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Dalle stelle alla fica

Dalle stelle alla fica

«Non sarebbe bello essere delle persone importanti? Sapete, fare la differenza, essere conosciuti, aver soldini e fama? Conoscere persone che altri non possono conoscere, entrare in posti che per altri sono accessibili, avere dei privilegi, essere speciali? La risposta, ovviamente, è sì. C’è chi lo ammette serenamente e chi inventa buffe scuse retoriche. La parola più quotata nell’ambito comunicativo è “ESCLUSIVO”. Se io faccio un posto dove puoi entrare quando vuoi con chi vuoi ci verrai una volta per sbaglio. Se io ti dico che è riservato ad una clientela d’elite pagherai somme stratosferiche per riuscire ad intrufolartici. In parole povere, se il tramonto fosse a pagamento lo guarderebbero tutti.

Se ti guardi attorno vedrai persone indossare e comprare oggetti totalmente ridicoli per somme altrettanto ridicole. Andiamo, se nel nel 2000 avessimo visto un uomo con camicia fucsia attillata con scritto a brillantini “baci e abbracci” avremmo riso allo spasmo. Appena saputo che l’aveva pagata 200 euro saremmo morti rotolandoci per terra. Il motivo, oltre allo stare al passo coi tempi, è l’emulazione. Come quando eravamo bambini e giocavamo a “facciamo finta che”.

Mi compro occhiali da 280 euro per fare finta che.
Compro una macchina che fa 6 chilometri con un litro per fare finta che.

A questo ragionamento può arrivare chiunque ed è talmente sdoganato, talmente banale, talmente ovvio che sta cominciando a diventare fuori moda. Non basta vestirsi e guidare per fare finta che. Non è più convincente, non è più APPAGANTE, serve qualcos’altro. Ora serve addirittura pensare, per fare finta che.

Se c’è una cosa che l’essere umano non sopporta è il non conoscere: l’ignoranza ti fa sentire piccolo, indifeso, e soprattutto spaventato. Se io dico “qui dentro fa freddo, c’è qualcosa che non va” spavento. Se io dico “qui dentro fa freddo, è schioppata l’aria condizionata” la gente mi ignora. Dai un nome al mostro sotto al letto e farà subito meno paura. Se legate queste due cose insieme, escono i dietrologi, i complottisti ed i cacciatori di cospirazioni. Persone che non sopportano né accettano di essere piccoli e di non essere in grado di fare la differenza; odiano chi è al potere ed accusano lui di ogni loro fallimento; cercano in ogni modo di attribuire al potente le colpe di ogni cosa, anche le più fantasiose storielle. Se mia moglie mi fa le corna non dipende dal fatto che io la chiavo solo il 31 del mese, dipende dal fatto che la CIA sta emanando onde mentali che fanno il lavaggio del cervello alle persone. Se il mio capo redattore mi butta fuori a calci nel culo non è colpa dal fatto che io non faccio un cazzo dalla mattina alla sera: è colpa di Berlusconi, dei comunisti, della CIA, dei terroristi.

Perchè io non sono un granello di sabbia.
Io POSSO FARE LA DIFFERENZA, magari con petizioni online o catene di S. Antonio. Non c’è niente di più difficile, al mondo, che ammettere di non contare un cazzo.

Così nascono cazzate improponibili come le scie chimiche, le torri gemelle abbattute dagli americani, il tubo Tucker ma soprattutto, signora, nascono i profeti: gente che non propone mai un cazzo ma attinge dal bar sport presente in ogni città, quello dove ci si trova a parlar male del governo. Questi profeti del nulla hanno la capacità del caccapupù elitario: ovvero dicono banalità sconvolgenti (i politici rubano, i gay sono uguali a noi, gli immigrati non sono tutti cattivi, le donne devono essere uguali agli uomini, l’erba è meglio del cemento, la pace è meglio della guerra, la CIA fa cose segrete, i giornalisti sono faziosi, i gattini sono teneri, le veline sono sceme, la merda puzza, l’acqua è bagnata). Vendono queste verità come elitarie, raccogliendo un gruppo di persone attorno a loro e dicendo “noi sappiamo la verità, ma ci perseguitano e vogliono chiuderci la bocca”.

Così fanno finta che.

Fanno finta di essere importanti, di conoscere, di sapere, e soprattutto fanno finta di credere, perché se c’è una cosa di cui abbiamo disperatamente bisogno è quello di credere in qualcosa o qualcuno. Da quando abbiamo smesso di credere al papa robot crediamo ad ogni puttanata elitaria. I no global, i wannamarchisti, i tuckeristi, i grillini, i travaglisti, i codicedavincisti, gli sciachimisti, gli scientologysti. Si tratta di una “cerchia d’eletti” che ha scelto di credere, non di ascoltate la ragione trasformando il ragionamento deduttivo in induttivo: non più “siccome X è 1, allora credo che” bensì “siccome credo 1, allora è X”.
Si tratta di persone che credono.

