In un punto della Gallia, I secolo dopo Cristo.
«Vedete, ragazzi» dice il maestro, camminando davanti alla classe seduta sul prato «nella vita tutti abbiamo una missione da compiere. O un ruolo, che dir si voglia. Nasciamo con dei talenti, dobbiamo solo scoprirli e scegliere se metterli in pratica. Anche se spesso è la vita a decidere per noi»
«MA SE TIPO» squilla una voce femminile «TIPO UNA AVESSE UN TALENTO UN PO’ STRANO?»
La classe si sposta mostrando una bimba dagli occhi grandi, nocciola, con un casco di capelli castani.
«Tipo… stranissimo?» tenta la bimba, preoccupata.
«Cazzo dici, Locusta?» allarga le mani il maestro «sei donna, i tuoi talenti sono cucinare, pulire, scopare, figliare, frignare… quella roba là. Che mi frega, io c’ho il CAZZO» fa il maestro, agguantandosi lo scroto.
La classe ride, divertita.
Locusta nasce orfana nella Gallia romana, non si sa quando, dove o con quale nome reale. Allevata da dei contadini, emarginata dai coetanei a causa del suo essere sprovvista di genitori reali, passa le giornate nei boschi annoverando e assaggiando piante, bacche, funghi e frutti di ogni tipo, da cui il suo soprannome. Viene morsa e avvelenata da ogni genere di animale e pianta possibile, tanto da venire recuperata un paio di volte in fin di vita. Sopravvive sempre, spesso curandosi da sola con impacchi, unguenti e intrugli autoconfezionati, per cui si fa una fama di immortale. Per alcuni, di strega. Appena è più grande diventa ragazza di bottega dell’erborista. Per qualche anno va tutto bene, poi la gente inizia a notare che a differenza di tutte le altre fattorie, gli incidenti campestri in quella dei suoi tutori sono rarissimi. Le talpe e i cinghiali non gli mangiano l’orto, le volpi non attaccano il pollaio, i lupi lasciano stare le pecore.
«Che cosa curiosa» commenta il padre adottivo.
«Pazzesco, proprio» annuisce Locusta, scavando l’ennesima fossa a un cinghiale.
A tredici anni un signorotto del posto sconfina e fa pascolare le sue bestie anche nei loro campi. Dopo suppliche di ogni tipo i due tutori tornano a casa con le pive nel sacco e i campi espropriati. Scende la notte, l’alba illumina un centinaio di vacche con le zampe all’aria e la bava alla bocca. Basta un giro di domande per intuire la verità, e Locusta taglia la corda prima di trovarsela al collo. Nel I secolo dopo Cristo dove potrebbe andare una ragazza gentile, solare, graziosa, sorridente e incredibilmente dotata nell’arte del veneficio?
Bè, nello stesso posto dove dovrebbe andare oggi.
A Roma.
A diciotto anni la botteghina di Locusta è una minuscola casetta sul colle Palatino. In facciata promette prodotti per la cura del corpo e rimedi per la salute. Sottobanco fornisce rimedi definitivi a matrimoni fallimentari, concorrenza spietata, amanti scomodi ed elettori M5S. Il suo elemento naturale è l’arsenico e i suoi derivati, ma funghi velenosi, cicuta, gisquiamo e piante tossiche sono dominati con una tale maestria da rendere ogni decesso impeccabile. Un veleno di Locusta è invisibile, inodore, facilmente solubile, irrintracciabile e può agire subito come dopo 48 ore. Può essere doloroso o indolore, letale o inabilitante. Basta chiedere.
Diventa subito un punto di riferimento per la ricca borghesia romana. Secondo i libri una delle sue tante clienti fu Messalina, che doveva liberarsi di tale Tito Sestio Laterano, amante di cui s’era stufata e che però non voleva andasse a scopare altre dopo di lei. Locusta, prima di fornire veleno, ascolta. Soppesa con le clienti pro e contro, a volte pianifica con loro l’omicidio o un’altra soluzione. Passa ore davanti a quell’umanità sotterranea che non mostra mai il vero volto per le strade della Capitale. Il resto del tempo lo impiega nel suo laboratorio, dove adora studiare quando fuori piove.
Il problema degli avvelenatori è che sanno comunque troppo e, prima o poi, un cliente decide di tagliare tutti i testimoni. A neanche vent’anni Locusta viene arrestata per omicidio e tradotta in catene in tribunale. La notte prima dell’esecuzione due guardie la prelevano e la portano di peso in una villa stupenda, dove al centro del salotto una donna distesa su un triclinio la osserva.
