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Come domare una diciottenne

Diciottenni. Occhioni enormi, lucidi, ti dicono che non è giusto. Che non deve essere necessariamente così. Che è orrendo. Che il mondo è brutto e messo male ma si può sistemare, basta lavorarci.
Diciottenni. Fiori appena spuntati nel prato della vita, frutti maturi carichi di emotività. In un minuto possono passare da lacrime di disperazione alle risate dal cuore fino all’odio profondo. Pelle che sembra velluto. Milioni di capelli rabbiosi che pare vogliano conquistare più cielo possibile, radici immaginarie che artigliano la terra della fantasia. 
Diciottenni.
Ogni sorriso che fanno merita un applauso.
Diciottenni. Si commuovono perché sei il primo a regalarle una rosa o un mazzo di fiori. Ti ascoltano ad orecchie tese ed un momento dopo partono con monologhi di 20 minuti. Inneggiano all’uguaglianza, alla giustizia, alla libertà. Ideali sacri. Passione. Compassione. Empatia. Solidarietà.
– Va a cagar, a mi me piase quee de 40 anni, xe più porche.
Trentenni.
Senz’anima.

Essere soli non è mai stato tanto trendy

 «Pronto?»
 «Eeh… buongiorno, sono Nebo, c’è Francesca?»
 «…momentoFRANCEEEESCAAAAAA!! PER TEEEEEEH!»

Se volevo parlarvi dovevo parlare prima con vostra mamma.


I momenti di imbarazzo si sprecavano quando l’altrui intimità familiare ti veniva sparata in faccia. A volte oltre a riferire l’identità del chiamante il genitore aggiungeva qualche nota personale: guarda che c’è il tuo amico negro, c’è quello dei compiti, il grassone, il magrolino, lo sfigato, quello ricco, eccetera. Lo urlavano con la cornetta appoggiata alla spalla per far sì che non si sentisse. Non funzionava. La telefonata doveva essere fatta nell’ora giusta che non prendesse il pranzo né il riposino pomeridiano del fratellino minore, piccolo figlio di puttana dall’udito ipersviluppato che adesso fiuta ultrasuoni alla NASA. Tuuuut, tuuut, se quando rispondevano c’era in sottofondo un frignare stridulo avevi perso. 
Pareva l’allegro chirurgo.


 «Pronto?»
 «CIAOCHECCA, SONO N»
 «Hai svegliato mio fratello e mia madre è arrabbiata, ci risentiamo»
Click.


Fin da piccoli siamo stati addestrati ad essere invadenti. Sapevamo combattere il senso di colpa e l’imbarazzo. Era normale, capitava di continuo. Suonare il campanello la sera a casa di tizio, svegliare un qualche fratello, era parte della comunicazione. Si saltavano preamboli tipo ciaocomestaibenegrazietu e blaaah blaaah: ci si trovava in gelateria alle 15 o in pizzeria alle 19.30. 

Poi è arrivato il cellulare.
E’ arrivato Internet.


E Facebook.

Facebook l’ha inventato uno studente americano per riprendere contatto con i suoi vecchi compagni di classe. Dire al telefono “pronto” gli faceva una fatica terribile, così ha preferito progettare un software ed aspettare si diffondesse nel mondo sperando che, un giorno, uno dei suoi vecchi compagni lo notasse, vi si iscrivesse e coinvolgesse così a macchia d’olio ogni singolo essere umano rendendo possibile collegare ogni individuo e SI, HAHAHA, DOMINARE IL MONDO, HAHA HA HAHAHA HA HAHA HA HA HA HAHAHAHAHAHAHHAHA!!







Nel mondo reale non c’è Bruce Willis a rompergli il culo, così vincono i cattivi eFacebook ha un successo stellare. Il record di iscrizioni è detenuto, manco a dirlo, dall’ Italia. Comunista o fascio, fighetto o sbregone, truzza o cagona, minorenne emo o scacato imprenditore, zoccola spudorata o suora, tutti sono dentro questo meraviglioso mondo virtuale la cui utilità è “risentire i miei vecchi compagni di classe”. 

Hm. 

