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Lucca comics & games 2014, dall’altra parte della rete

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Lucca comics non è molto diversa dal carnevale di Venezia nel ’98, quando m’imbottivo di sostanze psicotrope e finivo rannicchiato in un angolo urlando. In quelli successivi sapevo già come sarebbe finita, così mi vestivo con una camicia di forza e la gente invece di chiamare i Carabinieri si faceva le foto con me.

Nel 2013 sono lì per fare il reportage per GQ, trovarmi con RRobe e vedere quali scuse patetiche hanno inventato le donne per svestirsi. Cosplayer di ogni taglia ed età sfilano in una Babilonia di spadine di gomma, minigonne inguinali, ragazzi denutriti o ipernutriti, lingue, accenti e colori. E’ tutto bellissimo, se non fosse che devo lavorare. Il problema è che l’articolo uscirà su GQ online, dove se rimborsano le spese è grasso che cola. Zero budget significa che le foto dovrò farle io, primo classificato al concorso incapaci. Ho quindi reclutato un amico, tale Bicio, che in carcere ha fatto un corso di fotografia. In cambio gli ho promesso fica, birra e un viaggio gratis, col risultato che alle dieci di mattina al terzo autogrill è già ciucco.

«AAAHAHA HAHAHA HAHAHA NEBO MI FOTOGRAFO LE PALLE GUARDA AAHAH HAHAHA HAHA» grida in mezzo alla folla, inserendosi l’obiettivo della reflex dentro i jeans e premendo il tasto.
Flash. Flash. Flash.

«Bicio, fai il lavoro per cui sei metaforicamente pagato» dico.
«Con l’ingrandimento vedo le piattole girarmi tra i peli come macchine tra i palazzi» nota, incuriosito «pare una Chicago degli anni ’20»

Bicio è rimasto alterato dalla nostra gloriosa adolescenza metanfetaminica. Inoltre in carcere deve avere scannerizzato con il proprio ano decine di cazzi in 3D, poiché è stato restituito al mondo con sodomitiche convinzioni new age. Di giorno lavora in Autogrill, nel tempo libero dice mille volte “namioreganchiore” sniffando incenso e ascoltando musica dodecafonica. In breve, devo liberarmi di questo idiota.

«Vieni, mio fido mentecatto» dico, tirandolo per un braccio «è tempo di c

 

Mi interrompo.
E’ successo qualcosa nella mia vista periferica.

Sposto gli occhi. Nella testa risuona la versione dubstep di All is hell what ends well dei 2 steps from Hell. Appena metto a fuoco ogni suono scompare, ogni colore desatura. Gli occhi si spalancano, la percezione passa ai 48 fotogrammi per secondo e si aggrappano a lei, rallentando tutto in uno slow motion che parte col beat mentre la mia mascella crolla a terra. Tutti i peli si alzano in piedi all’istante.

Magra, esile, consumata dall’odio e dal disprezzo verso qualsiasi forma di vita. La camminata maestosa di chi non ha nessuno di più importante di lei ad aspettarla. Passi lenti e misurati; ogni colpo di tacco, il chiodo di una bara. Il volto sollevato a guardare dall’alto ogni cosa. Labbra sottili e anaffettive, capelli corvini nascosti dal cappello, neri e lucidi come la pelle di un’orca assassina. Gli occhi che nascondono l’orrore e la statura di chi distribuisce dolore e sofferenza per diletto e noia. E’ una puttana manipolatrice, bugiarda, traditrice, crudele, sadica e opportunista. E’ tutto ciò che c’è di malvagio, crudele, osceno, ingiusto e corrotto. E’ l’amante del boia, la figlia del mafioso, la moglie di nessuno.

Malefica.

 

Rivedo il suo castello nel temporale, il fuoco verde che illumina il centro del salone di pietra e lei, così perfetta e immensa, stagliata contro un cielo nero e tempestoso che promette il giorno del giudizio. Spazza la folla con sguardo di sufficienza. Si sofferma su di me per un istante e prosegue. Scompare. Sono di nuovo circondato da un esercito di rincoglioniti. Restiamo soli io, la mia erezione e la consapevolezza di aver trovato un senso. La missione della mia vita è svelata: devo salvare il mondo distruggendo quella donna a pecorina.

«…EBO AAHAHAAAAHAHA HAHAHA HAHA FOTOGRAFO LE CREPE SUL MARCIAPIEDE HAH HAHA HAHAH FACCIO ARTE»
«Taci, bestia» sussurro.

L’ebefrenico fa primi piani alle erbacce disteso per terra sussultando dalle risate, incurante dei rigurgiti di vomito. Posso lasciarlo qui. Se lo trovano smembrato in Zambia non potranno mai risalire a me. Risolto questo devo uccidere la banda di schioppati che scorta quella cosplayer: potrei prendere l’arco del cielo stellato e spaccarlo sulla nuca di Gandalf e all’altra tizia vestita da Alien Mouthraped. Secondo problema risolto. Poi: rimorchiare Malefica con tatto e delicatezza pregando sia di zone accettabilmente vicine, trucidare l’eventuale accompagnatore, convincerla ad appartarsi con me e picchiarle tanto di quel cazzo da storpiarla a vita. Il piano c’è.