«Io sono Giulia Agrippina Augusta, seconda moglie dell’Imperatore Claudio» fa la donna, alzandosi in piedi «sono conosciuta come la donna delle domande retoriche. Tra due ore sorgerà l’alba e tu morirai, ma ho una proposta per salvarti la vita: vuoi sentirla?»
«No, guardi, domani devo alzarmi presto» fa Locusta.
«Se troverai un modo per uccidere mio marito, tutto quello che hai fatto sarà perdonato. Diventerai la mia avvelenatrice di fiducia e sarai protetta. Verrai pagata somme stratosferiche, vivrai a palazzo e risponderai solo a me. Ci stai?»
«Quanto tempo ho?»
«Dodici ore»
«Impossibile» scuote la testa Locusta.
«Perché?»
«Perché avvelenare qualcuno si può fare in tre modi: direttamente, indirettamente o incidentalmente. Nel primo gli versi dell’arsenico nel bicchiere, lui forse muore o forse vede che sei nervosa e ti sgama, comunque finisci giustiziata»
«Perché dovrei essere nervosa?» fa Agrippina.
«Hai mai guardato negli occhi una persona che stai per uccidere senza che quella lo sappia? Credi la tua faccia sarebbe la stessa di quando gli passi il sale?»
«Hmmm… no, in effetti no»
«Allora l’indiretto. Paghi uno perché avveleni tuo marito e poi te ne sbarazzi. Il problema è che gli uomini usa e getta sono stupidi, impediti, alcolizzati e con nulla da perdere, oppure sono uomini normali messi alla corda che diventano paranoici, lasciano memorie, lettere, garanzie. Muoiono e domani tutti sanno tutto»
«Non se usassi un mio amante» incrocia le braccia Agrippina, fiera.
«Eh, diamine, a chi mai penseranno?!» allarga le braccia verso il cielo Locusta.
«Penseranno che lui era pazzo di me, e che piuttosto di vedermi assieme a mio marito ha deciso di fare un gesto romantico ed eclatante, ucciderlo e di uccidersi»
«Ma vaffanculo» ride Locusta.
«Esistono decine di uomini pazzi di me che lo farebbero!» sbotta Agrippina.
«No. Un uomo geloso o ammazza il rivale e la donna, o sé stesso e la donna, o la donna e basta. Specie se quando siete diventati amanti c’era già tuo marito. È sempre la donna ad andarci di mezzo. Gelosia, depressione, debiti, infedeltà, alla fine il punto dove sfogarsi è sempre lei, cioè tu. Poi bisogna calcolare il movente, e tu sei la prima che sospetterebbero»
Agrippina tentenna, poi espira sconfitta: «Cosa ti serve?»
«Tutto. Dovrai raccontarmi ogni cosa di tuo marito. Orari, abitudini alimentari, fisiche, mentali. Guardaroba, lavoro, hobby, amanti, consiglieri, amici. Devo vedere cosa fa, cosa tocca, cosa indossa. Chiunque può uccidere qualcuno, pochissimi la sfangano»
«Avrai quello che ti serve» annuisce Agrippina «ma ti avverto: sbaglia, e torni sul patibolo»
Locusta parte dall’idea dei funghi: Claudio li adora, specialmente gli Amanita Cesaria. Somigliano molto all’Amanita Phalloide, fungo così letale che basta un grammo per far andare il fegato in necrosi. I sintomi si manifestano dopo 12 o 24 ore, il che è male. Se Claudio capisce di essere avvelenato ha un sacco di tempo per dare ordini tipo “uccidete quella troia che m’ha dato i funghi avvelenati”.
Il tempo è tutto.
Locusta così inventa uno stratagemma: Agrippina serve i funghi avvelenati. Claudio appena li mangia ha attacchi di vomito e dissenteria tipo me alla proiezione di Prometheus. Convinto si tratti di un’indigestione prende la piuma che usava per vomitare senza sapere che Locusta l’ha imbevuta di coloquintide, sostanza che accelera l’effetto del veleno e ne moltiplica gli effetti. Claudio muore dopo sei ore di agonia mentre Agrippina gli sta di fianco coccolandolo e fingendo di preoccuparsi della sua salute, cosa che la scagiona da ogni sospetto.
È fatta.
Salutami l’avvocato divorzista.