Abbiamo cellulari, email, myspace, msn, skype, blog, weblog, mediablog, siti personali, elenchi telefonici, forum, chat, motori di ricerca, posta, corrieri espressi e in vent’anni non siamo riusciti a contattare uno di questi ex compagni di classe la cui famiglia abita a quaranta metri da casa nostra. C’era bisogno di questo software rivoluzionario che ci permettesse di svolgere la seguente conversazione:


«Sei cambiato, ora che fai?»
«Lavoro»
«Anch’io»

E’ come costruire una portaerei nucleare per giocarci a golf.


Invece di prendersi una birra in un locale queste persone passano giorni chiusi in una stanza al buio a dire che stanno facendo quattro chiacchiere. Dicono che è per non annoiarsi al lavoro. Che è come MSN. Che loro non seguono la moda. Che smettono quando vogliono. Tipo quelli che guardano i reality per parlarne male. Tipo gli italiani che erano tutti partigiani. La domanda è PERCHE’. Cosa spinge persone agli antipodi ad unirsi in questa specie di Second Life? 

Bèh, per molti è la possibilità di essere quello che non si è in maniera molto più pratica che truccandosi, vestendosi, cotonandosi e staccandosi dai tramezzini tonnoeuova. E’ una abitudine nata con myspace che ha scatenato casi eclatanti.





Per altri – pochissimi – c’è la motivazione lavorativa e vabbè, gente di spettacolo che ci campa e l’affitto a casa dobbiamo portarlo tutti.

Ma tu sei lì con tutti gli amici che insistono dicendo “guarda, ci sono tutti, ci sono anche le tue ex” e dentro IMPLODI perché se una storia d’amore finisce significa che FINISCE. Hai un bel ricordo di voi due. Di quando stavate insieme. Di quando vi bastava il profumo della pelle per eccitarvi. Non volete vedere che a distanza di anni quella donna si è trasformata in una federa per cazzi che sta frequentando le peggio bestie urlatrici, è costantemente sbronza e reputa figo o ggggiovane farsi vedere mentre barcolla a Ibiza vomitando in una fontana del cazzo. 

Io di Facebook e dei social network ho notato questo: nessuno ha un cazzo da dire. Niente. Ci fosse un discorso od un qualcosa, nulla. Maree di gruppi aggregativi, oceani di punti esclamativi, un deserto pieno di foto a tre quarti dall’alto, olocausto mentale dove si fa di tutto per mostrare che ci si diverte e ci si assicura di documentare tutto e di pubblicarlo.

Non solo per il paradosso sulla privacy (su cui sarebbe da rotolarsi dalle risate), ma pare che il numero dei mezzi di comunicazione sia inversamente proporzionale ai concetti da esprimere. In tutta ‘sta orgia di inviti e risate e sorrisi e amici vecchi e nuovi che vogliono, chiamano, chiedono di iscriversi in questo mondo delle meraviglie m’è venuta in mente quella vecchia canzone di Raf.

Il più grande social network disintegrato da un testo del 1991.

Quest’anno andiamo al mare a Belluno



Natale. Una banda di pedofili ci ordinano di festeggiare il figlio illegittimo di una donna che inventò la più grande balla che storia umana ricordi. Si mangia e si beve come maiali, si buttano via migliaia di euro in agende e portachiavi e libri e penne per persone che vediamo solo in quell’occasione e poi mai più.

– Auguri! Ho portato un regalo per lo zio, dov’è?
– E’ morto a gennaio.

Tre euro e cinquanta nel cesso.

Essere figlio di genitori separati permette la replica in caso di successo.
Il 24 si va dalla parte materna, il 25 da quella paterna – per modo di dire – e in questo modo se ci sono state gaffes si fa il debriefing, perché si telefonano tra loro. Tu ti trovi il 24 sera, fai la vaccata e ti pigli la carne il 25 a pranzo da sconosciuti che tramite telefonate intercontinentali dicono il loro parere, tanto atteso quanto autorevole. Casa di mia “zia”. Mobili, musica, tende, profumi, vestiti ed atmosfera del 1940. In sottofondo c’è questa versione di I don’t want to set the world on fire. Dopo la carneficina di morti che si è schiantata su quest’ala della famiglia (mariti, nonni, zii, zie, van tutti al creatore coi voli charter) i sopravvissuti si ritrovano nel salone di gala del Titanic e fingono allegria. Per farlo invitano individui che la società ha esiliato ma che emettono calore, mangiano e tutto sommato fanno numero. Così il primo tempo del Natale l’ho passato con una canadese – persona, non tenda – , una madre, una cugina, lo zio della cugina ed una zia tedesca.

