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Al primo sangue (3/3)

Night241

5.30, pioggia rada, strade deserte. Ancora buio. Sul sedile del passeggero Clelia guarda fuori: «Certo che Mestre fa veramente schifo» commenta.
«Tu di dove sei?»
«Dal paese dei cazzi miei, si campa cent’anni» fa Clelia, senza girarsi «non siamo amici, Nebo, voglio solo vedere ‘sti cojoni che s’affettano e tornare a casa senza rischio di finire inguaiata. Se affettano te son pure contenta, tra parentesi»
«Ma perché?!»
«”ma pecchè, gnegnegnè”» mi fa il verso lei «guida»
Guido.

 

 

 

«Io ho il cazzo e tu nooo, io ho il cazzo e tu nooo» canticchio.
«’sta giornata finisce con te che crepi dissanguato e io che mi sgrilletto, fidati»

Capisco che dalla portatrice di caduceo non riceverò alcun conforto morale o fisico. Venti minuti di silenzio dopo parcheggio sotto casa di Luca. Ci sono tutti, più un tizio sulla quarantina. Facce tese, voci scherzose troppo alte per essere credibili, occhiaie, sigarette. Guardo meglio il nuovo arrivato. Occhio verde, capello grigio, seconda metà della quarantina, jeans, camicia, scarpa elegante, cappotto. Bell’uomo.

«Lei è la quasi dottoressa Clelia Ceccarelli» dico, presentandola.
Piaceri vari.
«Lui è il testimone» fa Ario, dando una pacca al tipo.
Quello sorride, mi stringe la mano: «Valentino. Per me è molto importante essere qui. Grazie»

Prendo Ario in disparte.

«Da quale abisso umano hai pescato quest’individuo, Dio maledica te e la tua stirpe?» chiedo.
«Guarda, come testimone volevo portare il mio amministratore di condominio perché so che gli piacciono ‘ste cose, quando tromba la moglie si sente tutto, lei lo chiama Spartacus, frustate, botte, urla, robe così. Fatalità lei gli sgama i debiti del videopoker e Spartacus vola fuori di casa con piatti, polizia, gente in strada, pompieri e lui sul cornicione che minaccia di buttarsi. Pacco. La notte faccio per andare in puttan tour che m’ispira, ma in via Torino vedo ‘sto tipo sul marciapiede che piange, dico che non conosco il problema ma che nella vita c’è comunque di peggio, tipo voi sfigati. Lui s’interessa, chiacchiere tutta la notte, cannetta, caffettino al bar ed eccoci qui»
«Hai portato come testimone un tizio che conosci da quattro ore» ruggisco guardando l’orologio «conducimi nell’orrore, guidami, come hai convinto il signor Valentino-non-c’entro-un-cazzo a seguirti?»
«Gli ho chiesto se ha mai visto un duello, ha detto no, eccoci»

«Hai idea di chi è, che fa, perché piangeva?»
«No. Se ha bisogno di aiuto parla, mica è una fica scema che devi tirarglielo fuori col cucchiaino e poi frigna pure che le fai violenza verbale. Dio, quanto mi piace avere il cazzo. A proposito, ma ‘sta Clelia? Orgiata?» sgomita.

 

 

 

 

 

Partiamo con due macchine. In una Ario, Valentino e io, nell’altra Clelia, Luca e Atza. Mezz’ora di strada dopo i fari illuminano un gruppo di persone a ridosso del muro di una villa, un BMW serie 4 e una Peugeot 305. Due tizi impugnano lanterne in ferro battuto. Scendiamo tutti. Vediamo i due paggi, un uomo sulla cinquantina dall’aria sfigata e un ragazzotto sulla ventina.

«Il signor Tranquilli, secondo duellante. Il dottor Favaro, farmacista e pranoterapeuta di acclarata fama…»
«Ma benissimo!» esclama Clelia con un sorriso incredulo «mi dovevate avvertire, e io che in macchina ripassavo chirurgia generale. Illustrissimo, qua la mano!»
Il dottor Favaro la stringe con un sorriso orgoglioso: «Dottoressa…»
«No macché, mera laureanda. Però posso pure tornare a casa, se c’è lei con una ferita da penetrazione gli facciamo due aspirine e bacino passa tutto, no?»
Il farmacista ritrae la mano, confuso.

«Buone notizie, Vin Dildo!» batte le mani Clelia, guardandomi «prevedo n’orgasmata mondiale, ahahahahah»
Penso la ucciderò.

Il signor Tranquilli è uno sfigatello con le spalle a coppo, l’aria di chi non ha mai preso un pugno in vita sua e i vestiti scelti dalla mamma. Il problema sono i suoi occhi saccenti, astiosi e divertiti di chi pensa che sì, fuori uno come lui lo usano per pulire i cessi, ma qui non siamo nel mondo reale. La porta della Peugeot si apre e appare un babbeo di ventitrè anni al massimo, vestito da ricostruzione medioeval piratesca o che stracazzo ne so io. Ha pantaloni larghi viola, forse di velluto, camicia bianca e giacca di pelle scura, cintura, stivali di pelle scamosciata. Stranamente normopeso.

«E la maledizione del primo brufolo, lì, chi è?» domanda Ario.
«Il visconte Poldin» dice Atza, spogliandosi e infilandosi una camicia larga.
«Se ti fai ammazzare da quello giuro che vengo a pisciarti nel vaso dei fiori»
«Signori, grazie a tutti per essere venuti» esordisce il visconte, fissando Clelia «sono il visconte Andrea Poldin. E lei chi sarebbe, mia splendida dama? Qual è il suo ruolo, qui?» si china lui prendendole la mano.
«Clelia Ceccarelli» risponde, mimando una riverenza «sono qui per trarre piacere nell’assistere a uomini seminudi che si affettano e, in subordine, tentare controvoglia di rattopparli»
A Poldin si scioglie la faccia: «Non c’è nulla da scherzare, dottoressa»
«Io sono serissima, visconte» sorride lei, facendo un passo indietro.

«Io sono il visconte Atzori, dei draghi gialli» fa Atza «I miei paggi, il signor Dariolani e il signor Bisoffi, il mio secondo, il signor Nebo…»

Faccio un cenno con la testa all’altro secondo. Quello fa un sogghigno ironico e si gira dall’altra parte. Non so come mi abbia preso le misure, ma ha capito benissimo che ho capito benissimo che sono fottuto.

«La dottoressa Ceccarelli l’avete già conosciuta e il testimone, il signor…» si blocca, incerto.
«Andreani. Cioè, Valentino» dice l’uomo, tendendo la mano «non ho parole per ringraziarvi di tutto questo, ragazzi. Conta tantissimo, veramente»

Il vecchio paggio e Luca tirano fuori le spade, parlottano tra loro, le soppesano, le consegnano ad Atza e a Poldin. Entrambi iniziano a rotearle per i fatti loro, distanti. Ario va in macchina, tira fuori due calici di ferro e una bottiglietta di Ferrarelle.

