Il Corriere della sera affronta la realtà e fugge inorridito

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A Parigi tre mangiamerda dell’ISIS entrano nella sede del giornale satirico Charlie Hebdo (ossia la versione senza stile e carisma del Vernacoliere) e accoppano gli autori a mitragliate. Il mondo si erge a difesa della libertà di parola e del diritto di satira. Viene creato lo slogan “je suis Charlie” e tutti, anche i peggiori retrogradi oscurantisti, se lo stampano addosso. Travaglio per esempio è quello che davanti agli sfottò dei raccontini pedopornografici della Borromeo scrisse che avrebbe ricacciato quella merda in gola agli autori. Buona parte dei giornali schierati politicamente, specie Repubblica e Il Fatto, sono censori spietati, permalosi e implacabili.

Comunque.

Il numero successivo di Charlie Hebdo viene stampato in tre milioni di copie e distribuito in 25 paesi. In Italia, l’unico giornale che ha il coraggio di allegare Charlie è Il Fatto. Grazie alla mancanza di concorrenza vendono tonnellate di copie, perché anche chi di solito non compra il Fatto Quotidiano se vuole leggersi Charlie Hebdo non ha alternative. Gli introiti economici sono altissimi, ma il vero premio è il ritorno in termini di visibilità e autorevolezza: d’ora in poi Travaglio&Co. potranno sempre sbandierare di essere stati gli unici coraggiosi paladini della libertà d’espressione.

Questo fa rodere il culo agli altri giornali che per semplice codardia sono rimasti a bocca asciutta. Come rimediare? Come fare anche loro bella figura, adesso che l’occasione è sfumata? Nella redazione del Corriere della sera qualcuno nota che tanti disegnatori italiani hanno fatto delle vignette di solidarietà. Al Corriere se le scaricano, le infilano in un libro chiamandolo “Je suis Charlie – matite a difesa della libertà” e promettono che i ricavati andranno in beneficenza.

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Tutto senza chiedere un cazzo a nessuno.

Non è la prima volta che i cartacei prendono senza chiedere. A Doc Manhattan la Gazzetta dello sport ha rubato interi passaggi e se il Doc non avesse avuto una fanbase potente a combattere con e per lui, se la sarebbe presa a poppa.

Ora, tralasciando il fatto che la beneficenza coi soldi degli altri è disgustosa, è come se uno ti entrasse in casa, ti rubasse l’impianto stereo, lo vendesse al mercatino, ci togliesse le spese di trasporto e i soldi restanti li regalasse alla Caritas: non sei Robin Hood, sei Giuliano Amato.

 

 

I disegnatori s’incazzano a mostro, il Corriere fa finta di niente. Poi, siccome la cosa diventa grossa, pubblica l’occhiale a specchio. È un tipo di scusa particolare di noi giornalisti che consiste apparentemente nel chiedere scusa, in realtà dice in termini avvocatesi mi dispiace se siete stupidi e non avete capito un cazzo.

Se vi suona familiare è perché l’ho fatto anch’io su GQ.

I vignettisti la prendono malino. L’occhiale a specchio funziona se hai a che fare con subnormali esagitati a caccia della dose quotidiana d’indignazione: gli dai il contentino, si sentono importanti e tornano alla loro vita di odio e miseria. Se invece hai a che fare con un’intelligenza media e magari ci sono soldi (o immagine) di mezzo, le cose sono più complicate ma possono reggere, a patto tu dopo stia zitto al limite del mutismo aspettando gli indignados si frammentino. Invece la marketing manager (dico, la marketing manager) del Corsera twitta questo capolavoro di stupidità.

Michela

Tweet che fa ben capire quanto siano davvero dispiaciuti di aver rubato il lavoro altrui e di averne ottenerne un profitto. La domanda è:

Perché giornalisti italiani rubano dalla rete?

Per lo stesso motivo per cui un mensile in edicola paga chi scrive sulla copia cartacea, ma chi scrive sul sito lo fa per la gloria. Il giornalismo in Italia è ancora nelle mani di vecchi citrulli che non si sono mai voluti aggiornare e nel 2014 credono Internet sia “una nicchia di falliti”. Metto le virgolette perché ho sentito un collega (nome grosso, nazionale) usare esattamente queste parole: una nicchia di falliti. Ergo lo si può saccheggiare liberamente. Questo è il motivo per cui il Corriere ha fatto ‘sta porcata: perché le vignette erano in Internet, ossia alla stregua dei cessi degli Autogrill.

Tuttavia, da giornalista, penso ci sia anche un secondo motivo che i lettori (o i giornalisti che non han fatto gavetta nei quotidiani) non possono sapere.

La prendo un po’ da lontano.

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Nel 2003 facevo il rapper e volevamo fare un videoclip all’interno dei negozi di Mestre, piccoli spezzoni di non più di dieci secondi montati assieme. Siccome volevamo fare le cose per bene abbiamo domandato il permesso al proprietario. Che problemi potevano esserci? Noi facevamo il video, lui ci guadagnava in pubblicità. A ripensarci è ridicolo, ma avevo 23 anni.