Avere fede in qualcosa implica la cecità totale, l’assoluta mancanza di obiettività o di possibilità di dibattito. Tu sei una donna intelligente che è in grado di ragionare con la propria testa, credi ai fatti e non parli per fede o pregiudizi. Quindi ora girati e proviamo nel culo.»
«MA NON ABBIAMO LUBRIFICANTE!»
«…secondo te cosa ci fa quella noce di burro sul comodino?»

Una storia d’amore di ventisei secondi

Una storia d’amore di ventisei secondi

«Salve!»
«Cosa c’è?»

E’ mezzogiorno. Lei sta mettendo multe, bella come una dea. Io sono in bicicletta reduce da una sudata improponibile sotto il sole della Mestre di giugno.

«E’ la sua macchina?»
«Mia? No, no, signorina, io ho una 600, poi vede? Sono in bici»
«E allora che c’è?»
«Niente, volevo dirle che io son sempre stato di gusti semplici. Sa, cose banalissime, non sono per le stravaganze. Però da quando l’ho vista ho percepito un fremito nella forza»
«Che sta dicendo?»
«Le seccherebbe ammanettarmi?»

Rimane imbambolata con il blocchetto in mano.

«…prego?»
«Sì, sì, giusto il gesto, però insomma, chi non vorrebbe farsi ammanettare da una donna come lei?»
«Se ne vada, signore»
«Oh, andiamo, sia gentile, quando mi ricapita? Lo prenda come regalo di compleanno»
«Adesso lei mi dà un documento»
«Pronti»

Tiro fuori la carta d’identità. Continuo a parlare mentre lei trascrive diligentemente.
«E’ vero che oggi è il suo compleanno»
«Sì. Insomma, come faccio a farmi ammanettare?»
«Dovrebbe darmi un motivo valido»
«Se vuole vado a prendere l’auto e faccio la strada in contromano»

«No, per motivo valido intendo che la prendo a manganellate, poi arrivano i miei colleghi e alla fine le mettiamo le manette»

«Ma io non voglio farle del male, voglio solo che mi ammanetti!»
«Guardi, io ho i suoi dati, ora o lei se ne va o la denuncio»
«E se ora fuggo per sfuggire alla denuncia ed il conseguente arresto?»
«Le ho appena preso i dati e ho ancora la sua carta d’identità in mano»

«Va bene. Allora mi arresti»
«La SMETTA!»
«Faccia solo il gesto!»

Sbuffa, mettendo la mano sulla radio: «…il gesto?»
«Niente, mi prende i polsi, mi ammanetta, poi me ne vado felice dopo aver ricevuto un bellissimo regalo di compleanno, potrò bullarmi di essermi fatto ammanettare da una donna bella come lei, chi potrebbe?»
«…e poi lei se ne va»
«Sì. Promesso»

Si guarda attorno. Mestre è in un mare di soleggiato, deserto ed afoso asfalto.

«Mi dia i polsi»
«Evvai!»
«Si giri»
«Ok»

Click.
Mi rigira.

«E’ contento? Buon compleanno.»
«Non ha idea di quanto mi ha reso felice, signorina.»
«Ora si giri che gliele levo, altrimenti passiamo un guaio.»
«Ecco.»
Clink, ra-tlack.

«Ora sparisca dalla mia vista.»
«D’accordo. Posso portarle un fiore, dopo?»
«NO! VADA VIA!»

Monto in bici e sgambetto. All’angolo mi giro a guardarla, mi fa il gesto “vai” con la mano.
Non ho mai più rivisto quella tizia, ma penso di essere ancora innamorato di lei.

Le cose non smettevano di esplodere

Le cose non smettevano di esplodere

– Ehilà, com’è andato il capodanno? –

Questo mio amico è ricco. La passione di questo mio ebefrenico amico sono i fuochi artificiali, in cui arriva a spendere cifre superiori a due miei stipendi. Quest’anno non son andato da lui e mi mangio le mani, l’ho incontrato oggi mentre tornavo dal lavoro e mi ha raccontato cos’è successo.

A mezzanotte mancano pochi minuti, sono tutti molto ubriachi. Dado – chiamiamolo così – posiziona i fuochi nel suo giardino e ne delega un paio alla sua adorabile consorte, raccomandandole di piantarli bene nel terreno. E’ mezzanotte, e nel casino generale escono tutti. Dado accende i fuochi al buio del giardino. Tutto è bellissimo. Arrivato agli ultimi due, le scintille illuminano qualcosa che non va. Si gira, urla “tutti dentro! Tutti dentro!”. La gente vede la sua faccia e si scatena il fuggi fuggi generale. I due dardi piantati dalla consorte, praticamente due RPG, sono infilati nel terreno di tre-quattro centimetri. In pratica, la roulette russa.