«Prima di iniziare, il rituale di purificazione celtico deve avere luogo» sancisce, appoggiando i bicchieri sul prato e aprendo la bottiglietta di Ferrarelle «i due sfighi devono bere e giurare onestà al Dio… Dio Thor»
«No, un momento» fa il pranoterapeuta «gradirei prima sentire il contenuto della bottiglia»
«Prego, prego» dice Ario, versando nel bicchiere. L’uomo beve, se la rigira in bocca, ci pensa, deglutisce annuendo e restituisce il bicchiere ad Ario: «È acqua» sentenzia.

I due duellanti si avvicinano. Prendono i calici, si guardano bene dal brindare, bevono e buttano a terra i bicchieri vuoti.

«Possiamo iniziare?» fa il visconte Poldin.
«Non ancora» scuote la testa il suo padrino «c’è troppa poca luce. L’alba sorgerà tra pochi minuti. Pazientate»

I due gruppi si separano alla spicciolata. Poldin si chiude in macchina, Atza si mette vicino a dei cipressi con Valentino, Luca e Ario. Clelia mi raggiunge sorridente.

«Tu hai fatto testamento? Sei donatore?»
La ignoro.
«Dico perché potresti fare il bel gesto, in facoltà abbiamo quasi solo vecchi flosci» dice, tastandomi il braccio «senti qua. Tanto lavoro e rinunce è peccato buttarli, no?»
Silenzio.
«Voglio dire, il cervello va nei rifiuti subito, ma tutta la muscolatura e il sistema ner
«MA CHE SBORO» sbotto, tirando via il braccio «hai finito, psicopatica?»
«Nah, questi sono i preliminari. Inizio quando te starai lì disteso a gorgogliare sangue. Hmm… ci pensi?» mugola fingendo eccitamento sessuale.
Se ne va ridendo.

 

I am the busIo guido il bus in un cortometraggio su Clelia e la sua famiglia.

 

Come siamo giunti qui? Forse il punto è il Verdi. Una locanda al limitare di un ponte che collega adolescenza e maturità. Alcuni si fermano a prendere fiato per poi proseguire, noi invece siamo rimasti lì dicendo che ci saremmo andati domani e a furia di ripeterlo abbiamo visto gli ultimi della nostra generazione partire e quelli della nuova arrivare. Sempre seduti lì. Sempre meno felici, sempre più incattiviti e imbarazzati verso il mondo esterno. Volevamo essere giovani per sempre, e ora passiamo domeniche mattine ad assistere a duelli medioevali.

Qualcosa non ha funzionato.

Spunta il sole. Due padrini per parte coi secondi, duellanti al centro, Valentino distante che vigila, Clelia con la borsa in mano appoggiata al muro di fianco al medico. Senza nessun segnale, allargano le gambe e mettono la mano sinistra dietro la schiena, le sciabole che si toccano. La luce, il posto, la fotografia, sono di una bellezza senza tempo e di un ridicolo mai eguagliato.

Partiti.

Poldin scosta con violenza la sciabola di Atza e dall’alto cala due-tre fendenti che Atza para, indietreggiando con posa da manichino Standa. Affondo basso del visconte altezza palle, Atza scatta all’indietro proteggendo con metallico furore il suo secondo cervello. Poldin svela così alla platea la sua aggressiva maschia vitalità, ma manovrona barbatrucco stuprabomba di Atza che dal basso ruota la sciabola verso l’esterno accompagnando l’arma del visconte fino in cima, le lame fanno SWIIIIN, ora balza in avanti con un affondo brutal death norwegian dickwood. Poldin para, indietreggiando patetiplastico. Atza punta quella faccia di cazzo ma egli seguita a parare con atletico charme, c’è disprezzo, c’è disgrazia, c’è ‘a tarantella, colpo su colpo, ora affondi pallocentrici che Poldin para, ripara, tenta il magic shot di Atza e si saltano uno addosso all’altro, fianco a fianco, non si capisce che cazzo s’ammischiano, scappano via. Pausa. Secondo assalto di Poldin, aggressivo, prepotente, masculo, fendenti protonici diretti verso lo sputafigli di Atza con chiari scopi mutilatori. Solita rotazione di Atza ‘sto giro con TRAPPOLONE ignobile! Atza gli si getta contro tenendo la propria sciabola all’altezza del petto interrompendo la rotazione, il visconte nulla può contro questo sprezzante atto di fallocratico maschilismo segno di società patriarcale retrograda scopa-in-cucina e vi impatta. Gemito. Poldin indietreggia con una smorfia di dolore, la sciabola cade, si tiene il petto, crolla in ginocchio, sangue a fiumi, Atza alza le braccia al cielo come a impugnare i testicoli di Dio e lancia un urlo di trionfo annacquando all’istante ogni mutandina Tezenis nel raggio di molte miglia.

Durata totale, venti secondi se va bene.
Siamo paralizzati.

«FINISCILO!» urla Clelia «FICCAGLIELA NELLA PANCIA E STRAPPA, SVENTRALO!»
Ci giriamo tutti verso di lei.

Per un attimo resta lì, poi scuote la testa, prende lo zaino e cammina depressa fino al visconte. Si china, scosta la camicia, osserva tutto attorno.

«Visconte Poldin, lei ha perso» dice «se il disonore è troppo grande può togliersi la vita. Regalerebbe uno splendido aneddoto e anni di fantasie erotiche al genere femminile, oltre che dare un fulgido esempio di nobiltà. Desidera farlo?»

Poldin scuote deciso la testa, sudato fradicio.

«Uffa, dove sono gli uomini di una volta?» scuote la testa Clelia, armeggiando nello zaino e tirando fuori due guanti e un flacone con su scritto Betadine.
«Si saranno estinti in ‘sta maniera, suppongo» commenta Luca, osservando da sopra.
«Un orgasmo vale una vita umana»

«Sto male» ansima il visconte.
«Non è niente di grave, coso, ma ci andranno dei punti» fa Clelia, prendendo delle garze e imbevendole di disinfettante, poi versandoglielo sul petto.
«Non… mi fa male lì»
All’improvviso lei si fa seria, cambia tono di voce, allarga le mani per allontanarci: «Come no? Dove?»
«La pancia» geme lui «mi fa male la pancODDIO» urla, poi con un ruggito mostruoso si caga addosso. Atza, dietro, scappa dietro gli alberi che prima ammirava.

«Tranquilli raga, tutto previsto» dice Ario «gli ho messo tutta la boccetta di Guttalax nell’acqua, l’idea era fare una sfida su chi si cagava addosso prima»

 

1001273_2144325655622674_415924540_nIl romanticismo.

 

«COOOOSA?!» urla il padrino «AVETE AVVELENATO I CONCORRENTI?!»

«Chiaro, lasciavo uno dei miei amici ammazzarsi? L’idea m’è venuta a casa di Simba. Il duello comunque è valido»
Dal culo del visconte deflagra una possente scarica di diarrea. Clelia nemmeno se ne cura, presa com’è a pulire la ferita.

«Tenetelo fermo» dice.
Valentino, con un’espressione d’incredulo disgusto, si china e blocca le braccia del visconte. Altra scarica.

