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Le cose non smettevano di esplodere

Le cose non smettevano di esplodere

– Ehilà, com’è andato il capodanno? –

Questo mio amico è ricco. La passione di questo mio ebefrenico amico sono i fuochi artificiali, in cui arriva a spendere cifre superiori a due miei stipendi. Quest’anno non son andato da lui e mi mangio le mani, l’ho incontrato oggi mentre tornavo dal lavoro e mi ha raccontato cos’è successo.

A mezzanotte mancano pochi minuti, sono tutti molto ubriachi. Dado – chiamiamolo così – posiziona i fuochi nel suo giardino e ne delega un paio alla sua adorabile consorte, raccomandandole di piantarli bene nel terreno. E’ mezzanotte, e nel casino generale escono tutti. Dado accende i fuochi al buio del giardino. Tutto è bellissimo. Arrivato agli ultimi due, le scintille illuminano qualcosa che non va. Si gira, urla “tutti dentro! Tutti dentro!”. La gente vede la sua faccia e si scatena il fuggi fuggi generale. I due dardi piantati dalla consorte, praticamente due RPG, sono infilati nel terreno di tre-quattro centimetri. In pratica, la roulette russa.

Partono quasi simultaneamente.

Il primo, che chiameremo “Vagabondo”, si piega in avanti per la spinta e parte con un alzo di circa 45 gradi. VAGABONDO perfora la siepe, incendiandola, che ne devia la traiettoria verso il terreno. Attraversa la strada, finisce sotto una punto bianca ed esplode, facendola alzare di mezzo metro, distintegrandone la coppa dell’olio, annientandone tutti i vetri e annerendo la carrozzeria. Qui termina VAGABONDO.

La punto era di un suo amico.

Il secondo, LILLI, parte verso destra. Prende in pieno il lampioncino che viene disintegrato. Non si sa secondo quale principio della fisica LILLI a questo punto procede verso l’alto in una parabola a C. Torna indietro, e all’altezza del secondo piano si infila nell’unica finestra aperta, ove deflagra. Il boato all’interno della casa fa crollare il lampadario del salotto, che cortocircuita l’impianto elettrico. All’interno della camera da letto dove LILLI ha impattato vi erano i cappotti di tutti, un gatto, un televisore al plasma e qualche cianfrusaglia.

Lilli carbonizza tutto, fa a pezzi il televisore, incendia le tende e si desume abbia polverizzato il gatto, che è tutt’ora disperso. I pompieri arrivano e riescono ad isolare l’incendio che si stava propagando grazie al parquet. I danni sono pressoché incalcolabili. Con sguardo perso nel vuoto e la voce rotta fa:

– Nebo, ti giuro, pareva Sarajevo, le cose non smettevano di esplodere.
Sono riuscito a non ridere fino al mio arrivo a casa.

Aggiornamenti: han trovato un pezzo che potrebbe essere il gatto conficcato nel televisore. Non sto scherzando.

Volevamo solo costruire un elicottero

Volevamo solo costruire un elicottero

Laterale del terraglio, cinque di pomeriggio. La moglie è in cucina sui fornelli, il marito entra e la guarda appoggiato sulla soglia.

«Sei bellissima, lo sai?»

Lei si sforza di sorridere. E’ tesa. Lui se ne accorge, si avvicina e l’abbraccia: «Andrà tutto bene, tesoro. Finirà. Riusciremo a capire cosa sta succedendo qui dentro.»
Lei sospira e chiude gli occhi smettendo di mescolare. Guarda la cucina nuova, i disegni del figlio sul frigorifero. Giocattoli sparsi. Stringe le braccia dell’uomo che ha appena sposato, per un attimo è di nuovo felice: «Renato, io…»
«Sssh» le chiude la bocca lui «…lo so. Tutto si sistemerà, te lo prome

In una frazione di secondo le loro orecchie percepiscono un suono, poi quella che fino ad un istante prima era una tranquilla cucina domestica diventa Kabul, con un boato assordante la finestra va in frantumi in una fontana di scheggie, qualcosa disintegra il lavabo ed in un vortice di distruzione si conficca sulla portiera del frigorifero trafiggendo un disegno del piccolo Matteo. I due urlano gettandosi a terra, ma ormai è già tornato il silenzio.

«Oddio!» urla la donna «ODDIO RENATO NON FINIRA’ MAI, COS’E’, COS’E’ QUELLA ROBA, COS’E’?!»
Renato si alza. Osserva.

«Sembra… è… una grondaia. E’ la nostra grondaia, tesoro.»
«MA NON ERA SCOMPARSA?! »
«A quanto pare è tornata » sussurra Renato, osservandola «… solo che pare… masticata…»
«E’ IL FANTASMA DEL NONNO, RENATO, TE LO DICO IO, QUESTA CASA E’ MALEDETTA! ANDIAMO VIA, PER CARITA’ DEL SIGNORE, ANDIAMO VIA!»

