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01 – Newton era un precario

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ROMA, 30 Marzo, ore 10.41

E’ una mattina qualunque negli uffici della RAI di viale Mazzini.

Andrea Stradello, direttore di Rai3, è legato a 90° sulla scrivania dell’ufficio del direttore generale Luigi Dubitosi, che giocherella con un telecomando vicino alla presidentessa Elisabetta Aracnide. Osserva la scena con aristocratico distacco, seduta composta su una poltrona. Dietro le natiche di Stradello è stata posizionata una macchina su un treppiede da cui sporge un fallo delle dimensioni di una grondaia da capannoni.

«Mi rendo conto per lei sia una giornata no» dice Dubitosi, aggiustandosi l’orlo della giacca e appoggiando il telecomando sulla scrivania «ma le assicuro che per me e il Presidente è stato molto peggio»
«P-posso spiegare?» uggiola Stradello.
«No. Guardi questi dati, direttore» dice Dubitosi, agitando dei fogli «ogni puntata di Masterpiece c’è costata 180,000 euro. Come una settimana bianca del nostro presidente» dice, girandosi verso la donna che annuisce appena.

«Non è colpa mia! Io…»
«Taccia. In cambio di una somma del genere quali risultati ci ha portato?» domanda Dubitosi, avvicinando la mano al telecomando.
«Insufficienti!» grida Stradello «insufficientissimi! Ma nun potevo fà altro!»
«Le prime due puntate hanno fatto il 5,14% di share. Circa 690,000 spettatori. Poi siamo sprofondati al 3,91%, cioè 633,000 spettatori» dice Elisabetta con tono piatto e distante.
«Sa cosa vuol dire?» incalza Dubitosi, chinandosi.
«Lo so! Nun è andata bbene!»
«E’ un modo di vederla, sì» ammette Dubitosi «ma io preferisco dire che è andata una merda e che lei è uno stronzo incapace e sarà per questo punito»

Preme il telecomando. C’è un suono crescente, poi il fallo di gomma scatta in avanti penetrando l’ano di Stradello al ritmo di un martello pneumatico. L’ululato del direttore di Rai3 si trasforma in un muggito bitonale mentre tutta la scrivania in ebano trema. Elisabetta Aracnide osserva la scena con la mascella serrata e una vaga espressione di disgusto. Dopo una decina di secondi fa un cenno a Dubitosi e il fallo cessa l’opera.

«MADONNA DI RECANATI AIUTA IL TUO FIGLIO PREDILETTO» farnetica Stradello «SALVALO»
«Che Tempo che fa ci costa 150,000 euro e fa tra l’11% e il 13% di share» dice Elisabetta Aracnide «i suoi sono risultati da Botswana, dottor Stradello. Inoltre, la sua incapacità ha strascichi. Dovremo proporre quella merda in prima serata e abbiamo Brunetta attaccato al culo, col rischio saltino fuori le cifre reali e si scopra quanti soldi abbiamo buttato del budget. Per non parlare di tutta la cattiva pubblicità che spingerà ancora più spettatori a non pagare il canone»
«Ma presidente!» piange Stradello «nun potevo fà artrimenti! L’idea era…»

La frase viene interrotta da un assolo di fallo che squassa le viscere del direttore, questa volta per una quindicina di secondi. Il gigadildo esce assieme a diarrea sanguinolenta.

«SANT’EUSEBIO PROTETTORE DEI MINATORI AIUTA IL TUO SERVO» urla Stradello «CHIAMA I TUOI ANGELI A MIA DIFESA»

«Mi dia un motivo per non rompere il telecomando e lasciarla qui» dice Dubitosi «mi dia teste da tagliare, così potremo venderle come mele marce alla stampa. Se quelli s’incazzano impiegheremo MESI a sfamarli»
«Gli stagisti!» piange Stradello.
«Cristo, ci mancherebbe solo il WWF tra le palle. Teste di esseri umani, direttore, non topi da vivisezione» dice la donna, schifata.
«Lorenzo! LORENZO MIELI!»

