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Come piccoli soldatini di piombo

Come piccoli soldatini di piombo

Uniti, fratelli, compagni di questa battaglia prima o poi tutti cadiamo. Colpiti da qualcosa o qualcuno, di noi rimane il ricordo, il mito, la leggenda ed un affetto che pian piano si adatta al quotidiano. Diventa parte della nostra faccia, del nostro viso. Lo segna, lo porta con noi con più leggerezza come un peso che non senti più a causa del tempo. Siamo marines con uno zaino da quaranta chili in spalla. Siamo guerrieri che vanno a farsi squartare. Soldati lontani da casa, fiocchi di neve che compensano la mancanza di mezzi con il numero. Polvere in un tornado. Preservativi sul Terraglio.

Ma noi combatteremo fino allo stremo, fino all’ultimo giorno.

Lotteremo con tutta la nostra forza e determinazione, spalla a spalla, finché avremo forza e poi useremo la gravità o l’inerzia. Orgogliosi di noi, solidali e spietati con i traditori e con i nemici. Perché siamo tutti, nel bene o nel male, dei proeliator. Anche sull’altare, fino all’ultimo secondo. Anche nei bar dove ci beviamo la dignità tra cubetti di ghiaccio e foglioline di menta. Anche quando accettiamo di pagare rate per qualcosa che non possiamo permetterci. Anche quando, al mattino davanti ad ore di lavoro pesante, vediamo solo il nemico. Anche quando ci spalmiamo contro un palo della luce in pieno sabato pomeriggio.

Tutto inizia con la frase “so io quello che piace alle ragazze”.

«Cioè?»
«Alle ragazze mica piacciamo noi, gli piace tipo… non so, hai presente Marco?»
«Alessi? Sì, e allora?»
«Eh, lui è FICO!»
«Sssbòh, è che lui sta in centro.»
«Sta sempre con le più tope, però. Bisogna mostrargli che siamo anche noi così.»

«Biondi con gli occhi azzurri?»
«No, meglio. Fichi.»
«Arriva la puttanata» pigola Ario.
«Stai zitto» bercia Silvio.
«Oh no, non dopo quella di usare i goldoni di tuo padre per fare i gavettoni, Silvio.»

«Mbè?» arrossisce l’ingegnere.
«Mbè?! Quei cazzo di cosi si gonfiavano come dirigibili e non scoppiavano, parliamo di te che sei uscito con una mastella di bomboloni che profumavano di frutta?»
«Ha ha ha ha è vero, c’era tua madre viola e tutto il quartiere fuori, ha ha ha ha quante botte che t’han dato, oddio le lacrime.»
«Siete dei coglioni, sto qui a dirvi come rimorchiare e voi pensate ai gavettoni.»

«ha ha ha ha ha e quando non scoppiavano e ti sei messo a pugnalarli con le chiavi?»
«HAHAHAHA CON LA LAURA CHE CI SALTAVA SOPRA»
«AHAHAHAHAHAHAHA»
«“mamma, ma erano sul tavolo in cucina!”»
Quasi ci strozziamo.

«Volete far colpo o no, deficienti?»
«Ehi Silvio, cos’è quest’odore di frutti di bosco? Ah, è l’alito di tua mamma!»

Silvio passa alle mani e comincia a pestare a casaccio, dopo un piccolo parapiglia ritorna l’ordine. Secondo lui, Marco Alessi era fico non perché somigliava a quello dei Take That, ma perché sapeva fare le impennate.

«Secondo me più perché ha lo scooter, no?»
«Ma no, stupido, alle donne non frega niente del mezzo, conta come lo sai usare.»

Un tuono nel cielo coprì la risposta del popolo femminile di ogni parte del mondo in tutta la Storia dell’umanità terrestre, ma al tempo non ci badammo: nelle nostre menti debilitate la cosa che più avrebbe colpito una donna sarebbe stato una decina d’idioti che passavano davanti alla gelateria con le ruote alzate. Questo oggi come oggi fa traballare la mia sanità mentale come ascoltare una persona che parla di televisione, ma sapete com’è.

Cominciammo ad imparare la difficile arte dell’impennata.

Alcuni avevano la BMX, altri la mountain bike, altri la graziella. Le attività in quartiere fremevano. Le ragazze si spaccavano le balle o giocavano a “1, 2, 3 stella” o ci deridevano mentre con impegno ci massacravamo. Per una buona impennata è necessario tirare a sé le braccia con potenza 10 mentre si sposta il baricentro del corpo con potenza 6. Il difficile è capire l’equazione. Quell’estate fu un fiorire di salti all’indietro suicidi, sbucciature, ferite simili a quelle di un coltello, unghie distrutte, falangi in carne viva, ammaccature e sangue. Dopo due settimane l’asfalto pareva scenario di una lotta tra gang. Le biciclette erano ridotte a catorci graffiati, ammaccati, sporchi di sangue, saliva, fango ed erba. Io non ci riuscivo una volta su tre. Silvio era perfetto. Checco era perfetto. Luca alzava troppo la ruota e finiva per dover mettere le gambe dietro, castrandosi con dolore e forzando sempre di più i raggi della bici di sua madre. Ma eravamo pronti.

Potevamo andare in piazza Ferretto, in centro a Mestre.

«Silvio, non so, io aspetterei»
«Chi non è ancora pronto non sarà mai pronto» dice con tono solenne.
Ovazioni.