Renato stringe la moglie in lacrime guardando la grondaia deformata, conficcata al centro di un disegno del figlio. Il piccolo Matteo entra in cucina, vede la scena, corre incontro ai genitori e si taglia sui vetri rotti. Scoppia a piangere anche lui mentre il padre guarda il crocefisso sulla parete: cosa ti abbiamo fatto, Signore? Quale disgrazia si è abbattuta sulla nostra famiglia?

A quaranta metri dalla casa, sei ragazzi e due ragazze si guardano attorno.
«Nebo, và un po’ a vedere dove cazzo è finita la pala dell’elica.»

Era l’estate del 1992. Francesco, Daniel, Laura “Dot”, Checca, Silvio, Marco, Luca e io. In un caldo pomeriggio Silvio si presentò nel garage di Luca ed annunciò che servivano più catene da biciclette, perché bisognava costruire un elicottero. Venne deriso, ma le argomentazioni erano valide: c’è tutta l’estate, tutti bocciati, nessuno va in vacanza, costruiamo un elicottero, facciamo bella figura coi nostri genitori, quale figlio si presenta nel cuore dell’estate ed annuncia “papà, ho costruito un elicottero”? Costruiamo un elicottero, vi dico.

«Silvio, ma con cosa?»
«Abbiamo tre garage di roba, quello che serve lo tiriamo fuori da qui o dal grumo di rottami fuori.»
«Hai la più pallida idea di come si costruisca un elicottero?»
«No, ma che importa, non sarà tanto diverso da una bicicletta.»
Ci convinse.

Restava da stabilire di cosa era fatto. Piedini, sci da alpinismo. Fu abbastanza facile, erano in quello stesso garage. Una volta che avemmo perforato col trapano un paio di Rossignol da molti milioni decidemmo di usare sbarre da cemento armato come ponte di collegamento. Non era così semplice piegarle, così utilizzammo il principio della leva infilandole sotto la lavatrice.

«Sì, ma dall’altra parte dobbiamo mettere qualcosa o cadrà.»
«Venite, amici, appoggiamola alla moto.»
«E sotto la sbarra?»
«Non so, il casco?»
«Perfetto!»
«Pronti? UnodUEEE…»

La porta del garage si aprì rivelando una donna con in mano un cesto di biancheria.
«…TRE!»

Non sembrava intenzionata a fermarsi. Mollava ceffoni a qualunque cosa si muovesse, come in un film horror stavo nascosto dietro l’armadio mentre la vedevo massacrare il figlio tenendolo per il bavero. Colpiva tutto, le passavi vicino e pestava pure te, insulti, calci in culo, urla sconnesse. Lanciava oggetti, sbavava rossa in viso. In pratica la leva aveva rigato il casco che aveva ribaltato la lavatrice che aveva fatto crollare la moto che aveva schiacciato un piede della Checca che era scivolata sul detersivo finendo sotto la madre mentre lasciava cadere la cesta della biancheria: «La.. la moto di tuo padre, FOCOMELICO! La lavatrice, tutto! TUTTO! HAI ROTTO TUTTO!»
«MAMMA, STAVAMO COSTRUENDO UN ELICOTTERO!»
«COSA?»
«UN ELICOTTERO, MAMMA, GUARDA, ABBIAMO GIA’ FATTO GLI ZOCCOLI!»

La madre si girò verso di me, così mi sembrò una buona idea agitare il paio di Rossignol perforati. Ricorderò sempre con affetto la faccia di quella cara donna, come sgranò gli occhi, come mi fissò incredula. Il rosso lasciò spazio al pallore mortale mentre la bocca restava aperta a mezz’aria per poi trasformarsi in una smorfia di dolore. Lanciò un grido acutissimo, mollò il figlio e si catapultò verso di me con le mani dirette alla giugulare.

Ora che ci penso, è curioso come sodomizzarle dia gli stessi risultati.

Ci giocammo Marco per tutta l’estate, ma eravamo ancora in ballo perché Silvio, nottetempo, aveva recuperato i Rossignol dal garage. Avevamo il saldatorino da circuiti ed una tonnellata di stagno, un vecchio mobiletto in truciolato, chiodi, nastro adesivo, fil di ferro e tanto entusiasmo. La prima parte era fatta con minime perdite umane, ora avevamo una credenza che sciava divinamente. Facemmo qualche prova sulle montagne di terra del cantiere usandolo a mò di slittino e reggeva pure.

«Ma gli elicotteri sono chiusi col vetro ed hanno i sedili.»
«Tranquilli, ho pensato anche a questo. Avete presente quella roba che ha sopra il motorino del vicino?»
«Sì, ma come lo prendiamo?»
«Ora vi spiego, ma prima, Nebo, tu che vuoi sempre far qualcosa… sei bravo a scavalcare?»

Il piano di Silvio era semplice. Intrufolarsi nel cortile del vicino, raggiungere il garage, staccare il fintovetro protettivo dal motorino e tornare indietro.

«Ma se esce il vicino?» chiede la Laura.
«Non esce.»
«Lo so che non esce, ma dico, potrebbe succedere, no?»
«Tanto Nebo mica ha paura, vero?»