Presidente e direttore sbarrano gli occhi.
«Cosa?» fa Dubitosi, trattenendo il fiato «cos’ha detto?»
«E’ venuto lui da me, che je potevo dì?!» pigola Stradello tra le lacrime «me chiama, dice che vuole parlà de un progetto per la Fremantle media. Me spiega de sto cazzo de reality e der premio de 100,000 copie stampate da Bompiani. E io che je potevo dì?!»

Elisabetta Aracnide si risiede sulla poltrona. Le tremano le mani.

«Oh, Cristo» sussurra Dubitosi «oh, CRISTO. Non l’abbiamo prodotta noi, Masterpiece?»
«No! L’ha fatta la Fremantle! La stessa de Un posto al sole, che poi è la serie TV presa per il culo da Boris, serie che è potuta andare in porto perché dietro ce stava sempre lui! Quello è n’intoccabile duro! Sapevo che se andava bene era merito suo e se andava male era colpa mia, ma non avevo scelta! Non avevo alternative! Voi SAPETE chi è il padre di Mieli!»

«Paolo Mieli» dicono Elisabetta e Dubitosi contemporaneamente.

«Eh! Ex direttore de La Stampa, del Corriere della Sera, presidente gruppo RCS libri, ossia della Bompiani. E fatalità chi stamperà le 100,000 copie? La Bompiani, cioè SUO PAPA’! Se dicevo di no a suo figlio finivo a pulì cinema a luci rosse con la lingua! Che dovevo fà?!»

«Quindi non c’è stata una gara per assegnare la produzione» geme la presidentessa.
«No» uggiola Stradello.
«Cristo» fa Dubitosi, massaggiandosi il setto nasale «Cristo santo»
«E immagino che non ci sia stata nemmeno una gara per scegliere quale casa editrice pubblicherà il romanzo vincente» prosegue la donna, pallida.
«No!»

Elisabetta Aracnide preme il telecomando. Il fallo ricomincia il disfacimento anale di Stradello che ulula un AwAwAwAwAw ritmico. Lei si gira verso Dubitosi.

«Se questa roba esce sui giornali ci squartano vivi. E succederà, se facciamo mezzo fiato contro Mieli. Ci tocca succhiarlo fino in fondo. A richiesta faremo anche i gargarismi, porca puttana»
«Vabbè, i giornalisti abbaiano quando dice il padrone. Il Sole24ore è di Confindustria e se ne impippa, Stampa e Corriere stanno all’ombra del cazzo di Mieli, Ripubblica e Il Fatto oramai sò la versione hipster de Cronaca Vera, gli unici che possono romperce er cazzo sò Il Foglio e Il Giornale, ma adesso c’han artri cazzi paa testa. Rimane il web, ma tanto non lo legge nessuno»

AwAwAwAwAwAwAw

«Nessuno?! GIORNALETTISMO? LINKIESTA?! Quel pericoloso flippato di Dagospia? Il Portaborse!? Valigia blu?! Se la merda arriva al ventilatore il cartaceo non può continuare a dire che un tornado ha colpito una fabbrica di cioccolata, immondo grassone. Fatti venire un’idea in fretta»
«Io?! Senta, ho appena fatto salti mortali per ficcar dentro Flussi e mi stanno sul collo per la menata de Crozza. Come se ai contribuenti je fregasse de cacà venticinque milioni. Non voglio fare la fine di Socillo che s’era affidato a Monti e ora nessuno gli sta a meno di 20 metri. Io qui non ci capisco più niente. Un giorno piove merda da destra e quello dopo cazzi enormi da sinistra. Manca solo che ci facciamo Mieli nemico e finiamo tutti a raccogliere fanghi radioattivi in calabria saudita»

AwAwAwAwAwAwAwAwAwAwAwAwAw

«Quindi proponi silenzio»
«E de tomba» annuisce Dubitosi.
«Un colpevole dobbiamo pur darlo ai ficcanaso»

Dubitosi blocca il telecomando. L’ano di Stradello è ormai un traforo roseo da cui proviene del fumo.