Ora devo solo raggiungerla.

«MALEFICA!» urlo facendomi largo tra la folla «MALEFICAAA!»
«See, er principe Filippo» dice uno con le orecchie allungate.
«Legolas all’alba dei quarant’anni, cosa vedono i tuoi occhi da elfo?» gli chiedo.
Non mi aiuta.

La via principale è impraticabile, urge deviazione. Raccolgo il fotografo da terra.
«E’ richiesta la tua indiscussa utilità» dico, strappandogli la borsa e frugando tra il suo ciarpame. Trovo il mio cellulare. Consulto Google maps. Dritto per una ventina di metri, poi bivio. A sinistra bar, a destra boh. Nella vita come nel lavoro il tragitto giusto è sempre quello difficile, quindi scatto per fare il giro della parallela e trovarmela di fronte.

Sbarrata.

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Tiro una bestemmia in faccia a due preti che rispondono “e sempre sia lordato”. Mi guardo attorno. Le mura. Decollo in quella direzione, divoro i gradini tre a tre. In cima, altre bancarelle. Scatto in avanti. Picachu colpisce coi testicoli il mio ginocchio e si accascia muggendo. Tiro dritto. Centro con una gomitata Ezio di Assassin’s Creed che si sta facendo fotografare sul cornicione. Lui tira un “gnaah”, poi fa un salto della fede realistico quanto fallimentare schiantandosi pochi metri sotto su un venditore di zucchero filato, che s’incazza uso tasso letargico e attacca a ravanarlo di botte. Scalinate. Mi catapulto giù e sono di nuovo in strada, dall’altra parte della massa. Oltrepasso un grumo di ninja denutriti. Percorro la via parallela travolgendo cartocci di patatine, elfi, dinosauri, truppe paramilitari di obiettori di coscienza, Batman, venti joker, donne pagliaccio, Cristi con la croce, demoni manga e marinarette dello spazio con sguardo da estetiste.

Arrivo davanti al bar, niente. Penso più in fretta che posso. Ogni secondo che il mio pene passa fuori dall’intestino di quella cosplayer è una fitta di dolore. La mente è attraversata da flash di lei in ginocchio col trucco sbavato e le guance arrossate dai ceffoni. Sento il suono della testiera del letto che batte a tempo con le sue suppliche di fare più piano, io che l’attacco al muro e

…e un cazzo. Non la rivedrò mai più. Nel 2013 ho imparato che a Lucca comics c’è troppa gente per fare qualsiasi cosa, specialmente dietro la rete che separa giornalisti da autori.

Curiosamente quest’anno GQ non mi ha contattato per fare un reportage, così sono arrivato lì come autore. Questo repentino cambio mi ha permesso di fare figure di merda a ripetizione. Un lettore s’è presentato chiedendo una foto ed era troppo imbarazzato per dirmi che avevo capito male, così è stato fermo e buono mentre io lo fotografavo con sua morosa. Solo dopo, con tono incerto, ha detto “grazie, ma intendevo se te ne facevi tu una con me”. Alla cena della Limited ho spintonato un giappo che stava in mezzo dicendogli “ocio, Chinatown” e solo dopo Chris m’ha svelato che era tale Masacazzo Cazzimma, eminenza grigia di manga di donne nude.

 

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Poi c’è stata la presentazione di Nick Banana. 140 pagine in bianco e nero di storia che lega la prima saga alla seconda – ecco perché qui mi son fermato. Uscirà circa ad aprile 2015 e sarà una collaborazione tra me e Michele Monteleone alla sceneggiatura, Daniele Di Nicuolo ai disegni. Questa foto della conferenza riassume bene il nostro stato d’animo: io serena inconsapevolezza, Daniele sconsolata disperazione, Michele che paglieggia sperando nessuno lo riconosca.

 

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Insomma, grazie a tutti per esserci stati. La prossima volta sarò più professionale, o più probabilmente no.

Lucca comics 2014, dove mi trovate

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Ok, ho le date ufficiali di Lucca su dove potrei essere se sobrio dovrò essere presente per contratto. Qui trovate la mappa di Lucca completa per orientarvi.

 

Giovedì 29/10 (Sala Tobino – Palazzo Ducale)
ORE 15.00
con Michele “Babyface” Monteleone, Daniele “Kota” Di Nicuolo e quelli della Star comics presenteremo Nick Banana. NON SARA’ ACQUISTABILE, E’ SOLO LA PRESENTAZIONE DEL FUMETTO! Se venite mi fa piacere, vi presento un disegnatore che è stato in tribunale per me (giuro!) e uno sceneggiatore incredibilmente tollerante. Occhio se vi portate la morosa, Michele è uno che fa strage di cuori.

Venerdì 31 ottobre (Stand G41, Padiglione Carducci)
Dalle 11.00 alle 12.00, poi dalle 14.00 alle 15.00 sarò con quel figo di Christian Borghi, potrò rimediare alla cappella delle firme sui libri e, se ancora non l’avete fatto, potrete acquistare le ultime copie rimaste. Troverete anche Doc Manhattan, con cui adoro punzecchiarmi su chi ha venduto di più. Lui, naturalmente.