Partono quasi simultaneamente.

Il primo, che chiameremo “Vagabondo”, si piega in avanti per la spinta e parte con un alzo di circa 45 gradi. VAGABONDO perfora la siepe, incendiandola, che ne devia la traiettoria verso il terreno. Attraversa la strada, finisce sotto una punto bianca ed esplode, facendola alzare di mezzo metro, distintegrandone la coppa dell’olio, annientandone tutti i vetri e annerendo la carrozzeria. Qui termina VAGABONDO.

La punto era di un suo amico.

Il secondo, LILLI, parte verso destra. Prende in pieno il lampioncino che viene disintegrato. Non si sa secondo quale principio della fisica LILLI a questo punto procede verso l’alto in una parabola a C. Torna indietro, e all’altezza del secondo piano si infila nell’unica finestra aperta, ove deflagra. Il boato all’interno della casa fa crollare il lampadario del salotto, che cortocircuita l’impianto elettrico. All’interno della camera da letto dove LILLI ha impattato vi erano i cappotti di tutti, un gatto, un televisore al plasma e qualche cianfrusaglia.

Lilli carbonizza tutto, fa a pezzi il televisore, incendia le tende e si desume abbia polverizzato il gatto, che è tutt’ora disperso. I pompieri arrivano e riescono ad isolare l’incendio che si stava propagando grazie al parquet. I danni sono pressoché incalcolabili. Con sguardo perso nel vuoto e la voce rotta fa:

– Nebo, ti giuro, pareva Sarajevo, le cose non smettevano di esplodere.
Sono riuscito a non ridere fino al mio arrivo a casa.

Aggiornamenti: han trovato un pezzo che potrebbe essere il gatto conficcato nel televisore. Non sto scherzando.

Volevamo solo costruire un elicottero

Volevamo solo costruire un elicottero

Laterale del terraglio, cinque di pomeriggio. La moglie è in cucina sui fornelli, il marito entra e la guarda appoggiato sulla soglia.

«Sei bellissima, lo sai?»

Lei si sforza di sorridere. E’ tesa. Lui se ne accorge, si avvicina e l’abbraccia: «Andrà tutto bene, tesoro. Finirà. Riusciremo a capire cosa sta succedendo qui dentro.»
Lei sospira e chiude gli occhi smettendo di mescolare. Guarda la cucina nuova, i disegni del figlio sul frigorifero. Giocattoli sparsi. Stringe le braccia dell’uomo che ha appena sposato, per un attimo è di nuovo felice: «Renato, io…»
«Sssh» le chiude la bocca lui «…lo so. Tutto si sistemerà, te lo prome

In una frazione di secondo le loro orecchie percepiscono un suono, poi quella che fino ad un istante prima era una tranquilla cucina domestica diventa Kabul, con un boato assordante la finestra va in frantumi in una fontana di scheggie, qualcosa disintegra il lavabo ed in un vortice di distruzione si conficca sulla portiera del frigorifero trafiggendo un disegno del piccolo Matteo. I due urlano gettandosi a terra, ma ormai è già tornato il silenzio.

«Oddio!» urla la donna «ODDIO RENATO NON FINIRA’ MAI, COS’E’, COS’E’ QUELLA ROBA, COS’E’?!»
Renato si alza. Osserva.

«Sembra… è… una grondaia. E’ la nostra grondaia, tesoro.»
«MA NON ERA SCOMPARSA?! »
«A quanto pare è tornata » sussurra Renato, osservandola «… solo che pare… masticata…»
«E’ IL FANTASMA DEL NONNO, RENATO, TE LO DICO IO, QUESTA CASA E’ MALEDETTA! ANDIAMO VIA, PER CARITA’ DEL SIGNORE, ANDIAMO VIA!»

Renato stringe la moglie in lacrime guardando la grondaia deformata, conficcata al centro di un disegno del figlio. Il piccolo Matteo entra in cucina, vede la scena, corre incontro ai genitori e si taglia sui vetri rotti. Scoppia a piangere anche lui mentre il padre guarda il crocefisso sulla parete: cosa ti abbiamo fatto, Signore? Quale disgrazia si è abbattuta sulla nostra famiglia?

A quaranta metri dalla casa, sei ragazzi e due ragazze si guardano attorno.
«Nebo, và un po’ a vedere dove cazzo è finita la pala dell’elica.»

