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Quello che non siamo

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Disoccupazione, pressione fiscale, crollo del PIL, delocalizzazione delle aziende, ILVA, Siria. Cosa sta succedendo adesso in Libia? E in Egitto? Che ne è della primavera araba? Dove sono finiti i clandestini che la Francia ha respinto

Non ce ne frega un cazzo.

Ci sono cose più urgenti a cui badare, e non parlo solo di argute satire sul cagnolino Dudù. Il manager della Barilla ha recentemente dichiarato a La Zanzara che non farà mai una pubblicità con dentro una famiglia gay. L’Italia piomba nel panico. Se fosse stato zitto e avesse continuato a fare i soliti spot qualcuno se ne sarebbe accorto? No. Sugli scaffali dei supermercati esistono milioni di prodotti che non hanno mai messo famiglie gay nelle loro reclame. Il Listerine, gli assorbenti, il deodorante, l’ammorbidente, i crackers Doriano, i profumi. Ci sono gay? No. Negli spot delle altre marche di pasta ci sono famiglie gay? No. Ce n’è mai fottuto qualcosa?

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Sì, adesso le aziende la cui materia prima è la miseria umana si affrettano a capitalizzare sui gay reclamizzandoli a destra e a manca, ma è tutto qui. Allora perché tanto agitarsi? Ve lo spiego con un’immagine.

 

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Linda posta questa foto per mostrare la cover del suo telefonino, non certo per esibire quel culo da scopata a secco contro il muro della doccia. Vediamo ora una carrellata dell’Italia indignata.

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Per lo spot, sguardo sexy e posa sono ottime. Incrocia le dita Enzo, se tutto va bene ti chiameranno!!

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Tratteniamo a stento le lacrime.

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Ore di Photoshop per giocarsi tutto nella grande lotteria del trending topic e mi produci ‘sta merda? Eddai, Reno. Almeno depilati le ascelle.

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In diretta da un “centro massaggi” della Thailandia, Matte ha aggiunto “a me piace la figa quindi posso mangiare Barilla senza problemi”. La luce che hai negli occhi non ci lascia dubbi 

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Lo sguardo compiaciuto di chi in fila per il provino del GF sa di poter vincere ci emoziona e coinvolge tutti. Perché cazzo sia vestito da piccolo esquimese dentro casa il 26 di settembre con 21°, tuttavia, rimane un mistero.

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Voglio reclutare un centinaio di lettori e presentarmi a questa straordinaria conferenza suonando vuvuzelas dall’inizio alla fine.

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Sfrante gettano sdegnate pacchi di pasta nella monnezza in un video coinvolgente. Lo proietteremo da dei dirigibili sopra il cielo del Burkina Faso, con in sovrimpressione CHI LO PRODUCE NON METTE IL MIO ORIENTAMENTO SESSUALE NELLA PUBBLICITA’.

Bene. Ora attiviamo il filtro anticazzate e riassumiamo:

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E’ insomma il classico caso di Italia che s’indigna, s’ingegna, s’impegna e poi getta la spugna con gran dignità. Domani ci saranno altre Grandi Cause per cui autoscattarsi, ma oggi bisogna gridare al mondo la nostra emancipazione. Cristo, per la visibilità va benissimo anche la luce dell’obitorio e noi siamo grandi esperti di fanatismi a Co.Co.Pro.

Ora, essendo io un palestrato con blog, pagina Facebook e profilo Twitter, mi sono chiesto come mai la gente sia tanto egocentrica. 

Credo faccia parte di quel fastidio di vivere di cui parlava Mishima prima di affondare la faccia nel proprio intestino. Un movimento, uno schieramento politico, una squadra di calcio, una categoria professionale o una causa comune danno un’identità, specie a questo nostro strano popolo che l’identità la tiene nel beauty da viaggio. Forse il modo più facile per riconoscere cosa siamo è stabilire cosa non siamo. Omofobi, sessisti, razzisti, classisti, snobisti, fascisti, violenti, sono termini di comune accettazione negativa. Vai da un notav che ha appena spaccato il casco di un carabiniere e dirà “io non sono violento ma”. Vai da un leghista, “io non sono razzista ma”. Snobbiamo quelle notizie che non hanno uno schieramento definito. Se m’interesso all’ILVA cosa penseranno di me? Sono di destra? Di sinistra? Complottista? Non è chiaro, quindi scrollo...

Se però gli animalisti liberano 100 topi so benissimo da che parte stare, una o l’altra che sia. Un etero avrebbe migliaia di cause da abbracciare, ma questa gli permette di affermare cosa non è – quindi chi èPrendete i vegetariani. O l’UAAR. Chi è che non gioca a calcio ma crea una pagina per dire “il calcio fa cagare”? Non ci gioco e basta, farò altro. No. Spendi soldi in pubblicità che recitano “Dio non esiste”. Imbastisci gazebi per far sbattezzare la gente, organizzi riunioni, meeting e pellegrinaggi al CiCAP. Ha senso se una cosa ti piace, ma ti stai sputtanando il weekend per trovarti con degli sconosciuti a parlare male di qualcosa, capisci?

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OPZIONE WEEKEND “PARLIAMO MALE DI CHI CREDE IN QUALCOSA”

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(viaggio in amena località balneare con pullman di vecchi, 70 euro. Colletta per striscione plastificato, 20 euro. Albergo, 80 euro. Conto alla romana del ristorante con cicciona, 500 euro. Rientro a tarda notte con Piero Angela in surround senza possibilità di disattivazione, gratis)

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OPZIONE WEEKEND “AMORE, STASERA FESTA ERASMUS A VENEZIA?”

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(Consumazioni, 30 euro. Pensare a Piero Angela per durare di più, gratis. Colazione per tre a letto, 9.40 euro)

Scegliere la prima opzione significa che ci tieni molto, o che non puoi mangiare pasta Barilla. Una volta eravamo quello che credevamo. Poi quello che avevamo.