C’è la Francesca, ufficialmente io non ho paura di niente e di nessuno. Se non ci fosse stata la risposta sarebbe stata “voi siete pazzi, andate tutti affanculo”. Dentro casa la coppia neosposata sta a mezzo metro da una partita di calcio, lui in trance, lei talmente disinteressata da trasformarsi in un sensore di movimento umano: qualunque cosa più grande di un granello di polvere è un buon diversivo. Renato, un metro e novanta per cento chili trascorsi sulle curve degli Ultrà, è ancora Juventino. Van Basten ha appena segnato uno a zero per il Milan e se gli date un cucchiaino in mano può fare una strage. La moglie nota un bambino dalla carnagione molto scura che passeggia in giardino verso la finestra del retro.

«Tesoro, c’è un bambino negro in cortile.»

Ora, è scientificamente provato che un uomo in fase di quiete filtra il 43% delle informazioni provenienti da voce femminile. Scientificamente. Non le sente, disabilita la funzione di memorizzazione a determinate parole chiave tipo penso che, credo che, per me dovresti, secondo me, scarpe, vestiti, mamma, bambino, soldi, cucina ed altri ancora. A tutti noi è capitato di scoprire che una donna ci sta parlando solo dopo molte ore che ci è seduta a fianco, diamine, quel piii piii piiii non era un forno a microonde. In questo caso il cervello di Renato è massicciamente schermato da un filtro passabanda che blocca il 98% proveniente da chi è privo di testicoli.

«Tesorpii piiii pi piiii-ii»
«Uh-hu» annuisce lui.
«Piii?»
«Sì, sì, dopo»
«Pi pi pi pi, negro piii»
Filtro disabilitato.

«Scusa, come hai detto?»
«C’è. Un. Bambino. Negro. In. Cortile.»
Renato si gira.

Oooh, ‘sto coso mica viene via, eh. Che cavolo, mi sa che han saldato le clip. Ah, no, ecco, ecco. Imparato il trucco è facile. Ora prendiamo questo coso, portiamoci dietro anche il telo impermeabile, via, arrotoliamo… lllà, un giochetto. Per uscire da qui bast
«EHI!» urla qualcuno alle mie spalle.
Mi cago addosso dalla paura, caccio un urlo.

«Tu, TU! Vieni QUA, fermo!»

Che faccio? CHE FACCIO? Resto qui? Vado lì? Quel tizio si è contraddetto, non so bene che fare, fuggiamo. Scatto verso il muretto mentre da dietro parte una raffica di improperi. Corro, scarto la betoniera fucsia, salto la ginestra, i miei allegri compagni mi guardano incitandomi, salgo sulla legnaia e faccio in tempo a sentire Silvio che mi urla “il robo, dammi il robo”. Quello stronzo di merda invece della mano prende il plexiglass e fugge urlando assieme agli altri. Restano solo Luca e la Laura che mi strattonano mentre alle mie spalle Renato si ferma davanti al rischio potenzialmente letale di scalare la legnaia.

Riparte verso l’interno.

«Nebo, fa PRESTO, quello fa il giro!»

Scavalco, atterro di culo prendendomi un’insaccata paurosa. Il “tak” del cancello è il suono dell’inevitabilità, signor Anderson. Ci dividiamo guardando chi sceglie il tipo. Le possibilità di prendere Luca erano 9 su 10, grosso com’è ora che si muove son giorni. Prendere me, 6 su 10 perché sgambettavo. Quell’idiota sceglie la Laura. Piccolina, esile, capelli neri scarmigliati, vestita dai genitori come una hippie, nessuno è mai riuscito anche solo ad andarle vicino. Gare tra amici, gare scolastiche, campestri, inseguimenti, sagre, nascondino, tutto: è sempre arrivata prima di qualsiasi concorrente. Nel 1992 Laura Schiesari percorreva tutta la via gatta alla mia stessa velocità, solo che io ero in bicicletta.
Mentre io e Luca ci ficchiamo nel boschetto incolto Laura carbonizza Renato sullo scatto, salta il fosso e prosegue per il campo, attraversa il sentiero sterrato e a metà si gira. Guarda il puntino all’orizzonte che è Renato, si mette le mani sui fianchi e grida “ALLORA?!?”.

Renato torna a casa, ha una moglie a cui spiegare molte cose.

Noi raggiungiamo Laura che si teletrasporta da noi tutta incazzata con Silvio. Nel pomeriggio montiamo il plexiglass, distruggiamo tutte le nostre biciclette e cominciamo i preparativi dell’elica, ovvero montando catene e ruote a casaccio. E’ ironico sapere che il costo dei danni probabilmente gravita attorno al prezzo reale di un elicottero. Tutto questo accade mentre il quartiere vocifera di strane sparizioni. Attrezzi, oggetti, corde, tutti i garage stavano venendo depredati. Quando due giorni dopo Luca smontò la grondaia di una neofamiglia in crisi avevamo tutto il materiale necessario. Per una settimana non facemmo altro che martellare, saldare, attaccare ed agitarci. Bàm, bàm, bàm, ormai avevo il riflesso condizionato che se vedevo metallo martellavo.