Era l’estate del 1992. Francesco, Daniel, Laura “Dot”, Checca, Silvio, Marco, Luca e io. In un caldo pomeriggio Silvio si presentò nel garage di Luca ed annunciò che servivano più catene da biciclette, perché bisognava costruire un elicottero. Venne deriso, ma le argomentazioni erano valide: c’è tutta l’estate, tutti bocciati, nessuno va in vacanza, costruiamo un elicottero, facciamo bella figura coi nostri genitori, quale figlio si presenta nel cuore dell’estate ed annuncia “papà, ho costruito un elicottero”? Costruiamo un elicottero, vi dico.

«Silvio, ma con cosa?»
«Abbiamo tre garage di roba, quello che serve lo tiriamo fuori da qui o dal grumo di rottami fuori.»
«Hai la più pallida idea di come si costruisca un elicottero?»
«No, ma che importa, non sarà tanto diverso da una bicicletta.»
Ci convinse.

Restava da stabilire di cosa era fatto. Piedini, sci da alpinismo. Fu abbastanza facile, erano in quello stesso garage. Una volta che avemmo perforato col trapano un paio di Rossignol da molti milioni decidemmo di usare sbarre da cemento armato come ponte di collegamento. Non era così semplice piegarle, così utilizzammo il principio della leva infilandole sotto la lavatrice.

«Sì, ma dall’altra parte dobbiamo mettere qualcosa o cadrà.»
«Venite, amici, appoggiamola alla moto.»
«E sotto la sbarra?»
«Non so, il casco?»
«Perfetto!»
«Pronti? UnodUEEE…»

La porta del garage si aprì rivelando una donna con in mano un cesto di biancheria.
«…TRE!»

Non sembrava intenzionata a fermarsi. Mollava ceffoni a qualunque cosa si muovesse, come in un film horror stavo nascosto dietro l’armadio mentre la vedevo massacrare il figlio tenendolo per il bavero. Colpiva tutto, le passavi vicino e pestava pure te, insulti, calci in culo, urla sconnesse. Lanciava oggetti, sbavava rossa in viso. In pratica la leva aveva rigato il casco che aveva ribaltato la lavatrice che aveva fatto crollare la moto che aveva schiacciato un piede della Checca che era scivolata sul detersivo finendo sotto la madre mentre lasciava cadere la cesta della biancheria: «La.. la moto di tuo padre, FOCOMELICO! La lavatrice, tutto! TUTTO! HAI ROTTO TUTTO!»
«MAMMA, STAVAMO COSTRUENDO UN ELICOTTERO!»
«COSA?»
«UN ELICOTTERO, MAMMA, GUARDA, ABBIAMO GIA’ FATTO GLI ZOCCOLI!»

La madre si girò verso di me, così mi sembrò una buona idea agitare il paio di Rossignol perforati. Ricorderò sempre con affetto la faccia di quella cara donna, come sgranò gli occhi, come mi fissò incredula. Il rosso lasciò spazio al pallore mortale mentre la bocca restava aperta a mezz’aria per poi trasformarsi in una smorfia di dolore. Lanciò un grido acutissimo, mollò il figlio e si catapultò verso di me con le mani dirette alla giugulare.

Ora che ci penso, è curioso come sodomizzarle dia gli stessi risultati.

Ci giocammo Marco per tutta l’estate, ma eravamo ancora in ballo perché Silvio, nottetempo, aveva recuperato i Rossignol dal garage. Avevamo il saldatorino da circuiti ed una tonnellata di stagno, un vecchio mobiletto in truciolato, chiodi, nastro adesivo, fil di ferro e tanto entusiasmo. La prima parte era fatta con minime perdite umane, ora avevamo una credenza che sciava divinamente. Facemmo qualche prova sulle montagne di terra del cantiere usandolo a mò di slittino e reggeva pure.

«Ma gli elicotteri sono chiusi col vetro ed hanno i sedili.»
«Tranquilli, ho pensato anche a questo. Avete presente quella roba che ha sopra il motorino del vicino?»
«Sì, ma come lo prendiamo?»
«Ora vi spiego, ma prima, Nebo, tu che vuoi sempre far qualcosa… sei bravo a scavalcare?»

Il piano di Silvio era semplice. Intrufolarsi nel cortile del vicino, raggiungere il garage, staccare il fintovetro protettivo dal motorino e tornare indietro.

«Ma se esce il vicino?» chiede la Laura.
«Non esce.»
«Lo so che non esce, ma dico, potrebbe succedere, no?»
«Tanto Nebo mica ha paura, vero?»

C’è la Francesca, ufficialmente io non ho paura di niente e di nessuno. Se non ci fosse stata la risposta sarebbe stata “voi siete pazzi, andate tutti affanculo”. Dentro casa la coppia neosposata sta a mezzo metro da una partita di calcio, lui in trance, lei talmente disinteressata da trasformarsi in un sensore di movimento umano: qualunque cosa più grande di un granello di polvere è un buon diversivo. Renato, un metro e novanta per cento chili trascorsi sulle curve degli Ultrà, è ancora Juventino. Van Basten ha appena segnato uno a zero per il Milan e se gli date un cucchiaino in mano può fare una strage. La moglie nota un bambino dalla carnagione molto scura che passeggia in giardino verso la finestra del retro.