Oggi siamo quello che non siamo.

L’ultimo samurai era il primo dei grillini

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E’ il 1970, in Giappone. Nelle radio c’è quasi solo funk. Le notti sono a base di droghe psichedeliche, erba buona, pantaloni a zampa, minigonne e l’AIDS è sconosciuto. Le feste sono prive di iPhone con cui twittare e la gente è costretta a giocare con questo. Le camicie hanno colletti imbarazzanti. I primi effetti speciali nei film di arti marziali infoiano il pubblico che tenta di volare o spaccare muri a pugni, morendo in maniera divertente. I reggiseni sono a punta. Per strada girano utilitarie. Nelle cucine ci sono i primi elettrodomestici.

Nel piazzale esterno del palazzo della Difesa è un giorno come un altro. Circa ottocento soldati vanno e vengono dagli uffici. Alle 12.22 del 24 novembre 1970, nell’aria risuona un urlo.

«ASCOLTATEMI!»
Alcuni militari si fermano, guardandosi attorno.

«SONO QUI A PARLARVI A RISCHIO DELLA MIA STESSA VITA!»

Altri soldati imitano i primi. Oramai ufficiali, sottoufficiali e passanti sono quasi tutti fermi in cerca del misterioso oratore. Qualcuno indica il terrazzo del secondo piano. Tutti alzano la testa. Dalla balaustra si srotolano dei lenzuoli con incisi ideogrammi, poi appare un uomo con la fascia da kamikaze sulla testa. 

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«VOI SIETE SAMURAI, NON E’ VERO?!» tuona l’uomo.

Un giornalista che in un bar abbatte tavolini e camerieri per afferrare un telefono.

«SE SIETE SAMURAI, PERCHE’ PROTEGGETE QUELLA COSTITUZIONE CHE NEGA LA VOSTRA STESSA ESISTENZA? RISPONDETE!»

Il rullo tribale degli elicotteri inizia a martellare il cielo. Una ventina di furgoni della stampa inchiodano nel piazzale, da cui sciamano frotte di cronisti facendosi largo tra i soldati. Le agenzie stampa di tutto il pianeta vengono allertate.

«CHI DI VOI QUI OSEREBBE SFIDARMI A DUELLO?!» grida l’uomo dal balcone.

Altrove.

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L’Imperatore del Giappone sta bevendo il tè osservando il giardino colorarsi d’autunno. A rispettosa distanza c’è Haichi Tamacoguro, capo della sicurezza. Un servitore arriva trafelato e gli sussurra qualcosa all’orecchio. Haichi chiude gli occhi e fa un respiro profondo, poi fa cenno di andare. Il servo fa un inchino e si dilegua.

«Qualcosa ti turba, Haichi?» chiede l’Imperatore di spalle.
«Nulla d’importante, maestà»
Il sovrano si volta: «Perché menti?»

Haichi non aggiunge altro. Tiene il capo basso. Fuori, la canna di bambù della fontana zen tocca la pietra con un sordo e caldo TUC, che riecheggia nella quiete del giardino. L’Imperatore torna a guardare l’esterno. Una foglia si stacca dal ciliegio e si poggia lieve sullo specchio d’acqua. 

«Kimitake?»
«Sì» annuisce Haichi.

 

 

 

 

TUC

 

 

 

 

«Cos’ha combinato di così grav
«E’ asserragliato nel quartier generale della Difesa e urla alle telecamere del mondo che voi siete Dio»

 

 

TUC

 

 

 

«Come sa
«Con una katana»

 

 

 

TUC

 

 

 

«Non capi
«E quattro palestrati»

 

 

 

TUC

 

 

 

«C
«Sodomiti»

 

 

 

TUC

 

 

 

«Mi sono pisciato addosso di nuovo» annuncia l’Imperatore.
«E’ perché siete Dio» annuisce Haichi.

Kimitake Hiraoka nasce nel distretto di Yotsuya nel 1925. Viene allevato dal nonno, il quale è vagamente imparentato col cugino del fratello dello zio dell’amante del cane dello stalliere che lavora vicino a una famiglia nobile. Per insegnare al nipote come si comporta un vero aristocratico il nonno opta per “pugni in faccia, dita nel culo e femminizzazione coatta”, un metodo infallibile per allevare la crema della società. Gli impedisce di uscire alla luce del sole, di socializzare con la plebe o di fare qualunque tipo di sport. Kimitake quindi passa la maggior parte della sua infanzia asserragliato in casa con le cuginette e le loro bambole di porcellana. Gli storici sostengono sia qui che ha elaborato la sua attrazione per la morte, e io non mi sento di biasimarlo.

A 12 anni fa ritorno dalla sua famiglia d’origine, dove i pugni in bocca hanno il sapore di casa. Il padre è uno di quei fanatici di disciplina militare che non ha mai fatto il militare, ossia i peggio subdotati di Forza Nuova. Papino adora insegnare il coraggio a Kimitake tenendolo vicino ai binari quando passa un treno, facendo irruzione nella sua stanza in cerca di letteratura “effemminata” e incendiandogli i manoscritti perché scrivere è una cosa gay. 

Di nuovo, come biasimarlo?

Kimitake ha talento nella scrittura. La sua giornata media consiste nel farsi riempire di botte dai professori, farsi riempire di botte dai compagni di classe, tornare a casa e farsi riempire di botte dal padre, fare i compiti in fretta per non mancare l’aria calda dell’interregionale Okinawa-Tokio, tornare a casa per il serale raptus piromane di papà che incendia tutto giacché ha intravisto un ideogramma presumibilmente effemminato, andare a letto per ascoltare i mugolii di papi che tromba la faccia di mami dietro la parete di carta con le foglioline dipinte, tornare a scuola spiegando che papi ha dato fuoco ai compiti, non essere creduto e ripetere dall’inizio.