Sabato 1 novembre (Stand G41, Padiglione Carducci)
Dalle 14.00 alle 15.00 idem come sopra.

Domenica 2 novembre
Dalle 14.00 alle 15.00 (sala Ingellis, quella gialla piccolina) megaconferenza con la scuderia della Limited, Doc Manhattan, Farenz e nuove reclute che ancora non conosco. Dalle 16.00 alle 17.00 (Stand G41, Padiglione Carducci) sto a cazzeggiare, se ancora non siete riusciti a venire è l’ultima occasione.

 

Insomma, sarò a Lucca fino alla fine e senza dover far finta di lavorare per GQ come l’anno scorso. A parte gli impegni, quindi, sarò a spasso per sbronzarmi e tenere a bada la Leo che inseguirà le cosplayer. Sto carico abbestia, sembra il carnevale di Venezia senza frittelle. Se non avete un picchio da fare, ci becchiamo lì.

Dal buio

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È buio. La temperatura è mite. L’odore di pulito ricorda quello degli alberghi di lusso. La voce arriva roca, riflessiva, come ne senti nei bar dopo le due di mattina. Non c’è altro suono. L’unica cosa visibile è un cerchio di luce che illumina una moquette. In fondo, una porta si apre e lascia intravedere una sagoma.

«Il sentimento più profondo dell’uomo, l’istinto più atavico, la spinta propulsiva più forte, è la paura» dice la voce da un punto imprecisato della stanza «ogni scelta, ogni decisione, ogni frase della gente. Tutto ciò che fanno, dicono, mangiano, bevono, vestono, scopano… risale alla paura»

 

La porta si chiude.

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La voce tace. Nel buio si sente un sospiro, poi un deglutire.

«La paura viene dall’ignoto. Pensa alla frase “c’è qualcosa sotto al letto” e paragonala a “c’è un mostro sotto al letto”. Fa molta meno paura la seconda, anche se è un mostro. Noi temiamo ciò che non conosciamo» conclude la voce.

C’è un fruscio di vestiti.

«La paura è un assassino in una notte senza luna. Entra nella stanza piano, strisciando i piedi per non fare rumore e impiega ore a raggiungere il tuo letto. Tu sei lì, fermo, vigile, attento a cogliere ogni minimo suono, ma lui non ne fa abbastanza per farti alzare e non è abbastanza silenzioso da farti dormire. Quando ti uccide realizzi che il dolore del pugnale è infinitamente minore rispetto alla tensione che hai provato fino a quel momento. La morte diventa una liberazione, il dolore, quasi una delusione»

Si sentono passi felpati sulla moquette, lenti e profondi.

«Oggi, ora, adesso, questo popolo è infestato dalla paura. Della crisi, del terrorismo, delle malattie, dei tradimenti, dei furti, delle truffe, della finanza, degli stranieri, del cambiamento. Sono tutte cose che non capisci, quindi le temi. E siccome non sei abbastanza intelligente per affrontarle, hai scelto di ribattezzarle. Ricreare un mondo che puoi controllare e comprendere»

 

Tre passi. A pochi metri si distingue qualcosa, scarpe nere e lucide, l’inizio di un pantalone elegante. Il silenzio è tale da lasciar percepire il sottilissimo ticchettare dell’orologio da polso.

«Non prenderlo come un insulto. Ognuno è diverso. L’introspezione, l’autoanalisi, l’autocritica, appartengono a persone diverse da me e te. Siamo simili, tu e io. Anche se con risultati sociali molto diversi. Quindi non prendertela» dice la voce, facendo un passo avanti «se dico che

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Sì, io ti conosco.
È tempo che tu conosca me» sorride Nick.

Buio.

La vera trama di Lucy

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Lucy è un’americana di vent’anni che deve ancora decidere cosa fare della propria vita. Per concentrarsi meglio si trasferisce in Corea del sud con un’amica che sogna di farsi sfondare dal mondo del cinema. È uno dei piani più intelligenti si siano mai visti perché è sacrosanto una vada a farsi trapanare a Mykonos o a Magaluf, ma Lucy&Co. scelgono la patria dei cazzi piccoli e del famosissimo cinema sudcoreano featuring possibile guerra nucleare.

Cominciamo benissimo.

«La vita ci è stata donata un miliardo di anni fa: che ne abbiamo fatto?» si domanda Lucy bevendo un milkshake.

Purtroppo il proiettore si guasta e sovrappone una carrellata di città, autostrade, semafori, gente in scooter, cartelloni pubblicitari di qualche fottuto documentario animalista. Proprio quando sto per alzarmi riappare Scarlett che guarda il cielo con aria confusa. Viene richiamata all’ordine da un tizio vestito come Bono.

«Lucy, questa è una valigetta misteriosa» dice Bono «devi portarla nella hall lì dentro, vedi?»
La hall è a cinque metri da loro.