La tavola è illuminata da candele. Attorno nero, scuro, buio legno scricchiolante ed ammuffito, un terrore senza nome. Il problema è mio zio. Ha gli occhi di uno che o sta per addormentarsi sul piatto o sta per tirare fuori un detonatore. E’ un medico, ha un sacco di belle cose ma non sa godersi un cazzo e riuscirebbe ad invidiare un bambino mutilato del congo. Purtroppo di recente suo padre è partito verso l’alto e lui s’è guardato bene dall’assisterlo, così ora si trova pieno di sensi di colpa, sposato ad una zoccolaccia, a tavola con gente sconosciuta o quasi. I discorsi sono superficiali come un campionato di surf e va tutto bene, finché lui esordisce con

– Ho passato molte estati a Belluno Mare – dice.
– Ah, dai? Pure io vado a nuotare sulle Dolomiti – scherzo.

Perché è chiaramente una battuta. Perché Belluno è in collina alta, perché a Belluno si va a funghi, signora.

– BELLUNO MARE E’ FAMOSISSIMA – tuona – INFORMATI, PRIMA DI PARLARE!
– Zio, stavo scherzando, Belluno mare fa abbastanza ridere.
– A ME NON FA UN CAZZO RIDERE BELLUNO MARE, VA BENE?

La tavola è congelata, mia madre mi guarda. La tedesca si gira verso di me e domanda “was ist shlos” o roba del genere.

– He’s an omosex – spiego indicandolo.
– Oh my – fa la donna – why say it now?
– Because he likes the nude children – chioso, addestrato dai Goonies – I mean the Jesus Kiddo behind me – indico il presepe.
– Holy crap.

Mio zio, che capisco essere ubriaco, sbraita mentre mia cugina tenta di calmarlo ed io già me lo vedo ad aprire la giacca rivelando una cintura di esplosivo.

– Zio… zio calmati, dai, stava scherzando, è natale… 
– NON ME NE FREGA UN CAZZO, VAFFANCULO LUI E IL NATALE DI MERDA, CHE LO SO IO COSA CI FA QUA, LUI, NEANCHE DOVEVA ESSERCI, FROCIO A ME N

Il resto è polvere e sangue, nel senso che finisce per terra inciampando sulla sedia e si fa male. Andiamo a casa presto. Riesco a cambiarmi e ad infilarmi alla messa alcolica fuori dalle Barche. Trovo una mia ex, dice che si sposa a maggio con un piccolo genio del computer, haha, ti presento il mio ragazzo! E’ un elettricista che lavora da Mediaworld. Mentre barcollo verso casa, gonfio come una zecca di vin brulè, guardo la foto della Leo in portafogli. L’ho scattata ad Asolo sotto i portici davanti a casa della Duse. Ha gli orecchini che mi piacciono. Sorride mentre un raggio di sole estivo le fa da vestito. Guardo l’ora, troppo tardi per chiamarla. Scrivo un messaggio.

– Sei la cosa migliore mi sia capitata in questo 2008.
Risponde quasi subito: 

– …più di Fallout?!
Aaaargh.

05. Sfida!



L’astronauta della compagnia aveva tutte le attenuanti per aver dimenticato di fare benzina. Due cannoni appena sveglio dopo quattro ore di sonno. Doversi inventare scuse per quando tornerà a casa ed il padre gli chiederà spiegazioni sullo stato della macchina. Non possiamo colpevolizzarlo. Noi siamo tre ragazzini di 17 anni che non hanno mai messo piede fuori da Mestre e quando l’hanno fatto si sono trovati in piena Cambogia. Decidiamo di dividerci. Io da solo avrei tentato di raggiungere il distributore di benzina avanti, Atza e Solero quello dietro. Le possibilità che finisse in tragedia erano altissime e grazie alla mia sempre più drogata immaginazione mi vedevo morto di stenti senza acqua né benzina su un’autostrada rovente. Neanche un’ora dopo la 127 si affianca mentre canto We don’t need another hero e rimpiango di non essere vestito di cuoio.