C’era tutto, era tempo di collaudo e quale posto migliore di un campo davanti alla casa che avevamo depredato? A dodici anni non puoi conoscere la forza centrifuga. Quando Renato esce in cortile per quantificare i danni mi vede all’esterno del vialetto che mi sto grattando la testa sotto l’onnipresente cappellino dei NYC. Ci vediamo quasi contemporaneamente ed entrambi diciamo qualcosa. Io rompo il ghiaccio con una “h” aspirata. Lui risponde “ANCORA TU?” e parte a testa bassa. Non so bene che fare, fuggiamo.

La tensione è palpabile.

«Tranquilli, appena Nebo torna con l’elica riproviamo. Oh, avete visto che prima s’è alzato un po’? Avrà fatto almeno un metro.»
«Io no.»
«Manco io.»
«Io nemmeno.»
«Silvio stronzo.»
«Laura merda.»
«Oh, piantatela. Silvio, ma dopo la montambàic mi ritorna a posto, vero?»
«Che te ne frega, avremo UN ELICOTTERO.»
«Mia madre me l’ha comprata un mese fa, se la vede così mi ammazza e io ammazzo te.»
«Avremo UN ELICOTTERO, ti dico!»
«Mi torna a posto o no?»
«Sono circondato da pressapochisti.»
«Eh?»
«Da chi?»
«Pressapocosa? »

«Ohi, sta tornando Nebo, agita le mani e urla.»
«È perché è negro…»
«No, no, ha il tizio della grondaia dietro.»
«Che COSA?!»
E’ così.

Lì per lì l’idea più intelligente che mi venne fu quella di portare il nemico al campo base, così Renato arrivò trovandosi davanti ad un branco di ragazzini che si agitavano attorno ad una scultura moderna composta da pezzi di alto valore economico ridotti ad ignobile ferraglia.

«POSSIAMO SALVARCI! » urlò Silvio lo stratega balzando ai comandi «TENETEVI FORTE, SI DECOLLA!»
Laura era già a molti chilometri di distanza.

Le vibrazioni umane esistono. Le senti sul palco, nei locali, tra la gente. La mia ex3 psicologa sosteneva che questo mio sentire fosse un mixare inconsciamente migliaia di piccoli impulsi che si manifestavano in una sensazione. Dopotutto non dice puttanate. In un film puoi trasformare una scena da macabra a comica solo con il suono, guardate il trailer di Mary Poppins con gli effettini giusti su youtube e ditemi voi. Ecco, le sensazioni sono molto simili. Nell’istante in cui Renato fece capolino da sopra la collina capimmo tutti che no, non era stata una buona idea provare a costruire un elicottero. Certo, se invece avessimo voluto costruire un trebucco da epoca romana sarebbe stato un successo. Ma Mamma Terra è una mietitrice di sogni, che ci volete fare. Quando i nostri genitori si presentarono a casa di Renato e Rosa Ghezzi pareva un’esecuzione. Occhiatacce, silenzio ostentato, vergogna e qualche lacrima anche materna mentre ricevevamo insulti, bestemmie, improperi ed osservavamo i nostri genitori scusarsi con quel tizio e quella tizia. Ci costrinsero a raccontare tutto per filo e per segno, materiali presi, atti di vandalismo, almeno una cinquantina di azioni terroristiche ai danni di un’allegra famiglia, cose che insomma fanno tutti i dodicenni in periferia prima che arrivasse la playstation e Maria de Filippi.

«Comunque c’era anche una ragazzina » insistette Renato «pareva una zingara, però.»
«Ma chi, la Laura?» domandò Silvio.
«Ma no, la Laura non era dai suoi che faceva i compiti?» domandai io aspettando un coppino paterno.
«Eh?» domandò Silvio.
«Sì, infatti» disse Luca guardando fisso negli occhi Silvio «la Laura non c’entra niente.»

Laura, che era quella coi genitori peggio messi economicamente, riuscì a sfangare sia la ramanzina di tre quarti d’ora in due atti – pubblico e privato – sia la nube di ceffoni che la sera venne a trovare casa per casa ognuno di noi. Ci giocammo l’estate, la vedevamo seduta fuori in strada da sola che guardava verso le nostre finestre e faceva gesti. Non seppe la verità per tanti anni in cui tanti si divisero pigliando strade diverse, chi più o meno belle. Silvio – giuro – s’è dato all’ingegneria aerospaziale. Se molti italiani sono ancora vivi è probabilmente grazie al test d’ammissione che lo segò. Nel 2001 io, lei e Luca stavamo nascosti in deposito FS sotto un treno merci con le mani sporche di vernice, gli zaini pieni di spray, i vestiti fradici di rugiada ed un sacco di tempo da aspettare. Per alleggerire la tensione decidemmo di fare un raccontino vintage.

«Ma quindi quella volta mi avete paraculato voi due? »
«Più o meno, sì»
«ODDIOCHETTENERI, e dire che tu mi piacevi pure» fa rivolta a Luca.
«Hiiii, oddioketteneri, mettetevi anche a suonare il tamburo che in guardiola non vi han sentito» bercio.
«Pure tu a me, eh» fa Luca.
«Ecco, ghe sboro, a ‘sto punto baciatevi.»
«Ok.»
«Come “ok”, cazzo fate?»
«Spostati un attimo, Nebo.»

