla mia segretaria» replica uno.
«Ci servirà molta polvere di fata, questo è certo» annuisce la CIA, scrivendo furiosamente su un taccuino.
«INGRANDIAMO ANCORA» sbotta Bishop.

Cori di “aaah” e “oooh” risuonano nella situation room. È tutto un fiorire di sorrisi, pacche sulle spalle, sospironi. Quello della CIA scoppia a piangere e strappa il bloc notes.

«E insomma su quella spelonca ci sono giapponesi» riassume Ellroy.
«Assolutamente sì.»
No.

Nel 1942 vennero mandati sull’isola di Kiska una decina di marines a gestire una stazione meteo. I giapponesi, probabilmente cercando un posto dove pisciare, ci finiscono sopra. Uccidono due americani e deportano gli altri otto, poi restano lì a rimirare nebbia e gelo. Il comando della Difesa non si accorge che le trasmissioni meteo sono state interrotte; del resto chi ascolta il meteo a due passi dall’Alaska? Non è che un giorno dicono “oh, qui è tutto un fiorir di begonie, venite a fare picnic”. Oggi -20°, ieri -21°, l’altroieri -20°, abbiamo capito.

Un anno dopo un B-24 Liberator sorvola i paraggi, nota delle navi da guerra che si allontanano dall’isola e riferisce alla torre. Questa chiede che bandiera battono, il B-24 replica che non si vede niente perché c’è brutto tempo. Siccome in America un dubbio sollevato dal bidello di un istituto per focomelici basta per trasformare l’Iraq in un deserto nucleare, è ufficiale: a Kiska ci sono giapponesi.

«Cosa propone, colonnello?» domanda Ellroy.
«LA DISTRUZIONE ANALE» ringhia Bishop «BOMBE CHE DEVASTANO UOMINI E MEZZI A MIGLIAIA, E POI TRUPPE DA SBARCO A MIGLIAIA, E PROIETTILI A MIGLIAIA. IMMAGINATE LA SCENA, A MIGLIAIA, FROTTE DI MARINES A MIGLIAIA CHE ASSALTANO I GIAPPONESI RICONQUISTANDO GLORIOSAMENTE uno scoglio.»

Ellroy si gira verso il capo di stato maggiore, che scuote la testa.

«Le darò un canotto di Topolino e un cane antidroga» termina Ellroy, alzandosi «ora, se volete scusarmi, mia moglie non si picchia da sola.»
«Aspettate!» tuona Bishop «mi ascolti, signore. Pensi all’impatto psicologico sulla popolazione. Sì, è uno scoglio, ma è il nostro scoglio. Come reagiranno i civili, sapendo che bastano tre sniffamutandine per rubarci la terra? Dobbiamo dare un segnale forte al mondo. Oggi i cagariso si prendono uno scoglio, domani i nostri figli si chiameranno feng dong ching chon e non mangeranno hamburger.»
«Lei conosce almeno la differenza tra un nome cinese e uno giapponese?»
«Sono la stessa cosa.»
Ha inizio l’operazione Cottage.

 

 

L’ESERCITAZIONE
La marina militare degli Stati Uniti comincia subito in grande stile durante le esercitazioni pre sbarco, in mezzo a una nebbia spaventosa. L’USS Mississippi e l’USS Idaho, al comando del commodoro Griffin, decidono di testare il radar di bordo.

«Mi spieghi» dice il commodoro all’addetto radar.
«Ecco, vede, un radar ha una sensibilità regolabile» spiega il ragazzo «se la teniamo alta vede solo oggetti grossi tipo bombardieri, portaerei, cose così. Se invece la abbassiamo possiamo vedere cose più piccole tipo caccia, pescherecci, navi… e via dicendo.»

«E se la abbassiamo al minimo?»
«Arriviamo a vedere i gabbiani.»
«SEH VABBE’»
«Commodoro, le assicuro.»
«DAI, PROVAMELO, GAY SE NON ME LO PROVI, PROVAMELO!»
L’addetto abbassa al minimo. La plancia di comando esplode in una cacofonia di luci rosse e allarmi. Sugli schermi radar appaiono inspiegabilmente centinaia di contatti non identificati.

«Cosa succede?!» tuona il commodoro.
«Signore! Contatti multipli non identificati!»
«Tutti ai posti di combattimento!»
«No, aspetti» fa l’addetto «sono io che… cioè, lei ha chiesto…»
«NON HO TEMPO PER LE TUE PUTTANATE, MOZZO, TRASMETTETE L’ORDINE ANCHE ALLA USS IDAHO, ARMARE I CANNONI»

Nell’USS Idaho l’ufficiale in seconda sta bevendo felice il suo tè. Quando riceve l’ordine sbircia il radar. Nulla. Guarda fuori. Nebbia. Suppone un’esercitazione e arma i cannoni a salve, ma l’equipaggio, più motivato, decide di mettere i proiettili veri. Non appena il commodoro ordina di sparare ai volatili, la seconda corazzata lo imita. Il suono dei cannoni amici giunge all’orecchio del commodoro, che li scambia per colpi nemici e risponde al fuoco. La corazzata alleata fa lo stesso ragionamento. E’ importante che visualizziate due corazzate degli Stati Uniti che per sei ore di fila cannoneggiano onde, cormorani e pulci di mare, lanciando ovazioni di gioia ogni volta che sentono i colpi degli alleati perché “anche questa volta i nemici non ci hanno colpito”. Dopo l’estenuante battaglia contro la fauna del mar di Bering finiscono le munizioni e si preparano a essere abbordati.