Partimmo tutti con in tasca tremila lire. Arrivammo e lei, Caterina, era bella come una dea circondata da ancelle e sgherri. Luca la vede e non capisce più un cazzo. Lancia gridi bestiali, si agita. Il bar si gira. Luca impenna. La ruota posteriore cede distruggendosi in perfetta verticale. Noi siamo dietro, è tardi per tutto. C’è chi gli monta sopra, c’è chi cade, c’è chi crolla sopra l’altro, io mi schianto e la graziella pieghevole si apre in due. Caterina è a bocca aperta assieme alle sue amiche. Il gestore della gelateria non crede a quello che vede. La clientela è immobile, paralizzata. L’intera piazza Ferretto è esterrefatta da questo cataclisma di carne e acciaio, un’intera città fotografata in un minuscolo, piccolo, epico fotogramma.

E dal nulla emerge l’eroe.

Silvio l’aveva pensata bene, noi davanti a fare la figura dei coglioni in branco, poi lui, affascinante cavaliere solitario riflessivo che passava dietro, un po’ sulle sue. Solo che nel suo immaginario la squadra di kamikaze in avanscoperta non avrebbe dovuto detonare prematuramente. Non ci crede, non è possibile. Non è giusto. Mi sto rialzando ed in una scena alla slow motion mi passa a fianco Silvio che mi guarda con gli occhi di chi sta andando a morire. Mi odia, Silvio. Mi guarda e mi chiede “perché” con gli occhi. Poi si ricorda che la bicicletta è in movimento ma è tardi ed entra nel bar con la mountanbaic schivando Caterina ed impattando contro il congelatore dei Sammontana. Per un piccolo battito nessuno fiata.

«Vi siete fatti male?» domanda il gestore.
«Ciao Caterina, sono qui con i miei amici» piagnucola Silvio con voce rotta ed un polso fratturato.

La piazza esplode.

Nemmeno il V-day ha avuto una piazza che ride tanto sguaiata. Ride il notaio alla finestra, ridono i clienti del bar, ride la farmacia e le commesse del negozio di Benetton. Ride la Caterina, ridono i suoi amici, i cani guida dei ciechi, ride il tizio del Duca d’Aosta. La tabaccaia scatarra scossa da spasmi di ilarità. Il gelataio si tiene la pancia. C’è gente distesa per terra. Il gioielliere prende a testate la vetrina urlando. Il pizzaiolo lancia impasti per aria mentre tenta di salvare la sua cassa toracica dall’esplodere martellandosela. Finestre si spalancano e vecchi si lanciano nel vuoto. Gente esce dalla porta con la cornetta del telefono in mano da cui proviene una risata. Dalla Corte Sconta escono a frotte persone in lacrime. E’ un mondo che ride mentre io monto sulla graziella rimontata di fretta e corro via. Silvio non uscì per un mese, suonavamo alla porta e la madre diceva che doveva studiare.

Soldati, signora.
Soldati.

Come domare una diciottenne #1

Come domare una diciottenne #1

La prima cosa che vedo è una specie di cespuglio che si muove. Castano, riccioluto. C’è troppa gente, non vedo bene e l’unica cosa che m’interessa è rum. Sì, per la madonna, rum. Poi magari capisco che diavolo è quella roba che si muove. Schivo sei bionde minigonnate. Oltrepasso un centinaio di uomini che vorrebbero trombarle.

Cavolo, ‘sto posto è veramente bello.

Bellissima atmosfera. Vittorio Veneto, Cutty Sark. Un pub inglese di fronte al fiume. Arietta fresca, atmosfera libera come piace a me ovvero né centro sociale né monta dei conigli imbellettati. La mia amica lesbo hardcore m’ha tirato pacco all’ultimo momento con un sms che recita “mia morosa se l’è rasata, vaffanculo tu e la birra”. Avere una delle tue migliori amiche a cui piace la patata fa strano, ma ti abitui. Così son tutto libero e sol soletto in questa amena località montana.

L’aria è fresca e pulita, davanti a me scorre un fiume ed io, a bordo della mia fida 600 modello base, optiamo per questo pub. Raggiungo il banco senza fare del male a nessuno, ecco il tizio.

«Mi fai un pampero, per favore?»
«Vuoi succo di pera?»
«No, no, grazie.»
Si allontana.

Cerco il cespuglio semovente, non lo vedo. Che poi le donne erroneamente credono agli uomini piaccia lo standard televisivo. E’ inesatto. Gli uomini amano la vagina ma hanno preferenze, magari semplici 

«Ciao, sei tu quello del rum?»

particolari, dettagli, quisquilie apparentemente inutili che ci fanno piacere le donne più di altre. Sicuramente il culo aiuta, ma c’è dell’altro. Di una donna può piacerti il modo di fare, di un’altra i capelli, di un’altra due tette perforanti, di un’altra le gambe. Lo sguardo, la fronte, la pancia, l’ombelico, quel cazzo che è, cose che FANNO SANGUE, capite? Ispirano anche se non

«Ehi, scusa?»

rientrano nei canoni. La cosa divertente è che questo viene percepito in maniera distorta. A nessun uomo piacciono le anoressiche, personalmente un po’ di carne nei punti giusti è una benedizione di Dio. Non c’hai paura di romperle. D’altro canto se vai in una palestra gli uomini son

«…ragazzo col berretto?»

…convinti che più grosso sei più piaci, mentre le donne generalmente puntano la definizione, non la massa. Almeno così spiega il mio istruttore. Insomma, gli standard televisivi hanno confuso le idee sia ai maschietti che alle femminucce. O magari è il contrario, ovvero

«…ragazzo con la camicia… hmm, larga? Orrenda?»

…che siamo noi ad aver portato queste baggianate sul grande schermo. Può essere. Però a me la gnoccolona bionda barbie non ispira. Poi chiaro che una botta non la si nega a nessuno, è questo il motto che unisce gli uomini di tutto il mondo, però a me piace la bellezza latina. Oh, cazzo. Diciamolo. La mediterranea. La latina, chiamatela com’è ma QUELLA mi fa sangue. 