Si dettero il primo bacio sotto un carico di semi diretto a Copenaghen alle 3.30 di un sabato notte mentre col binocolo tenevo d’occhio le prodi forze dell’ordine. Ma questa è un’altra storia e l’amore non è per questi luoghi, signora, men che meno per il carabiniere in borghese che sta leggendo il blog con vivo interesse: tutto inventato, capo, haha, era una burla.

Non si sa mai

Non si sa mai

La strada per l’inferno è lastricata di buoni propositi.
Se proprio andate di fretta, basta andare al Gasoline di Jesolo.

– Orpo, ho lasciato il cellulare a casa.
– Bòh, se vuoi siam qui, faccio il giro.
– MANNOCHEMMIFREGA, tanto stiam assieme tutta la sera, se mi cercano si fottano, andiamo a fare gli stronzi, via.

Ogni volta che lascio il cellulare a casa trovo una chiamata anonima. Pazienza, se vogliono mandan messaggi e poi dopo un pomeriggio di prove voglio solo la disconnessione. Sapete, girare con un preservativo è un po’ da sfigati però non si sa mai. La mente vacilla alla remota possibilità una sconosciuta qualunque pretenda attenzioni tanto radicali però non si sa mai. Il mio “non si sa mai” accadde una volta sola. Ed ero in costume da bagno.

– TU NO ITALIA!
– Io sì Italia, tu dove?
– RùSSIA!
– Ecco, come ti chiami?
– ANJA! ANJA DI…
– …di grande madre russia, ho capito.
– Sl’avsa ot’echestvo n’ashe svob’odnoyeeeeeee…

Ricomincia a cantare allegra l’inno dell’armata rossa. Anja l’ho vista in via Bafile che camminava tutta sola, cosa più unica che rara per quella macelleria che è Jesolo. Alta, snella, un viso da fotomodella, una scollatura vertiginosa con un pushup da incidente ed un culo che sposta l’ago delle bussole. Complessivamente un 7 nella mia scala digitale, ovvero che sarei disposto a mozzarmi sette dita su dieci pur di imberlarla. Io sono con DJ, bassista e percussionista, che in giro per Jesolo attacchiam adesivi e cazzeggiamo. La seguo con la coda dell’occhio e quando in piazza Mazzini incrociamo lo sguardo non lo abbassa, anzi. Entra dopo di noi al Gasoline, un discopub che pare l’anticamera dell’inferno. La vedo che beve sola al bancone, mollo la band e mi ci siedo a fianco. Mi giro, le chiedo se gira sempre da sola e poi ordino da bere.

– Io no sola.
– Sì che sei sola, ti ho vista da fuori. Cosa prendi?
– Io paga per me.
– Eh, è il problema degli amici immaginari. Cosa prendi?
È confusa.

– Vino?
– Qui dentro non trovi vino, aspetta.

La barista è in spaccata sul bancone che versa whisky ad uno in maglietta rosa. La strattono per un tacco, si gira, le chiedo se ha vino, dice prosecco. Traduco. Promosso. Arriva il prosecco.

– Questo è vino?
– Una specie, sì.
– Da zdr’avstvooyet sozdanni voley NAR’ODOOOOOOOOV…
Canta felice sopra un truzzamento tunz tunz ed un carnaio che si agita.

– Quanti anni hai?
– Tu quanti credi?
– Quanto basta.
– Eh?
– Ventisei?
– No! Dicianòve!
Bel colpo.

– Tu speravi PIU’ vero? COSA tu pensa TU, ora? Io dicianòve tanto? O poco?
– Non so, canta!
– Soy’ooz neroosh’imi resp’ooblik svob’odnikh…
– Senti, non dovresti bere vodka?
– NO! Vodka per freddo, qui caldo! Tanto caldo, muolto caldo! – dice aprendosi la scollatura.

A fianco un tizio sbarra gli occhi e tira una madonna. Io resto impassibile ad una quarta naturale abbondante compatta al centro senza scanalatura sei nei su quella destra due su quella sinistra leggermente simmetrici un accenno di lentiggini reggiseno nero pizzettato accenno di brillantini sulla parte alta probabile forma a goccia con capezzolo piccolo oddio dove la porti spiaggia o bagni che fa tanto degrado undergr
Richiude. Durata della radiografia 1.2 secondi.

– Tu no guarda me, vero?
– Come?
– TU NON GUARDA QUI?! – dice prendendosi in mano le tette.
– C’E’ MUSICA ALTA! – dico indicandomi le orecchie.

Si stringe nelle spalle, beve e inneggia a Stalin che era tanto bono e bravo. La conversazione scivola piano su argomenti che se lei reputa noiosi dribbla inneggiando Sozial Rebuplisky o cose così. Il tempo passa veloce e lei rifiuta di uscire. Al terzo tentativo mi cago il cazzo, provo l’approccio in differita.