Possiamo quindi facilmente comprendere il suo bisogno di evasione. Il piccolo pungiball scrive le sue prime storie a 12 anni. Viene pubblicato sotto pseudonimo perché a quanto pare tutto il Giappone adora scrociarlo di sberle, per non parlare dei controllori dei treni. Diventa famoso come Yukio Mishima. Sebbene papi gli proibisca di scrivere lui continua in segreto, e ce la fa. Uomini intelligenti dall’infanzia traumatica possono creare cose bellissime; Kimitake pubblica libri che vengono tradotti in tutto il mondo, scrive e dirige film, viene nominato a tre premi Nobel e diventa l’autore più riconosciuto del Giappone.

Io però ho più like di lui.
Anzi, no.

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“Tanto non contano niente”

Si sposa e fa due figli. Si definisce “fervente anticomunista” ed entra nel mondo del culturismo, cosa che alla moglie piace, e frequenta gay bar, cosa che alla moglie piace assai meno. Alle proteste di lei Kimitake spiega di voler far parte di un disegno più grande. Lei domanda in che senso, lui risponde “spada e onore”.

«Ti cola della roba bianca dal culo, Kimitake»
«E’ onore»

Nelle interviste inizia a farneticare di valori seicenteschi con maggiore frequenza. Spade, muscoli, onore, samurai e codice cavalleresco fanno un effettone nei libri e nei film; purtroppo siamo nel 1970 e davanti a un F-4 in bombardamento a tappeto questi valori durano il tempo di dire

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Sguainiamo le spà

…poi ti raccolgono con l’aspirapolvere. Questo però non ferma la fervida immaginazione di Kimitake, anzi. Nelle interviste dichiara

«Per me è ovvio trovare ripugnante un uomo che vive solo per sé stesso. Chiamatelo fastidio di vivere. L’essere umano non è abbastanza forte per vivere e morire senza scopo»

Per questo ha sposato una donna e fatto due figli, direbbe qualcuno. No. Farsi svegliare alle due di mattina da un putto che urla uso sirena antiaerea perché gli è partito l’airbag e c’ha il pannolino ridotto come le paludi di Mordor non è epico. Guardare metà stipendio in omogeneizzati ridotti a merda in sette minuti netti non è epico. Prendere in braccio un tubo digerente che per ricompensa ti rutta nell’orecchio e ti piscia sul petto non è epico. Tua figlia che si sposa col vestito “Midnight in Budapest” non è epico. Tuo figlio che molla l’università per il rap no, non è epico.

«L’uomo ha bisogno di un ideale, o si annoia in fretta all’idea di vivere. Ecco perché nasce il bisogno di morire per qualcosa. Ci serve una “grande causa” di cui parlavano gli uomini di una volta. Morire per una causa è considerato il più glorioso, eroico e bel modo di morire. Il fatto è che non ci sono più “grandi cause”, oggi» 

O meglio, nessuna che implichi venerare ragazzini muscolosi e sudati. Certo bastava dare una katana a Balotelli e il gioco era fatto, ma Kimitake decide di risolvere il problema alla giapponese: fonda la “società dello scudo”, una setta di squinternati dove puoi entrare solo se hai un bicipite accettabile, l’ano a doppio senso di circolazione e vorresti tanto vivere 1000 anni fa. Qui, tra una sessione di squat su palo di carne e drammatiche simbologia falliche, Kimitake dice le solite stronzate di tutte le sette.

«Il Giappone ha tradito la sua anima. Il governo non è altro che un manipolo di vecchi coglioni corrotti»
«Sì, maestro!»

«Sarebbe fichissimo tornare a quando si viveva meglio, a contatto con la natura, dove orgoglio, onore e onestà erano di moda»

«Sì! Quando le donne abortivano a pugni!»
«Quando avevamo case di amianto!»
«Quando mangiavamo topi!»
«Quando crepavamo per un’infezione a dieci anni!»
«Quando le famiglie si sterminavano per uno sguardo sbagliato!»
«Si! VAFFANCULO GLI OSPEDALI! VAFFANCULO I TELEFONI E LA CARTA STAMPATA!»

«VAFFANCULO I SOLDI!»
«VAFFANCULO LA KASTA!»

Kimitake annuisce compiaciuto, poi fa cenno di calmarsi: «In Giappone oggi conta solo il denaro. Siamo diventati schiavi delle potenze estere, burattini nelle mani di USA/Bildenberg/Merkel/Monti/Bush/Berlusconi… insomma, tutti tranne me»

«Giusto!»
«Vero!»

«Per rimettere il Giappone a posto bisogna tornare indietro! Una decrescita felice, restituendo il paese alle sue tradizioni. Per questo noi siamo la società dello scudo. Noi e solo noi possiamo difendere il candidato che il popolo vuole, ossia…»
Silenzio.
Kimitake cerca risposte negli occhi dei discepoli.

«…Lei, maestro?» osa uno.
«Ohoho, no. Ti ringrazio ma no, io sono un semplice portavoce. Mi piaci, però. Stasera t’inculo»
Pacche sulle spalle, strette di mano.

«E chi allora? Rodotà?»

«Fuochino»
«Byoblu?»
«No»
«Marta Grande, la giovane italiana col sorriso da Monna Lisa che ammalia e strega…
«NO!» tuona Kimitake «L’IMPERATORE DEL GIAPPONE DEVE TORNARE A ESSERE DIO! E’ questo che vuole il popolo, è questo ciò di cui ha bisogno»

Gli alunni osservano i propri piedi. Calciano sassetti, puliscono macchiette invisibili.

«Bè, con Rodotà comunque…»
«Ma infatti, aveva preso 4.677 voti, in Giappone quanti siamo?»
«104 milioni»

Kimitake emette proclami di fedeltà assoluta e si dichiara disposto a gettare il sangue per l’Imperatore. Solo che nel 1970 l’Imperatore non ha nessun potere decisionale, appare solo per gli auguri di capodanno e viene considerato dai giapponesi con affettuoso fottesegare. E’ come se domani Fini (lo scrittore) giurasse di difendere con la propria vita Sofia Loren, poi si facesse ritrarre nelle copertine dei suoi libri così

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E all’interno, con parole di fuoco, incitasse gli italiani a ribellarsi contro Cinecittà usando solo sciabole perché d’ora in poi i film dovranno essere recitati tutti da lei o dai suoi familiari.

