Come piccoli soldatini di piombo

Come piccoli soldatini di piombo

Uniti, fratelli, compagni di questa battaglia prima o poi tutti cadiamo. Colpiti da qualcosa o qualcuno, di noi rimane il ricordo, il mito, la leggenda ed un affetto che pian piano si adatta al quotidiano. Diventa parte della nostra faccia, del nostro viso. Lo segna, lo porta con noi con più leggerezza come un peso che non senti più a causa del tempo. Siamo marines con uno zaino da quaranta chili in spalla. Siamo guerrieri che vanno a farsi squartare. Soldati lontani da casa, fiocchi di neve che compensano la mancanza di mezzi con il numero. Polvere in un tornado. Preservativi sul Terraglio.

Ma noi combatteremo fino allo stremo, fino all’ultimo giorno.

Lotteremo con tutta la nostra forza e determinazione, spalla a spalla, finché avremo forza e poi useremo la gravità o l’inerzia. Orgogliosi di noi, solidali e spietati con i traditori e con i nemici. Perché siamo tutti, nel bene o nel male, dei proeliator. Anche sull’altare, fino all’ultimo secondo. Anche nei bar dove ci beviamo la dignità tra cubetti di ghiaccio e foglioline di menta. Anche quando accettiamo di pagare rate per qualcosa che non possiamo permetterci. Anche quando, al mattino davanti ad ore di lavoro pesante, vediamo solo il nemico. Anche quando ci spalmiamo contro un palo della luce in pieno sabato pomeriggio.

Tutto inizia con la frase “so io quello che piace alle ragazze”.

«Cioè?»
«Alle ragazze mica piacciamo noi, gli piace tipo… non so, hai presente Marco?»
«Alessi? Sì, e allora?»
«Eh, lui è FICO!»
«Sssbòh, è che lui sta in centro.»
«Sta sempre con le più tope, però. Bisogna mostrargli che siamo anche noi così.»

«Biondi con gli occhi azzurri?»
«No, meglio. Fichi.»
«Arriva la puttanata» pigola Ario.
«Stai zitto» bercia Silvio.
«Oh no, non dopo quella di usare i goldoni di tuo padre per fare i gavettoni, Silvio.»

«Mbè?» arrossisce l’ingegnere.
«Mbè?! Quei cazzo di cosi si gonfiavano come dirigibili e non scoppiavano, parliamo di te che sei uscito con una mastella di bomboloni che profumavano di frutta?»
«Ha ha ha ha è vero, c’era tua madre viola e tutto il quartiere fuori, ha ha ha ha quante botte che t’han dato, oddio le lacrime.»
«Siete dei coglioni, sto qui a dirvi come rimorchiare e voi pensate ai gavettoni.»

«ha ha ha ha ha e quando non scoppiavano e ti sei messo a pugnalarli con le chiavi?»
«HAHAHAHA CON LA LAURA CHE CI SALTAVA SOPRA»
«AHAHAHAHAHAHAHA»
«“mamma, ma erano sul tavolo in cucina!”»
Quasi ci strozziamo.

«Volete far colpo o no, deficienti?»
«Ehi Silvio, cos’è quest’odore di frutti di bosco? Ah, è l’alito di tua mamma!»

Silvio passa alle mani e comincia a pestare a casaccio, dopo un piccolo parapiglia ritorna l’ordine. Secondo lui, Marco Alessi era fico non perché somigliava a quello dei Take That, ma perché sapeva fare le impennate.

«Secondo me più perché ha lo scooter, no?»
«Ma no, stupido, alle donne non frega niente del mezzo, conta come lo sai usare.»

Un tuono nel cielo coprì la risposta del popolo femminile di ogni parte del mondo in tutta la Storia dell’umanità terrestre, ma al tempo non ci badammo: nelle nostre menti debilitate la cosa che più avrebbe colpito una donna sarebbe stato una decina d’idioti che passavano davanti alla gelateria con le ruote alzate. Questo oggi come oggi fa traballare la mia sanità mentale come ascoltare una persona che parla di televisione, ma sapete com’è.

Cominciammo ad imparare la difficile arte dell’impennata.