Non accade.

 

 


Il Presidente Roosvelt ascolta l’esposizione dei fatti.

 

 

 

Bishop è sull’attenti nell’ufficio dell’Ammiraglio Ellroy che studia con attenzione un foglio, poi lo appoggia e incrocia le mani.

«Ricapitoliamo: i suoi uomini hanno speso l’intero pil del Kansas per sparare alle anatre.»
«Non è esatto.»
«Colonnello, in questo rapporto si parla di 51,814 colpi di cannone da 360mm impiegati per andare a piccioni. Sbaglio?»
Bishop scuote la testa.

«No, infatti. Ora, come noterà, il commodoro Griffin è stato degradato a un ruolo più consono alle sue capacità strategiche.»
Bishop getta una fugace occhiata nell’angolo dell’ufficio.

 

 

 

 

«N-noto» mormora, pallido.
«Bene. Ora che l’esercitazione è terminata, è tempo di fare sul serio. Sarà lei in persona a guidare l’attacco; tenga presente che in caso di fallimento abbiamo un water che non funziona. Può andare.»
Bishop scatta sull’attenti, si gira verso l’appendiabiti e fa il saluto.

 

 

L’ATTACCO
Il 15 agosto 1943, attorno a Kiska un totale di 34,426 soldati americani e canadesi sono pronti all’assalto. Ci sono la 7° divisione e il 4° reggimento di fanteria, l’87° reggimento artiglieria di montagna, 5,300 soldati canadesi della 6° e 7° divisione. Tre fregate, un sommergibile, una corazzata e 92 navi, a cui si aggiunge il supporto aereo di 168 aeroplani. Tra mare e cielo c’è così tanto acciaio che le bussole sbarellano. Sulla corazzata, Bishop studia gli ultimi dettagli.

 

«Partiremo con un bombardamento a tappeto. Tre passaggi su tutto quello che somiglia al nemico. Dopo il primo apriremo il fuoco con le navi sulla costa. Terminata l’artiglieria pesante, manderemo la prima ondata di truppe. I canadesi arriveranno da nord, noi qui» dice, indicando il lato ovest dell’isola «e contemporaneamente la seconda ondata attaccherà qui, dal Gertrude cove, in modo da prenderli con una manovra a tenaglia. Il sommergibile si occuperà di eventuali attacchi subacquei.»
«Non si preoccupi, signore» sorride il secondo in comando «abbiamo la migliore squadra possibile.»
«A proposito, dov’è Wallace?»
«E’ in coperta, sta cercando di risolvere un problema con le scorte d’acqua.»

 

«Bene, allora.»

Tutti gli ufficiali sono pronti. Il colonnello guarda la foto della sua anziana madre, osserva l’onnipresente nebbia e annuisce.

«Capitano, dia l’ordine» sentenzia.
«Sissignore!» risponde il capitano afferrando la radio «a tutta la flotta, luce verde, ripeto, luce verde! Iniziare operazione Cottage!»

La prima ondata di aerei decolla dalle portaerei e sorvola Kiska. Bombardano tutto. Rocce, scogli, prati, laghetti, pozzanghere. La seconda si spinge all’interno, trovando la stazione meteo, delle baracche sospette e quelle che sembrano postazioni di contraerea. Spazza via qualsiasi cosa a furia di detonazioni che si susseguono a ritmo forsennato. Il fumo nero si confonde con la nebbia. La terza ondata di aerei non vede nulla, ma bombarda lo stesso per sicurezza. E’ il turno delle navi. Oltre duecento cannoni aprono il fuoco sulla costa, mettendo in atto la più spettacolare opera di terraformazione mai creata dall’uomo. Kiska è ormai un unico blocco grigiastro dove detriti, nebbia e fumo si confondono.

«Quanta resistenza avete trovato?» domanda Bishop.
«Era un inferno, signore. Ventisei aerei abbattuti e altrettanti piloti dispersi.»
«SIGNORE!» grida il capitano «ABBIAMO PERSO OGNI CONTATTO CON IL SOTTOMARINO!»
«Cristo, sono tosti» mormora Bishop a denti stretti «prepararsi a sbarcare, forza. Avanti tutta!»

Per raggiungere la costa una nave incappa in una mina di profondità. Del sommergibile non si sa più niente. Le truppe sbarcano urlando e aprendo il fuoco nella nebbia, dove si agitano ombre indistinte. E’ un massacro simile ai primi venti minuti di Salvate il soldato Ryan. Marines morti e mutilati giacciono a terra privi di vita. Il comando dà ordine di avanzare. Dall’altra parte dell’isola canadesi e americani fanno lo stesso, stringendo i giapponesi in una micidiale tagliola. L’avanzata è lenta e complessa. Stando ai rapporti la resistenza è incredibile. Trappole, mine e artiglieria pesante decimano la prima ondata.

«Signore, i canadesi ci informano che le perdite sono massicce» fa il capitano «Stiamo perdendo il lato ovest.»
Bishop riflette rapidamente: «Fate convergere la seconda ondata di marines dall’altra parte. Reimbarcateli e mollateli lì a dargli una mano.»