L’Imperatore si chiude in un imbarazzato no comment. Poi passa a “lasciatemi solo con la mia prostata”. E’ a questo punto che accade l’irreparabile. A 45 anni Kimitake raduna quattro suoi fedelissimi amanti, invade il palazzo della Difesa impugnando spadine, prende in ostaggio un console, si barrica nel suo ufficio, esce dalla finestra e incita la folla alla rivolta in mondovisione. Ossia parla da otto metri di distanza con tono imperioso e colloquiale sopra ottocento soldati che urlano insulti. Al termine si gira verso il suo amante, dichiara “credo non mi abbiano neanche sentito” e torna dentro per suicidarsi.

E’ il tipo di batterista che non vorresti mai avere in gruppo, Kimitake.

Fa seppuku. Questo. Si infilza la pancia, se la apre e aspetta uno dei suoi più fidati amanti lo decapiti. Il problema è che decapitare un essere umano è dura. Se hai una ghigliottina che pesa 60 chili e ti crolla sul collo da cinque metri d’altezza stai sereno, ma perché una persona possa fare un taglio netto sono necessarie forza e controllo assoluti. Il collo ha vertebre, muscoli, cartilagini. Se io dovessi suicidarmi mi schianterei di rum e bamba, farei entrare due ventitroienni con la quinta e mi farei cavalcare cazzo e faccia fino al soffocamento. Kimitake invece opta per affondare la faccia nelle proprie interiora mentre il suo fidato samurai lo ravana di spadate mugugnando “ops”, “scusa”, “ora riprovo”, “petta”.

E’ proprio vero che non ci sono più gli uomini di una volta.

Kit Kat e Big dawg: una storia vera

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«Sei il moroso di Leonora?»
«Sì»
«Volevo conoscerti, parla spesso di te. Io sono Marco. Faccio kickboxing con lei»

Mi giro, ci guardiamo. Sono le due e mezza di mattina, a Trieste. La festa volge al termine. Birra spanta e cicche spente costellano la terrazza dove studenti e studentesse hanno ballato, bevuto, fumato e rimorchiato. La Leo, ciucca, intona canti popolari in dialetto con altre ragazze. Lui non sembra uno studente. Ventotto, forse ventinove anni. Fisico massiccio, occhio azzurro, sorriso sincero. Gli stringo la mano.

«Come se la cava?» chiedo.
«Eh, mena. Le ragazze si cagano a far sparring con lei»

Chiacchieriamo. Marco è una di quelle persone che ti piacciono a pelle. Esistono ‘sti tipi che li vedi, aprono bocca e ti sembra di conoscerli da tutta la vita. Siccome le ragazze stanno diventando moleste e berciano senza ritegno ci spostiamo dentro. Ravano tra gli avanzi.

«Resta poca roba» mugugno «faccio uno screwdriver»
«Nonono lascia, quella è birra ginger? Ti faccio un moscow mule»
Si mette all’opera. Fa due bicchieri e me ne porge uno.

«Za zdorov’je» dice, alzando il bicchiere.
Noto il tatuaggio sull’avambraccio.

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«Ah!» esclamo «sei gente che non fa niente e che non ha voglia di lavorar
Per un istante mi guarda confuso, poi scoppia a ridere.

«E’ stato una vita fa. Anche tu?»
«Manco per niente» scuoto la testa «ma ho molti amici nelle forze armate»
«Credevo tra studenti fossero tutti… uh, contrari»
«E gli studenti credono siate tutti, uh, nazi. Secondo me dovreste parlare di più»
«Non li vedo molto inclini al dialogo»
«E’ perché sono democratici»

Dal moscow mule passiamo allo screwdriver. Marco si smolla. Racconta di essere stato in Kosovo, chiedo dell’uranio impoverito, lui dice che ha fatto gli esami ma è risultato a posto.

«In realtà ho avuto un solo scontro a fuoco, il resto ho fatto il manovale. Niente di chissà che. Però visto che un po’ ci capisci posso raccontarti una storia figa sugli incursori. Ti va?»
«Spara» dico «CIOE’ DIMMI»
«Kosovo, ok? ONU, operazioni interforze. Il mio reparto era addetto alla sicurezza di un aeroporto militare, blindatissimo. Noi stiamo di guardia agli hangar dove tengono i caccia. Un giorno arriva il tenente e dice “da qui a quindici giorni una squadra di incursori farà un’esercitazione. Mineranno gli aerei e se ne andranno. Siete avvisati”. Chiedo al tenente se avremo munizioni a salve, quello risponde che non ce ne sono»

«Come sarebbe, scusa…»

«Siamo in piena zona di guerra, chi cazzo si sogna di portare proiettili a salve? Poi cosa facciamo, siccome ‘sti tizi devono esercitarsi teniamo un preservativo in canna? Se arriva il nemico cosa facciamo, gridiamo “tocco blu non gioco più” per cambiare le munizioni?»
«Mi sembra una stronzata lo stesso»

«Era un’idea degli americani, infatti. Gli incursori delle varie nazioni assaltavano le basi alleate. Una specie di braccio di ferro tra amici. Nel nostro caso c’erano i Col Moschin (esercito) e i GIS (Carabinieri). Il COMSUBIN non ha partecipato perché erano impegnati. L’Inghilterra metteva i SAS, gli Stati Uniti i Navy SEALs, i francesi e i tedeschi non so. Comunque, da noi vengono gli americani e noi andiamo da loro. Due caserme, due squadre. Ci sei?»