«Tesoro, c’è un bambino negro in cortile.»

Ora, è scientificamente provato che un uomo in fase di quiete filtra il 43% delle informazioni provenienti da voce femminile. Scientificamente. Non le sente, disabilita la funzione di memorizzazione a determinate parole chiave tipo penso che, credo che, per me dovresti, secondo me, scarpe, vestiti, mamma, bambino, soldi, cucina ed altri ancora. A tutti noi è capitato di scoprire che una donna ci sta parlando solo dopo molte ore che ci è seduta a fianco, diamine, quel piii piii piiii non era un forno a microonde. In questo caso il cervello di Renato è massicciamente schermato da un filtro passabanda che blocca il 98% proveniente da chi è privo di testicoli.

«Tesorpii piiii pi piiii-ii»
«Uh-hu» annuisce lui.
«Piii?»
«Sì, sì, dopo»
«Pi pi pi pi, negro piii»
Filtro disabilitato.

«Scusa, come hai detto?»
«C’è. Un. Bambino. Negro. In. Cortile.»
Renato si gira.

Oooh, ‘sto coso mica viene via, eh. Che cavolo, mi sa che han saldato le clip. Ah, no, ecco, ecco. Imparato il trucco è facile. Ora prendiamo questo coso, portiamoci dietro anche il telo impermeabile, via, arrotoliamo… lllà, un giochetto. Per uscire da qui bast
«EHI!» urla qualcuno alle mie spalle.
Mi cago addosso dalla paura, caccio un urlo.

«Tu, TU! Vieni QUA, fermo!»

Che faccio? CHE FACCIO? Resto qui? Vado lì? Quel tizio si è contraddetto, non so bene che fare, fuggiamo. Scatto verso il muretto mentre da dietro parte una raffica di improperi. Corro, scarto la betoniera fucsia, salto la ginestra, i miei allegri compagni mi guardano incitandomi, salgo sulla legnaia e faccio in tempo a sentire Silvio che mi urla “il robo, dammi il robo”. Quello stronzo di merda invece della mano prende il plexiglass e fugge urlando assieme agli altri. Restano solo Luca e la Laura che mi strattonano mentre alle mie spalle Renato si ferma davanti al rischio potenzialmente letale di scalare la legnaia.

Riparte verso l’interno.

«Nebo, fa PRESTO, quello fa il giro!»

Scavalco, atterro di culo prendendomi un’insaccata paurosa. Il “tak” del cancello è il suono dell’inevitabilità, signor Anderson. Ci dividiamo guardando chi sceglie il tipo. Le possibilità di prendere Luca erano 9 su 10, grosso com’è ora che si muove son giorni. Prendere me, 6 su 10 perché sgambettavo. Quell’idiota sceglie la Laura. Piccolina, esile, capelli neri scarmigliati, vestita dai genitori come una hippie, nessuno è mai riuscito anche solo ad andarle vicino. Gare tra amici, gare scolastiche, campestri, inseguimenti, sagre, nascondino, tutto: è sempre arrivata prima di qualsiasi concorrente. Nel 1992 Laura Schiesari percorreva tutta la via gatta alla mia stessa velocità, solo che io ero in bicicletta.
Mentre io e Luca ci ficchiamo nel boschetto incolto Laura carbonizza Renato sullo scatto, salta il fosso e prosegue per il campo, attraversa il sentiero sterrato e a metà si gira. Guarda il puntino all’orizzonte che è Renato, si mette le mani sui fianchi e grida “ALLORA?!?”.

Renato torna a casa, ha una moglie a cui spiegare molte cose.

Noi raggiungiamo Laura che si teletrasporta da noi tutta incazzata con Silvio. Nel pomeriggio montiamo il plexiglass, distruggiamo tutte le nostre biciclette e cominciamo i preparativi dell’elica, ovvero montando catene e ruote a casaccio. E’ ironico sapere che il costo dei danni probabilmente gravita attorno al prezzo reale di un elicottero. Tutto questo accade mentre il quartiere vocifera di strane sparizioni. Attrezzi, oggetti, corde, tutti i garage stavano venendo depredati. Quando due giorni dopo Luca smontò la grondaia di una neofamiglia in crisi avevamo tutto il materiale necessario. Per una settimana non facemmo altro che martellare, saldare, attaccare ed agitarci. Bàm, bàm, bàm, ormai avevo il riflesso condizionato che se vedevo metallo martellavo.