«Assolutamente no! Questa è un’irregolarità gravissima, il duello va rifatto!»
«E come? Il tuo capoccia s’è cagato addosso, Atza pure, c’è merda dappertutto… oh, a proposito, il medico magico dov’è?»
«L’ho visto andare tra i cespugli» fa Valentino, indicando con la testa.
«Combatteranno i secondi! Signor Tranquilli…»
La mia schiena diventa una scultura di ghiaccio.

Lo sfigoboy è a un metro da me. Afferro da terra la sciabola del visconte, poi scatto indietro. I paggi son gente onorevole, cavalleresca e che sa usare le spade, ma io sono di Mestre periferia. Quando capiscono il mio intento è troppo tardi. Sono già planato in scivolata sulla sciabola di Atza, ho preso anche quella e le tengo ben salde in mano. Tranquilli m’è corso dietro e si ferma.

«Hahaha stronzo, a frocio, e adesso?» dico.
«Dammela»
«Vieni a prenderle, gna ha haha»
«E’ una cosa seria»
«AAAARRRH» urla il visconte.
Altra merda.

 

 

 

Epilogo

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Leonora, Giulia e Francesca sono protese sul tavolo a bocca aperta.

«E quindi?» fa Francesca.
«Basta. Ognuno per la sua strada, la lesbopsicopatica è tornata alla sua tesi a Trieste, il visconte ha fatto sapere che non frequenterà più i draghi gialli in quanto disonorevoli, fine» dico, bevendo.
«Ma come fine, e ‘sta Sabrina? Atza?»
«Non so» dico «non li sento da quella sera. A proposito, ma il testimone?»
«Ah, quello, storia pazzesca» gongola Ario «in pratica quando l’ho mollato a casa s’è messo a frignare di nuovo ringraziandomi tantissimo, scambio di numeri di telefono, abbracci. Gli ho chiesto ‘cazzo aveva e lui mi ha raccontato tutto»

«Non so se sono pronto» geme Luca «sembrava una brava persona»

«Sì, sì, ma in pratica lui è un imprenditore o roba simile, no? C’ha il miglior amico pezzente che tipo tre anni fa gli chiede un prestito, somme grosse. Lui cala. Poi l’azienda va in crisi ma galleggia, senonché a ‘sto Valentino nasce la seconda figlia con una malattia imputtanata, cure costose a sbrega. Gli serve cash, lo chiede indietro all’amico ma quello dice di non averlo, poi su Facebook lo sgama che va in vacanza a Kiev a giuocare a chiava la slava. E mi ha spiegato che voleva ucciderlo a coltellate, l’amico sta proprio in via Torino»
Ho la faccia coperta dalle mani.

«Però s’è cacato sotto, è stato lì a pensarci e sono arrivato io, gli ho detto del duello e s’è pensato “ghe sboro, tanto in galera ci vado comunque”. Oh, aveva pure il coltello dietro, eh? Quando ci ha visti fare tutte ‘ste stronzate ha capito che non sarebbe mai stato capace di fare una roba del genere e ha deciso che invece di ammazzarlo proverà a denunciarlo. Mi ha promesso che una di ‘ste sere ci beviamo qualcosa insieme»

Atza è una settimana che non si fa vivo, non risponde al telefono e al comune s’è dato malato. Per vie traverse abbiamo saputo che Sabrina l’ha calata.

Fine

 

Al primo sangue (2/3)

birra

Per far sì che questo massacro da crisi di mezz’età possa svolgersi secondo regole probabilmente vive solo nella sua testa, Atza e il visconte Pompin hanno bisogno di due padrini a testa, un secondo, un testimone e un medico

«…ma a quello ha già detto che ci pensa il visconte Poldin» spiega Atza.
«Ah, ora sono più tranquillo» dico.

I padrini dei ritardati mentali devono accordarsi sul luogo, le modalità, scegliere l’arma e conservarla con cura fino al momento del duello. Il secondo, invece, è una specie di sostituto. Normalmente non fa nulla, ma ci dev’essere in caso il duellante non sia in grado di combattere o di proseguire.

«Ok, io e Luca padrini, Nebo perfetto come secondo, è fisicato» dice Ario.
«COOOOOSA?!» sbotto «Manco so tenere una spada in mano, imbecille, che me ne faccio del fisico!?»
«Questa dovrebbero scriverla sotto tutte le palestre del mondo» sospira Luca.

Le mie pavide proteste non attecchiscono. Mi getto in una razionale spiegazione sul perché tutto questo è delirante. Al tavolo vengono tirati in ballo i più sacri valori di amicizia, fratellanza, debiti, droga. Quando Atza spiega che il secondo è pro forma e che io servo solo per far bella presenza, cedo. Il testimone sarà una persona di assoluta fiducia di Ario.

Questo tranquillizza tutti.

«Noi possiamo venire?» fa Lucia con una strana luce negli occhi.
«Escluso, non sono cose da fiche» scuote la testa Atza «e p
«NOI VENIAMO QUANT’È VERO IL CRISTO» ulula Francesca, pallida.
«Ohè, cos’è ‘sto tono? Agorafobia da esterno cucina?» tuona Ario, infastidito.
«Tu… voi… non avete idea di cosa sia tutto questo per una donna» ansima Francesca «io spero ‘sta Sabrina sia un pezzo di fica imperiale taglia 34 scartata da Victoria’s secret perché troppo bella»

«Ecco, benissimo» dico, massaggiandomi le tempie.

«Quante oggi possono dire che due uomini hanno combattuto per lei a spadate!?» ringhia Francesca «È tipo la cosa più arrapante dell’universo! Pensa se uno crepa, questa potrà raccontare per tutta la vita c-che… oh, Dio, basta, o mi si sono rotte le acque o non devo pensarci»
«E se quello che vince è un cesso? Non esiste» obietta Leonora.
«Chissene, sei pazza? Se non gliela dai dopo un duello non meriti di essere donna. Poi magari amici come prima, ma dargliela è un dovere morale»
«Se m’hai ferito o ammazzato il moroso e pensi sia una buona idea calarti i pantaloni in assenza di testimoni sei un povero coglione» sibila la mia soave educanda «ti ficco il braccio così dentro al buco del culo che diventi Dodò e l’albero azzurro»

«MA VI RENDETE CONTO!?» grida Francesca «un duello con le spade nell’epoca di nerd sfigati mammina papino playstation e frullati proteici?! È roba da tempi in cui la gente si guardava bene dal far commenti per strada, pesava ogni parola, aveva rispetto di tutti! La cavalleria, il darsi del lei, i vestiti curati, le feste…»
«…e voi che non potevate votare. Sì, bei tempi. Ora levate il vino alla zitella irrancidita e passiamo alle cose pratiche» dice Luca.
Ha ragione.