«Ragazzo scuro? Ehi? Con le… le braghe bianche? Sciur parun dali beli braghi bianchi…»

Cazzo sì. Mediterranea. Ulivi nel codice genetico. Pomodori e rosmarino. Fianchi larghi, capelli scuri, occhi nocciola, pelle ambrata. Mare nostrum. Sì, quello è il mio tipo. Ah, Dio, sì. Magari che portan la gonna (cottola, in veneziano). Le gonne mandano via di testa perché sono l’abito femminile per eccellenza. Vedo gonne e mi piace perché non ti dan tutto in faccia subito, ti raccontano una storia. Quelle al ginocchio che tiri l’occhio per vedere qualcosa di più. Quelle ai piedi che vai VIA DI TESTA, perché fa tanto rustico vecchio stile. Oh, insomma, adesso me lo bevo io, ‘sto rum.

Rum? 
Ah, sì, avevo ordinato rum. Ehi, ecco dov’era finito il cespu

«Ecco, ormai me lo son bevuta io, era anche buono.»
Taccio.

 «Tutto bene?»
Continuo a tacere.

«E’ un… brutto momento? Te ne faccio un altro?»
Mutismo e immobilità.

«Ehi, stai bene? Faccio un caffè?»
Coma cerebrale è il mio secondo nome.

Lo sapete, lo sappiamo. Sono cose note. Bisogna sapersi centellinare e non esser banali. So di tecniche di rimorchio orrende, frettolose, volgari, noiose, inconcludenti, imbarazzanti. No. Si parte piano, non si esagera, ci si posa leggeri come una piuma sul filo dell’acqua mentre poi con stile e savoir faire

«Gesù, sei la donna più bella che io abbia mai visto» espiro.
Ecco.

«EEEH, adesso! E’ perché ho in mano del superalcolico.»
«No. No, non è per quello. Molla la bottiglia un attimo?»
Appoggia la bottiglia sul bancone.

«Sei bella uguale.»
«Come prima?»
«Forse un po’ meno.»
«Cattivo.»
«Lavori qui?»
«No, sto dietro il bancone per confondervi le idee.»
«E a che ora finisci?»
«Alle dieci.»

Guardo il polso mentre lei guarda la parete.

«Sono le dieci e cinque.»
«Lo so, m’hai fregata.»
«No, perché? Bevi Pampero a sbafo e poi fuggi dicendo che domani esci presto col moroso, che c’è che non va?»
«Hmm, sei furbo.»
«Non ne sono convinto, no.»
«Vabbene. Però se tu avessi la morosa lo faresti?»
«No, non me lo potrei permettere.»
«Oohohddio, l’uomo dai sani principi morali.»
«No. Scarse risorse monetarie.»
Ride.

«Allora il prossimo giro offro io.»
«Mi sembra giusto. Paga.»
«Ho detto il prossimo!»
«Te lo sei già fatta» dico indicando il bicchiere.
«Pignoletto. Te ce l’hai un nome?»
«Sì. Sono Nebo» dico allungando la mano.

«Leo.»
«Leo per… Leonarda?»
«No. Leonora. Si son persi una E per strada all’anagrafe.»
«Ha ha ha, carina.»
«No, è vero! Han sbagliato a scrivere! Te che scusa hai? Genitori sadici?»
Penso che le chiederò di sposarmi.

Esce dal bancone ed è una meraviglia. Niente artifici, niente puttanate. Una gonna, un paio di scarpe da ginnastica, un top. Un braccialetto etnico sul polso, un fermaglio. Hmm. Speriamo non voti verdi. Ci sediamo. Mi chiede che lavoro faccio, dove vivo, dove abito. Rispondo diligentemente anche se è difficile fare i brillanti mentre una cosa del genere ti sta davanti e ti scruta con interesse. E’ bella. E’ vergognosamente, indegnamente bella. E’ vera, onesta, un frutto di Madre Terra senza chimica addosso. Solo starle vicino mi fa sentire un gradino più vicino alla natura. Guardo come si muove, come ride, è uno spettacolo.

«Bè, quindi lavori?»
«Ci provo. Tu invece lavori sempre qui?»
«Noo, io lavoro e studio.»
«Ah, che cosa studi?»
«Te.»

Ha detto così. Taci che i bicchieri sono solidi o mi massacravo una mano.

«Ok, a parte me?»
«Vorrei fare la biologa.»
Sì, bon. Perfetto. La sposo. 

Intavoliamo una discussione sugli animali, su come mai la gente si riempia la casa di bestie e come mai spenda tanti soldi per questi per poi giustificarsi dicendo “mettere al mondo figli costa”. Da qui parte un excursus sul fatto che oggi in Italia la gente non vuole più raccogliere pomodori e disprezza chi lo fa. Lei nega e dice che non è vero, suo padre fa il contadino e c’ha il gallo che canta tutto il giorno. Con tatto sfioro il pensiero politico, parla di sinistra ma poteva andarmi peggio, una volta ho conosciuto una della lega. Alle undici e mezza siamo uno negli occhi dell’altra, il fiume che scorre, il cielo che pare un’esplosione d’argento, alla radio qualche anima buona ha messo la sigla di Pollon, lei sta doppiando i cubetti di ghiaccio mentre affogano ed io ho capito che questa è la donna con cui voglio passare il resto della mia vita.