Viene eseguito. Grazie all’apporto di truppe fresche il lato ovest riprende ad avanzare in un’oscena orgia di nebbia, carne, roccia, acciaio e sangue. Cadono a centinaia, ma finalmente raggiungono il centro dell’isola. Il lato est, nel frattempo, subisce la carenza di uomini. La terza ondata di marines sbarca e dopo un’ultima, drammatica battaglia, uccide l’ultimo nemico.

«Sergente maggiore a mamma chioccia» ansima il marines «Kiska è nostra.»

Nella sala comando della corazzata Bishop scatta in piedi assieme a tutti gli altri ufficiali, urlando di gioia. Dopo un rapido giro di pacche sulle spalle e abbracci sbarca anche lui sull’isola, mentre morti e feriti vengono riportati sulle navi. Il sergente gli corre incontro.

«Quanti prigionieri?» domanda Bishop.
«Nessuno» sorride il sergente.
«Splendido, così mi piace. Vediamo la cima di quest’isola dannata.»
La nebbia si dirada.

Bishop osserva i corpi di morti e feriti, concentrandosi sulle uniformi. Non trova quello che cerca. Le sue natiche si contraggono fino a fondersi in un unico blocco di carne. Scende, continuando a cercare. Bianco come un cencio afferra la radio.

«Chapithano» ansima «quanti giapponesi morti ci sono sul suo lato?»
«NON SO DIRGLIELO, SIGNORE, QUI E’ UN MASSACRO, STIAMO CERCANDO DI OSPEDALIZZARE I FERITI MA NON SO SE
«Capitano» ripete Bishop, osservando un gabbiano che passeggia «quanti sono i nostri caduti?»

Secondo i libri di Storia militare il colonnello della marina militare Joey Bishop ha conquistato uno scoglio deserto perdendo solo 313 uomini e 1200 feriti. I giapponesi avevano abbandonato l’isola almeno due mesi prima. Il sommergibile viene ritrovato solo nel 2007. Apparentemente, si era affondato da solo.

 

 

L’EPILOGO
L’Ammiraglio Ellroy osserva la linea della nuova fregata appena varata. I tavoli del rinfresco sono colmi di leccornie, le mogli e le fidanzate dei militari riempiono l’aria di un piacevole chiacchiericcio. Un uomo sulla quarantina, con folti baffi, gli si avvicina. Osserva quello che sta guardando Ellroy.

«Che linea» asserisce il baffuto.
«Già» dice Ellroy «speriamo abbia un equipaggio degno di portarla.»
«Oh, lo sarà. Ne sono sicuro. Sarò io, il comandante.»
Ellroy si gira, squadra l’uomo, un piccolino coi baffi. Nota i gradi.
Non dice nulla e torna a fissare la nave.

«Se posso chiedere» osa baffone «che ne è del colonnello Bishop?»
«E’ legato al galleggiante che segnala il livello delle acque nere. Quando la merda gli arriva al naso è autorizzato a informare la manutenzione.»
«Mio Dio. E per quanto durerà questa punizione?»
Ellroy si gira a guardare il nuovo capitano di vascello: «Finché non andrà in pensione, capitano.»
Baffone ha un brivido, poi sorride e porge la mano: «Io le prometto che io non la deluderò.»
«Lo spero» sospira Ellroy, stringendola «il suo nome?»
«Wilfred Walter, comandante della USS William D. Porter»

Comunicazione di servizio su quello che è successo al post (che non c’è più)




Sulla mia pagina Facebook vengo contattato da un tizio che chiameremo Pisquano Guerra. Ha una proposta di lavoro straordinaria: lui fa un sito pieno di pubblicità, io ci scrivo dentro e lui prende metà dei soldi non si capisce perché, visto che la sua parte di lavoro consisterebbe nel digitare il pin sul bancomat. 
«SI MA COMUNQUE la tua metà sarebbe notevole» spiega.
«Quanto?»
«Ah sicuro facciamo 3000 al mese, tu pagandoci le tasse ne piglieresti 800-900»
«Capisco. Tuttavia…»

«NO NO NO SPETTA POI comunque faremmo su soldi a palate, stiamo parlando di carriole di soldi che non sapremo più come spendere. Ci mettiamo niente a raggiungere cifre di quattro zeri, eh»

Mi passano davanti immagini splendide. Dopotutto, il mio reddito viene da Cosmo. Un giornale che paga bene, presto e non sfora consegne, ma basta giusto per campare. Con 900 euro in saccoccia potrei andare a convivere con la Leo a Milano. Aprire la cassetta delle lettere senza cagarmi addosso ogni volta che vedo ACEGAS. La spesa in un posto che non sia l’Ipercoop. Vestiti che non provengono solo dal mercatino dell’usato. Una macchina diversa dalla mia 600 con 170.000 chilometri. Vacanze. Ho le pupille a forma di euro, non vedo più un cazzo. 
E’ tutto bellissimo. 
Sì, lo voglio.
Chiedo a Pisquano Guerra di dimostrarmi quello che dice. Inizialmente nicchia, poi mi linka alcune pagine gestite da lui che totalizzano numeri di like impressionanti. Guardo. Capisco.
SI PERO’ OTTOCENTO EURO NEBO OTTOCENTO EURO OTTOCENTO EURO.
Vado a vedere chi è Pisquano Guerra e scopro che fa parte di un partito.
Quel partito
OTTOCENT
Quello guidato da un pregiudicato che ha ucciso tre persone e che passa la vita a diffamare persone in piazza, oltre che a omettere, occultare, distorcere fatti fino a mentire senza vergogna. E’ quel tizio che gridò “L’ITALIA E’ IN GINOCCHIO, CHIEDO UN INCONTRO CON NAPOLITANO”, il presidente della Repubblica rispose “ok, vieni pure” e il tizio replicò “SI MA ORA NO PERCHE’ SONO IN VACANZA IN COSTA SMERALDA”.