 

 

Leonora e io118920d1250602171-funny-strange-random-pics-untitled2

La mia mattinata passa con io che telefono a tutti i laureandi o specializzandi in medicina per riuscire a trovare qualcuno disposto a seguirmi. Sarei tentato di contattare ex colleghi di mio padre, ma data la duplice carriera del mio vecchio non posso rischiare di contattare un radiologo che risponde “qui tenente colonnello Santini” e io che gli spiego di dover partecipare a un duello medioevale. Preferisco la gente pensi che mio padre ha lasciato dietro di sé un figlio sano di mente. Già è un sollievo che non debba assistere a licenziamenti, denunzie e youtuber. Leonora raccatta Clelia, “laureanda a Trieste superbravissima guarda tiggiuro” con fatalità specializzazione in ginecologia “ma non è come pensi tu”. Significa che al 90% hanno giocato al dottore sfatte di rum. La dottoressa in pectore arriva in stazione nel primo pomeriggio. Scende dall’interregionale alta un metro e sessantacinque, minuta, mora, occhi nocciola, capelli lunghi e tette discrete.

«Non è come penso io, eh?» ringhio.
Leonora la saluta sorridendo da distante, parlando a denti stretti: «Non abbiamo fatto quasi niente, poi è la cosa più simile a un medico che abbiamo per quei ritardati dei tuoi amici, silenzio»
«Spiega “quasi niente”»
«Festa erasmus al Mandracchio, ubriache, casa mia, vaffancuTESORO!» esclama la mia fedele consorte, correndole incontro. Si abbracciano. Clelia si stacca e mi squadra.

«’sto pelato è il tuo dildo?»
Una vita normale, il mio regno per una vita normale, penso.

 

 

Ario e Luca74307_64BJGZV6GC5WZO6YLUBYRZUFDY8PBR_dscf1688_H133641_L
Il campanello di casa ronza alle sei e mezza di mattina. Luca abbandona a fatica il calore corporeo di sua moglie. Scivola nella vestaglia da camera di pile, preda da me conquistata al mercatino, rietichettata “Armani” e regalatagli per nuova al suo compleanno. Apre la porta, trova Ario col vestito del matrimonio. Si guardano per qualche istante. Luca torna dentro e Ario lo segue.

«Vuoi un caffè?» sbadiglia Luca.
«Cappuccino, poca schiuma» fa Ario, stravaccandosi sul divano «con lo Zymil, o non garantirò l’agibilità del cesso. Poi torta, biscotti, quello che hai»
«Non ho manco lo Zymil»
«Meglio, mi sturo. Poca schiuma o l’effetto moltiplica in proporzione, tiro scorreggie che lancio le ciabatte»
La moka va.

«Nel frattempo spiegami perché ti sei messo il vestito del matrimonio» fa Luca, grattandosi la barba «e perché dobbiamo fare ‘sta sceneggiata a casa mia»
«Vuoi che riceviamo i padrini in tuta dell’Asics nel mio appartamento a Marghera, magari con mia moglie che russa? Non farmi il provinciale. Anzi, vestiti, qui faccio io. Mi raccomando, completo»
«È domenica, bestia. Domenica il completo lo mettono solo i contadini»
«Fai come ti dico o sveglio tua moglie con una sborrata in fronte chiamandola Simba»

Luca, padrone a casa sua, non cede e indossa pantalone, camicia, cravatta e maglioncino fighetto mentre Ario sorbisce il caffè macchiato. Lo abbandona per andare in bagno. Luca fa il primo sorso di caffè quando alle sue spalle esplode un urlo femminile e una porta che sbatte.

«Amore, che succede?» fa Luca.
«SUCCEDE CHE C’È ARIO VESTITO DA SPOSO SEDUTO SUL CESSO DI CASA NOSTRA CHE PIPPA COCAINA SU FAMIGLIA CRISTIANA ALLE CINQUE DI MATTINA, LUCA, ECCO COSA SUCCEDE»
«Cos…?» sbianca Luca «cosa fa?!»
«E basta urlare, porca madonna, non mi viene se gridate!» bercia Ario dal bagno.
«HA BESTEMMIATO!» grida la moglie.
«Ma por… Ario, mia moglie è cattolica!»
«Lesbica?» tenta Ario.
«CATTOLICA, NO LESBICA!»
«E cosa me ne frega? Sto facendo un pippotto, mica una messa negra»
«Amore… tesoro, scusalo …» flauta Luca alla porta sbarrata della camera da letto.
«COSA CI FA QUELL’ANIMALE IN CASA NOSTRA?!»
«E-eh… ti avrei spiegato, ma…»
Il campanello suona.

«ODDIO LA POLIZIA» grida la moglie di Luca.
«CAZZO I VISCONTI» sbotta Ario, spalancando la porta con le braghe abbassate, il naso sporco di bianco, una nube di tanfo mefistofelico e un wc glassato di merda da cui spunta la pagina “i nostri bambini e il catechismo”: «PULISCO DOPO, VIA, VIA, APRI AI VISCONTI»

«Luca, dimmi subito chi è alla porta o telefono a mia madre!» urla la moglie.
«N-non è la polizia»
«Chi è?» fa Ario al campanello, sempre in mutande.
«Siamo i paggi del Visconte» rispondono.

«SONO I GAGGI DEL VISCONTE BUCCHINO» strilla Ario «DI A SIMBA DI TACERE E CORRI QUA, RAPIDO!»
«Simb… tesoro, ascolta, non arrabbiarti» fa Luca, appoggiato alla porta «adesso resta lì, poi ti spiego»
«Devo andare in bagno, è libero?» domanda lei.
«LUCA DIOCANE COME SI APRE IL PORTONE?»
«HA BESTEMMIATO ANCORA!»
«I-il bagno…» suda Luca, osservando l’orrore davanti a sé «il bagno…»
«MADONNA PUTTANA DEI SETTE PUGNALI, LUCA, COME SI APRE IL PORTONE?»
«AAAH!»

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Luca.

 

Uno è sulla sessantina, capelli grigi, aria poco sveglia, mediamente elegante. L’altro è sulla ventina e potrebbe essere il nipote. Capelli con la riga in parte, maglione girocollo con camicia bianca, brufoli. Ha sottomano un pacco lungo avvolto in una stoffa verde militare. In casa l’odore è nauseante.

«Scusate, ho qualche problema con le tubature» fa Luca.
Ario tira su col naso.

Si accomodano in salotto. Rifiutano il caffè, gradiscono un bicchiere d’acqua. Dopo convenevoli minimi il pacco viene aperto e vengono mostrate due sciabole. La lunghezza è di circa un metro, lucide, con quella roba che ti ripara la mano. Somigliano vagamente a quelle dei pirati.

«Valutate e scegliete» dice il padrino giovane «è un vostro diritto. Come sapete, dovrete averne massima cura fino a domattina, o quando decideremo il duello avrà luogo. Poi le ispezioneremo insieme in presenza dei visconti»

Ario ne prende una. Tocca la lama.
«Che sboro, taglia» dice.
«Sono state fatte affilare dal Sabbadin, il miglior arrotino di Venezia, che serve la famiglia Poldin da molte generazioni. Le ricordo, tuttavia, che la lama va toccata il meno possibile affinché non si ossidi. Sono sciabole costruite con tutti i dettami d’epoca»
«Uhm… questa?» fa Ario, porgendola a Luca.