Agrippina mantiene la parola data, salva Locusta e le fa arrivare ceste di droghe, piante, semi e bestie velenose da ogni parte dell’impero. Sono gli unici doni che entusiasmano Locusta, che passa giornate ad avvelenarsi e guarirsi, felice come una bambina circondata di alambicchi e provette. Anni dopo viene convocata da Nerone, che vuole uccidere Britannico, figlio dell’ex Imperatore Claudio. Anche qui lei domanda quanto tempo ha, ma Nerone non è tipo da aspettare. Le dà un giorno. Locusta deve improvvisare, e la sola cosa su cui può mettere le mani è il vino che verrà servito la sera. Per timore che si sentano sapori strani usa dosi troppo basse: Britannico sopravvive con solo un attacco di diarrea.
Nerone entra nella bottega di Locusta con tre tizi grossi come montagne, spade in pugno. La prende per il collo, la scaraventa contro una parete di alambicchi, le monta sopra e le punta una spada al collo.
«Britannico è vivo, stupida incapace» ruggisce Nerone «l’unico modo in cui puoi servirmi ancora è consegnarti morta e dire che ho scoperto chi ha tentato di avvelenarlo»
«Mi hai dato un giorno di tempo, idiota!» sbotta lei con gli occhi lucidi «cosa volevi che facessi?!»
«Siano queste le tue ultime parole, allora» fa lui, alzando la spada.
«Aspetta!» grida lei «fammici riprovare»
«E come? Ora Britannico ha un assaggiatore di fiducia, è impossibile»
Teoricamente è vero. Un assaggiatore protegge il figlio dell’Imperatore in due modi: se c’è del veleno istantaneo muore al posto suo, se c’è del veleno a lungo decorso ne riconosce il sapore e avvisa. Non si può battere.
Ma Locusta è un genio.
Studia tutto. Stagione, temperatura, mappa del palazzo, elenco del personale, gusti di Britannico, portate principali e secondarie, posateria, calendario delle feste. Crea un veleno e lo prova su una capra che muore dopo cinque ore. Per Nerone è troppo tempo, lei riformula aumentando la concentrazione. Prova su un maiale e scende a un’ora e mezza. A Nerone va bene, ora bisogna trovare un modo per aggirare l’assaggiatore. Locusta trova un piano che per funzionare richiede una tale conoscenza della chimica che per quell’epoca va oltre l’immaginabile: creare un veleno a reazione controllata.
A Roma è un inverno particolarmente rigido, nel 53 d.C. Britannico da un banchetto sontuoso, per cui vengono chiamati altri servitori a lavorare. Locusta tramite Nerone informa i novellini che Britannico esige pietanze e bevande il più calde possibile, poi organizza una serie di questuanti che rallentino il pranzo. Tutto funziona. Quando Britannico riesce a sedere a tavola c’ha le bave alla bocca e il vino viene consegnato bollente tipo vin brulè. L’assaggiatore beve, dice che è buono ma scotta. Non è casuale. Il bollore nasconde bene il sapore della sardonia e maschera il reagente che, di fatto, è inerte. Britannico senza pensarci ci versa dell’acqua ghiacciata per raffreddarlo e si avvelena da solo, perché l’acqua contiene il secondo reagente che appena incontra il vino si attiva. È il più grande capolavoro di Locusta. Il veleno lo uccide, la sardonia gli deforma la faccia in spasmi facendo sembrare un omicidio una crisi epilettica.
Nerone la copre d’oro e di terreni, diventa suo amico e confidente e le regala animali e vecchi schiavi su cui testare i suoi prodotti. Le fa persino aprire una scuola tutta sua. Dopo l’ennesima rivolta, nel 68 d.C. le chiede un veleno per suicidarsi, che lei gli fornisce assicurandogli che “sarà come addormentarsi in un sogno bellissimo”. Morto lui morirà anche lei, pochi mesi dopo. Il numero di vedove ricche, a Roma, era troppo alto e sospetto. Incarcerata con l’accusa di aver ucciso oltre 400 persone, venne giustiziata il 9 gennaio del 69 d.C. assieme ad altri detenuti dall’Imperatore Galba.
Di lei i libri parlano di rado, quasi per sbaglio. Se ne trova qualche traccia nell’Enciclopedia Treccani, nella Storia d’Italia di Montanelli, in qualche libro sull’antica Roma, pochissimo in rete (e spesso mal riportato). Per il resto, Locusta sparisce tra le pagine della Storia nello stesso modo in cui è nata e vissuta: silenziosa, invisibile, letale.