Addio 800 euro, tanto al mercatino dell’usato becco un sacco di figate pazzesche. Dico di no. Pubblico uno screenshot della conversazione sul blog. Il signor Pisquano Guerra mi contatta su FB parlando di querele, polizia postale ed altre amenità. Io non voglio sputtanarmi i risparmi in spese legali perché devo cambiare le gomme della macchina, tolgo tutto.

Fine.

E oggi andiamo in spiaggia libera, dove vanno tutte le persone intelligenti

Nasciamo urlando mentre sventriamo la passera di nostra madre. A quattro anni urliamo perché ci spaccano il giocattolo in testa. A dieci perché trovare una stronza disposta a farci i puppini è più arduo che nelle riviste porno. A quattordici urliamo perché ci hanno bocciato. A diciotto perché i nostri genitori ci mandano a lavorare a calci in culo. A ventidue urliamo perché la juve, unica soddisfazione della nostra vita, ha parruccato le partite. A ventisei urliamo perché finalmente dopo una settimana di merda possiamo uscire a divertirci e moriamo contro un platano urlando.

Però la vita ha anche dei lati positivi.
Prendiamo il mare.

La creatura che tolleriamo al nostro fianco solo perché ha dei buchi dove inserire il pene ci sveglia alle sei. Invece di abbatterla con un cazzotto asseriamo “sì, amore, certo” e con ben tre ore di sonno addosso ci laviamo i denti col rasoio e pisciamo nell’armadio a muro. La morosa ci ridirige a ceffoni. Carichiamo zaini da trekking con creme presole, post sole, costumi di ricambio, frutta, panini, acqua, spray antizanzare, thermos, asciugamani, ombrellone e con 35 chili di stronzate inutili usciamo di casa. Il sole non è ancora sorto. Montiamo sull’ignobile cacaio che nostra morosa voleva comprassimo, uno scooter a due posti che costa come un battaglione di Fifty ed esiste solo nel nord Italia. “Praticissimo nel traffico” per due mesi l’anno, il resto è un inferno di intemperie, gelo e raffreddori. Solo il tre febbraio, mentre ogni minimo spiffero nella tuta è una lama d’orrore che ti criogenizza la pelle, comprendi quanto l’acquisto sia stato scaltro.

Si parte.

Attraversi strade deserte, sorpassi pezzi di motociclisti che i pompieri stanno ancora ricostruendo a bordo strada ascoltando in cuffia la musica di Tetris dopo che i centauri, esaltati dal rettilineo, hanno sfiorato i 200 prima di essere proiettati nella troposfera dai dissuasori. Arrivi, parcheggi. Togli l’abbigliamento da astronauta necessario a pilotare il cacaio, indossi le infradito e arranchi nella sabbia. Ti accampi vista mare che il sole fa capolino. Tutto ciò che vuoi è rimetterti a dormire per dimenticare in quanti modi la vita te lo sta sparando nel culo, ma la fodera da cazzi di fianco flauta “no, tesoro, prima devi metterti la crema che ti scotti”. Ti lubrifichi come un bodybuilder.

«Ora la metteresti a me?»
A quanto pare la tua ragazza è tetraplegica.

 

Ti alzi.
Per farlo sollevi un inspiegabile vortice di sabbia che ti si incolla addosso grazie alla crema precedentemente disposta. Canticchiando “enter Sandman” oltrepassi la soglia della disperazione e vuoi solo dormire. Ti giri. Il tuo asciugamano si é ricoperto di sabbia, lo sbatti e il vento ti spalma addosso mezzo litorale. Provi a riposizionarlo. Arriva attorcigliato. Riprovi. È un origami di un cigno. Riprovi. E’ padre Pio. Al quinto tentativo vorresti solo cacarci dentro e incendiarlo, ma la morosa si alza e ti aiuta deridendoti. Sei già sudato come una bestia. Crema solare, sudore e sabbia si mescolano ai tuoi peli ascellari creando una poltiglia abrasiva che ti scortica la pelle.
Ti distendi.
Chiudi gli occhi.

«Bagnetto!» squittisce la femmina «bagnetto! Bagnettobagnettobagnetto!»

Valuti se stordirla con un calcio a girare, ma rinunzi. Attraversi decametri di spiaggia arroventata saltellando come un orango, dopo sette secondi il dolore ti fa sballare e salti a pié pari sul bagnasciuga, atterrando sulla striscia di conchiglie non ancora abbastanza tritate che ti trafiggono le piante dei piedi. In una credibile interpretazione del lago degli ippopotami avanzi tra granchi morti, bottiglie di plastica, rifiuti d’ogni sorta, legno e colonie di tetano. Ridotto come Gesù Cristo entri in acqua. Lo sbalzo termico si fa via via piú orrendo fino ad arrivare ai testicoli, ove milioni di spermatozoi entrano in sonno criogenico.

«Allora, che aspetti?» trilla lei, sguazzando felice «haha, non mi dirai che è fredda! Dai, buttati!»
Trattieni il fiato e salti in avanti.