«Cosa c’è nella valigetta?» chiede lei.
«Documenti»
«Vediamoli»
«È chiusa con la combinazione»
«Allora me ne vado»
«Dai, porta la valigetta»
«No»
«Sì»
«No»
«Sì»

Questo dialogo prosegue per otto minuti tanto che qualcuno in sala s’è offerto di portarla lui. Esausto, Bono ammanetta Lucy alla valigetta e lei si decide. Il proiettore salta di nuovo e mostra un topo che annusa il formaggio di una trappola. Non fai in tempo a urlare insulti al proiezionista che si ritorna a bomba nel film: nella hall arrivano dei ciccioni coreani, fuori qualcuno spara a Bono nell’indifferenza generale e Lucy viene deportata. Sarei curioso di vedere cosa succede ora ma il proiezionista decide di mandare sequenze National Geographic di giaguari.

 

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Sì. Giaguari.
Cacciano gazzelle per qualche minuto.

Mi consolo pensando alle famiglie nell’altra sala che invece di “Natura in fiore” si trovano sequestri e sparatorie. Sto iniziando a interessarmi al documentario quando si ritorna a Lucy trascinata dai cicciocorea nella suite Mary Poppins, una stanza d’albergo magica dove può apparire di tutto, a patto che non c’entri un cazzo. È piena di coreani vestiti da becchini e cadaveri sanguinolenti. Lucy viene fatta accomodare e appare uno vestito uso camuorra in love di Giggino o’ mariuolo 1992: completo grigio lucido, cravatta anni ’90 con perlina, camicia impeccabilmente stirata, faccia e mani grondanti sangue.

Giggino si lava con l’acqua minerale perché i rubinetti sono demodè mentre Lucy supplica e prega di lasciarla andare. La ignora e confabula con un suo socio di manga o sashimi o katane, poi fa una telefonata.

«Salve, signorina, io tradurrò tutto quello che dice al signor Giggino» dice il telefono.
«Oh Dio grazie, dica che non c’entro niente e che non so cosa c’è nella valigetta» piange Lucy.
Segue katanese applicato.

«Signorina, lei sa cosa c’è nella valigetta?» domanda l’interfono.

Dopo un estenuante dialogo di surreale stupidità Giggino o’ mariuolo si caga il cazzo, scrive su un foglio il codice per aprire la valigetta e si allontana. Dal bagno della suite di Mary Poppins i coreani tirano fuori degli scudi antisommossa, forse dotazione standard dell’hotel, e si posizionano lontani. Evidentemente temono che dalla valigetta spuntino mille e mille noglobal, perché se invece il timore è che ci sia dell’esplosivo gli scudi di plastica servirebbero come una cavigliera a Pistorius.

«Signorina, apra la valigetta, non c’è niente di pericoloso»
«Sa che non mi ha convinto?» fa Lucy, osservando i coreani terrorizzati.
«Apra o le spareranno»
«E dopo chi apre la valigetta?»

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Giggino o’ mariuolo grida qualcosa.

«Mister Giggino vuole che si sbrighi, ha altro da fare»
«Ma tipo cosa?»
«Apra, per l’amor di Dio, in sala s’addormentano come mosche»

Lucy apre. Ci sono delle buste blu. Sollievo generale. Giggino ne apre una e tira fuori delle strane pietruzze, schiocca le dita, i coreani aprono l’armadio e tirano fuori un drogato, anche quello dotazione standard dell’hotel. Gli fanno pippare la polverina, lui è tutto contento e loro per farlo smettere di ridere gli sparano in testa. Lo buttano in bagno insieme agli altri cadaveri e agli asciugamani usati.

«Signori, io sentito urla di stupro e spari di morte, serve servizio in camera?» domanda da fuori la cameriera.
«No, grazie, ripassi dopo»
«Va bene»

Ora siamo in un’aula universitaria dove Freeman tiene una lezione sull’umanità che ha fatto cose straordinarie. Purtroppo il proiezionista inciampa e appaiono filmati di repertorio History Channel seguiti da una digressione sul delfino di dieci minuti, mentre dall’altra sala provengono strilli terrorizzati delle famiglie che assistono allo stupro di Scarlett Johansonn. Di nuovo Freeman. Sostiene la vaccata che noi usiamo solo il 10% del nostro cervello, poi fa la classifica stile Super Saiyan in cui se arrivassimo a usare il 20% leggeremmo nel pensiero e al 50% intercetteremmo le telefonate; purtroppo riusciremmo a ingrandire le tette di nostra morosa solo al 60%. Scoramento tra gli studenti.

«Professore, al 100% cosa succederebbe?»
«Diventeremmo europei»

 

Lucy si sveglia in una stanza d’albergo con la pancia squarciata, bende insanguinate e nessun dolore. Ritornano i coreani assieme a un tizio che spiega IL PIANO: hanno cucito nella sua pancia e in quella di altri tre stronzi le buste di droga, in modo da importarle in Europa. Loro arriveranno in aeroporto, verranno prelevati, aperti, ricuciti e lasciati andare liberi e felici.

«Mi sembra credibilissimo» fa Lucy «vi ci vedo a impegnarvi per ricucirmi dopo che manco avete fatto la fatica di rimettere il tossico in armadio»
«Se cercherete di scappare o di andare dalla polizia le vostre famiglie verranno uccise»
«Quindi io adesso esco, telefono alla mia famiglia e gli dico di catapultarsi in un luogo sicuro, poi vado dritta in ambasciata e chiedo d’informare la polizia raccontando tutto compresi i vostri identikit e la testimonianza di un omicidio, mi faccio asportare la busta in ospedale e siamo tutti contenti?»