– Anja, mi dai il tuo numero di telefono?
– Soy’ooz neroosh’imi resp’ooblik svob’odnikh…
– Il cellulare, Anja!
– Ah! TELEFòNIRE! Vabbene! Mio numero è 3… 3… tu no scrive?
– Aspetta che piglio il c
DIOMADONNISSIMALASANTERRIMAIMMACOLATA.

– Anja, non ho il cellulare con me.
– Aaah, no telefòn? Tu dai me tuo, poi richiamo!
La guardo. Calcolo il numero di prosecchi. Si scorderà di me tra una sessantina di secondi.
Guardo la barista che sta tastando le braccia flirtando con un tizio.

– Scusa.. SCUSA, HAI CARTA E PENNA?!
– NO, STO LAVORANDO!

Attorno ho un oceano di carne che si divincola, ho perso il contatto visivo con il resto della compagnia da circa… un’ora e mezza. Possono essere ovunque assieme ai loro cellulari ed alle chiavi della macchina che io non so dov’è parcheggiata. Mi sento come su Platoon. Guardo Anja, una cinquantina di chili che andrebbero suonati come un violino e che invece non rivedrò mai più, ma ora ho problemi più urgenti.

– Anja, vado via.
– Tu no beve con me?
Piango sangue. Mi prometto di imparare il russo mentre comincio a vagare per la sala. Devo pure pisciare. Calma, serve lucidità. Le idee migliori mi son sempre venute in cesso. Cambia l’acqua al canarino, Nebo, vai. Una parola. Il cesso ha una coda di tedesche bionde che invadono pure quello degli uomini. Io, un norvegese di tre metri ed un nigga vestito da LL Cool J ci guardiamo, borbottiamo, prendo l’iniziativa e tiro fuori il cazzo. Non so se avete mai tirato fuori i gioielli di famiglia davanti ad una scolaresca di tedesche, dà una rara soddisfazione tribale: indietreggiano tra gridolini, fanno per coprirsi gli occhi, uno spettacolo. Mentre pisciamo tento di spiegare il mio problema al nigga, che mi risponde che non ha soldi in cellulare ma è amico del DJ. Il norvegese non capisce una parola ma dice qualcosa nella sua lingua indicandomi le parti basse. Decido di non approfondire, saluto, lavo manine, esco.

Ci sono tre numeri di cellulare che so a memoria: quello di Vegeta, quello della Iaia e quello del mio DJ. E’ qualcosa. La prima cabina telefonica va solo a schede. La seconda ha la pulsantiera scassata. La terza ha due dentro che scopano. La quarta è stata centrata da un SUV ed è ridotta ad un cellulare, ma priva delle sue funzionalità. In tasca ho sei euro e cinquanta. Posso solo giocarmi la carta del talento, e mi metto a scrutare la folla con sguardo addestrato da anni ed anni di writing. ECCOLI. Lui sulla quarantina, brillante, giaccamicintura tèèèèèk, capello anni 80 in compagnia di due squinzie sulla trentina che dopo una vita di pompe sottobanco si son svegliate ed hanno detto “oddio ma io cioè non sono una sensibile”.

Li aggancio col fiatone.

– Signori scusatemi se vi disturbo ma è un’emergenza, posso darvi i soldi della chiamata ma PER FAVORE ho bisogno di fare una chiamata di CINQUE SECONDI, solo per dire dove sono. Non ho il mio telefono, non voglio derubarvi, ho solo bisogno di dire dove sono.
– Ooh – dice la bionda.
– Povero – dice la mora – ma che ti è successo?
– Già, come mai? – domanda il Claudio Cecchetto della situazione.
– Ero al Gasoline, ho lasciato il cellulare – dico, omettendo dove – son stato scemo io.
Ringrazio sentitamente, mi guardano un po’ stralunati, saluto. Mi recuperano pochi minuti dopo che fumavo come un turco. Questa è stata la mia prima notte a Jesolo. In verità vi dico, quest’estate comincia benissimo. Se son tutte così ci sarà da divertirsi.

Però non si sa mai.

E’ difficile applaudire con le mani sui coglioni

E’ difficile applaudire con le mani sui coglioni

Renato è un contadino vicentino di 110 chili che lavora i campi dodici ore al giorno e vota Bertinotti da tutta la vita. Sua figlia ha tredici anni, vuole 20.000 euro per rifarsi le tette, pippa coca come un bracco, non fa una madonna dalla mattina alla sera e vuole andare a Roma per un provino da Velina assieme a Elena, una zoccola che si dice sprema coglioni per una ricarica Vodafone. Se Renato digitasse il nome della figlia su emule scoprirebbe che i pettegolezzi son stime ottimistiche. Suo figlio si chiama Mauro, trent’anni, venti chili bagnato, si veste come un divano di pelle anni 50, è pallido come un fantasma ed ascolta cori funerari tutto il giorno.

Dice che odia il mondo e che la sua vera famiglia è Chthulu o roba così.