«Mah, prima voglio sentire la canzone» dice il proprietario incrociando le braccia.
Gliela facciamo sentire.

«Non mi piace» fa.
Chiediamo se possiamo comunque fare il video.

«Ma di che tipo?»
Spieghiamo che si tratterebbe di camminare tra gli scaffali e parlare.

«E dove verrebbe proiettato?»
Su MySpace, diciamo.

«Ah, no su MTV?»
No. Magari in futuro.

«Eh, ma io dovrei allontanare i clienti»
Diciamo che no, sarebbe una cosa di pochi secondi.

«Ma magari a loro da fastidio e io perdo soldi»
Ci fa capire con un giro di parole che vuole la mandola. Spieghiamo che non possiamo permettercelo, siamo due sfigati di 23 anni.

«Eh ma allora io cosa ci guadagno?»
In effetti, niente.

«Allora non vi do l’autorizzazione»
Salutiamo e passiamo al negozio successivo, dove si replica la stessa scenetta. In quello dopo, idem. E poi in quello dopo ancora. Troviamo un solo negozio disponibile su una cinquantina. Badate, tutto quello che sto raccontando è vero. Nel negozio iniziamo a fare riprese. Siamo io e un tipo con una videocamera. Dopo tre secondi una tizia sui quarant’anni ci guarda allibita e domanda cosa facciamo. Spieghiamo che stiamo facendo un videoclip.

«Ma voi non mi avete chiesto l’autorizzazione per essere ripresa» dice.
Effettivamente no, diciamo. Se le da fastidio aspettiamo che se ne vada.

«Io resto qui quanto mi pare»
Domandiamo se la signora è disposta a rilasciare l’autorizzazione. Lei dice che dovrebbe leggere il contratto e sapere “a lei quanto viene”. Nel frattempo attorno si forma una folla di gente che la supporta. Noi spieghiamo a tutti quello che abbiamo spiegato prima, ossia che è un videoclip amatoriale a basso budget. Le persone quando sentono “Internet” si allontanano deluse, ma resta la quarantenne che insiste per essere cancellata dai filmati. Cancelliamo e ci allontaniamo in un’altra corsia. Lei ci segue, determinata. Domandiamo perché, lei risponde “è un suo diritto”.

Mentre penso a quali grandi vittorie devono aver costellato la sua vita, rinunciamo.

Il giorno dopo passiamo la mattinata a farci compilare da uno studente di giurisprudenza il consenso all’utilizzo dei dati personali. Ne facciamo una ventina di fotocopie e ci ripresentiamo. Iniziamo a girare e un tizio si intromette dicendo che lui non ha dato l’autorizzazione a farsi riprendere. Esibiamo il foglio, quello ci blocca dicendo “io non leggo niente, non m’interessa”. Allora cambiamo corsia e si forma un capannello di gente con sguardo ebete che osserva e fa “ciao ciao” alla telecamera, o fa scenette che reputa buffissime. Ogni volta che lo fanno, quello che riprende smette e chiede cortesemente di non fare così. Loro rispondono dicendo “io faccio quello che mi pare”, “ho il diritto di” e altre amenità. Quando al terzo tentativo uno cerca di mostrare che sa fare il giocoliere rinunciamo definitivamente.

Gireremo “Generazione” nel sotterraneo di un condominio. L’unico spezzone coi negozi è un fotogramma di qualche secondo che abbiamo girato fuori, dopo che aveva chiuso.

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Nel 2008 facevo l’apprendista giornalista. Ogni volta che ho avuto a che fare col pubblico mi sono trovato di fronte alle stesse pretese di soldi e atteggiamenti da viveur cosmopolita il quale per sciorinare gossip sulla signora del terzo piano pretende somme favolose e di essere trattato manco fosse Mitrokhin. Nel caso migliore, quando domandavo “cosa pensa della nuova urbanistica”, lui rispondeva “eh, guardi, io saprei certe cose…”. Domandavo chiarimenti e lui asseriva con mascella alta e fiera “ehe, devi farmi la domanda giusta”.

All’inizio ci provavo. Dopo ore di dialogo patetico tipo Jason Bourne di Marghera scoprivo che la sconcertante rivelazione erano un grumo di illazioni, cattiverie, farneticazioni da pescivendoli e borborigmi da analfabeta. E questo schema si ripeteva per commercianti, passanti, lavoratori, unica eccezione gli studenti. Tenete presente che facevo cronaca bianca a Mestre, eh, neanche 200,000 anime. Appena ingrandisci un po’, peggiora notevolmente.

 

Quindi?

Penso che oltre ai motivi economici e d’immagine, forse, il Corsera ha preso senza chiedere per la sua esperienza pregressa col nostro strampalato popolo. Il quale, generalmente, rende la via disonesta l’unica percorribile.