«No»
«E perché non dovrei farlo?»
Filmati di animali che scopano.

 

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Lucy ora è in una stanza di un palazzo dove viene gonfiata di botte senza motivo da gente mai vista prima. A furia di calci in pancia la busta di droga si apre, le entra in circolo e la fa volare per la stanza. Letteralmente. Volare. Finito il volteggio si siede composta. Qualcosa in lei è cambiato. Entra un coreano per capire che cazzo succede, lei lo sderena di botte, prende la pistola, esce, ammazza quattro tizi che giocano a carte, raccoglie le armi, esce in strada. Qui trova due tassisti che stanno chiacchierando e domanda chi la capisce. Uno dice di no e lo uccide perché vaffanculo. L’altro tassista è così terrorizzato che parlerebbe anche il babilonese, la carica in macchina e la porta in ospedale. Lucy scende.

«Aspettami qui» dice.
Chi non lo farebbe.

Lucy passeggia nell’ospedale brandendo una pistola con silenziatore senza che nessuno si scomponga, la fermi o la noti. In sud Corea è normale girare con una pistola per un ospedale. Entra in una sala operatoria dove un chirurgo sta effettuando un intervento, uccide il paziente perché vaffanculo, così impari ad ammalarti e pretende che il medico le estragga la busta rotta dalla pancia senza anestesia. Nel frattempo telefona a mammina.

«Mamma» piange Lucy «mi ricordo tutto, sento tutto, vedo tutto. Sento la forza di gravità, le vibrazioni, i colori…»
«MANNAGGIACRISTO È FATTA DURA, ANSELMO, TUA FIGLIA SI DROGA, VIENI A SENTIRE»
«E mi ricordo quando ero bambina e accarezzavo il gatto morbido, e tu che mi baciavi…»
«LUCY, NON TI MANTENGO PERCHÈ TI SPACCHI DI BAMBA E MI TELEFONI ALLE TRE DI MATTINA QUANDO SEI IN DOWN, BRUTTA PUTTANA»
«Vedo le trasmissioni di dati dei cellulari, la linfa delle piante, la vita attorno a me…»
«TI BLINDO IL BANCOMAT, TROIA»
«Volevo ringraziarvi per tutti i baci, le carezze…»
«PROVA A TORNARE A CASA CON LA SUSHIFILIDE E T’AMMAZZO A BASTONATE»
«Addio, mamma»
«MA STOCAZZO»

Terminato l’intervento Lucy e il medico discutono sul contenuto della busta. Si tratterebbe di CPH4, una roba che le donne incinte iniettano al feto alla sesta settimana di gravidanza per fargli crescere le ossa e i muscoli. La sospensione dell’incredulità seduta al mio fianco scoppia a piangere, Lucy esce dall’ospedale e torna a casa di Giggino o’ mariuolo che si sta facendo tatuare ascoltando musica classica in cuffia, quindi non sente gli spari di Lucy che trucida i suoi scagnozzi.

La tatuatrice invece dev’essere sorda.

Lucy tortura Giggino fino a farsi dire dove sono andati gli altri portabusta e lo lascia in vita perché uccidere un tassista innocente o un malato va bene, ma un mafioso no, non è chic. Esce, si attacca a un computer, legge tutto l’Internet e trova le ricerche scientifiche del professor Freeman. Gli telefona via Skype.

«Pronto?»
«Salve, mi chiamo Lucy, sono la prima donna ad aver raggiunto il 100% del proprio cervello»
«Il mio aspirapolvere è a sua disposizione»
«Professore, non capisce. Ho letto tutte le sue ricerche, seimila pagine di roba»
«Può venire lunedì, mercoledì e venerdì»
«PROFESSORE! Io ho letto dentro di me l’universo. Ho capacità che nessun altro essere umano…»
«Signorina, l’avviso, ho girato tutti i bordelli di Olanda, Austria e repubblica Ceca»

«Il suo sessismo non mi fa ben sperare nella sua intelligenza»
«Va bene, le farò un test: a Teheran uno può avere tre mogli e se protestano le sèda a ceffoni. Qui abbiamo le Femen. Mi elenchi tre motivi per cui l’occidente è meglio del medioriente»

«La… la democrazia»
«Movimento a cinque stelle»
«La libertà?»
«NSA»
«I nostri valori»
«iPhone dorato, Foxconn, Barbara D’Urso»
«La tolleranza per la diversità»
«Sentinelle in piedi»

 

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Silenzio.

 

 

«Senta, se mi aiuta le do il culo»
«Ora ha la mia attenzione»

 

«Se uno avesse a disposizione tutta la conoscenza del mondo e stesse per morire, cosa dovrebbe fare?» chiede Lucy.
«Curarsi. Avrebbe il totale dominio di medicina, farmacologia, chimica e biologia»
«Ok, ma se fosse incurabile?»
«Beh, non so. Litigare su Facebook, credo»
«Ma le pare?! Io sono una Dea!»
«E nonostante questo chiede a un uomo cosa dovrebbe fare. La maledizione dell’utero non perdona»
«Verrò da lei a Parigi per fare silenzi passivo aggressivi, raduni altri medici. Maschi, o non funziona»
«Capisce perché ho divorziato?»
Click.