«Sì. Elite di Esercito e Arma contro Navy SEALs. Le fanno sempre, ‘ste robe»
«Bene. La seconda notte io sono di guardia all’interno. Fuori c’è Popoci. A differenza di quello che puoi pensare dal nome, Popoci è il terrone più grosso che io abbia mai visto in vita mia. Piantona l’hangar, quando alle sue spalle sente uno che lo tocca e gli dice qualcosa in un’altra lingua. Popoci si volta trovandosi davanti un tizio accovacciato e vestito di nero con in mano un coltello. Quello sibila con tono di voce più aggressivo “you’ve been killed, stay down”»
«E…?»
«E Popoci è un cazzo di terrone cresciuto nei quartieri spagnoli di Napoli che ora è in piena zona di guerra, secondo te cos’ha fatto? Gli ha tirato un calcio in faccia, gli è montato sopra e ha cominciato a massacrarlo di botte urlando “AHE’, ALLARME, CI STANN A FUTTERE L’ARRIUPLANI!”. Nel frattempo…»

«Oh, Dio»

«…nel frattempo io, dentro, sento un tonfo. Mi sporgo e vedo un tizio che è rimasto incastrato in una finestra con la corda, mentre uno tra gli aerei lo strattona. Punto il fucile e grido l’altolà. Quelli sparano tre colpi sopra di me, tipo tre metri, poi si nascondono dietro un aereo urlando in inglese. Io non capisco un cazzo e rispondo al fuoco dando l’allarme. Sento “you have been hit, please stay down”. Devi capire l’adrenalina di quel momento. Notte, piena zona di guerra, botti di mortai e ‘sti robi neri che ti entrano in casa sparando. Ti pare che mi metto ad ascoltarli?»

«No» dico, con le mani sulla faccia «suppongo di no»

«Mi sposto sotto le carlinghe per puntarli, ci sei? Vedo una gamba, sparo. Quello va giù e gli avrei pure sparato in testa, ma quando punti qualcuno per uccidere il cervello ha un millisecondo di esitazione. Non so spiegarti, è tipo una specie di triplo check di sicurezza. E’ quello che ti fa crepare, di solito, ma io non avevo mai sparato a qualcuno, prima. Se punti un fucile vero, anche se scarico, contro qualcuno… bè, fa effetto»

«Vai avanti»

«Eh, in quel check capisco che sono americani, mi ricordo l’esercitazione e non sparo. Quelli escono con le mani alzate, si apre l’hangar e piovono dentro i nostri che li circondano, tra cui vedo Popoci che si tira dietro il Navy SEALs uso sacco della monnezza. Esercitazione fallita. Gli USA, poi, hanno protestato dicendo che eravamo stati avvisati e tenevamo la guardia più alta del previsto»

Le luci della sera tremano nell’aria calda che si sprigiona dai palazzi di Trieste.

«Pensa che risate se invece non vi avvisavano. E i nostri?» chiedo.
«Allora, il Col Moschin ha minato gli aerei americani e ha tagliato la corda senza che nessuno si accorgesse di niente. I GIS invece hanno tutto un loro modo di fare. Sono sempre… spiritosi. Dopo aver minato tutti gli aerei si sono presi la briga di taggare le carlinghe coi loro soprannomi»
«Tag…?»
«Sì. Ci hanno scritto i loro nomi in codice sopra. La mattina dopo gli USA si sono trovati gli aerei con scritte cubitali tipo NOSTRADAMUS o REAL NIGGA o che ne so io. Tutti gli incursori hanno un soprannome. Di solito è in inglese così lo capiscono anche le forze speciali di altre nazioni. Tra loro si conoscono quasi tutti»

«Che storia» dico.

La Costa Concordia, dal momento dell’affondamento in poi, è stata pattugliata a vista per proteggerla da eventuali sciacalli giacché, legalmente parlando, è discutibile dire cosa sia di chi in un relitto. Nessuna nave o sommozzatore civile poteva avvicinarsi. Incursori del COMSUBIN e del GIS hanno fatto svariate immersioni, anche per recuperare la scatola nera. L’altroieri, durante le manovre di raddrizzamento, qualcuno ha notato dei misteriosi graffiti apparsi sulle paratie sommerse. Due calligrafie diverse dicono “Kit kat” e “Big dawg”.

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Alcuni colleghi si sono interrogati su chi li avesse fatti e cosa significassero, ma sono stati rimossi subito e c’era altro a cui pensare. Nessuno saprà mai chi sono gli autori e, dopotutto, è un dettaglio insignificante. Però mi ha fatto tornare in mente la storia di Marco.

YAAAH HAAA, MOTHERFUCKAS!

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GUARDATE CHE FIGATA PAZZESCA.

Niente più foto che introiano Google, niente più problemi di spazio, niente più “segnala contenuto per adulti”, niente più censura di fiche. Siamo liberi di vagare nei più impervi meandri della mia mente e di quella dei commentatori. E’ bellissimo. Finalmente un indirizzo vero che potrete scrivere nei bagni più in fretta. So che alcuni studenti lo fanno.

COS’E’ SUCCESSO?
Con codici html e informatica varia scateno l’imbarazzo generale e sarei in grado di far esplodere la lavatrice solo cliccando qualcosa, quindi è giusto dirvi chi sono i mastermind alle spalle di questo fantasmagorico progetto che mi causa priapismo incontrollato. Il primo è Gianluca Zamagni, della Third eYe. E’ tipo la versione reale di Nick Banana: gestisce due aziende, un mutuo, una moglie e una figlia. E’ anche pieno di capelli. Se a trent’anni è messo così è probabile che al quarantesimo compleanno sarà diventato Ironman, quindi se avete un sito da hostare andate da lui e tenetevelo buono.