«Abbiamo rivalutato l’idea dello stagista» sorride allegro Dubitosi «dammi un nome, ma che sia un nome decente, perché finirà crocefisso su tutti i quotidiani. Mi serve uno preparato ma di famiglia ricca, che abbiamo assunto per le capacità ma che poi ha dimostrato di essere il classico figlio arraffone del ricco cattivo e l’abbiamo licenziato»

«Ce l’ho» sospira Stradello.
Poi sviene.

 

 

 

 

ROMA, 1 Aprile, ore 09.35

E’ un mattino qualsiasi, negli uffici RAI di viale Mazzini. La stagista apre la porta e se la richiude alle spalle.

«Mettite a sede» fa Stradello, indicando la sedia.

Lucrezia Banana la guarda come fosse il ciglio di un burrone.
[continua]

Una vita degna di essere vissuta

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E’ mattina. Apro gli occhi, scendo in cucina con cautela giacché l’87% della superficie calpestabile è occupata da cestini e devo muovermi in orizzontale uso South Park. Non so quando casa mia è diventata il merdaio di un barbone ossessivo compulsivo, ma sospetto la lappascroti che convive con me mi abbia buggerato per l’ennesima volta. Entro in cucina, accendo la macchinetta del caffè, mi giro per svuotare il filtro. Mi blocco. Quando vivevo da solo c’era un unico cestino dove buttavo la spazzatura senza razzismi: sacchetto dell’Auchan, giù calci fino all’estremo, un nodo, cassonetto. Fine. Ora c’è quello del vetro, della plastica, dell’alluminio, della carta, dell’organico. A volte mi trovo con un preservativo usato in mano e mi domando se devo spremerlo in uno e gettare il goldone nell’altro. In salotto c’è quello per la Caritas e quello del “non riciclabile” perché a tutti capita di dover smaltire dell’Uranio, di tanto in tanto.

Assonnato, butto i fondi in quello della plastica.
«Tesoroooo» bramisce la fica di sopra.

L’udito di tale creatura domestica è in grado di percepire il suono di ogni cestino, quasi fosse la pioggia nel pineto di D’Annunzio. Raccolgo a mani nude il fondo di caffè e lo butto nell’organico. Faccio il caffè. Bevo. Vado per cacare e invece del portariviste trovo un cestino rosa.

Apro per vedere se ci sono le riviste.

 

 

 

 

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No.
Niente riviste.

Appurato che evidentemente in città c’è anche il cassonetto per gli assorbenti usati mi siedo per defecare. Pochi istanti dopo la fodera di carne-ciccipucci bussa alla porta. C’è da buttare l’umido, dice. In strada percorro il tragitto a passo svelto tenendo l’orrore ben distante dal corpo, come un autostoppista che porta in pegno un grumo di avanzi. Un vicino esce di casa, guarda il sacchetto trasparente. Sorride.

«Mangiato pesce ieri?» gongola, osservando il contenuto «stiamo facendo i soldi, eh? Io starei attento, con tutti i malintenzionati…»
Cinque metri.

«Ah, sono le ossa del polletto della rosticceria qui dietro!» nota «poca voglia di cucinare, eh?»
Sei metri.

«Non bisognerebbe comprare tutta quell’insalata se poi non si mangia, eh? Va a male, eh?»
Sette m
FRAP

I sacchetti per l’umido sono della stessa consistenza delle inchieste del Fatto quotidiano, basta esporli alla luce del sole per più di dieci secondi e si polverizzano. Ora la strada è cosparsa della mia vergogna, inclusi un paio di preservativi di cui uno con uno sbaffo di merda. Io e il vicino li osserviamo insieme.

«Non credevo a tua morosa piacesse nel culo» commenta, rapito.
La cosa strana è che io non uso i preservativi.