Lucy telefona all’Interpol e fa arrestare tutti i corrieri con la pancia gonfia che tentano di scappare invece di abbracciare la polizia come se li avesse appena salvati dal bisturi di Hell’s Kitchen Korea. Sono scene così inutili da far rimpiangere i giaguari e le gazzelle. Giggino nel frattempo è incazzato a mostro per essere rimasto in vita e insegue il semidio uterino sputtanandosi uomini, soldi e mezzi pur di riavere quattro bustine di droga. Lucy prende l’aereo, ha un problema tipo che inizia a smolecolizzarsi perché… perché… perché sì, trangugia il resto della droga nella busta e torna a stare bene. Arriva in Francia, recluta coattamente un poliziotto che gli fa da autista e trasforma Parigi nella striscia di Gaza guidando contromano e sterminando dozzine d’innocenti colpevoli di andare al lavoro. Inseguita da coreani armati di mitragliatori e bazooka probabilmente fatti passare come bagaglio a mano raggiunge l’università. Fuori la polizia ingaggia una coreografia di Gangnam style basata sull’idea che se in patria ci sono stranieri con armamento pesante noi non chiamiamo l’esercito, rispondiamo a pistolettate. Dentro Lucy si fa in endovena tutte le buste di droga rimasta, fa una carrellata della storia dell’umanità trovandosi di fronte al primo australopiteco bipede che fatalità si chiamava anche lui Lucy

 

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…e fatto questo diventa un blob che si mangia i computer. Quando Giggino o’ mariuolo sta per spararle in testa lei diventa negra, poi si trasforma in un’app e regala a Freeman una chiavetta USB.

“Partire è un po’ morire” disse un viaggiatore Trenitalia. 

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A casa mi preparo due panini con un etto di crudo, asiago, insalata in dosi massicce, pane fresco, bottiglietta d’acqua riempita dal rubinetto di casa, costo totale: 2,80 euro. Non mi è chiaro come sia possibile che in stazione per due pezzi di pane alla naftalina, una foglia d’insalata e un velo di prosciutto in crisi d’identità ne chiedano 4.80, ma non importa. Ho altro a cui pensare.

Entro in stazione tra tedeschi obesi, hipster in interrail che prenderei a sberle volentieri, branchi di giappocinesi che si muovono in slow motion intasando qualunque via di accesso o di fuga, guardie giurate convinte di essere Rambo che hanno occhi solo per le svedesi mentre le scalinate sono piantonate da tizi che sequestrano il bagaglio alle donne, fanno le scale e le aspettano in fondo con la mano tesa per il riscatto. Raggiungo la biglietteria. Diciassette sportelli di cui due operanti devono tenere testa a falangi d’idioti di ogni nazionalità la cui età va dai quaranta ai duemila anni, nessuno dei quali parla una lingua diversa dal dialetto.

Fermi in coda aspettano il loro momento di gloria.

«Senta, il prossimo anno circa in questo periodo devo andare a Genova, ma non so se partirò da Milano o da Roma. Il biglietto posso farlo qui adesso? Mi costa uguale?»

L’omino dietro il vetro si lancia in una descrizione complicatissima di cinque minuti declamata col tono di chi stanotte si ucciderà. Il cliente lo ascolta con sguardo gallinaceo. E’ chiaro che non stia capendo un cazzo, ma non interrompe perché è furbo ed è convinto che alla fine, con l’ultima parola, comprenderà tutto per magia.

«Ha capito?»
«No»

La spiegazione viene ripetuta.
Lo sguardo viene ripetuto.

«Ha capito?»
«Cioè… sta dicendo che io non… non posso prenotare?» tenta l’idiota.

«SENTA, QUI DOBBIAMO PRENDERE IL TRENO!» grida uno in fila.
Il tizio si fa da parte con occhi di livoroso rancore.

«Dica» fa l’omino.
«Io un anno fa avevo fatto un biglietto per andare a Genova ma l’ho perso, quindi non lo uso. Potete rimborsarmelo lo stesso?»
«No»
«Come no?! Ma io non lo uso!»
«E io che posso farci?»
«Rimborsarmi il biglietto!»
«Ma se manco lo trova, io come faccio a sapere che quel biglietto esiste?»
«Mi sta dando del ladro?»
«SENTA, QUI DOBBIAMO PRENDERE IL TRENO!» grida il cliente alle sue spalle.
«Un attimo, sono appena arrivato!» bercia il cliente.
«E’ lì da cinque minuti!»
«Io ci sto quanto voglio, se permette»
«Guardi che chiamo i vigili»
«E io chiamo la polizia»
«E io lo dico alla maestra»
«GNA»

 

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Dopo dieci minuti abbandono questa sottospecie di asilo mariuccia e vago alla ricerca delle biglietterie automatiche, oggetti del demonio che vengono spostate ogni settimana per motivi ignoti. Fermo un impiegato di Trenitalia.