Luca è sudato. Forse tutto non era sembrato vero fino a quel momento. Forse sembrava solo un bello scherzo, o una farsa patetica di un trentenne in crisi d’identità. È incredibile come la sola presenza di un’arma sia in grado di cambiare l’intera percezione di una situazione. Forse in noi è radicato qualcosa a livello inconscio che suona pericolo ogni volta che vediamo lame oltre una certa dimensione, pur non avendone mai visto gli effetti nella realtà. Forse è solo abitudine a vedere strade di cemento, giacche di ecopelle, bicchieri di plastica e pensieri in cristalli liquidi, ma c’è qualcosa di poderoso nei materiali grezzi. Terra, cuoio, pietra, ferro, legno, hanno un alone di crudeltà e bellezza che non siamo più abituati a vedere. Atza è davvero disposto ad affrontare un uomo adulto che tenta d’infilargli quello spiedo in pancia? È davvero tanto coglione?

«Direi che va bene» mormora.
«Ottimo. Dunque, secondo tradizione, il duello deve svolgersi all’alba, naturalmente in un luogo isolato e distante da sguardi indiscreti» fa il vecchio.
«Zero pare, sono il Re della zona industriale» gongola Ario «vi porto dietro la Italchem, abbandonata da anni, il cortile puzza che è una cacatoio ma di lì non passa neanche la polizia, all’alba i travoperuviani hanno sgombrato, tutto nostro»
I due paggi ridacchiano.

«Che c’è?» fa Ario.
«Bè, sebbene l’opzione da lei proposta sia valida, a livello di estetica converrebbe più un paesaggio… naturale. Esteticamente gradevole e rilassante»
«Perché?» domanda Ario.
«Bè, perché…» sorride l’anziano, guardando il più giovane.

«Perché se va male è un bel posto per morire» sussurra Luca, sedendosi.
«…ecco» allarga le mani, compito, il vecchio.
Silenzio.

 

 

«MADONNA SANTA, MA… CHE SCHIFO È?!» urla la voce della moglie di Luca «MA S’È PULITO IL CULO CON FAMIGLIA CRISTIANA?! LUCA, È ANCORA… QUESTA È DROGA?! LUCA, QUESTA È DROGA!»

Al tavolo nessuno muove un muscolo.

«Tranqui raga, è borotalco» sdrammatizza Ario, sistemandosi il naso «quindi parco della Bissola?»
«Noi pensavamo più a XXXXXXXXXXXXXX, dietro la villa. All’alba non c’è nessuno e l’atmosfera è perfetta. In alternativa c’è il giardino del visconte Poldin, ma non sarebbe corretto dal punto di vista psicologico»
«Dietro la villa va benissimo» fa Luca, guardandosi alle spalle e temendo l’apparizione della moglie.
«Allora siamo d’accordo» dicono i paggi, alzandosi.
«Una cosa» fa Ario «Atza è uno che, insomma, metal, quelle menate lì, vuole farla alla celtica»
«Alla celtica?» domanda il vecchio.
«Alla celtica?» domanda Luca.
«Sì, niente di diverso, solo che prima in segno di rispetto guerriero e tutte quelle merdate i due sfighi bevono da dei calici vecchi tipo ferraglia goth, credo sia per venerare il loro Dio del metal zombie»
«Alcolici?» sgrana gli occhi il vecchio.
«No, macchè, acqua, porto la bottiglietta di Ferrarelle»
«Ah, allora non c’è problema. Ci vedremo domattina al sorgere del sole a XXXXXXXXXXXXXXXX, dunque»
«Sette e mezza» taglia corto il ragazzo «noi portiamo il medico, il dottor Fortunelli. Voi?»
«Stiamo provvedendo»
«Avete il secondo?»
«Certo, è un uomo di grande esperienza»
«Molto bene. Riguardo al testimone…?»
«Ce l’ho io»
«D’accordo, allora. Arrivederci»
Escono, compìti come sono entrati.

Nel salotto il silenzio pesa. Luca si siede sul divano e si accende una sigaretta. Ario giocherella con la sciabola sul tavolo.

«Forti, i gaggi» dice.
«Ario» espira Luca «questi fanno sul serio»
«Hai visto il rolex? Vero, eh, no patacche»
«Ario!» latra Luca.
Lui molla la spada e lo fissa.

«Questi. Fanno. Sul serio»
Sulle labbra di Ario si dipinge un sogghigno.

(continua e finisce lunedì mattina)

Al primo sangue (1/3)

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Io, la Leo, Lucia, Luca e Ario stiamo bevendo al solito tavolo vicino alla macchina da scrivere, ognuno chinato sul proprio cellulare. Francesca entra al Verdi trattenendo il fiato, attraversa il locale pieno di gente con i risvolti delle braghe stile sagra dei caparozzolari, ignora lo sfigobuffet

Altro-VerdiLo sfigobuffet

 

e si stravacca sulla sedia, espirando. Saluti sparsi. Le ragazze si complimentano per il nuovo taglio di capelli che solo loro notano perché hanno la vagina.

«Gesù, questo posto è davvero deprimente» sentenzia Francesca «perché dobbiamo continuare a venire in questa topaia?»
«Sottoscrivo» fa Luca.
«Ci veniamo da sempre, non è in discussione» dico.
«E poi gli spritz sono a 2,50» annuisce Ario.
«Quando mai hai pagato qualcosa da bere?» chiede Luca.
«Non mi ricordo, ero giovane. Minchia guarda questa» dice, allungando il cellulare «quinta naturale, Katrina, per poco tempo a Mestre»
«Figa» fa la Leo, sporgendosi.

«MA GUARDATE SITI DI ESCORT?!» sbotta Francesca.
«Perché, tu quando ficcanasi i profili Facebook cosa fai?» chiede Ario.
«Io… tu… Siete tutti così… CAZZO!» batte la mano sul tavolo Francesca «che sfigata sono!»
Ario mette via il cellulare: «Prego?»
«Niente, lasciatemi perdere» fa lei, alzando la mano verso la cameriera «quando ho chiesto a Dio una vita senza pene deve avermi fraintesa»
Tre spritz bianchi, due mojito.

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Stiamo per fingere d’interessarci alle paturnie sentimentali di Francesca quando la porta si apre. Anfibio con suola tenuta da nastro isolante, jeans blu marina aderentissimi ridotti a straccio da cucina, felpa con cappuccio verde dell’Heineken da cui spunta tshirt nera dei Pantera, chiodo di pelle borchiato, rado capello lungo causa calvizie con brillante scriminatura anteriore alla Vegeta. Spalle spioventi, volto cinereo spezzato da cupe occhiaie nerastre.

«Ma che cazzo, a quelli dell’ospedale avevo detto di chiudere bene le celle frigorifere» mormora Luca al tavolino, guardando Atza entrare.
«Dai, ha il suo stile» fa la Leo.
«Confonderesti un gulag per una sfilata di Gucci»
Il pallido figuro ci raggiunge con camminata mesta.

«Ho un problema» esordisce tenendo gli occhi bassi «giuro su Dio che piuttosto di dirvelo preferirei tagliarmi le vene, m
«Il coming out così, adesso?» fa Ario, sistemandosi sulla sedia «vai, siamo pronti. Parti dall’inizio, fin da piccolo traevo gioia dall’infilarmi la testa dei Masters nel culo, poi…»
«…Da un paio d’anni frequento un gruppo di spada medioevale» dice Atza.
Luca si copre la faccia con le mani.