Ho 28 anni. E’ ora, l’ho trovata e non me la farò mai scappare. E’ mia. L’ho sempre cercata. E’ spontanea e con la testa tra le nuvole. Una di quelle che tromba bene e non si prende troppo sul serio manco là. Dio, non mi sono mai sentito così, non può essere vera. Le chiedo se posso accompagnarla a casa. Accetta. Continuiamo a farneticare puttanate esilaranti e non ci stanchiamo mai, affiatati come se ci conoscessimo da tutta la vita. Arrivo sotto casa sua, la notte è ancora lunga. Le metto una mano tra i capelli, la bacio e tutto il mio corpo reagisce al massimo del massimo, tutta la chimica nei posti giusti. Tutto luce verde.

«Aspetta, però non… non corriamo, eh?» fa «non sai nemmeno quanti

L’autostrada è buia, solitaria, nera. Con entrambi i finestrini abbassati, il suono del vento a 140 tenta di calmare il testosterone. Arriva un SMS: «Anche tu stai tirando giù santi?»

«Tranquilla» rispondo «Se esiste un inferno ci ritroveremo là. Comunque tanti auguri per i tuoi 18 anni.»

La morte cammina sulla pista ciclabile

La morte cammina sulla pista ciclabile

Ore 17, si torna a casa. La pista ciclabile accoglie la mia scassata mauntainbaic mentre senza mani mi godo il venticello che mi asciuga il sudore. Sgambetto veloce. La donna elefante esce dal caseggiato, non guarda né a destra né a sinistra. I miei riflessi sono buoni. I freni no. Mi attacco alle manopole, calcolo che non ce la faccio, la schivo di un pelo. Non finisco di pensare “taci che m’è andata di cu” quando esce la donna ragno. Totalmente schermata dall’obesa, la donna ragno ha il fisico che tutti gli uomini idioti sognano, ovvero un culettino secco da terzo mondo, le ossa in bella vista ed il peso di una bambina.

La centro in pieno, non posso evitarla, son già in sterzata.

Il ragnetto vola per aria, finisce a terra. Mollo la bici, corro a vedere come sta: jeans sbragati sul ginocchio. Occhiali rotti. Stop. Però la donna ragno ha evidenti problemi di mente. E’ per terra rannicchiata in posizione fetale, piange e dice “lasciami stare, non farmi del male”. Mi avvicino, mi chino, le chiedo come sta.

«Uuuuuh uuuuuh» piange.

Poi all’improvviso ha un fremito, scatta in piedi e mi dice «Benissimo, stia tranquillo.»

La grassona impazzisce. Comincia a urlare NOOO AAAARGH NOOOO FRANCA COSA FAI, STAI GIU’ CHE CHIAMIAMO LA POLIZIA, I VIGILI E L’AMBULANZA! STAI GIU’! GIU’, TI DICO, GIU’! FORSE TI SEI ROTTA LA SCHIENA, VERO?

Sia io che il ragno ci giriamo a guardarla. Alle mie spalle sento un tonfo. Il ragno si è accasciato e dice che le fa male la schiena. Mi agito, chiamo l’ambulanza mentre la grassona mi insulta sbraitando. Attorno si crea una piccola folla di curiosi.

«Pronto intervento.»
«Buongiorno, sono *assassino!* Nebo, ho investito un pedone con la bicicletta, siam qui in via cappuccina, può mandare qualcuno? *Bestia! Mostro!*»
«Certo. Condizioni del ferito?»
«*glione di merda! Come cazzo guidi, stronzo?!* Ma guardi, stava in piedi, io vedo un paio di jeans scuciti e un paio di occhiali rotti, però non sono un medico *la polizia! La polizia, bisogna chiamare!*»
«Va bene, arriviamo.»
Metto giù.

Mi giro, vedo il ragno che confabula fitto con la grassona. La grassona si gira a guardarmi:

«Hai chiamato la polizia, assassino?»
«No, no, ora faccio.»

Chiamo. Nel frattempo il ragno e la grassona si sono calmate entrambe, e ridacchiano tra loro. Arriva l’ambulanza, il ragnetto le va incontro.

«Dov’è il ferito?» domanda l’infermiere.
«Ehe.. sono io» dice imbarazzata il ragnetto.
L’infermiere la squadra.

«Signorina, cosa si è fatta?»
«Mi hanno investita.»
«Con cosa?»
«Una bicicletta, la mia» dico facendomi avanti.
«E dov’è ferita?»
«Eh, qui» indica il ginocchio.

L’infermiere la fa sedere, guarda: «Ciò, qua servaria un calzolaio, no n’infermièr» risponde.
Il ragnetto è incerto, arriva la grassona: «Pretendiamo delle lastre, potrebbe essersi rotta qualcosa.»
«Non si direbbe.»
«CI PORTI AL PRONTO SOCCORSO! PRETENDIAMO DI
«Vabenevabenevabene, montate. Lei» dice rivolto a me «ci raggiunge in ospedale da solo.»

Annuisco. E io che volevo solo farmi una doccia, và che la vita è una cosa meravigliosa. Arrivo in ospedale che lei è dentro a farsi lastre e cotillon. Esce, mi dice che non ha niente, ci scambiamo i cellulari. Torno a casa alle sette e mezza quando trilla. E’ lei. Dice che ha parlato con la sua collega e ha deciso di denunciarmi.

«? Ma per cosa?»
«Per…» silenzio, confabula «lesioni… aggravate.»
«Quali lesioni?»

Rumori, il telefono viene strappato di mano ed è il ritorno della grassona che urla che vogliono soldi, poi mette giù. Mi richiamano. Butto giù il telefono io. Richiamano ancora. Metto giù e spengo il telefono. Vado in commissariato per fare la controdenuncia, è tardi, devo tornare domattina. Certo che il caldo alla gente fa male.