«Sa dove sono le biglietterie elettroniche?» chiedo.
«E io che ne so, sono un impiegato, mica un indovino» risponde.
Se ne va.

Aguzzo le orecchie. Tra l’altoparlante che annuncia ritardi, scioperi e cancellazioni intercetto le frequenze dei lamenti umani. Raggiungo una fila di Escher davanti a quattro biglietterie automatiche. Due non funzionano, una va solo col bancomat, la rimanente è presa d’assalto dall’armata mongoloide che fissa lo schermo come io fisso una lavagna con una disequazione.

 

SELEZIONARE STAZIONE DI PARTENZA

«Questa è Venezia o Mestre?» chiede una donna «vabbè, facciamo Venezia»

SELEZIONARE STAZIONE DI ARRIVO

«Io… io vorrei andare a Milano»
Preme Trapani.

«Ma… il treno per Trapani passa per Milano?» domanda a quello dietro, un cinese che la folgora con lo sguardo. La donna capisce che non riceverà aiuto e chiede a quello dietro, un moldavo grosso come un carroarmato e alto come una betoniera.

«Scusi, lei capisce come funziona?» trilla.
«Picchiare dona, pichiare macchina, vodka per tutti» sibila tra i denti lui «siempre funziona»
«No, eh? Tu?»
Sono io.

Faccio per passare la fila e aiutarla, ma il moldavo mi ferma alzando il braccio.

«Dove tu va?»
«Le do una mano o qui facciamo notte, non sto saltando la fila»
«Io guarda te»

Il giappocina nemmeno mi considera. Raggiungo la biglietteria, compilo i campi richiesti.

 

INSERIRE CONTANTE

 

Mi giro.

«Cosa vuoi?» domanda stizzita.
«Deve mettere i soldi» sospiro.
«Non ti do niente»
«Ma no a me, alla macchinetta!»
«Vabbè, quanto?»
«C’è scritto»
«Dove?»

Guardo il moldavo. Lui con la mano sinistra mima l’afferrarle il collo, con la destra il colpirla in faccia. La donna inserisce i soldi, afferra il biglietto, verifica due volte di non aver lasciato monetine e se ne va senza dire nulla.

«Oh, grazie, eh?» le grido dietro.
Torno in fila.

Il samurai giappocina impiega un tempo ragionevole. Il moldavo arriva davanti allo schermo, smanetta, inserisce il denaro. La macchina impiega due secondi di troppo a cagare il biglietto, così il pachiderma le assesta un cartone a potenza genkidama che la fa traballare e spegnere.

«SVOBODA NARODU KRISHNEV!» ulula la bestia, e inizia a distruggerla a calci.
Me ne vado lasciandomi le urla alle spalle. Tre poliziotti corrono verso di lui. Urla di donne, gemiti di uomo, berretti della polizia che volano.

«Scusa, tipo? Oh, tipo? Tipooo» chiama qualcuno.
Mi basta uno sguardo per riconoscere un videogiocatore a corto di smack.

 

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«Mi manca un euro per fare il biglietto» dice, impaziente, guardando il drago magico allontanarsi.
«Te ne ho dato uno la settimana scorsa, ancora non sei partito?»
«Ma è per un altro viaggio» geme, scalpitando.
«Valuterei la bicicletta, a ‘sto punto»
«Dammi qualcosa, no? Stai in cravatta!»
«Vuoi la cravatta?»
«Un euro, un… seh vabbé, ciao»

Arrivo al binario, il luogo dove donne e uomini si guardano di nascosto apprezzandosi, evitandosi, selezionandosi e posizionandosi in modo da finire nella stessa carrozza. Noto una sudamericana che attende assieme al resto del popolo, stipato dietro in venerazione della sua 42. Arriva il treno. La gente spintona, tremante e ansimante per la tensione del momento. All’apertura delle porte con un grido corale uso marines al D-day tutti scattano incastrandosi nelle portiere tra urla, pianti, gemiti, spinte, bestemmie. Alcuni lanciano i bagagli verso i finestrini nella speranza di romperli. Abbatto la sudamericana a gomitate in bocca e uso il suo corpo inerte come ponte per scavalcare.

All’improvviso le porte fanno BEEEEEEEEEEE, poi si chiudono.
E’ il massacro.

Arti vengono fratturati, valigie rigide divelte, persone rimangono incastrate a metà in un crescendo corale di imprecazioni disperate. Gli unici riusciti a salire siamo io e un camerunense perché abbiamo borsoni morbidi e un tono muscolare tale da permetterci di issarci a braccia aggrappandoci alle sbarre di sostegno interne. Ci lanciamo in aiuto dei mutilati, forzando le porte.

«MA CHE FATE, FERMI!!» urla qualcuno al capotreno in fondo, che sta chiacchierando col macchinista.
«FERMIIIII!!» urla una donna stritolata.
«IL BAMBINO! ATTENTI AL BAMBINO!»
Il bambino è finito sulle rotaie.