Il corpo si libera dal putridume oleoso per infilarti in un banco di alghe da cui emergi uso cecchino vietnamita. Sguazzi e il refrigerio ti fa star bene. Galleggi, chiudi gli occhi. Il benessere viene interrotto dalle grida stridule della tua pompinara di fiducia.

«MEDUSA! ODDIO CHE SCHIFO, UNA… NO, DU… TRE! QUATTRO! Sono dappertutto! Portami a riva, ti prego!»

Ti carichi sulle spalle la vagina e attraversi un branco di meduse che ti ustionano caviglie, polpacci, pancia. Riattraversi l’inferno di magma sabbioso e la riporti sana e salva alla sua settimana enigmistica. Sbatti l’asciugamano che è evidentemente attratto dal sottosuolo e ritorni Sandman. Ti distendi. Chiudi gli occhi. Nell’aria risuona il grido di guerra del popolo: DEEEEEEEENIIIIIIS. È pronunciato dal capo urukai, un’obesa quarantenne simile a Jake la furia la cui massima aspirazione è apparire tra il pubblico di Uomini e donne. Sbraita il nome del suo putto. Guardi. Denis è un ragazzino di dieci anni che corre con un pallone.

«DEEEEEEEENIIIIIIIIS» ripete la donna «DEEEEEEEENIIIIIIIS»

La butrona non sa perché lo fa. E’ la sua natura. Deve urlare il nome di suo figlio. Invece di conficcargli un GPS nelle vertebre e una webcam sulla testa deve emettere il nome stile radiofaro aeronautico, che va a mescolarsi ai vari LUCAAAAAA, MARCOOOOOO, COSTAAAAAA creando una pregevole cacofonia uditiva. Dalle retrovie appare il popolo della spiaggia. Famiglia cicciomostra con torma di cani che si avventano contro la torma dei cani di un’altra famiglia in un crescendo di ululati, guaiti, ringhi e latrati a cui si sommano le urla dei padroni che tentano di trattenere le bestie dal massacrarsi, ma è complesso giacché le mani sono occupate da mercanzie, neonati e ombrelloni.

«DEEEEEEEEENIIIIIIIS» procede la krapfendonna «DEEEEEENIIIIIIS»
Ti passano davanti tanga, topless e silicone in tutti i formati.

La guardi per un secondo di troppo e la tua dolce metà sibila “ah, è così che ti piacciono?». Valuti se sopprimerla, poi passi i successivi venti minuti a sproloquiare cazzate a cui non crede neanche lei ma che quietano il bagaglio di insicurezze che si porta dietro. Terminata l’arringa sulla vacuità della gente superficiale puoi distenderti a pancia in giù per nascondere l’erezione e osservare, fingendo di dormire, il vortice di tette e culi che ti passa attorno.

«DEEEEEEEENIIIIIIIS» grida il parabordi umano «DEEEEEEEEENIIIIIIIIS».

Una vecchia si toglie il vestito e non capisci se ha il reggiseno o le ginocchiere. Arrivano in successione: massaggiatori cinesi, venditori romeni, venditori africani, zingari elemosinanti, sei cani che ti annusano e uno che tenta di pisciarti sullo zaino tra le risate estasiate dei padroni. Quest’anno il Gazzettino ha segnalato già una trentina di furti in spiaggia seguita dall’accoltellamento seriale di tutti gli stewart che allontanano gli abusivi, quindi per fare il bagno tocca fare a turno o al ritorno non trovi neanche la sabbia.

Inizi tu.
L’acqua ora è tiepida, grazie alle vesciche di tutti i presenti.

Una coppia al largo scopa e guarda se li guardi. La scuola di windsurf apre e decine di tavole acuminate si lanciano verso la morte decapitando bagnanti o perdendosi al largo, inseguite da bagnini e istruttori. Chiedi permesso e ti fai spazio per raggiungere un fondale accettabile, oltrepassi la barriera di materassini galleggianti a forma di orca, coccodrillo, banana, papera. Schivi il canneto di boccagli da cui eruttano scatarrate e sei finalmente libero. T’immergi, chiudi gli occhi, riemergi. La vita è bella. La vita è meravigliosa. La vita è come quel molo di cemento: distante e sbagliato.

No, un momento.
Guardi meglio.

Il muro di carne rosa è sempre uguale, ma gli ombrelloni sono sbagliati. La corrente ti ha trascinato per molti chilometri verso il faro. Gorgogliando bestemmie ritorni a riva e percorri il litorale in cerca della tua dolce metà facendoti largo. Ti sfiorano discorsi su Berlusconi, immigrazione, reddito di cittadinanza, uscita dall’euro, Travaglio, Guzzanti, Beppe in Internet ha detto che. Fendi orde di rabdomanti che agitano al Dio sole iPad, iPhone, tablet e portatili supplicando un segnale wifi con cui postare su Facebook le foto delle loro gambe. Un tempo le foto del mare erano interessanti perché c’erano tette e culi. Oggi no. Wurstel anonimi tutti uguali.

Calpesti un castello di sabbia. Il dolore è assoluto e totale. Guardi.
C’era un pezzo di cemento armato dentro.

«DEEEEEEENIIIIIIIS»

Cemento.
Armato.

Ponderando l’idea che tutto sommato Unabomber aveva le sue ragioni raggiungi la femmina all’ora di pranzo. Dopo aver sbranato le provviste ti metti in coda per un caffè al baracchino. Due quarantenni divorziate lanciano occhiate arrapate ma la tua ragazza ti raggiunge e ti prende a braccetto.