 

«Cioè… cioè ti fai le spade?» chiede Ario, confuso.
«No, coglione, non mi faccio le spade. Faccio spada medioevale a Preganziol. Campo, tende, vestiti e armature tipiche d’epoca. Siamo i Draghi gialli»
«I draghi gialli…» piange Luca, sempre con la faccia tra le mani «trentacinque anni, i draghi gialliiiiih…»
Francesca lo guarda come un aracnofobico guarda Shelob.

«Fa parte di un mio percorso personale, va bene?!»
«Atza, i draghi gialli il percorso personale? Cazzo sei, Pistorius senza protesi?»
«Comunque tra noi ci sono… nobili. Veri» deglutisce «e ho scoperto di esserlo anch’io»

 

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«In che senso» dico, preparandomi al peggio. Mi guardo attorno. C’è troppa gente perché quello che sta per succedere non generi problemi. Il nostro prode cavaliere suda, pallido, tamburellando il tavolo: «L’istituto araldico ha decretato che io discendo da dei visconti di Savon

È goal.

«AHAHAHHAH HAHA HAHAHAHAH AHAHAHA» ride Ario, isterico «ATZAHAHA HAHAHAHAHAH I VISCONTI DI SAVONAAHA HAHAHAH HAHAH»
«Mia madre ha fatto fare una ricerca seria, le è costata un botto, va bene?!»
«ODDIO QUANTO T’HAN GRATTATO PER DIRTI CHE DISCENDI DAI VISCONTI DI SAVONAAAAAAHAHAHAHA»
«Non è così strano, da noi c’è anche il visconte Poldin»
«OOHOHOHAHHAHAH ANCHE IL VISCONTE POLDIN, ELETTRAUTO D’ELITE PER VACCARI DI UN CERTO LIVELLOHOAHAH HAHAHA MA CRISTOOOOOO»

Lacrime di gioia e sollievo rigano il volto di tutti. Questo ci permetterà di deriderlo per anni, forse per sempre, risparmiandoci la fatica di trovare nuovi motivi per farlo. Persino le ragazze, normalmente tolleranti, gorgogliano prosecco battendosi le chiappe. Il visconte Atza di professione impiegato al comune tace, immobile, mentre attorno a lui si scatena il panico funkadelico. Ne va ammirato il contegno della tigre mentre Leonora si abbraccia a Francesca ululando “te l’avevo detto che a furia di frequentare pezzenti un nobile ci avrebbe trovate”, Ario che s’infila le mani nei pantaloni dichiarando che lì dentro risiede un principe, io che singhiozzo sangue, l’intera clientela girata a fissarci.

«Adesso» prosegue approfittando di una boccata d’aria «al campo è arrivata una donna»
«Cos’è, la psichiatra?» fa Leonora.
Qualcuno nel bar cade dalla sedia.

«Si chiama Sabrina, a me piace e piace anche al visconte Poldin»
«Minchia un dilemma amletico, a chi la calo? All’impiegato pazzo o all’elettrauto pederasta?» fa Francesca.
«AHAHAHAHAHAH HAHAHAHAHAH HAHAHA ATZAAAAHAHAHHAHAHAH VOGLIO SAPERE LA CIFRA ESATTAHAHAHAH HAHAH QUANTO IN BASSO PUO’ SCENDERE UN UOMO PER RINNEGARE LA SUA VOCAZIONE DI SFIGATOHOHOHO, DIMMELOOOOH»

«Sabrina sarà di sangue blu, immagino» fa Luca «con tutte le sborrate al viagra che si sarà trincata…»
«VOLETE STARE ZITTI?!» grida Atza, battendo la mano sul tavolo.

Piomba il silenzio.

«Oggi pomeriggio ho accettato la sfida di battermi col visconte Poldin per decidere chi potrà corteggiare Sabrina. Mi servono due padrini, un secondo e un testimone. Voi siete gli unici amici che ho. Non sto scherzando, è serissima ‘sta cosa. Le armi che usiamo sono vere»

Gli occhi lucidi e spiritati, il tono di voce stentoreo, la manata decisa: Atza non sta traducendo un testo di qualche gruppo finlandese, non è pieno di funghi allucinogeni. È solo giunto all’apice della sua crisi dei trent’anni. Certo, con noi era sempre lo stesso, ma dentro di lui qualcosa macerava e cresceva, un oscuro male che molti chiamano crescere. Per sconfiggerlo ha scelto di sprofondare ulteriormente nell’abisso di sfiga gusto formaggia di cazzo, ma non è servito. Dopo due anni siamo al climax. Il prode cavaliere parastatale affronterà un altro rincoglionito suo pari, ma tutti sappiamo che la battaglia è tra lui e il demone della maturità. Atza ne è consapevole, e con sommo sprezzo della perculazione ha chiesto che noi, suoi amici, gli fossimo vicini nel momento supremo.

«In che senso?» domanda Luca.
«Sciabole vere, affilate e con la punta»
«Stai per accoltellarti con un sociopatico? È questo che stai dicendo?» chiedo.
«Non mi alzerò da questo tavolo senza sapere la somma che gli hanno scippato per scrivere “sì, famiglia De Straccionis, contate qualcosa anche voi”» fa Ario, alzando la mano «vi avviso, sono determinatissimo»
«Non è un duello all’ultimo sangue, il primo che viene ferito perde» lo ignora Atza.
«Se la prima ferita coincide con l’amputazione della tua testa di cazzo siamo punto a capo, sai?»
«Di solito non succede»

Mentre la discussione procede e noi chiediamo dettagli la tensione lascia spazio a un senso di pace. Il duello è un reato, per non parlare di lesioni aggravate, aggressione a mano armata e/o eventuale omicidio preterintenzionale. Il conteggio degli anni di galera è talmente alto da inebriarmi, stampandomi un sorriso imbecille sul volto mentre sommo tutte le denunce civili e penali che ho già addosso e immagino il mio avvocato in Polinesia. Raccontare quanto segue è un’idea del cazzo, ma chi se ne frega? E’ tutto così irrealmente umiliante che nessuno ci crederà mai, men che meno gli svariati militari che leggono il mio blog.

O almeno così mi auguro.
(Continua domattina)

Non dobbiamo accontentarci di queste zoccole

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Alcuni di voi si sono chiesti che fine hanno fatto le tette nell’header, altri hanno chiesto se sto male, altri non hanno capito di cosa cazzo si parli perché mi leggono dal cellulare e non gliene cala nulla. Potrei rispondere a peti, ma siccome non sono una youtuber isterica che parla come i modem del 1990 provo a spiegarvi che succede.