«State tranquilli, è solo un test delle porte» fa il capotreno soffiando il fumo della sigaretta.
«FATE UN TEST DELLE PORTE MENTRE LA GENTE SALE?! MA AVETE LA MERDA NEL CERVELLO?!»
«Calma, calma, ora le riapriamo»
«AAAAH!»

Le porte si riaprono a macchia di leopardo.
La nostra evidentemente era di un puma.

«Ecco, l’avete rotta!» grida il capotreno, isterico «vi farò pagare i danni»
«AIUTOOOOOOO» urla una vecchia sul marciapiede con una gamba bloccata sotto un trolley dentro il treno «AIUTATEMIIIIIH»
«Signori, in carrozza, si parte» fischia il controllore.

Con la forza della disperazione riusciamo a caricare persone e bagagli. Alcuni restano a terra, sguardi disperati che battono contro le portiere. Tutti li ignorano, è già partita la caccia al posto migliore. Le donne cercano di sedersi per ultime per poter scegliere il migliore compagno di viaggio che possa issarle le valigie e difenderla dai questuanti che non hanno soldi per mangiare ma distribuiscono cartoncini stampati in comic sans. Gli uomini cercano i compagni che puzzano di meno. Quelli che riescono a raggiungere un quadrato di quattro posti liberi si affrettano a occupare le altre tre poltrone con tutto quello che possono uso fortino. Quando qualcuno domanda “è libero?” digrignano i denti e sibilano “sssssì”. Dieci minuti dopo, finalmente, la calma. È ora di dimostrare ai miei antenati che anch’io posso sopravvivere a un’era glaciale.

Per viaggiare con Trenitalia è bene munirsi di camicia di lino e montone, giacché grazie al progresso della tecnologia oggi tra un vagone e l’altro puoi passare dal Sahara alla Finlandia. Un tempo col caldo c’erano i finestrini abbassati, oggi i finestrini sono sigillati e tutti gli scompartimenti sono dotati di condizionatori, distributori di Legionella e di inaudite bestemmie in quanto il termostato viene affidato al primo idiota che frigna col capotreno. Quindi assistiamo a scene di questo tipo:

«Capotreno, scusi, ma in carrozza si muore di caldo» geme una donna in pelliccia.
La temperatura scende a 7°. Le prime mani tremano, i deboli vengono colti da attacchi di dissenteria fulminante che li porta a bussare contro la porta del cesso urlando PRRRREEESTOOOO, FACCIA PRRRREEESTOOOOHOHODDIO PRRREESSSTOOOOO. La gente squarcia i sedili di finta pelle per farne vestiti di fortuna. A malincuore, alcuni scotennano il proprio gatto per farne un copricapo di pelliccia.

«Capotreno, scusi, in carrozza ho le sopracciglia ghiacciate» protesta un vecchio in camicia a maniche corte.
Vertiginosa salita a 20°. Gli abiti di fortuna vengono rimossi e utilizzati per accendere un focherello e grigliare i resti degli animali abbattuti. Spuntano bermuda, camicie hawaiane, infradito, piedi sudati sui sedili liberi, afrori di morte. Le donne tentano di abbassare i finestrini blindati senza riuscirci. Offrono prestazioni sessuali ai maschi che riusciranno nell’impresa.

«Capotreno, mi si sta sgelando il pesce!»
Crollo a 2°. Vengono documentati i primi atti di cannibalismo. Fuori dai bagni ci sono uomini e donne annichiliti in posizione fetale. A terra, diarrea congelata. Stretto nel montone osservo la gente fuori dal treno in maniche di camicia, sentendomi come un pastore afghano con la casa bombardata che guarda repliche di Jersey Shore. Una donna si avvicina tremante, mostra i seni a labbra serrate. Dice che se le faccio posto nel montone potrò averla. Impietosito, la accolgo.

«Capotreno, mio figlio ha le labbra blu» piange una madre.
Risalita a 18°. La donna schizza fuori dal montone e scrive alla redazione di GQ che sono sessista. Tra i sopravvissuti spuntano sorrisi, pacche sulle spalle, dialoghi amichevoli. Tutto è dimenticato, ogni atrocità perdonata. Nel benessere alcuni passeggeri si raggruppano e fondano movimenti a difesa dei diritti degli animali, piangendo i caduti e accusando i passeggeri di essere dei mostri. Motteggiando sarcastici, i passeggeri deridono Trenitalia e la sua organizzazione. Si fondano associazioni dei pendolari, che litigano e si scindono in associazioni per pendolari e passeggeri.

Mi tolgo il montone e addento il mio panino. Quello davanti a me estrae un sacchetto del McDonald e inizia a masticare a bocca aperta. Il controllore arriva e mi chiede il biglietto. Dico che non ce l’ho perché non sono riuscito a farlo. Dice che dovevo avvertirlo, io guardo il corridoio e gli spiego che non sono un giocatore di rugby professionista. Mentre mi fa una multa di 50 euro dice che non è un suo problema.

«Capotreno, ma qui dentro non si respira!» sbraita un tizio con la spilla del M5S.
Esasperato, il controllore schianta la manopola al massimo e se la porta via. La temperatura collassa a -10°. Abbandono il vagone di corsa mentre alle mie spalle inizia Hunger Games.