«Quant’é due caffé?»
«Quattro euro»
Scontrino prebattuto di un euro.

Alzi gli occhi, c’è il logo della Lega tra le bottiglie di Aperol. Accerchiato da cani urlanti, bambini schizoidi e genitori isterici sorseggi il tuo goccio di lava, fumi la sigaretta e torni al tuo posto, trovandolo occupato da un gruppo di vecchi che ha costruito una specie di tenda da tornei medioevali. Noti solo in quel momento che dalla sabbia spunta una siringa intramuscolo senza ago.

«Sai» inizia pacata la tua ragazza «forse non mi piace tanto, la spiaggia libera»
Rimanete impassibili mentre un cane vi scopa la gamba. Rimanete immobili, consapevoli che quando una donna osa ammettere la remota possibilità di errore un vostro qualsiasi movimento facciale la farebbe esplodere come Semtex.

«Perché?» domandate, candidi.
Una madre appoggia il neonato su un tavolino del bar e schiude il pannolino, rivelando uno tsunami di merda.

«Bè, c’è un po’ troppa gente»
«Dici?»
Un tizio finisce la sigaretta e getta il mozzicone sulle mattonelle. La spegne col piede scalzo. Lancia un urlo e saltella tenendosi il piede. E’ così facile riconoscere gli elettori di Beppe, qui.

«Cioè, alla fine abbiamo risparmiato dieci euro di ombrellone»
Annuite. In effetti l’anno scorso stavate in una spiaggia semideserta della laguna con un’amica bisessuale di nome Maria e la giornata è finita a scopare sbronzi tra le dune con falò e dormita in tenda, al cui risveglio prima hai visto qualcosa di molto simile a questo

Seguito da qualcosa di molto simile a questo:

Perché ripetere l’errore? Cazzo, dai, in spiaggia privata ci vanno solo gli stronzi. In coda al ritorno ascoltate senza fiatare i motivi per cui lei ha scelto di venire qui, meglio comunque della vostra decisione di spendere la folle somma di 10 euro per uno sdraio e un ombrellone.

«Ma per curiosità» osate «la Maria dov’è andata?»
Litigata di gelosia fino a casa.

La domanda che non devi farmi mai.

Caro Myskin, questa domanda me l’hanno fatta in tanti qui, su Facebook, su Twitter e nella vita reale. Ho pensato a molti modi per rispondere, poi ho deciso che si fa prima così. Queste sono le keyword con cui mi trovi. Fino alla settantesima posizione sono variazioni sul tema del mio nome, ossia gente che già mi conosce.

Ora ti mostro come mi trovano gli altri.
Ho messo gli screenshot o non mi avresti creduto.













Gli screenshot hanno anche di buono che non sono indicizzabili.
Ma proseguiamo.





Ora capisci, Myskin? 
Capisci?

La vera alternativa all’alternativa degli alternativi è il cazzo.

Planiamo nello “spazio alternativo” come folgore dal cielo. Ario parcheggia alla barese: scende, sposta tre scooter e infila la macchina perpendicolare al marciapiede.

«Tanto i vigili a quest’ora sono in puttantour travesto.»

Dall’interno proviene musica. Risate uterine infoiano i nostri spermatozoi che sgomitano per l’assalto. Siamo bellissimi. Io camicia bianca da mercatino dell’usato, jeans Clayton vintage strappati a un magrebino durante la battaglia saldi estate, Superga rese splendenti da doppia dose di lavatrice. Intimo, boxer Armani rubato nei camerini dell’Auchan. Atza: polo della Lidl su cui la sorella ha cucito il coccodrillo della Lacoste ritagliato da una maglietta in disarmo, cintura 5 euro vinta a 4.50 dopo penosa contrattazione cinese, pantalone Nigi stile Charlie Chaplin, scarpe Puma ecopelle con suola e lacci anneriti a pennarello. Luca: maglietta bianca “Il paradiso del pneumatico di Tony Marangon”, giacca nera elegante sul cui taschino trionfa il logo AC MILAN, Levi’s a vita ombelicale, doccia di gel della COOP che dopo mezz’ora puzza di ascella, scarpa lucida da ballo requisita al padre maestro di tango che ha due numeri in meno. Ario: trench in ecopelle cinese che se si bagna emette una strana schiuma bianca, canotta bianca a coste con tribale d’oro, braghe della tuta, scarpa Nike rotta sulla piega del piede e riparata con graffettatrice.

Bussiamo tre volte, appena l’uscio scatta Ario lo spinge di forza e annuncia con tono imperioso “È L’ORA DEL CLISTERE”. La porta impatta contro una ragazza disintegrandole il bicchiere di sangria addosso.

«Ma che fai?!» strilla Atza, accucciandosi sulla poveretta.
«Hm, sono già scattate le prime risse, vedo» osserva Ario «camuffiamoci nel figame, non voglio problemi.»
«Elisa, Elisa, stai bene?»

Elisa è una biondina esile e puteolente sui ventiquattro. Si presentò al bar di Atza vestita da piratessa. Lui le chiese WTF e lei spiegò che doveva fare una manifestazione. Al cellulare coi compagni aveva capito lo slogan fosse “riprendiamoci il nostro porto” e pensò si dovesse protestare contro le grandi navi in laguna, in realtà lo slogan era “riprendiamoci il nostro corpo” e si doveva protestare contro i maltrattamenti sulle donne.