Raccolgo tutto a mani nude. Con gli arti che grondano materia in putrefazione apro il cassonetto dell’umido, tatticamente disposto sotto il sole. Appena apro il coperchio nel quartiere parte una sirena antiaerea e tutti indossano maschere antigas. Io non ne ho meco e vengo tramortito da afrori non appartenenti a questo mondo, visioni mistiche, intuizioni trascendentali. Satana esiste. Dio non è vivo. Tra le antiche mura di Ebla un pastore ha gridato il mio nome.

Richiudo.

Torno a casa barcollante e tutto ciò che voglio è non pensare a quanti anni mi restano da vivere in questo modo, ma sulla soglia la slabbrata mi sporge il sacchetto della carta. Del resto è quello che si riempie prima. Lo spam via mail è stato dichiarato fuorilegge nel 2004, mentre a tutt’oggi chiunque abbia una stampante è libero di cagarmi nella casella delle lettere senza venire per questo punito o giustiziato.

Appallottolo una busta contenente i vaniloqui di stronzi qualsiasi quando trilla il cellulare.

La fedifraga che sugge i miei testicoli mi comunica che anche la plastica è al limite. Riattacco. Giunto al cassonetto lo trovo ridotto a un cumulo bianco. Nel quartiere siamo talmente sovrastati da questa cazzo di pubblicità che le campane si riempiono in mezz’ora, poi diventa un totem attorno al quale depositare altra carta. A questo va aggiunto che anonimi sciacalli, nottetempo, profanano codeste piramidi pagane in cerca di libri integri da poter rivendere alle bancarelle. Per fotterli alcuni prima di buttarli strappano le pagine, così gli sciacalli s’incazzano e il giorno dopo trovi messaggi a pennarello contenenti parole quali “la povera gente”, “paese di merda”, “vergogna” tutte separate con un puntino e scritte in italiano a cinque stelle. Rovescio il sacchetto sopra altra carta. Una ragazza con il badge del comune si avvicina sorridente e si congratula per il mio impegno civico.

La uccido e ne profano sessualmente il cadavere.

Localizzare la campana della plastica è più facile, basta seguire le urla dei dannati che tentano invano di far entrare la roba a cazzotti. Mi metto in fila, tremante. A chi capiterà il WRAM? A me? A quello prima? Quello dopo? Al mio turno premo con tutta la forza che ho in un crescendo di scricchiolii finché, puntuale come la morte, WRAM. WRAM vuol dire che dall’altro buco della campana è detonato uno spruzzo di bottiglie che investe a valanga una vecchia di passaggio, tramortendola. Raccolgo merda dal selciato mentre gli altri si affrettano a riempire il buco. WRAM. Vengo investito da altre bottiglie. Ormai la strada pare un campo rom. Con l’anima che piange mi rimetto in fila, rassegnato. Dopo tre uomini tocca di nuovo a me. WRAM. La vita è una merda. Torno a casa alle undici di mattina e la tergisperma mi allunga un sacchetto ignoto.

«E questo quali innominabili nequizie contiene, Dio ti possa ghermire nel sonno?» domando.
«Secco non riciclabile»

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Significa che non raggiungerà mai il suo destino.

Il comune di Venezia ha deciso, nella sua infinita saggezza, di blindare i cassonetti. Ora tutti i mondezzai del veneto hanno una chiave d’accesso digitale senza la quale non è possibile depositare i propri scarti. Per ottenere questo miracoloso manufatto è necessario presentarsi negli uffici del comune dalle 7.00 alle 10.00 dal lunedì a venerdì – ossia mai – fornendo carta d’identità, certificato di nascita, certificato di residenza, stato di famiglia, codice fiscale e attestato di verginità della propria figlia. In teoria questo permette di pagare la bolletta in proporzione a quanto si butta, in pratica fa sì che i mestrini gettino la propria merda in qualsiasi posto somigli a un contenitore, tanto che se ti addormenti su una panchina a bocca aperta al risveglio potresti trovarci una confezione di affettati vuota.