C’era tutto, era tempo di collaudo e quale posto migliore di un campo davanti alla casa che avevamo depredato? A dodici anni non puoi conoscere la forza centrifuga. Quando Renato esce in cortile per quantificare i danni mi vede all’esterno del vialetto che mi sto grattando la testa sotto l’onnipresente cappellino dei NYC. Ci vediamo quasi contemporaneamente ed entrambi diciamo qualcosa. Io rompo il ghiaccio con una “h” aspirata. Lui risponde “ANCORA TU?” e parte a testa bassa. Non so bene che fare, fuggiamo.

La tensione è palpabile.

«Tranquilli, appena Nebo torna con l’elica riproviamo. Oh, avete visto che prima s’è alzato un po’? Avrà fatto almeno un metro.»
«Io no.»
«Manco io.»
«Io nemmeno.»
«Silvio stronzo.»
«Laura merda.»
«Oh, piantatela. Silvio, ma dopo la montambàic mi ritorna a posto, vero?»
«Che te ne frega, avremo UN ELICOTTERO.»
«Mia madre me l’ha comprata un mese fa, se la vede così mi ammazza e io ammazzo te.»
«Avremo UN ELICOTTERO, ti dico!»
«Mi torna a posto o no?»
«Sono circondato da pressapochisti.»
«Eh?»
«Da chi?»
«Pressapocosa? »

«Ohi, sta tornando Nebo, agita le mani e urla.»
«È perché è negro…»
«No, no, ha il tizio della grondaia dietro.»
«Che COSA?!»
E’ così.

Lì per lì l’idea più intelligente che mi venne fu quella di portare il nemico al campo base, così Renato arrivò trovandosi davanti ad un branco di ragazzini che si agitavano attorno ad una scultura moderna composta da pezzi di alto valore economico ridotti ad ignobile ferraglia.

«POSSIAMO SALVARCI! » urlò Silvio lo stratega balzando ai comandi «TENETEVI FORTE, SI DECOLLA!»
Laura era già a molti chilometri di distanza.

Le vibrazioni umane esistono. Le senti sul palco, nei locali, tra la gente. La mia ex3 psicologa sosteneva che questo mio sentire fosse un mixare inconsciamente migliaia di piccoli impulsi che si manifestavano in una sensazione. Dopotutto non dice puttanate. In un film puoi trasformare una scena da macabra a comica solo con il suono, guardate il trailer di Mary Poppins con gli effettini giusti su youtube e ditemi voi. Ecco, le sensazioni sono molto simili. Nell’istante in cui Renato fece capolino da sopra la collina capimmo tutti che no, non era stata una buona idea provare a costruire un elicottero. Certo, se invece avessimo voluto costruire un trebucco da epoca romana sarebbe stato un successo. Ma Mamma Terra è una mietitrice di sogni, che ci volete fare. Quando i nostri genitori si presentarono a casa di Renato e Rosa Ghezzi pareva un’esecuzione. Occhiatacce, silenzio ostentato, vergogna e qualche lacrima anche materna mentre ricevevamo insulti, bestemmie, improperi ed osservavamo i nostri genitori scusarsi con quel tizio e quella tizia. Ci costrinsero a raccontare tutto per filo e per segno, materiali presi, atti di vandalismo, almeno una cinquantina di azioni terroristiche ai danni di un’allegra famiglia, cose che insomma fanno tutti i dodicenni in periferia prima che arrivasse la playstation e Maria de Filippi.

«Comunque c’era anche una ragazzina » insistette Renato «pareva una zingara, però.»
«Ma chi, la Laura?» domandò Silvio.
«Ma no, la Laura non era dai suoi che faceva i compiti?» domandai io aspettando un coppino paterno.
«Eh?» domandò Silvio.
«Sì, infatti» disse Luca guardando fisso negli occhi Silvio «la Laura non c’entra niente.»

Laura, che era quella coi genitori peggio messi economicamente, riuscì a sfangare sia la ramanzina di tre quarti d’ora in due atti – pubblico e privato – sia la nube di ceffoni che la sera venne a trovare casa per casa ognuno di noi. Ci giocammo l’estate, la vedevamo seduta fuori in strada da sola che guardava verso le nostre finestre e faceva gesti. Non seppe la verità per tanti anni in cui tanti si divisero pigliando strade diverse, chi più o meno belle. Silvio – giuro – s’è dato all’ingegneria aerospaziale. Se molti italiani sono ancora vivi è probabilmente grazie al test d’ammissione che lo segò. Nel 2001 io, lei e Luca stavamo nascosti in deposito FS sotto un treno merci con le mani sporche di vernice, gli zaini pieni di spray, i vestiti fradici di rugiada ed un sacco di tempo da aspettare. Per alleggerire la tensione decidemmo di fare un raccontino vintage.