«Atza?» mormora lei, rialzandosi.
«Stai bene?»
«A parte il vestito ma vabbé, lo cambio. Sono i tuoi amici?»
«Luca, Nebo e Ario, quello che ti ha rovesciato il bicchiere sul vestito.»
«Ah, questa è tua morosa?» chiede Ario.

I due si guardano, arrossiscono.

«Bè, n-non proprio…» fa lei.
«Sì, cioè, per adesso ci vediamo e b
«Ecco, ci hai trascinati in ‘sto lupanare di sfollati solo per guadagnare punti anal, sei una merda!»
«Vi ho detto che c’è un’artista internazionale.»
«A quest’ora sul terraglio con trenta euro trovi artiste internazionali uguale!»
«Scusa?» fa Elisa, inorridita «stai dicendo che… sfrutti la prostituzione?»
«Ma dopo gli faccio le coccole.»
«STA SCHERZANDO» tuona Luca, lanciando chiodi roventi dagli occhi.
«Sì, figurati, è sposato, vedi la fede?» dico io, prendendo Ario per le spalle «piuttosto, perché non ci spieghi cosa fate qui?»

Elisa è incerta, poi si rilassa: «E’ uno spazio autogestito che abbiamo battezzato “riserva del gioco e della speranza”. Ospita artisti e performers internazionali che vogliono sensibilizzare il pubblico riguardo a tematiche sociali, offrendo un’alternativa a quella cultura di massa che propongono i media e che»

 

Ciò che vede lei.

 

 

 

Ciò che vediamo noi.

 

In realtà si tratta di un cacaio immondo con muffa alle pareti, rottami e catorci colorati a bomboletta, allacciamenti elettrici abusivi, acqua pagata dal comune. C’è una puzza di piscio e droga che fa girare la testa ma, in effetti, il buonumore dei presenti è contagioso. Tranne noi è tutto a tema. Impianto serio, uno che mette musica a ripetizione, gnocche comuniste, sorrisi, risate, due coppie che limonano, gli immancabili soggetti che abbassano l’asticella del degrado umano un paio di metri sotto le fosse ardeatine, minoranze etniche scopabilissime. L’età va dai diciotto ai quaranta e passa. Ci sono dredd, stempiature e

«Il gruppo dei pelati! Haha, Nebo, vagli vicino che faccio una foto!»

Il bello di noi trentenni è che non importa il credo politico: appena notiamo l’eliporto in cima alla testa ci rasiamo a zero, compensiamo facendo crescere pelame sulla faccia e in base al reddito ci iscriviamo in palestra o ci compriamo l’Harley Davidson per girare il mondo.

Io sono un reporter freelance.
Lunedì pettorali e tricipiti.

Veniamo portati al bancone del bar dove conosciamo il barista, un suo amico e due ragazze. Appena i miei occhi si poggiano su di lei ogni molecola del mio corpo trasmette odio. E’ lei. E’ Levante. Tutti conosciamo Levante. Dio un giorno ha guardato i giovani, ha capito che erano troppo belli, si è alzato la toga e ha cagato Levante. Mora, frangia, rossetto rosso, smartphone in mano, sguardo di chi merita di meglio e vorrebbe essere altrove. Quando tutti ordinano spritz lei vuole un caffè. Lo scrive persino nella sua biografia Twitter/Tumblr/Flickr come se fosse chissà quale medaglia al valore: lei beve molto caffè. Ha un blog minimal dove racconta quanto sia sarcastico essere donne in mezzo a uomini patetici che non la meritano, alternandolo a commenti di articoli del Fatto quotidiano. Tenta di sporgere le labbra il più possibile mentre dice che ha una vita di merda. Idolatra Frida Kahlo e Zooey Deschanel. Ascolta indie e qualunque cosa le dica Pitchfork. E’ così piena di sé che pare una matrioska residente a L’egoland. Veste metà hipster e metà Sex and the city, in occasioni eleganti opta per l’immancabile stile anni ’50 che piange così tanta miseria da ammosciare l’erezione dei manichini. Burlesque e Guzzanti. Aria incazzata e triste come se il dottore le avesse intimato di andare lì.

«Bevete qualcosa?» chiede il barista.
«Birra.»
«Birra.»
«Birra.»
«Mint julep» fa Atza.

«Eh?»
«Mintu Julep. Ghiaccio, menta, bourbon.»
«Cioè un mojito?» chiede il barista.
«No, il mojito ha il rum e il lime» scuote la testa Atza «il mint julep è un long drink tipico del sud degli Stati Uniti. Pesti la menta con le mani, poi…»
«MA IO PESTO TE CON LE MANI» sbotta Luca «ho le scarpe che mi stanno trasformando in una geisha, Atza, piglia una birra come tutti e andiamo a sederci.»
«Scusa, avrò diritto di bere quello che mi va?»
«Di solito bevi lo spritz col Tavernello dei cinesi, per cortesia» fa Ario.
«Non significa che io non abbia maturato…»
«Senti» ansima Luca, sudato «prendi una birra o quant’è vero Dio finisci al pronto soccorso con un Casio incastrato su per il culo e io mi addormento con l’avambraccio che odora di merda, menta e sud degli Stati Uniti.»