L’ultima volta che ha sorriso era assistendo ad un incidente stradale. Ha i capelli lunghi, neri e stopposi, si lava sporadicamente, parla quasi sempre sottovoce ed ha lo sguardo di un cocker al suo primo giorno in vivisezione. Nel complesso pare una fuga dal condotto fognario di Auschwitz. Ogni sei mesi suona ballate “macabre e cimiteriali” in un locale di nome “Desolation”, posto che pare un ritrovo di becchini o la commemorazione di Piazza Fontana. Apre il concerto dicendo “moriremo tutti”. Un branco di zombie applaude mestamente, il gestore si stritola i coglioni e le ragazzine si mutilano.

Insomma, chiudere le porte e fare test termonucleari non sembra una cattiva idea.

Il figlio di Renato stasera è in televisione.
Il set pare quello di un telequiz, luci, colori, musichette. Bellino nell’insieme. Ad un tratto parte una musica da scena thriller: un annunciatore con voce da National Geographic recita “ormai il sole è calato e con il calare delle tenebre è il turno di Mauro, il cantore della morte”.

– Oddio Renato – pigola eccitata la moglie – oddio è nostro figlio! –
Renato sussurra orrende bestemmie.

Mauro entra vestito di nero con calzino bianco, faccia impallidita ulteriormente ed occhiaie sottolineate dal trucco, un cilindro in testa, andatura gobba. Pare Baron Samedi. Il buttafuori è un nigeriano di due metri che crede nel Voodoo e come lo vede indietreggia terrorizzato. La giuria è composta da Morgan,La Bionda Più Superstiziosa Del Mondo (con lieve ritardo mentale) ed una persona sana di mente. Morgan guarda Mauro con affetto e simpatia. La bionda guarda Mauro come guardi il timer di una bomba a meno due secondi. La persona sana di mente si sente sola. A casa, il padre tracanna Maalox e tranquillanti al posto dei popcorn.

– Buongiorno – dice entusiasta Morgan.
– …Buongiorno… – mormora Mauro col tono del becchino mentre ritira il cadavere.
– Come ti chiami? – sempre Morgan.
– Mi chiamo Mauro Petrarca, premetto che sono un cantautore macabro e cimiteriale, scrivo canzoni esclusivamente sulla morte. Eseguo il brano “Marta La Cornacchia” che è il primo brano del mio canzoniere macabro –

Renato fissa il teleschermo mentre la mente ripercorre passo per passo ogni istante della vita di Padre Pio, commentandola in maniera colorita.

“Quando saremo entrambi abbastanza mooortiiiii” esordisce Mauro.

La giuria è paralizzata, il nigeriano crea freneticamente uno scaccia spiriti, le rondini migrano in folti stormi e vi dico, o siamo di fronte all’uragano Tatiana o qui non si scherza per un cazzo.

“…staaanchi di sentir gracchiar lo cantoooo…”

Morgan è ammaliato. La bionda pare stia per alzarsi e scappare. La persona normale cerca aggettivi.
Il padre inghiotte una manciata di tranquillanti sufficienti a stendere un bue.

“…stridùlo.” precisa il cantore della morte.

Dietro le quinte il nigeriano molla tutto e in trance ribalta gli occhi ed accoltella il direttore di produzione.

“…non ritornerài, nomade uuuccello. Ritrovate ogni speranza, voi ch’andate viaaaaa…”

Rocco Siffredi in tutta la vita s’è tastato i coglioni meno della troupe in quei trenta secondi.

“…è Marta la cornacchiaaaaa dov’era? Non c’eeeeraaaaa. Morta è la cornacchia, che un giorno avesti in casa… campeggiasti è vero, nei sogni di Barnàbo…”

La bionda ESPLODE.
– …punto. I sogni di Barnabo e punto» esclama Bionda superstiziosa con voce tremante di paura «ma perché la cornacchia si chiama Marta? –

Ora, apparentemente questa è una delle domande più idiote si siano mai viste. L’obiezione è che per far cessare quella tortura voi avreste domandato anche di che colore aveva le mutande, per poi pentirvene immediatamente. Se sei un uomo arrivi a questo ragionamento conoscendo la mentalità femminile ma qui abbiamo Morgan, signore e signori, LETHAL COMBO assieme a Mauro il cantore della morte. Non ce n’è per nessuno.

– Il richiamo “Marta Morta” – spiega il cantore.
– Per l’assonanza con Marta morta – spiega Morgan.
– Aaah era l’assonanza del testo – dice la bionda.
– Era per la rima – dice la persona normale.
E’ un fiorire di stronzi che se le spiegano a vicenda.

– Guarda, vorrei sentirla con la musica. Non so quanto DAREI per ascoltare gli accordi di questo brano – dice Morgan esaltato.
La bionda e la persona normale tacciono.
Renato a casa, tace.
Una nazione in silenzio.

– E’ in forma di ballata, sono quattro accordi uguali dall’inizio alla fine – spiega il cantore della morte.
– Pure – dice la persona normale.
– Io… io non ho mai visto una cosa di questo tipo, né ascoltato – dice Morgan mentre le due donne dicono per grazia di Dio – …quindi… per me è sì –

– Per me è un no perché poi comunque sei molto particolare, eh, anch’io apprezzo la creatività, l’originalità della cosanonèchesediconomiportisfiga? – chiude rapida la bionda.