Appoggio il sacchetto vicino al cassonetto e me ne vado fischiettando.

«Senta lei» dice una voce, poi pretende 167 euro di multa.
Estraggo la Desert Eagle, gli sparo in faccia. Vuoto il caricatore sulla calotta e fuggo.

 

 

 

 

 

 

 

 

E’ notte, ora. Resto a fissare il soffitto mentre la traviata vicino a me dorme il sonno dell’infame. Ha lenito le mie proteste concedendomi l’accesso al suo sfintere e il mondo sembra meno cupo. La palpebra cala, il sonno mi avvolge lento, poi c’è un crash. Mi sveglio di soprassalto. Un altro crash. Un altro ancora.

«Tesormpf» mormora essa «in effetti c’è da buttare il vetro, vai tu?»

La legge del quartiere è che il vetro va buttato solo da mezzanotte in poi, cosicché il frastuono riverberi con maggiore enfasi nel silenzio della città. Apro la porta e mi trovo davanti a un bangla che mi sta infilando una pubblicità nella cassetta della posta. Sparo, ma lo manco di un soffio. Raggiungo la campana di vetro che odora di vino vecchio, birra spanta. Noto con la coda dell’occhio decine di oompa loompa che frugano tra le carte. Uno di loro lo conosco, ha il Porsche Cayenne comprato usato e immatricolato nel 2002. Mi fissa con odio. Chiede se sono io che strappo i libri. Rispondo che ci cago sopra, ai libri.

Dice che quello non è un problema.

Ci vorrebbe la rivoluzione

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Apro gli occhi perché dalla strada è partita la consueta salva di urla, guaiti, latrati e bestemmie che avviene quando la persona con cane X incontra la persona con cane Y e decidono di lasciarli avvicinare. Dopo una breve annusata di culo i molossi tentano l’accoppiamento o la strage, attività impedite solo dalla potenza dei bicipiti di X e Y. Se X era intenzionata a farsi scopare da Y saranno sorrisetti imbarazzati. In caso contrario pioveranno insulti, minacce e bestemmie. Il mio cane, richiamato da questa overture, salta dritto sui miei testicoli alle 7.32 di domenica mattina nel tentativo di lanciarsi dalla finestra pur di assistere a questo evento irripetibile. La donna lo placca alla disperata balzando dal letto e sbattendo la testa contro il termosifone. Il cane guaisce.

Piscio, penso al suicidio, fuori è primavera.

La Natura ordina alle donne di predisporsi all’accoppiamento ed esse palesano tette, gambe, culi in minishort. Ciò innalza il testosterone acuendo l’aggressività della popolazione, centuplicando risse a cui seguono risse per vendicare le risse. Una vecchietta a terra urla con grazia, protendendo la mano verso lo scippatore come una nuova Creazione di Michelangelo. Egli fugge, catenina in pugno, schivando con soavi piroette i pedoni di Mestre inebetiti da antidepressivi, tranquillanti, droga, Beppegrillo.it. Leggo il giornale. Persino le scazzottate fuori dai centri commerciali hanno un sapore diverso. Il susseguirsi di opere d’arte che hanno scandito il proseguire dell’umanità, qui, trova nuova linfa. La guerra di Piero, Mezzogiorno di fuoco, Sfida all’ok corral e “Volevo veramente questo parcheggio“.

«Sono pronta!» trilla la donna nell’altra stanza.
«Va bene, andiamo» rispondo alzandomi.

Resto in piedi sull’entrata per un minuto. Due. Comprendo l’errore. Non era un “sono pronta” da essere pronta, era più un “sono pronta” che le fiche dicono a caso ogni tanto, tipo perché hanno deciso cosa mettersi o con quale colore cazzuolarsi la faccia.

Mi svesto. Il cane dorme. Gli uccellini cinguettano.
Un SMS mi informa che dovrò fare gli straordinari.