Pirati della laguna

Pirati della laguna
Mestre, casa di mio padre
Agosto 2002, ore 21.20

Sono in preda a dolori atroci allo stomaco e quello stato di ipnosi dolorosa che si ha quando una storia finisce, e mentre aspetti che la ferita si rimargini sei tormentato dal desiderio di richiamarla, cercarla, sentirla. Ho rinominato il suo nome in rubrica TASSATIVAMENTE NO, eppure quando mi squilla in mano il cuore fa un salto e spero sia lei. Spero di dovermi imporre di non rispondere, invece è Ario. È sotto casa e vuole portarmi fuori senza motivo, se non

«Ubriachiamoci e parliamo male della figa.»

Il pub “Excalibur” ha visto tutte le nostre donne andare e venire. Non ci andiamo mai in nessun’altro caso. Non abbiamo mai messo piede in quel buco di merda in occasioni di svago o altro. E’ il tempio della lacrima inversa, ovvero mentre le donne versano liquidi dagli occhi noi ne ingurgitiamo con la bocca. Quella sera ci guardammo e decidemmo per il biberon, ovvero il boccale da litro che è bello, fa scena e non ti dà la pausa perché sennò si riscalda e diventa imbevibile. Come si conviene a due gentiluomini si esordisce commentando le tette della cameriera, si dibatte di politica, ci si prende per il culo, si insultano le rispettive madri, si tirano un paio di rutti e a tre quarti del bicchiere si può finalmente sfiorare l’argomento fondamentale.

«No ma comunque io sto bene così, eh» dico.
«Hai una faccia di merda incredibile, per me non ci dormi la notte.»
«Sì, bòh. Cioè, no, figurati.»
«AHAHAHHAHAHAHA SFIGATO DIMMERDA»

«Vaffanculo, te chiavi una volta ogni sei mesi, hai già dato un nome al termosifone?»
«Te invece come ti organizzerai, elastico sulla mano o bistecchina nel bicchiere?»
«No, puntavo tua madre, tutta quella ciccia, dev’essere come scoparsi una soppressa.»
«Hai sempre avuto gusti di merda.»
«Te volevi chiavarti quella specie di… com’è che l’avevi chiamata?»
«Turbocompressor? Era perfetta, avrebbe potuto farti i bocchini da in piedi.»
«Sarebbe stato come farselo succhiare da un omino della Playmobil, aveva pure la stessa espressione da imbecille.»
La birra arriva alla fine, passiamo al whisky.

Al quarto giro siamo abbastanza sbronzi per cominciare la nostra fase preferita, ovvero partorire idee potenzialmente letali ma che al momento sembrano di un’arguzia rara. Gli accadimenti più tragici, le disgrazie maggiori, ci sono sempre venute in quella situazione. Anche da sobri, non è mai stata una cosa legata all’alcool. E’ una sorta di euforia che ispira Madre Terra, la quale ci comunica indirettamente quello che dovremmo fare per il bene della specie: ucciderci in maniera dolorosa.

«Eh sì, cazzo, la libertà è importante» annaspo.
«La libertà è tutto, no quella dei film, quella vera: nessun legame, zero, solo tu e il mondo.»
«Tipo… tipo su una nave al centro dell’oceano.»
«Sì, ESATTO! Sarebbe da fare, un anno mandi tutto affanculo e ti imbarchi come marinaio su una nave cargo qualunque.»
«Par di essere i soliti sfigati che fanno ‘sti discorsi prima del matrimonio e poi non fanno mai un cazzo. Cristo, pare il dialogo di un film italiano.»

«Allora facciamolo e basta.»
«Sì! » batto il pugno sul tavolo «sì, facciamolo! Andiamo al porto! »
«Macchè porto, andiamo sull’osellino, pigliamo la barca e ce ne andiamo in laguna.»
«..e poi, dalla laguna, al mare!»
«SI! AL MARE!»

«Ma lo sai che è davvero un’idea della madonna? Solo…»
«Cosa?»
«Tu ce l’hai una barca?»
«Ma va, no, la rubiamo. Che ci vuole?»

La barca era uno dei tanti cacciapesca di tre metri scarsi con un motorino che te lo puoi mettere in tasca. Le chiavi stavano sotto il terzo scalino. Governare un cacciapesca non è difficile, però bisogna imparare che guidare ha due cose che su asfalto non ci sono: la prima è che se sposti la barra a sinistra, la barca va a destra. La seconda è che le barche non inchiodano. E se non sai ingranare la retro, non frenano nemmeno.

Come molti altri banditi prima e dopo di noi, partimmo dal ponte di Via Colombo, ovvero da qui. Capite che i presupposti per un disastro c’erano tutti. Inserita la chiave, ubriachi come assassini, tirammo la cordicella. Padella. Secondo tentativo, padella. Terzo tentativo con forza di Goku super sajyan: *plùnf*

«Hai sentito?» chiedo.
«Sono i pesci che saltano.»
«Ario, i pesci canguro, adesso?»
«Saranno le cazzo di anatre.»
«Papere.»
«È lo stesso.»
«Io papera in umido non l’ho mai mangiata.»
«Mangiati una merda e fammi riprovare.»

Ce la fece. Il motorino cominciò a borbottare sommesso. Essendo entrambi gentiluomini di periferia sapevamo che una cosa che emette lo stesso suono di un fifty ha anche le sue stesse dinamiche: giri la manopola, lui accelera. Usammo i piedi per allargarci e ci trovammo in centro canale. Arrivati sotto il primo ponte di viale vespucci eravamo già convinti di poter raggiungere la slovenia in poche ore. Ridevamo dei nostri amici e dei nostri genitori, immaginando la faccia che avrebbero fatto nel saperci così distanti. Avrebbero finalmente cominciato a rispettarci, poche balle: Nebo e Ario, i pirati della Laguna.