Nel 2007 un blog con le zozze in header spiazzava, allontanava i seriosi, divertiva e infastidiva i passanti. Oggi anche l’ultimo degli sfigati inserisce porno nel proprio blog/tumblr/twitter/facebook per elemosinare click o, più spesso, per nascondere la mancanza di contenuti e idee. Le tette e i culi oggi fanno parte del paesaggio. Il Fatto quotidiano campa di racconti pedopornografici. Qualunque sito online nella colonna di destra ha un ammiccamento sessuale. Dagospia trasuda pornodive. Persino i cartacei, oggi, col culo di Kim Kardashian fanno copertine che una volta vedevi solo su riviste tipo Excelsior. Milioni di filmati su youtube hanno come fotogramma di presentazione la solita maggiorata che non c’entra una madonna; clicchi arrapatissimo e trovi un hipster che farnetica la sua opinione su qualcosa di cui non frega un cazzo a nessuno. Vecchie VIP tipo Alba Parietti organizzano capezzolate “per sbaglio” pur di restare nei gossip. I social sono pieni di sgallettate de gnente che postano culi e tette con filtri vintage atteggiandosi a donne trasgressive. Le femen. La “sensibilizzazione sul cancro al seno”. Trovare Miley con un reggiseno o in una posizione diversa dalla pecorina è difficilissimo. Agli MTV music awards pare la sfilata Brazzers. I videoclip son così pieni di culi che ormai riconosco le cantanti da quello e non dalla faccia.

Figo? Certo.
Però che palle.

I social sono diventati l’equivalente del porno amatoriale: tutti hanno due tette e uno smartphone, tutti lo usano e inondano la rete di obese in bianco e nero e panzette pelose. Perché scontornare porno, quando in Internet è difficile trovare donne vestite? Ho fatto un header con una tizia che faceva un pompino in discoteca tra oceani di droga e tutti hanno reagito facendo spallucce e una risata.

Il che è male.

Ho deciso che mentre i contenuti non cambieranno di una virgola, la grafica va rivoluzionata. Mi manca quell’hating istintivo di chi arrivava e sparava a zero basandosi sull’apparenza. L’ultima soddisfazione me l’ha data il direttore di Giornalettismo (OH NOES LE GIF PORNE SEI PERVERSO NN MI ABBASSO AL TUO LIV!!!), ma è un vecchio democristiano, non fa testo. Così mi sono chiesto cos’è che oggi nei siti non si trova manco a coltellate perché da’ fastidio a pelle. Cos’è veramente raro e trasgressivo, oggi?

 

La grande bellezza.
O per essere più precisi, il lusso.

Oggetti, paesaggi, case, barche, macchine, donne, vestiti. Il lusso sfacciato è fuori target – chi campa bene non cazzeggia in Internet, e men che meno legge il blog di uno spiantato – ed è fuori luogo. Fa pretenzioso, arrogante, evoca il berlusconismo. Tira fuori l’odio in un mondo dove siamo tutti con la divisa jeans, felpa, piumino, scarpe da ginnastica, filmatino amatoriale nello smartphone e morosa taglia 44. Quindi si cambia. Questo blog ha bisogno di insulti, hating, gente incazzata per le parodie, i NNTILEGGEROMAIPIU, “mi hai deluso”, moralisti e bacchettoni che appena vedranno l’header daranno fiato ai tromboni. Perciò fanculo ‘ste zoccole Brazzers, fanculo la birra calda in spiaggia pubblica, le code da rimbalzati in drogatoi di basso conio e le obese in perizoma. Se posso mettere Amy Anderssen, posso mettere Adriana Lima. Tanto resto sempre un protodisoccupato, che mi frega? E’ figo cambiare per restare sè stessi e, di buono, c’è che potrete leggere più facilmente i post in ufficio e linkarli alla vostra zietta.

 

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O più probabilmente, no.

Grillhouse

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«Sono quasi pronta» trilla lei.
E l’uomo è quasi su Marte, penso io.

Dopo lo stesso tempo impiegato a percorrere a passo del giaguaro la tratta Venezia-Mestre, la convivente finalmente si palesa. Ha iniziato a mascherare la sua miseria alle sei di pomeriggio preparandosi a uscire per l’aperitivo in un posto vagamente sciccoso, ora sono le nove e mezza ed entrambi abbiamo così fame che mangeremmo le carcasse dei gatti sul bordo dell’autostrada.

«Come sto?»

In un colpo d’occhio sgamo gli infami trucchi che parruccano cordoli, brufoli, occhiaie. Nella testa risuona malinconica la canzone degli Audio 3, quando dice “lo facciamo al buio come piace a noi”. Annuisco. La prossima riunione in ufficio mi attarderà molto sul Terraglio anche la prossima settimana.

«Benissimo» faccio «ora per l’amor di Dio mangiamo qualcosa»
«Ah, niente aperitivo?»
«Sono le nove e mezza, tesoro, i buffet sono ormai un lontano ricordo tipo il perché ti ho introdotta in questa casa. Pizzeria?»

La morte si dipinge sul viso della donna. Le cause sono chiare: essa non s’è cazzuolata la faccia per esibirsi tra famiglie e agricoltori cinquantenni. Non oso domandare “cosa c’è”, giacché se io sto male piovono vaffanculi e frasi tipo “non fare la lagna”, se lei accenna malumori devo trasformarmi in Sherlock Holmes featuring professor Xavier con DJ Lie to me.

«Ok, niente pizzeria» sospiro.
«Sushi?» s’illumina lei.

Sushi. Il cibo più del cazzo dell’universo. Una volta i ristoratori che osavano proporre pesce crudo venivano giustamente linciati dalla folla inferocita e stuprati dai NAS. Oggi paghiamo somme stratosferiche per ingurgitare gelatina gusto pescheria e sentirci cosmopoliti appartenenti alla middle class, se non fosse che abitiamo a Mestre. Il sushi è il Moncler della ristorazione: finto lusso per veri gonzi.

«Non credo nella multiculturalità» mento per salvaguardare il fondo puttan tour.
«Vabbè però manco la pezzenteria» geme lei «scusa, pizzeria. Manco la pizzeria»

Nel cervello si fa strada un’idea. Un locale nuovo appena aperto, definito “popolare e moderno” dalle mie colleghe, una mandria di zitelle che frequentano bettole innominabili che pompano Raffaella Carrà. Lupanari che non fingono nemmeno più di essere qualcosa di diverso dalla monta dei ventenni appassionati di archeologia. Il ristorante in questione è il Grillhouse, a due passi dalla tangenziale, dove se c’è un incidente mortale è possibile le carcasse delle automobili vi piombino sul tavolo perforando il tetto e uccidendovi.

«Un locale nuovo?» trilla lei con la luce negli occhi «ci sto!»

Fuori ci accoglie un ampio parcheggio e una mucca di plastica a grandezza naturale, davanti alla quale famiglie di elettori della Lega si fanno foto divertenti. Il trucco è ormai sgamato e il volto di lei è cupo. Anche stasera non potrà sperare d’incontrare un uomo migliore. La consolo dicendo che tutto sommato sembra carino, alla mano ma stiloso.

«Mi sarei rotta il cazzo di robe alla mano e dei segaioli che ci stan dentro» fa lei.
«Tesoro, t’ho raccattata alla gara di rutti di Badoere che latravi con le tue amichette in tacco 15 tra il letame, dai, per cortesia, entra e non rompere i coglioni»
«Almeno loro frequentano bei posti»
«…che sono l’equivalente del poligono della Guardia di finanza, amore mio, due volte l’anno entrano e li trasformano in sfollati con tre milioni di euro di debito e gli organi pignorati»
«Vabbè, però almeno…»
Entriamo.