Con una Moretti in mano ci accasiamo su dei divanetti. Levante scompare dietro le tende in fondo al locale. Beviamo, parliamo del tempo, dopo qualche minuto Luca non ce la fa più e si toglie le scarpe gridandomi nell’orecchio

«Che me le son messe a fare?!» la musica tace «TROVAMI UNA DI ‘STE PUTTane che…»
Si blocca con la scarpa a mezz’aria. Atza si gira ad occhi sgranati.
I nostri ospiti lo imitano. Luca abbassa la scarpa.

«Buonasera a tutti» dice Levante «è un mio grande onore presentarvi Jana Tullifer, dal Brasile. L’artista che conoscete tutti per le sue opere provocatorie ha accettato di esibirsi nel nostro spazio occupato. Vi prego però di non applaudire, perché rovinerebbe l’atmosfera.»
Silenzio.

Dal buio emerge una mulatta figa come l’anima del Diavolo vestita di nero coi tacchi anni ’50. Si siede su uno sgabello. Il viso è coperto da un ombrello nero: alle estremità di ogni raggio c’è un uovo bianco. Il silenzio in sala è assoluto.

«Ma si spoglia?»
«Speriamo.»
«STATE ZITTI» sibila Atza «UN PO’ DI RISPETTO!»
«Dì, fa giochi strani, con quelle uova?»
«ARIO, PER FAVORE»

Di fianco alla performer un televisore proietta immagini delle sue mani che, su un prato, passano ago e filo dentro le uova e le cuciono sull’ombrello. Le casse mandano un suono di sassolini che cadono dentro un tubo. Man mano che nel video le uova vengono cucite, lei di fianco inizia a girare sullo sgabello. Alza le gambe e si inclina fino a toccare col piede un uovo appeso. Si alza in piedi. Nel video, lei è in un guscio nuda e sfocata che si contorce. Con gesti lenti e calcolati, afferra un uovo appeso e lo spreme. Poi un altro, poi un altro ancora. Tuorlo e albume cadono sul pavimento.

«Adesso entra Nacho Vidal, le spacca due uova in faccia a sberle, gliene appoggia uno sulla bocca e glielo spara dentro a martellate di minchia.»
Io e Luca abbassiamo la testa mordendoci le labbra.
Luca soffoca una risata con un colpo di tosse.

«Dai, te lo vedi Nacho, a maschiate sul viso che dice “dai, chupalo, chupame la piha, putaaah!“»

Emetto un guaito. Mi lacrimano gli occhi. Luca non è preso meglio. Atza è una statua di sale e rabbia cieca. La performer si rotola per terra smerdandosi del contenuto delle uova, tenendo l’ombrello in alto che le versa addosso i resti. Mentre si contorce si intravedono delle mutande rosso acceso.

«Con lei che risponde “no no yo estoy fasiendu arte” e lui che le infila uova in brogna e gliele tira fuori trombandola nel culo facendo il verso della gallina.»

Non ce la facciamo più. Ridiamo sommessamente, coprendoci la bocca e tenendoci la pancia. Ridiamo con fitte lancinanti alla gola. La performer ora appoggia dei gusci vuoti sul pavimento e li calpesta lentamente. Si infila due gusci sui tacchi e si appende a una trave invisibile, poi schiaccia anche quelli. La musica sale in un crescendo drammatico.

«Stai zitto, ti prego.»
«Oppure Rocco! Dio, Rocco sarebbe il migliore. Tipo con la slava che dopo l’inculata non voleva succhiarglielo e lui DON UORRI IZ ONLI SMELLZ, te la ricordi? IZ ONLI SMELLZ e giù cazzo in trachea, praticamente le ha rimesso la merda nell’intestino passando per l’esofago.»

Con un sibilo Luca esplode. Io mi piego in due. Si girano tutti. Corriamo fuori e ci appoggiamo alla parete, piangendo lacrime in preda alle convulsioni. Dopo qualche secondo dentro parte un applauso. Cerchiamo di riprenderci; non c’è verso. Quando sai che non devi ridere e ti viene da ridere è male, ma quando ridi è la fine. Dall’interno provengono voci concitate. Ario esce accompagnato da Atza furente.

«Voi due siete due stronzi, e tu» ansima «tu non sei più mio amico.»
«Oh, se non ci hanno pensato magari…»
«VAFFANCULO, tornatevene a casa, con voi non ci parlo.»

«E come torni?»
«AFFARI MIEI, ANDATEVENE»

Camminiamo verso la macchina.

«Che gli hai detto?»
«Niente, lei ha detto una roba tipo che aveva appena rappresentato lo scorrere del tempo e ha chiesto se avevamo domande, io le ho chiesto perché invece di buttare la roba da mangiare non la manda agli schelenegri del Ruanda, bam, frangetta sbrocca e gli altri dietro.»
«Oh, Dio, no» gemo «non l’hai fatto davvero.»
«Sìssì.»

Dieci minuti dopo siamo in puttantour che cantiamo a squarciagola l’inno del mio blog. Tettino e finestrini aperti. Ignoranti. Stupidi come bestie. Trentenni che urlano canzoni scritte da ventenni e che l’unica cosa che vogliono è che le donne facciano come l’ortolano. C’è poesia. Eternità. Un desiderio che ci accomuna al guerriero masai, il guerrigliero ceceno, il pescatore esquimese, il fisico cinese, l’ingegnere indiano.

«GUARDALE» urla Ario, suonando a un trio di slave «altro che le uova, uscite i meloni, brutte puttane, vi scopo tutteeeeee»
La polizia ci ferma all’altezza di Preganziol.