«Prova ad andare un po’ più veloce, che qui facciamo giorno.»
«Che ore sono? » chiede Ario guardandosi il polso.
Il polso non gli sa rispondere.

«CAZZO! L’OROLOGIO, DOVE MINCHIA È?»
«E io che ne so? L’avrai lasciato a casa.»
«Puttanate, non esco senza.»
«Ehi, forse ho capito cos’era quel plunf, prima» dico felice.
Silenzio.

«…tanto non valeva niente.»
«Non era quello da duecentomila?»
«No, no, era.. era quello dei mondiali ’90 che andava ad acqua.»
«Bene, almeno non si consuma la pila.»
Mi percuote con una infradito.

Il tempo passa in fretta quando ti diverti, e mentre il mio amico mi frusta con una ciabatta verde acquamarina arriviamo al bivio: a destra, la barena che vedete dal ponte della libertà. Dritti, Campalto e una morte nera. Scegliamo la laguna mentre prendiamo confidenza con il mezzo e siamo finalmente fuori da San Giuliano. Non abbiamo i fari di ordinanza ma non ce ne frega un cazzo, va bene così. Acanniamo selvaggi lanciando grida di giubilo, la libertà è tutto, ce l’abbiamo fatta, siamo usciti dal canale ed ora il mondo è nostro, SPLENDIDO e bellissimo in una laguna piatta che riflette le mille e mille luci della

..sciòk!

L’aria cambia. Il vento moltiplica la forza, poi nel buio qualcosa mi colpisce. Le braccia si ficcano dentro una melma, l’acqua mi schiaffeggia, colpisco oggetti, mi faccio male ma non tanto. Resto intontito e paralizzato. Il motore in sottofondo non è dove deve. Muore. Cerco di parlare ma non respiro. Cerco di muovere la testa ma non ci riesco. O mi sono pisciato addosso o qualcosa non torna. Buio. Silenzio. La voce di Ario mi raggiunge ovattata.

«Nebo? Nebo, come stai?»
«Bene, grazie, tu?»
«Sì, tutto a posto.»
«Cos’ è successo?»

Ho fatto il crash test di un incidente in moto a 8 Km/h su sabbia bagnata. La barca s’è conficcata come io lo conficcherei a Megan Fox sulla secca principale della barena, davanti alla Canottieri e subito fuori il canale di S. Giuliano. Su Google map si vede bene, ma dal vivo, alle due di mattina, no. Sarebbe romantico a vedersi, sembra di camminare sull’acqua solo che siamo nel bel mezzo della barena, una cosa molto simile alle sabbie mobili, nel pieno della notte su una barca rubata. E i problemi sono appena iniziati. Ci rialziamo, bagnati e sporchi ma integri. Dopo estenuanti manovre cerchiamo di smuovere la barca perdendo portafogli, cellulari e chiavi di casa nel putridume. Puzzeremo di pesce per settimane. Mi sanguina una mano. La sabbia ci arriva alle ginocchia. Tentiamo in tutti i modi di disincagliare il guscio di noce, vinciamo scavando un po’ sotto la chiglia e piagnucolando “voglio andare a casa”. Rimontiamo. Il motore è ancora acceso, ma l’elica è andata.

«Ario.»
«Cosa c’è, anch’io ho freddo.»
«Imbarchiamo acqua, ma tipo che affondiamo.»
«No, è entrata prima.»
«Non sono convinto.»
«Fammi vedere.»
«O è un idromassaggio o siamo fottuti.»
Guarda.

«OHMIODDIO, TAPPALA, FA QUALCOSA!»
«E COSA FACCIO, MI CI SIEDO SOPRA?»
«SI! NO, ALLEGGERIAMO IL CARICO!»
«MA C’E’ SOLO UNA CORDA!»
«BUTTALA!»
Butto la corda in acqua.

«BUTTATI ANCHE TU! POI TORNO CON I SOCCORSI!»
«COL CAZZO, BUTTATI TU!»

Affondiamo miseramente pochi secondi dopo. Ovvero, ci troviamo a guardarci con la testa che spunta dall’acqua.

«…ah, ma io credevo che si creasse un vortice che ti risucchia » dico.
«No, no.»

Nuotiamo in silenzio, tocchiamo terra che per poco non ci mettiamo a piangere. Usiamo una vecchia scaletta in disuso per risalire e ci troviamo al centro di una delle peggiori zone di Mestre, al tempo. Non abbiamo più le scarpe e ce la facciamo a piedi fino in centro senza dire una parola. Sembriamo profughi. Arrivati alla soglia di casa mia, esausti, Ario mi guarda: «Sai cosa? Ora che so che si può sopravvivere lo rifarei.»

L’eterna lotta tra il pene e il male

L’eterna lotta tra il pene e il male

Il Key Beach è una di quelle discoteche dove la fauna vip, chic, frik e frok si raduna all’insegna del divertimento più esclusivo, trasgressivo e mondano. Tradotto, una masnada di contadini arricchiti si vestono bene e cercano di non sembrare provinciali agli occhi degli esterni; nessuno si diverte senza massicce dosi d’alcool perché indossa abiti che stanno ad un passo dalla mummificazione e lamenta il fatto che da vent’anni c’è sempre la stessa gente che fa gli stessi discorsi.

Sì, è la sceneggiatura di Population 806.
C’è gente che ha la fortuna di vivere in un film, cosa volete che vi dica.

Ora, le persone all’interno di questi posti sono seguaci dell’anticristo. Presi fin dall’infanzia a colpi di Beverly Hills 90210, al liceo Melrose Place e all’università Sex&The City, il bombardamento mentale li ha trasformati in non morti la cui mente è instabile come una carica di nitroglicerina; non tanto perché sono superficiali come un missile Cruise o interessanti come le repliche delle previsioni del tempo in Ruanda, ma perché pur restando trincerati là dentro, prima o poi, incontreranno l’uomo con il fucile. Può capitarti uno normale. Può capitarti uno normale e retoricamente pericoloso. Può capitarti uno non tanto normale e retoricamente letale.