– Monta, bella fica sudata – fa Ario.


Apro la portiera, chiudo, sto seduto mentre l’auto riparte. L’umore è talmente basso, la disperazione talmente diffusa che decidiamo di uscire per vedere una città a caso ed avere qualcosa di normale da poter raccontare al ritorno che non sia una marea di incidenti. A Cremona, all’incrocio subito fuori dall’autostrada il semaforo è rosso. Si affianca una panda bianca con dentro quattro ragazze. Si girano a guardarci. Sorridono. Parlottano tra loro, ridono. Quella al volante sgasa come a voler far gara. Ario risponde sgasando a sua volta.

«Ok calmi, CALMI» fa Atza «niente puttanate, qui risolviamo la giornata. Appena è verde potrem

Tutto accade in un istante. Il semaforo è verde. Ario preme a tavoletta, la 127 scatta in avanti come un proiettile. Curva quasi in derapata, altra curva, rettilineo. BRAAAAAAM, BRAAAAAM, scala in quarta frenetico. Il semaforo alla fine è verde, Ario insiste. Terza, RAAAAAAM, RAAAAAM, passa il secondo semaforo urlando di gioia “ha-HAAA!” e si gira, esaltato.

«HA HA HA, FOTTUTE!» grida battendo sul volante «VOLEVANO FARE LE FIGHE, HAI CAPITO, SMER-DA-TE, HA HA HA HA, SARANNO ANCORA LA’ AL SEMAfor…»











Lo stiamo guardando come lo state guardando voi.



«Tanto cosa volevate fare, erano in macchina come noi, no? E poi non conosciamo ‘sta città, non sappiamo dove potevamo andare o portarle, dai, cosa potevo fare?»

«Evitare di giocare al piccolo Airton?»
«Seguirle?»
«Abbassare il finestrino?»

«Magari adesso passano » mormora guardando la strada.

Dopo averle aspettate per 10 minuti in un silenzio funereo rientriamo in autostrada senza dire niente. Da lì in proseguiamo senza incidenti fino al nostro arrivo in liguria dove “già che ci siamo potremmo andare a vedere il delfinario di Geova” .

Non ci sono più gli uomini di una volta













“Dove sono gli uomini di una volta?” frignano oggi le donne. Sono stufe di addominali scolpiti, pettorali lucidi, bicipiti in bella vista, costumi attillati e gambe depilate da cui guizzano muscoli da centometrista. Basta. Le donne – specie le bloggers – non vogliono più palestrati fotomodelli così. 



Piangenti, chiedono a gran voce dove siano finiti gli uomini di una volta, quelli che le facevano sentire vere donne. Tipo questi: 



Noi ce li ricordiamo bene, i nostri colleghi di una volta. Erano quelli che tenevano la donna a letto ed in cucina, le proibivano di uscire, le pestavano ed umiliavano quotidianamente. Mettevano corna, esponevano lenzuola con la macchia di sangue fuori dalla finestra la prima notte di nozze e col cazzo che si sposavano una che l’aveva data prima del matrimonio. Erano gli uomini che chiavavano in fretta e furia solo per svuotarsi i coglioni, che le facevano abortire a pugni nello stomaco, che davano i figli illegittimi in orfanotrofio e mandavano le figlie tentatrici dalle suore. Che mandavano la moglie a zappare l’orto a cinghiate mentre loro andavano nei casini. Il divorzio non era consentito tranne casi eccezionali (il tradimento o la violenza non lo erano) e se eri divorziata la gente per strada cambiava marciapiede e ti sputava dietro. Erano gli uomini che impedivano alle donne di votare e che purtroppo, eh, purtroppo non ci sono più.

Così mentre le nonne delle donne moderne hanno lottato per liberarsi dal giogo del sessismo combattendo per uscire dalla prigione domestica, mentre le loro mamme in Afghanistan imparano a leggere di nascosto e tentano di organizzare fughe, mentre le loro sorelle in svariati stati africani vengono infibulate o lasciate morire dissanguate le nostre donne protestano con deliziosa, superficiale, ignorante ottusità: non ci sono più gli uomini di una volta.

Delle donne di una volta, invece, non parlano mai.
Forse perché c’è una differenza sostanziale tra le donne di una volta



e le donne di adesso.