Alcuni avevano la BMX, altri la mountain bike, altri la graziella. Le attività in quartiere fremevano. Le ragazze si spaccavano le balle o giocavano a “1, 2, 3 stella” o ci deridevano mentre con impegno ci massacravamo. Per una buona impennata è necessario tirare a sé le braccia con potenza 10 mentre si sposta il baricentro del corpo con potenza 6. Il difficile è capire l’equazione. Quell’estate fu un fiorire di salti all’indietro suicidi, sbucciature, ferite simili a quelle di un coltello, unghie distrutte, falangi in carne viva, ammaccature e sangue. Dopo due settimane l’asfalto pareva scenario di una lotta tra gang. Le biciclette erano ridotte a catorci graffiati, ammaccati, sporchi di sangue, saliva, fango ed erba. Io non ci riuscivo una volta su tre. Silvio era perfetto. Checco era perfetto. Luca alzava troppo la ruota e finiva per dover mettere le gambe dietro, castrandosi con dolore e forzando sempre di più i raggi della bici di sua madre. Ma eravamo pronti.

Potevamo andare in piazza Ferretto, in centro a Mestre.

«Silvio, non so, io aspetterei»
«Chi non è ancora pronto non sarà mai pronto» dice con tono solenne.
Ovazioni.

Partimmo tutti con in tasca tremila lire. Arrivammo e lei, Caterina, era bella come una dea circondata da ancelle e sgherri. Luca la vede e non capisce più un cazzo. Lancia gridi bestiali, si agita. Il bar si gira. Luca impenna. La ruota posteriore cede distruggendosi in perfetta verticale. Noi siamo dietro, è tardi per tutto. C’è chi gli monta sopra, c’è chi cade, c’è chi crolla sopra l’altro, io mi schianto e la graziella pieghevole si apre in due. Caterina è a bocca aperta assieme alle sue amiche. Il gestore della gelateria non crede a quello che vede. La clientela è immobile, paralizzata. L’intera piazza Ferretto è esterrefatta da questo cataclisma di carne e acciaio, un’intera città fotografata in un minuscolo, piccolo, epico fotogramma.

E dal nulla emerge l’eroe.

Silvio l’aveva pensata bene, noi davanti a fare la figura dei coglioni in branco, poi lui, affascinante cavaliere solitario riflessivo che passava dietro, un po’ sulle sue. Solo che nel suo immaginario la squadra di kamikaze in avanscoperta non avrebbe dovuto detonare prematuramente. Non ci crede, non è possibile. Non è giusto. Mi sto rialzando ed in una scena alla slow motion mi passa a fianco Silvio che mi guarda con gli occhi di chi sta andando a morire. Mi odia, Silvio. Mi guarda e mi chiede “perché” con gli occhi. Poi si ricorda che la bicicletta è in movimento ma è tardi ed entra nel bar con la mountanbaic schivando Caterina ed impattando contro il congelatore dei Sammontana. Per un piccolo battito nessuno fiata.

«Vi siete fatti male?» domanda il gestore.
«Ciao Caterina, sono qui con i miei amici» piagnucola Silvio con voce rotta ed un polso fratturato.

La piazza esplode.

Nemmeno il V-day ha avuto una piazza che ride tanto sguaiata. Ride il notaio alla finestra, ridono i clienti del bar, ride la farmacia e le commesse del negozio di Benetton. Ride la Caterina, ridono i suoi amici, i cani guida dei ciechi, ride il tizio del Duca d’Aosta. La tabaccaia scatarra scossa da spasmi di ilarità. Il gelataio si tiene la pancia. C’è gente distesa per terra. Il gioielliere prende a testate la vetrina urlando. Il pizzaiolo lancia impasti per aria mentre tenta di salvare la sua cassa toracica dall’esplodere martellandosela. Finestre si spalancano e vecchi si lanciano nel vuoto. Gente esce dalla porta con la cornetta del telefono in mano da cui proviene una risata. Dalla Corte Sconta escono a frotte persone in lacrime. E’ un mondo che ride mentre io monto sulla graziella rimontata di fretta e corro via. Silvio non uscì per un mese, suonavamo alla porta e la madre diceva che doveva studiare.

Soldati, signora.
Soldati.