«Ma quindi quella volta mi avete paraculato voi due? »
«Più o meno, sì»
«ODDIOCHETTENERI, e dire che tu mi piacevi pure» fa rivolta a Luca.
«Hiiii, oddioketteneri, mettetevi anche a suonare il tamburo che in guardiola non vi han sentito» bercio.
«Pure tu a me, eh» fa Luca.
«Ecco, ghe sboro, a ‘sto punto baciatevi.»
«Ok.»
«Come “ok”, cazzo fate?»
«Spostati un attimo, Nebo.»

Si dettero il primo bacio sotto un carico di semi diretto a Copenaghen alle 3.30 di un sabato notte mentre col binocolo tenevo d’occhio le prodi forze dell’ordine. Ma questa è un’altra storia e l’amore non è per questi luoghi, signora, men che meno per il carabiniere in borghese che sta leggendo il blog con vivo interesse: tutto inventato, capo, haha, era una burla.

Non si sa mai

Non si sa mai

La strada per l’inferno è lastricata di buoni propositi.
Se proprio andate di fretta, basta andare al Gasoline di Jesolo.

– Orpo, ho lasciato il cellulare a casa.
– Bòh, se vuoi siam qui, faccio il giro.
– MANNOCHEMMIFREGA, tanto stiam assieme tutta la sera, se mi cercano si fottano, andiamo a fare gli stronzi, via.

Ogni volta che lascio il cellulare a casa trovo una chiamata anonima. Pazienza, se vogliono mandan messaggi e poi dopo un pomeriggio di prove voglio solo la disconnessione. Sapete, girare con un preservativo è un po’ da sfigati però non si sa mai. La mente vacilla alla remota possibilità una sconosciuta qualunque pretenda attenzioni tanto radicali però non si sa mai. Il mio “non si sa mai” accadde una volta sola. Ed ero in costume da bagno.

– TU NO ITALIA!
– Io sì Italia, tu dove?
– RùSSIA!
– Ecco, come ti chiami?
– ANJA! ANJA DI…
– …di grande madre russia, ho capito.
– Sl’avsa ot’echestvo n’ashe svob’odnoyeeeeeee…

Ricomincia a cantare allegra l’inno dell’armata rossa. Anja l’ho vista in via Bafile che camminava tutta sola, cosa più unica che rara per quella macelleria che è Jesolo. Alta, snella, un viso da fotomodella, una scollatura vertiginosa con un pushup da incidente ed un culo che sposta l’ago delle bussole. Complessivamente un 7 nella mia scala digitale, ovvero che sarei disposto a mozzarmi sette dita su dieci pur di imberlarla. Io sono con DJ, bassista e percussionista, che in giro per Jesolo attacchiam adesivi e cazzeggiamo. La seguo con la coda dell’occhio e quando in piazza Mazzini incrociamo lo sguardo non lo abbassa, anzi. Entra dopo di noi al Gasoline, un discopub che pare l’anticamera dell’inferno. La vedo che beve sola al bancone, mollo la band e mi ci siedo a fianco. Mi giro, le chiedo se gira sempre da sola e poi ordino da bere.

– Io no sola.
– Sì che sei sola, ti ho vista da fuori. Cosa prendi?
– Io paga per me.
– Eh, è il problema degli amici immaginari. Cosa prendi?
È confusa.

– Vino?
– Qui dentro non trovi vino, aspetta.

La barista è in spaccata sul bancone che versa whisky ad uno in maglietta rosa. La strattono per un tacco, si gira, le chiedo se ha vino, dice prosecco. Traduco. Promosso. Arriva il prosecco.

– Questo è vino?
– Una specie, sì.
– Da zdr’avstvooyet sozdanni voley NAR’ODOOOOOOOOV…
Canta felice sopra un truzzamento tunz tunz ed un carnaio che si agita.

– Quanti anni hai?
– Tu quanti credi?
– Quanto basta.
– Eh?
– Ventisei?
– No! Dicianòve!
Bel colpo.

– Tu speravi PIU’ vero? COSA tu pensa TU, ora? Io dicianòve tanto? O poco?
– Non so, canta!
– Soy’ooz neroosh’imi resp’ooblik svob’odnikh…
– Senti, non dovresti bere vodka?
– NO! Vodka per freddo, qui caldo! Tanto caldo, muolto caldo! – dice aprendosi la scollatura.

A fianco un tizio sbarra gli occhi e tira una madonna. Io resto impassibile ad una quarta naturale abbondante compatta al centro senza scanalatura sei nei su quella destra due su quella sinistra leggermente simmetrici un accenno di lentiggini reggiseno nero pizzettato accenno di brillantini sulla parte alta probabile forma a goccia con capezzolo piccolo oddio dove la porti spiaggia o bagni che fa tanto degrado undergr
Richiude. Durata della radiografia 1.2 secondi.