Se proprio hai sfiga, può capitarti Ario.

«Ario, dove mi hai portato?»
«A farti vedere la gente per bene, sai mai che metti giudizio.»
«Ho una brutta sensazione, posti come questi sono una specie di setta. Andiamo via.»
«Setta?»
«Setta, si conoscono tutti e scopano tra loro. Entri a presentazione, tipo.»
«È tutto sotto controllo.»
«L’ultima volta che hai detto questa frase siamo affondati in laguna alla tre di notte.»
«È diverso.»

La guida del bon ton impone comportamenti rigorosi in caso di ordinazioni al banco.

Raggiungere la postazione senza trasformarsi in un caterpillar

«Ti levi?» domanda Ario ad una bionda, urtandola senza fermarsi.
Quella si gira assieme alla sua amica giusto in tempo per guardare male me.

Attendere pazientemente l'arrivo del barman, banconiere o chi per lui.

«BARISTA? GARSON? HOSTESS? HOSTESS PIENA DI MERDA?»
«Andiamo via» insisto.

Domandare educatamente la bevanda prescelta evitando di alzare la voce nonostante la musica sia a volumi peculiarmente alti.

«QUANTO MI RUBI PER UN MOJITO?» domanda montando sopra le spalle di un tizio che cede sotto il peso e si accascia.

Il buchetto sulla drink card dice otto euro. Nel mio portafogli, spauriti e trincerati, restano 45 euro che si stringono tra loro terrorizzati. La posizione da sardina mi concede di ascoltare le conversazioni dei presenti. Lui camicia, pantalone, scarpa lucida. Nell’insieme più che uno lì per divertirsi pare un impiegato appena uscito da una riunione. Lei minigonna, stivaletti con tacco, top, braccialetti, orecchini, collanina, pettinatura perfetta, rossetto, rimmel, phard, mascara, piercing sull’ombelico, lampade, push up, brillantini. Sotto forse c’è una donna, ma anche no. Si conoscono. Il tizio l’aggancia con una frase tipo “la mia velina preferita” e lei risponde trillando. Sgomita l’amica, mormora qualcosa, aspetta.

«Ciao bellissima, come stai?»
«Eh, dai, io bene, te?»
«Noi siamo stati all’Havana, a Trevisooo!»
«Daaai? E com’era?»
«Bello, tanta gente!»

No. L’Havana è guardare vostro figlio dentro un forno a microonde acceso che grida il vostro nome prima di esplodere in una nuvola di carne.

«Noi invece siamo state a mangiare al X.»
«Ah-ha, anche noi l’altra sera, hai visto il cameriere?»
«Guarda, c’è la Giò che si è innamorata!»
Risate.

Guardo la Giò. La Giò è un oggetto che trasmette serenità. La voglio anch’io come amica, la Giò. Mi piace. Mi potrei innamorare di questa donna. Dondola da una gamba all’altra, ti guarda, sorride e ti trasmette quella pace che solo la morte cerebrale concede.

«Giò!» grida l’amica.

Il piccolo computer collegato al cervello di Giò riceve il messaggio vocale, lo converte in impulso elettrico e spara una scarica da 300 watt al reggiseno-defibrillatore. Giò gesticola, ride, gira su sé stessa, conversa, poi si spegne. Ripiomba nella sua deliziosa, lobotomica, catatonia. Mentre nella mia testa si forma l’idea che forse Giò sta per farsi esplodere assieme agli avventori perché ha finalmente capito la cosa giusta da fare, Ario mi strattona e mi porta via, ha attaccato bottone con delle quaglie.

«Eccolo qua. Ragazze, lui è Nebo.»
«Nebo? Hihihi, è la sera dei nomi strani!»
«Tu come ti chiami?»
«Carlotta.»
«In effetti è un nome qualunque» dico.
Aargh. Facce brutte. Riprova.

«Cioè, no, nel senso, è un bel nome ma non è strano.»
«Dicevo perché la mia amica si chiama Eusebia.»
«Ah, mi spiace.»
AAARGH. FACCE BRUTTISSIME. RIFAI.

«No, momento» agito le mani «mi spiace per aver capito male, mica mi dispiace perché lei si chiama Eusebia.»
«E perché dovrebbe dispiacerti perché lei si chiama così?»
«Sì, difatti» precisa Eusebia, la donna con il nome più brutto del mondo.
«Ecco, io…»

« Che poi avresti anche avuto ragione, è un nome del cazzo, ha ha ha ha» ride Ario felice.

Le tizie si girano e se ne vanno. Io guardo a sud, là dov’è il mio cuore, dov’è la mia anima, dov’è Giò. Giò è in pista. Ogni volta che tenta di uscire, qualcuno le va addosso. Ogni volta che tenta di ballare, la stringono e non ha spazio. E’ lì, ferma, immobile, inespressiva, un fagottino di carne senza vita che deambula urtando oggetti. Comincio a pensare di attaccare discorso con quella meravigliosa creatura mentre in sottofondo Ario sta disquisendo con l’amico di Carlotta ed Eusebia che tenta di apparire minaccioso. Visto il locale ora arriverà l’amico dell’amico a fare la scena dei film americani in cui trattieni la maschia potenza. Questa manovra se la sta facendo qualcuno con le scarpe lucide non è un fattore rilevante. E’ tipo uno che ti chiede che ore sono.