Il secondo è Henry Triplette. Un individuo irrequieto, nel senso che dalla creazione del sito ogni volta che gli telefono risponde “CHE CAZZO E’ SUCCESSO NON TOCCARE NIENTE, HAI TOCCATO, LO SO CHE HAI TOCCATO”. Non ci sono parole per descrivere quanto sia stato paziente, comprensivo, gentile e capace, soprattutto avendo a che fare con lo scemo del villaggio globale. Ha tollerato file sballatissimi, PSD incasinati, jpeg a risoluzione filatelica e ordini squinternati quanto contraddittori.

Henry diceva che prima di metterlo online bisognava aspettare, valutare, testare, limare. Ha! Noi non testiamo: noi sacrifichiamo. Siamo uomini, perdìo, il libretto delle istruzioni è roba da donne; proviamo finché non esplode o funziona. Di conseguenza potrebbero succedere incidenti divertenti, impaginazioni sballate, versioni mobile incristate. Potremmo venire stuprati da hacker turchi e Dio sa cos’altro. Fa parte del giuoco ma, ripeto, sarà tutta colpa mia.

CAMBIERA’ QUALCOSA?
Nei contenuti e nella grafica un cazzo di niente. Quindi continuerete a non avere la più pallida idea di cosa parlerà il prossimo post. Il che è un bene, visto che non lo so manco io. Abbiamo tuttavia implementato la funzione pubblicità. In basso ci sarà una bacheca dove chiunque paghi potrà lasciare i propri escrementi. Google Adsense, aziende, privati, a ogni refresh daranno un millesimo di centesimo o cifre simili, quindi più gente arriva meglio è, inclusi quelli di Pacific rim e del muezzin. A breve metteremo il tasto paypal. Dicono sia una cosa semplice da fare, ma è la terza volta che dopo mezz’ora di compila/conferma/clicca finisco al punto di partenza. Credo dipenda dal fatto che per avere il tasto paypal serve prima avere una paypal. Tradotto, chiederò alla Leonora come si fa.

Ci sono anche grosse novità su altri fronti, ma è presto per parlarne.

A breve si riprende come prima.
Tutto qui.

Refreshate, bastardi.

Kiska: il più grande disastro navale nella Storia della marina militare di tutti i tempi.

IL BRIEFING
E’ il primo agosto del 1943 a fort Lauderdale. Sulla lavagna luminosa vengono proiettate mappe dettagliate dell’isola di Kiska. Il colonnello Bishop suda davanti ai più alti vertici militari degli Stati Uniti. La sua promozione più ambita è a un passo, e grazie a un colpo di fortuna è entrato in possesso di un’informazione. Se ben sfruttata, potrebbe permettergli di scavalcare l’Ammiraglio Ellroy.

«Siamo a un passo dalla disfatta, signori» dichiara «I giapponesi occupano buona parte delle nostre isole. Stiamo perdendo l’oceano, e presto spunteranno Feng Dong da ogni angolo. I nostri figli mangeranno involtini primavera invece di hamburger. La fine, vi dico, è prossima.»

Occhiate scettiche.

«Colonnello» domanda il capo di Stato Maggiore «di che cazzo va farneticando?»
«Guardate da voi, signori!» esclama Bishop «L’AMERICA è in mano al nemico e voi non ve ne siete accorti. Un lavoro superlativo, vero, ammiraglio Ellroy?» termina sarcastico, poi fa partire le diapositive.

I militari si sporgono. Dal fondo della sala il capo dell’aeronautica punta il binocolo verso la parete. Scruta con attenzione. Abbassa. Scuote la testa.

«Ebbene?!» tuona Bishop.
Silenzio.

«Questo… questo significa» mormora la CIA «che potremmo avere trovato la leggendaria Isola che non c’è?»
Nessuno fiata.

«Era per darvi un’idea della posizione» minimizza Bishop «ora ingrandisco.»

Molti militari sono a pecora sul tavolo, protesi verso la parete. Alcuni fanno conchetta con le mani per vedere meglio.

«Lei vede qualcosa?»
«Pare uno schizzo sfuggito alla mia segretaria» replica uno.
«Ci servirà molta polvere di fata, questo è certo» annuisce la CIA, scrivendo furiosamente su un taccuino.
«INGRANDIAMO ANCORA» sbotta Bishop.

Cori di “aaah” e “oooh” risuonano nella situation room. È tutto un fiorire di sorrisi, pacche sulle spalle, sospironi. Quello della CIA scoppia a piangere e strappa il bloc notes.

«E insomma su quella spelonca ci sono giapponesi» riassume Ellroy.
«Assolutamente sì.»
No.

Nel 1942 vennero mandati sull’isola di Kiska una decina di marines a gestire una stazione meteo. I giapponesi, probabilmente cercando un posto dove pisciare, ci finiscono sopra. Uccidono due americani e deportano gli altri otto, poi restano lì a rimirare nebbia e gelo. Il comando della Difesa non si accorge che le trasmissioni meteo sono state interrotte; del resto chi ascolta il meteo a due passi dall’Alaska? Non è che un giorno dicono “oh, qui è tutto un fiorir di begonie, venite a fare picnic”. Oggi -20°, ieri -21°, l’altroieri -20°, abbiamo capito.

Un anno dopo un B-24 Liberator sorvola i paraggi, nota delle navi da guerra che si allontanano dall’isola e riferisce alla torre. Questa chiede che bandiera battono, il B-24 replica che non si vede niente perché c’è brutto tempo. Siccome in America un dubbio sollevato dal bidello di un istituto per focomelici basta per trasformare l’Iraq in un deserto nucleare, è ufficiale: a Kiska ci sono giapponesi.

«Cosa propone, colonnello?» domanda Ellroy.
«LA DISTRUZIONE ANALE» ringhia Bishop «BOMBE CHE DEVASTANO UOMINI E MEZZI A MIGLIAIA, E POI TRUPPE DA SBARCO A MIGLIAIA, E PROIETTILI A MIGLIAIA. IMMAGINATE LA SCENA, A MIGLIAIA, FROTTE DI MARINES A MIGLIAIA CHE ASSALTANO I GIAPPONESI RICONQUISTANDO GLORIOSAMENTE uno scoglio.»