A casa il padre di Mauro china la testa mentre la moglie scoppia in lacrime. Lui si gira e comincia a schiaffeggiarla urlando che quella roba l’ha cagata lei ed è colpa sua. In tv il cantore della morte scuote la testa sorridendo. E’ il turno della persona normale.

– Devo dire che proprio n… non mi piaci proprio NIENTE. Mi dispiace, proprio niente, non saprei nemmeno PERCHE’ DEVE PIACERE UNA COSA CHE PARLA DELLA MORTE, PURE LA CORNACCHIA MORTA, E’ UNA TRAGEDIA, HANNO FATTO BENE AD AMMAZZARLA LA CORNACCHIA, DOVEVANO STRANGOLARLA SUBITO! Eh? – sbraita mentre a casa si consuma un dramma familiare.
Il cantore annuisce.

– E comunque continua così che secondo me hai scelto una strada… VINCENTE HAHAHAHAHAHAH! – ride Morgan.
Il cantautore macabro e cimiteriale saluta e se ne va. Non esistono parole per descrivere quello che provo.

Credete io mi sia inventato tutto?
No. Tutto documentato, siore e siori.

Spaccami i coglioni mon amour

Spaccami i coglioni mon amour

Tutti credono le donne siano cacacazzi. Non è vero. Certo, esistono donne simpatiche e donne antipatiche, come le belle o le brutte, le stupide e le intelligenti. Comunque, non potete dire che tutte le donne siano cacacazzi perché manchereste di onorare una categoria che merita una descrizione.

La cacacazzi (o martellatrice testicolare) è un essere che ha scoperto di avere la vagina molto tardi ed è quindi convinta di essere più vicina a Dio di Gesù Cristo. Pari pari ad un romanzo epico, il loro portale di Oblivion non può essere attraversato da un uomo comune. Loro devono avere il trombatorrione per eccellenza, il pistone magico di Mithril, la spada del druido Calandril, dev’essere Vin Diesel e Bradd Pitt con fattezze di Johnny Depp.

La cacacazzi naturalmente è una con la terza media che abita in un paesino che è una frazione di Posillipo, frequenta le peggio bestie umane e si fa trombare dai più ripugnanti boscimani decerebrati. Quindi mentre parlano sembrano la regina di Saba. Scartano uomini come niente per difetti minimi, loro sono convinte di essere geni della cultura perché durante i compiti dell’estate avevano letto “L’Isola del Tesoro”. Quando ci parlate sciorinano un elenco di cazzi mancati, ingegneri spaziali eletti Mr. Universo che tuttavia avevano il naso storto, piloti militari fotomodelli che avevano un neo sbagliato, purtroppo il mondo non è alla loro altezza. Poi andate a vedere gli uomini con cui sono state aspettandovi un Dio pagano e ci trovate un nano con le spalle a coppo, il cazzo piccolo, disoccupato e con la licenza media alle scuole serali.

Come diavolo è possibile?

La cacacazzi altro non è che l’equivalente dell Maschio Medio Italiano. Uno qualsiasi che mente come respira inventandosi di essere chissà che VIP, uno che da un momento all’altro potrebbe finire su tutti i giornali, occhio, lui conosce la gente che conta, ne sa, è uomo di mondo. Di solito è un impiegato di banca o vende auto usate, fa le rate per comprarsi il SUV, ha debiti per ottanta generazioni e si guarda film con l’home theatre ma senza popcorn, perché non ha i soldi per pigliarsi da mangiare, elemosina o gratta soldi pure ai familiari nei modi più gretti e si giustifica dicendo che c’è di peggio, basta guardare Striscia. Ecco, la cacacazzi si fa trombare solo ed esclusivamente da persone del genere. Non conta quello che sogna o farnetica di volere, la cacacazzi agli atti si fa scopare solo con le balle.

Cacacazzi di destra
– Aperitivo per vedere che macchina ha, discorsi sul lavoro e sugli ex cattivi.
– Serata ristorante chic, discorsi su “ho visto il mondo”.
– Drink in altro locale chic, discorsi su “come siamo diversi dal resto”.
– Scopare.

Cacacazzi di sinistra
– Caffè, discorsi su idiozie agghiaccianti spesso riciclate da Benigni.
– Serata pizzeria o pub, discorsi su “ho letto il mondo”.
– Birretta in locale intellettual chic, discorsi su “come siamo diversi dal resto”.
– Fantasie sessuali solitarie.
– Dopo due giorni, ripetere sostituendo all’ultimo punto “scopare”.

Mentre tutto questo accade, ragazzi e ragazze tranquilli, onesti, semplici e tendenzialmente umani vengono trattati con disprezzo da tutte le parti passando per “superficiali” o “barboni” o “complessati” o “banali” da entrambe le categorie. E con questo messaggio di ottimismo e positività torno a prendere il sole sullo yacht ancorato al porto dei miei deliri.