Fuori dalla finestra il sole è tiepido. Mestre si riscopre in tutto il suo splendore di abusivismo edilizio anni ’70. Al Tronchetto persino i parcheggiatori della mafia sorridono mentre ti dirottano. I caparozzolari di frodo duettano sempre con la guardia costiera tra raffiche di mitra, ma tengono lo stereo acceso che suona “It’s a beautiful day” di Michael Bublè. I pescivendoli di Rialto non dicono più che gli immigrati gli rubano il lavoro, forse perché sono stati decimati dalla retata che ha sequestrato tanta cocaina da farcisi un igloo. Nei bar, tra un’occhiata a una minigonna e uno spritz, si parla di rivoluzione contro la casta che dissangua gli onesti lavoratori veneti. Quest’inverno il progetto di rivoluzione lollina 67.843, detta “dei forconi”, consisteva nel paralizzare l’Italia aspettando qualcuno faccia qualcosa. Sono stati momenti drammatici, in televisione si susseguivano le strazianti interviste alle madri dei disoccupati che alla domanda “signora, e suo figlio dov’è?” rispondevano “a casa che dorme”. E’ finito con l’arrivo del weekend, sebbene alcuni di questi eroi presidino ancora il casello Padova est davanti all’Ikea.

presidio ikea   1502802_3805903321657_373427932_oMa basta accelerare.

 

«Tesoro, sei pronto o no?» flauta la vagina, impaziente.
Il cane scoreggia così forte che si sveglia.

Volto pagina.

Il successivo progetto di rivoluzione lollina 67.844 detto “Indipendensa” consisteva nel costruire la ruspa di Batman, portarla in piazza San Marco e poi di nuovo aspettare qualcuno faccia qualcosa, proprio come il piano 66.892 del 1997. Purtroppo gli indipendentisti si erano informati su Facebook ed erano convinti sarebbe bastato spegnere il telefonino per non essere intercettati dai massoni.

1484250_10152045324519632_76811308_nNon ha funzionato.

 

«Così come sto?» domanda la fica, apparendo in salotto.
Alzo gli occhi. S’è di nuovo dipinta le sopracciglia con l’Uniposka.

«Benissimo» dico.
«Ma… devi ancora vestirti?!»

Il cane gira in tondo, felice all’idea di poter annusare urina fresca e preservativi usati. Appena capisce che non lo porteremo con noi spara un ululato, subito emulato dai cani dei vicini. Usciamo che il condominio pare il set di un western. Mentre chiudo noto un rivolo di urina che fuoriesce da sotto la porta, seguito da un grattare convulso. Dio è il migliore amico dell’uomo e si morde la coda, ma non devo pensarci. Sono il paese reale, ho problemi più urgenti come il paradosso di H&M. Si tratta di un varco spaziotemporale che si spalanca in primavera, durante il quale le vagine si vestono la metà ma comprano il doppio dei vestiti pagandoli il triplo e visionandone il quadruplo, e per farlo necessitano sia presente un maschio. E’ come se Margherita Hack avesse bisogno del parere di un idraulico per stabilire se una roba è un quasar o una supernova. Cosa cazzo sono, un meetup a cinque stelle? Ho la faccia del commesso della Decathlon che abolisce l’emendamento 785/c in rif. legge 348 del 1987 e il giorno dopo ci svegliamo in guerra col Suriname? Sembro forse il giardiniere di Codroipo che nei forum di medicina diagnostica l’AIDS a uno che chiede delucidazioni sulla calvizie? Sono un uomo: se vuoi sapere come mi piaci vestita basta aprire youporn.

«Questo come mi sta?» domanda uscendo dal camerino.
«Benissimo» dico, sforzandomi di ignorare quelle sopracciglia così simili ai disegni che ti fanno gli zingari sulla porta. Ma quando ci sarà la rivoluzione tutto questo cambierà. Mangeremo i cani. Sedurremo a martellate. Non ci saranno più SMS.

Devo solo aspettare qualcuno elabori il piano 67.845.