L’ambiente è quello classico di chi non ha idee. Grosse stampe in bianco e nero sui muri, luci smarmellate, legno plastificato, acciaio e lampade stile Ikea per un mondo di miseria fantozziana 2.0. Oh, guarda, Audrey Hepburn. Toh, Marilyn Monroe. Che idea fantastica.

«Buonasera, tavolo per…?» si blocca la cameriera, fissandoci.
Cala il silenzio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

«AAAAAH» grida qualcuno in fondo alla sala.
Vi girate.
Tutti mangiano come niente fosse.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La cameriera è sempre lì con sguardo ottuso.

«…mangiare?» tento.
«…sedersi?» prova la mia vagina portatile.

«Ma no, tavolo per quanti» sbuffa la spiritosa lavoratrice, evidentemente troppo pigra per finire una frase e gli studi. Come me. Cazzo, mi piace ‘sto personale, ora che sono a corto di cash potrei farci un pensiero.

«Siamo in due» dico.
«Vedo se c’è posto» replica.

Di fianco ci sono una ventina di tavoli liberi. La scaltra cameriera segue il mio sguardo.

«Chiedo comunque al caposala» sentenzia. E’ dunque probabile che per orinare essa compili appositi moduli. Chissà. E’ da questo humus fertile che nascono le indignate dell’Internet. A cosa serva un caposala in un baraccone semivuoto popolato di fantasmi e corsi di recupero non mi è chiaro. Io e la fica assumiamo la posizione degli unici in piedi. Tutti ci osservano, noi cerchiamo di osservare qualsiasi altra cosa che in quel caso consiste in una splendida stampa già vista nei bar tipo Goppion 1882 e altri asettici porcili iKea dove tutto è montabile, pure la rispettiva consorte. Quarantenni che si frequentano solo perché vengono inculati a Black&Decker nello stesso ufficio si attavolano felici per parlare male di chi guadagna più di loro e dei gossip sugli assenti. Scollature di pizzo made in China mostrano mastoplastiche additive made in Slovenia. L’odore di carne sgelata e cotta in microonde si fonde a deodoranti in superofferta, profumi dozzinali e vestiti dell’OVS.

No, aspettate.
Sono io.

«Potete seguirmi» comunica la cameriera.
«UOOOOGH» grida qualcuno da qualche parte.
Boh.

Talloniamo la precaria facendoci largo di traverso tra i venticinque centimetri che separano i tavoli. La mia donna mette il culo sul piatto di un bambino con salopette e spilla M5S, io struscio il pene sulla faccia di un padre con l’aria del tronchettaro abusivo. Sorride. Sarà il trentesimo scroto che annusa da quando siamo entrati e la sfilata di Badedas noir, Borotalco, Saugella neutro e formaggia di cazzo l’ha annichilito fino alla lobotomia. Raggiungiamo la postazione. Sedie di plastica, tavolino 75x75cm con uno spazio di manovra disponibile pari a quello di un seggiolone. Appena seduti riceviamo gomitate degli avventori confinanti che quando tagliano una bistecca allargano le braccia uso cormorano tramortendo i vicini in un’orgia di “scusi”, “mi spiace”, “le ho fatto male?”, “le ricompro la birra”, “eh ma ghesboro”, “certa gente non si lava” e altre perle. Apro il menu. Un hamburger 10,90 euro.

Leggo meglio.
10,90 euro. Giuro.

«GNAAAAH» strilla una donna, scattando in piedi.
Si risiede nell’indifferenza.

La sanguinatrice mensile che mi siede di fronte emette strani squittii, segno che anche in quest’occasione ha scordato di prelevare al bancomat. Strano. Lei opta per arrosticini d’agnello a 12 euro e una birra media. Al tavolo di fianco un uomo addenta un McBacon pagato il triplo, gli resta in bocca il pane e il contenuto piove sulla schiena del tizio al tavolo di fronte, che se la scrolla di dosso con nonchalance. Decido per un filetto da 17 euro e un’altra birra. La cameriera annuisce, segna e riprende a sguazzare tra la gente.

«TANTI AUGURIIIIII!» dice il tavolo di fronte, facendo apparire una torta a forma di pene.
«…e lo avrei messo, l’anello al dito. Devi credermi, ma finché mia moglie non si decide a darmi il divorzio ho le mani legate. Ti prometto che presto…»
«AAAAAH!» grida un uomo, curvandosi su sé stesso.
La sala lo ignora.

«ello io voto Indipendenza veneta, perché quei cojoni de Veneto Stato xè come quei dea Lega, parla parla e poi i ruba come i teroni. Nialtri gavemo distribuio grappa e sopressa ai pensionati a gratise, questi xè fatti, no ciacole…»
«anno Giorgio me voleva portar a Cortina, ma ga dito che dopo ea retata no se fida perché el Cayenne xé targà o immatricolà in germania, robe che s…»

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Immerso nel paese reale tento di sostenere una conversazione atta a farmi ottenere un rapporto sessuale al buio. Il cameriere giunge con un carrello e consegna numero otto arrosticini otto, ossia 1,50 euro a pezzo. Il mio filetto è grande come il pugno di un bambino bosniaco, le patatine sono ancora mezze surgelate in porzioni che non sazierebbero un namibiano. Noto uno strano sfrigolìo provenire dai piatti che non sono piatti, bensì taglieri di legno con incastonata una piastra d’acciaio.

«Attenti ai piatti, sono bollenti. Buon appetito» fa il cameriere, poi si dilegua.
«Saranno sì e no 100 grammi di carne, come conti di trombarmi con solo quella roba in corpo?» domanda la mia soave principessa.

Vorrei ridurla al silenzio, ma ho altri problemi. La dimensione del tavolo uso gulag 1945 non consente il minimo spazio di manovra. La lastra di magma a 9000° gradi farenheit è a pochi millimetri dal mio torace tanto che mi sta liquefacendo i bottoni della camicia e tutto attorno volano gomitate. Un errore e volerò al reparto grandi ustionati di Padova. Assaggio un boccone che a spanna costerà 2,80. Non ha sapore. Aggiungo sale. Niente. Aggiungo sale sull’altro lato. Niente. Ho già consumato 5,90 euro di roba.

«Come sono gli arrosticini, stella?» chiedo.
«Chi è Stella, puttaniere?!» sbotta lei, girandomi la faccia con un ceffone.

Il conto è quello di una cena di pesce a Trieste, dove il posto più scarso serve roba d’eccellenza. Usciamo con la stessa fame di prima ma con strani gorgoglii all’altezza della cintura. Arrivati in macchina siamo preda di coliche intestinali mostruose. La corsa è folle, con curve in derapata e sudore che ottenebra la vista. Il bagno è uno solo e la vagina reclama il suo diritto di priorità. Accovacciato su una bacinella in salotto, mentre dall’altra parte della porta provengono piriti selvaggi alternati a gemiti gutturali, espello la cena.

«Ma comunque…» ansimo «…ma comunque scopiamo»
Dentro la sento piangere e ridere.