Ellroy si gira verso il capo di stato maggiore, che scuote la testa.

«Le darò un canotto di Topolino e un cane antidroga» termina Ellroy, alzandosi «ora, se volete scusarmi, mia moglie non si picchia da sola.»
«Aspettate!» tuona Bishop «mi ascolti, signore. Pensi all’impatto psicologico sulla popolazione. Sì, è uno scoglio, ma è il nostro scoglio. Come reagiranno i civili, sapendo che bastano tre sniffamutandine per rubarci la terra? Dobbiamo dare un segnale forte al mondo. Oggi i cagariso si prendono uno scoglio, domani i nostri figli si chiameranno feng dong ching chon e non mangeranno hamburger.»
«Lei conosce almeno la differenza tra un nome cinese e uno giapponese?»
«Sono la stessa cosa.»
Ha inizio l’operazione Cottage.

 

 

L’ESERCITAZIONE
La marina militare degli Stati Uniti comincia subito in grande stile durante le esercitazioni pre sbarco, in mezzo a una nebbia spaventosa. L’USS Mississippi e l’USS Idaho, al comando del commodoro Griffin, decidono di testare il radar di bordo.

«Mi spieghi» dice il commodoro all’addetto radar.
«Ecco, vede, un radar ha una sensibilità regolabile» spiega il ragazzo «se la teniamo alta vede solo oggetti grossi tipo bombardieri, portaerei, cose così. Se invece la abbassiamo possiamo vedere cose più piccole tipo caccia, pescherecci, navi… e via dicendo.»

«E se la abbassiamo al minimo?»
«Arriviamo a vedere i gabbiani.»
«SEH VABBE’»
«Commodoro, le assicuro.»
«DAI, PROVAMELO, GAY SE NON ME LO PROVI, PROVAMELO!»
L’addetto abbassa al minimo. La plancia di comando esplode in una cacofonia di luci rosse e allarmi. Sugli schermi radar appaiono inspiegabilmente centinaia di contatti non identificati.

«Cosa succede?!» tuona il commodoro.
«Signore! Contatti multipli non identificati!»
«Tutti ai posti di combattimento!»
«No, aspetti» fa l’addetto «sono io che… cioè, lei ha chiesto…»
«NON HO TEMPO PER LE TUE PUTTANATE, MOZZO, TRASMETTETE L’ORDINE ANCHE ALLA USS IDAHO, ARMARE I CANNONI»

Nell’USS Idaho l’ufficiale in seconda sta bevendo felice il suo tè. Quando riceve l’ordine sbircia il radar. Nulla. Guarda fuori. Nebbia. Suppone un’esercitazione e arma i cannoni a salve, ma l’equipaggio, più motivato, decide di mettere i proiettili veri. Non appena il commodoro ordina di sparare ai volatili, la seconda corazzata lo imita. Il suono dei cannoni amici giunge all’orecchio del commodoro, che li scambia per colpi nemici e risponde al fuoco. La corazzata alleata fa lo stesso ragionamento. E’ importante che visualizziate due corazzate degli Stati Uniti che per sei ore di fila cannoneggiano onde, cormorani e pulci di mare, lanciando ovazioni di gioia ogni volta che sentono i colpi degli alleati perché “anche questa volta i nemici non ci hanno colpito”. Dopo l’estenuante battaglia contro la fauna del mar di Bering finiscono le munizioni e si preparano a essere abbordati.

Non accade.

 

 


Il Presidente Roosvelt ascolta l’esposizione dei fatti.

 

 

 

Bishop è sull’attenti nell’ufficio dell’Ammiraglio Ellroy che studia con attenzione un foglio, poi lo appoggia e incrocia le mani.

«Ricapitoliamo: i suoi uomini hanno speso l’intero pil del Kansas per sparare alle anatre.»
«Non è esatto.»
«Colonnello, in questo rapporto si parla di 51,814 colpi di cannone da 360mm impiegati per andare a piccioni. Sbaglio?»
Bishop scuote la testa.

«No, infatti. Ora, come noterà, il commodoro Griffin è stato degradato a un ruolo più consono alle sue capacità strategiche.»
Bishop getta una fugace occhiata nell’angolo dell’ufficio.

 

 

 

 

«N-noto» mormora, pallido.
«Bene. Ora che l’esercitazione è terminata, è tempo di fare sul serio. Sarà lei in persona a guidare l’attacco; tenga presente che in caso di fallimento abbiamo un water che non funziona. Può andare.»
Bishop scatta sull’attenti, si gira verso l’appendiabiti e fa il saluto.

 

 

L’ATTACCO
Il 15 agosto 1943, attorno a Kiska un totale di 34,426 soldati americani e canadesi sono pronti all’assalto. Ci sono la 7° divisione e il 4° reggimento di fanteria, l’87° reggimento artiglieria di montagna, 5,300 soldati canadesi della 6° e 7° divisione. Tre fregate, un sommergibile, una corazzata e 92 navi, a cui si aggiunge il supporto aereo di 168 aeroplani. Tra mare e cielo c’è così tanto acciaio che le bussole sbarellano. Sulla corazzata, Bishop studia gli ultimi dettagli.

 

«Partiremo con un bombardamento a tappeto. Tre passaggi su tutto quello che somiglia al nemico. Dopo il primo apriremo il fuoco con le navi sulla costa. Terminata l’artiglieria pesante, manderemo la prima ondata di truppe. I canadesi arriveranno da nord, noi qui» dice, indicando il lato ovest dell’isola «e contemporaneamente la seconda ondata attaccherà qui, dal Gertrude cove, in modo da prenderli con una manovra a tenaglia. Il sommergibile si occuperà di eventuali attacchi subacquei.»
«Non si preoccupi, signore» sorride il secondo in comando «abbiamo la migliore squadra possibile.»
«A proposito, dov’è Wallace?»
«E’ in coperta, sta cercando di risolvere un problema con le scorte d’acqua.»