Eccolo. Bla bla bla, lascia stare, bla bla, vieni via, bla bla blaaaah. Ok, fatto. I maschi portafogli tornano dalle rispettive tasche femmine tutti orgogliosi. Ario ritorna e mi ferma mentre sto puntando Giò, che ora è su un divanetto schiacciata da una coppia in atteggiamenti intimi quando, in quel momento, l’aria cambia. Percepisco che l’eterna lotta tra il bene ed il male sta per ricominciare, il vento della Storia porta il presagio della bufera divina. E’ l’eco delle grida degli uomini morti sui campi di battaglia che stuzzica le nostre orecchie. Lo yin e lo yang, ancora una volta, ancora una, si affronteranno. Il locale si fa a cerchio, la musica sfuma e fa partire Ebla. Si guardano, sorridono, e poi ci corrono incontro:

«Francesca si sposa! Ha ventotto anni! Dissuadetela, ragazzi! Ditele che sbaglia! Dàààài!»
«Ti sposi a ventotto anni, Francesca? Hai finito l’università?» mi difende Ario prendendo tempo.
«Sì!»
«E in cosa ti sei laureata?»
«Psicologia!»

I vetri del locale esplodono mentre il pavimento collassa. In un boato attorno a noi crescono dei menhir evocati dalla parola, su ognuno dei quali sono incisi milioni e milioni di parole, migliaia, milioni di microscopiche incisioni ognuna recitante un lavoro più serio di quello che quelle donne vogliono intraprendere. L’onda d’urto mi schiaccia i miei occhi annebbiati dalle lacrime leggono “assaggiatrice di veleno per topi”, “panchina umana”, “prostituta”, “fermaporta”, “divorzista”, “manichino”, “portaombrelli orizzontale”, “pedone investito”. Dio mio, sono miliardi. Francesca sorride:  «Quindi attenti, che vi psicanalizzo!»

Nella mia testa parte l’Esorcista versione gabber.

«Dobbiamo dissuaderti dallo sposarti, dici?» fa Ario «Ma scusa, pensaci un attimo: nella vita ti danno degli obiettivi, diplomalaurealavoro, e poi? Che ti resta? 15 giorni a Sharm-el-Sheik d’estate, un’amante, il divorzio? Hai corso tutta la vita per arrivare così presto al traguardo, sposarti e non avere più un solo scopo nella vita solo perché ti hanno detto che è rispettabile? A nemmeno trent’anni? –

Oh, Dio. Le amiche non sorridono più.
Francesca ha la morte sul viso, la cassettina con le offerte le penzola dalla mano.

«Sai, a volte i figli trascurano la propria felicità solo per vendicarsi o dimostrare qualcosa ai genitori» conclude con la faccia più seria che gli abbia mai visto.

L’iceberg del Titanic piomba nella discoteca esclusiva schiacciando ogni entusiasmo e io vi dico, o Francesca sta empatizzando la vita dell’ultimo Dodo sulla terra o quella è una splendida crisi esistenziale da psicologa. In quei momenti ogni cosa tu dica verrà recepita nel modo errato quindi ricorda: più positivo sarai, più farai danni irreparabili. Viceversa, più tenterai di essere cattivo meno farà effetto.

«Vabbè dai, Francesca, fregatene» dico io «tanto se stai per sposarti di sicuro saprai che lui è l’uomo giusto, ventotto anni bastano e avanzano per decidere con chi avere un figlio, figurarsi tenere al proprio fianco lo stesso uomo per il resto della vita. Ti vedo, non saresti mai una che tradisce la fiducia di qualcuno.»

Ario riceve dalle mie mani la spada di Shannara. Fende l’aria, bilancia e piazza il fendente tra mille e mille effetti speciali hollywoodiani: «E anche lui sarà innamoratissimo. A proposito, da quanto stavate insieme?»

Sì, sì, l’ha detta così. Notate il genio, la finezza: stavate.

«Cinque anni…» comunica Francesca con aria assente.
«EALLORATRANQUILLA!» dico io felice, arrancando verso il cuore del nemico «ormai sai com’è fatto, non ti riserva certo delle sorprese.»
«E poi…» inizia Ario con aria sognante, girandosi a guardarmi.

E poi tocca a me.

Tocca a me perché Ario non si agita tanto quanto me. E’ bravo, ma io mi agito. Provo enorme affetto per tutto e tutti, per ogni men c’è sempre un più. Solo che a volte bisogna cambiare l’equazione. Capelli sciolti, può voler dire come no ma non ho tempo. Presto. Hmm, gioielli sommari, roba qualsiasi.
Presto, cazzo, dai.
Orologio assente? Vestiti qualsiasi né troppo troia né troppo seria? Presto. Ciondolo a cuoricino. Forse l’ex. No, troppo vecchio stile, l’oro non va più. Nonna. Materna o paterna? Quale parte le ha compromesso irrimediabilmente l’esistenza? Manca qualcosa, un dettaglio qualunque.
PRESTOPRESTOPRES
La borsa.

Vuitton originale, roba da molti migliaia di soldi. I padri non comprano borsette. E’ la madre che ha i soldi. Molti soldi, molte assenze, molti regali per farsi perdonare. Ora o mai più: «…del resto sai come si dice, figlie e mamme fan bimbe compagne» sorrido. Il mondo cade in silenzio.
«…eeVABENVABENEVABENE così, ragazzi, grazie» dice l’amica spingendo Francesca che ora mi sta fissando con lo sguardo di chi ha appena visto il proprio necrologio «ora noi andiamo, eh? Franci, và tranquilla che non c’entra niente tua madre, qua.»

Si allontanano. Per questa volta hanno vinto i buoni.
Cerco Giò nella folla di cadaveri, ma non c’è o non noto la differenza.