– Tu no guarda me, vero?
– Come?
– TU NON GUARDA QUI?! – dice prendendosi in mano le tette.
– C’E’ MUSICA ALTA! – dico indicandomi le orecchie.

Si stringe nelle spalle, beve e inneggia a Stalin che era tanto bono e bravo. La conversazione scivola piano su argomenti che se lei reputa noiosi dribbla inneggiando Sozial Rebuplisky o cose così. Il tempo passa veloce e lei rifiuta di uscire. Al terzo tentativo mi cago il cazzo, provo l’approccio in differita.

– Anja, mi dai il tuo numero di telefono?
– Soy’ooz neroosh’imi resp’ooblik svob’odnikh…
– Il cellulare, Anja!
– Ah! TELEFòNIRE! Vabbene! Mio numero è 3… 3… tu no scrive?
– Aspetta che piglio il c
DIOMADONNISSIMALASANTERRIMAIMMACOLATA.

– Anja, non ho il cellulare con me.
– Aaah, no telefòn? Tu dai me tuo, poi richiamo!
La guardo. Calcolo il numero di prosecchi. Si scorderà di me tra una sessantina di secondi.
Guardo la barista che sta tastando le braccia flirtando con un tizio.

– Scusa.. SCUSA, HAI CARTA E PENNA?!
– NO, STO LAVORANDO!

Attorno ho un oceano di carne che si divincola, ho perso il contatto visivo con il resto della compagnia da circa… un’ora e mezza. Possono essere ovunque assieme ai loro cellulari ed alle chiavi della macchina che io non so dov’è parcheggiata. Mi sento come su Platoon. Guardo Anja, una cinquantina di chili che andrebbero suonati come un violino e che invece non rivedrò mai più, ma ora ho problemi più urgenti.

– Anja, vado via.
– Tu no beve con me?
Piango sangue. Mi prometto di imparare il russo mentre comincio a vagare per la sala. Devo pure pisciare. Calma, serve lucidità. Le idee migliori mi son sempre venute in cesso. Cambia l’acqua al canarino, Nebo, vai. Una parola. Il cesso ha una coda di tedesche bionde che invadono pure quello degli uomini. Io, un norvegese di tre metri ed un nigga vestito da LL Cool J ci guardiamo, borbottiamo, prendo l’iniziativa e tiro fuori il cazzo. Non so se avete mai tirato fuori i gioielli di famiglia davanti ad una scolaresca di tedesche, dà una rara soddisfazione tribale: indietreggiano tra gridolini, fanno per coprirsi gli occhi, uno spettacolo. Mentre pisciamo tento di spiegare il mio problema al nigga, che mi risponde che non ha soldi in cellulare ma è amico del DJ. Il norvegese non capisce una parola ma dice qualcosa nella sua lingua indicandomi le parti basse. Decido di non approfondire, saluto, lavo manine, esco.

Ci sono tre numeri di cellulare che so a memoria: quello di Vegeta, quello della Iaia e quello del mio DJ. E’ qualcosa. La prima cabina telefonica va solo a schede. La seconda ha la pulsantiera scassata. La terza ha due dentro che scopano. La quarta è stata centrata da un SUV ed è ridotta ad un cellulare, ma priva delle sue funzionalità. In tasca ho sei euro e cinquanta. Posso solo giocarmi la carta del talento, e mi metto a scrutare la folla con sguardo addestrato da anni ed anni di writing. ECCOLI. Lui sulla quarantina, brillante, giaccamicintura tèèèèèk, capello anni 80 in compagnia di due squinzie sulla trentina che dopo una vita di pompe sottobanco si son svegliate ed hanno detto “oddio ma io cioè non sono una sensibile”.

Li aggancio col fiatone.

– Signori scusatemi se vi disturbo ma è un’emergenza, posso darvi i soldi della chiamata ma PER FAVORE ho bisogno di fare una chiamata di CINQUE SECONDI, solo per dire dove sono. Non ho il mio telefono, non voglio derubarvi, ho solo bisogno di dire dove sono.
– Ooh – dice la bionda.
– Povero – dice la mora – ma che ti è successo?
– Già, come mai? – domanda il Claudio Cecchetto della situazione.
– Ero al Gasoline, ho lasciato il cellulare – dico, omettendo dove – son stato scemo io.
Ringrazio sentitamente, mi guardano un po’ stralunati, saluto. Mi recuperano pochi minuti dopo che fumavo come un turco. Questa è stata la mia prima notte a Jesolo. In verità vi dico, quest’estate comincia benissimo. Se son tutte così ci sarà da divertirsi.

Però non si sa mai.