 

«Bene, allora.»

Tutti gli ufficiali sono pronti. Il colonnello guarda la foto della sua anziana madre, osserva l’onnipresente nebbia e annuisce.

«Capitano, dia l’ordine» sentenzia.
«Sissignore!» risponde il capitano afferrando la radio «a tutta la flotta, luce verde, ripeto, luce verde! Iniziare operazione Cottage!»

La prima ondata di aerei decolla dalle portaerei e sorvola Kiska. Bombardano tutto. Rocce, scogli, prati, laghetti, pozzanghere. La seconda si spinge all’interno, trovando la stazione meteo, delle baracche sospette e quelle che sembrano postazioni di contraerea. Spazza via qualsiasi cosa a furia di detonazioni che si susseguono a ritmo forsennato. Il fumo nero si confonde con la nebbia. La terza ondata di aerei non vede nulla, ma bombarda lo stesso per sicurezza. E’ il turno delle navi. Oltre duecento cannoni aprono il fuoco sulla costa, mettendo in atto la più spettacolare opera di terraformazione mai creata dall’uomo. Kiska è ormai un unico blocco grigiastro dove detriti, nebbia e fumo si confondono.

«Quanta resistenza avete trovato?» domanda Bishop.
«Era un inferno, signore. Ventisei aerei abbattuti e altrettanti piloti dispersi.»
«SIGNORE!» grida il capitano «ABBIAMO PERSO OGNI CONTATTO CON IL SOTTOMARINO!»
«Cristo, sono tosti» mormora Bishop a denti stretti «prepararsi a sbarcare, forza. Avanti tutta!»

Per raggiungere la costa una nave incappa in una mina di profondità. Del sommergibile non si sa più niente. Le truppe sbarcano urlando e aprendo il fuoco nella nebbia, dove si agitano ombre indistinte. E’ un massacro simile ai primi venti minuti di Salvate il soldato Ryan. Marines morti e mutilati giacciono a terra privi di vita. Il comando dà ordine di avanzare. Dall’altra parte dell’isola canadesi e americani fanno lo stesso, stringendo i giapponesi in una micidiale tagliola. L’avanzata è lenta e complessa. Stando ai rapporti la resistenza è incredibile. Trappole, mine e artiglieria pesante decimano la prima ondata.

«Signore, i canadesi ci informano che le perdite sono massicce» fa il capitano «Stiamo perdendo il lato ovest.»
Bishop riflette rapidamente: «Fate convergere la seconda ondata di marines dall’altra parte. Reimbarcateli e mollateli lì a dargli una mano.»

Viene eseguito. Grazie all’apporto di truppe fresche il lato ovest riprende ad avanzare in un’oscena orgia di nebbia, carne, roccia, acciaio e sangue. Cadono a centinaia, ma finalmente raggiungono il centro dell’isola. Il lato est, nel frattempo, subisce la carenza di uomini. La terza ondata di marines sbarca e dopo un’ultima, drammatica battaglia, uccide l’ultimo nemico.

«Sergente maggiore a mamma chioccia» ansima il marines «Kiska è nostra.»

Nella sala comando della corazzata Bishop scatta in piedi assieme a tutti gli altri ufficiali, urlando di gioia. Dopo un rapido giro di pacche sulle spalle e abbracci sbarca anche lui sull’isola, mentre morti e feriti vengono riportati sulle navi. Il sergente gli corre incontro.

«Quanti prigionieri?» domanda Bishop.
«Nessuno» sorride il sergente.
«Splendido, così mi piace. Vediamo la cima di quest’isola dannata.»
La nebbia si dirada.

Bishop osserva i corpi di morti e feriti, concentrandosi sulle uniformi. Non trova quello che cerca. Le sue natiche si contraggono fino a fondersi in un unico blocco di carne. Scende, continuando a cercare. Bianco come un cencio afferra la radio.

«Chapithano» ansima «quanti giapponesi morti ci sono sul suo lato?»
«NON SO DIRGLIELO, SIGNORE, QUI E’ UN MASSACRO, STIAMO CERCANDO DI OSPEDALIZZARE I FERITI MA NON SO SE
«Capitano» ripete Bishop, osservando un gabbiano che passeggia «quanti sono i nostri caduti?»

Secondo i libri di Storia militare il colonnello della marina militare Joey Bishop ha conquistato uno scoglio deserto perdendo solo 313 uomini e 1200 feriti. I giapponesi avevano abbandonato l’isola almeno due mesi prima. Il sommergibile viene ritrovato solo nel 2007. Apparentemente, si era affondato da solo.

 

 

L’EPILOGO
L’Ammiraglio Ellroy osserva la linea della nuova fregata appena varata. I tavoli del rinfresco sono colmi di leccornie, le mogli e le fidanzate dei militari riempiono l’aria di un piacevole chiacchiericcio. Un uomo sulla quarantina, con folti baffi, gli si avvicina. Osserva quello che sta guardando Ellroy.

«Che linea» asserisce il baffuto.
«Già» dice Ellroy «speriamo abbia un equipaggio degno di portarla.»
«Oh, lo sarà. Ne sono sicuro. Sarò io, il comandante.»
Ellroy si gira, squadra l’uomo, un piccolino coi baffi. Nota i gradi.
Non dice nulla e torna a fissare la nave.

«Se posso chiedere» osa baffone «che ne è del colonnello Bishop?»
«E’ legato al galleggiante che segnala il livello delle acque nere. Quando la merda gli arriva al naso è autorizzato a informare la manutenzione.»
«Mio Dio. E per quanto durerà questa punizione?»
Ellroy si gira a guardare il nuovo capitano di vascello: «Finché non andrà in pensione, capitano.»
Baffone ha un brivido, poi sorride e porge la mano: «Io le prometto che io non la deluderò.»
«Lo spero» sospira Ellroy, stringendola «il suo nome?»
«Wilfred Walter, comandante della USS William D. Porter»