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L’ombra della Locusta

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In un punto della Gallia, I secolo dopo Cristo.

«Vedete, ragazzi» dice il maestro, camminando davanti alla classe seduta sul prato «nella vita tutti abbiamo una missione da compiere. O un ruolo, che dir si voglia. Nasciamo con dei talenti, dobbiamo solo scoprirli e scegliere se metterli in pratica. Anche se spesso è la vita a decidere per noi»
«MA SE TIPO» squilla una voce femminile «TIPO UNA AVESSE UN TALENTO UN PO’ STRANO?»

La classe si sposta mostrando una bimba dagli occhi grandi, nocciola, con un casco di capelli castani.

«Tipo… stranissimo?» tenta la bimba, preoccupata.
«Cazzo dici, Locusta?» allarga le mani il maestro «sei donna, i tuoi talenti sono cucinare, pulire, scopare, figliare, frignare… quella roba là. Che mi frega, io c’ho il CAZZO» fa il maestro, agguantandosi lo scroto.
La classe ride, divertita.

Locusta nasce orfana nella Gallia romana, non si sa quando, dove o con quale nome reale. Allevata da dei contadini, emarginata dai coetanei a causa del suo essere sprovvista di genitori reali, passa le giornate nei boschi annoverando e assaggiando piante, bacche, funghi e frutti di ogni tipo, da cui il suo soprannome. Viene morsa e avvelenata da ogni genere di animale e pianta possibile, tanto da venire recuperata un paio di volte in fin di vita. Sopravvive sempre, spesso curandosi da sola con impacchi, unguenti e intrugli autoconfezionati, per cui si fa una fama di immortale. Per alcuni, di strega. Appena è più grande diventa ragazza di bottega dell’erborista. Per qualche anno va tutto bene, poi la gente inizia a notare che a differenza di tutte le altre fattorie, gli incidenti campestri in quella dei suoi tutori sono rarissimi. Le talpe e i cinghiali non gli mangiano l’orto, le volpi non attaccano il pollaio, i lupi lasciano stare le pecore.

«Che cosa curiosa» commenta il padre adottivo.
«Pazzesco, proprio» annuisce Locusta, scavando l’ennesima fossa a un cinghiale.

A tredici anni un signorotto del posto sconfina e fa pascolare le sue bestie anche nei loro campi. Dopo suppliche di ogni tipo i due tutori tornano a casa con le pive nel sacco e i campi espropriati. Scende la notte, l’alba illumina un centinaio di vacche con le zampe all’aria e la bava alla bocca. Basta un giro di domande per intuire la verità, e Locusta taglia la corda prima di trovarsela al collo. Nel I secolo dopo Cristo dove potrebbe andare una ragazza gentile, solare, graziosa, sorridente e incredibilmente dotata nell’arte del veneficio?

Bè, nello stesso posto dove dovrebbe andare oggi.

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A Roma.

A diciotto anni la botteghina di Locusta è una minuscola casetta sul colle Palatino. In facciata promette prodotti per la cura del corpo e rimedi per la salute. Sottobanco fornisce rimedi definitivi a matrimoni fallimentari, concorrenza spietata, amanti scomodi ed elettori M5S. Il suo elemento naturale è l’arsenico e i suoi derivati, ma funghi velenosi, cicuta, gisquiamo e piante tossiche sono dominati con una tale maestria da rendere ogni decesso impeccabile. Un veleno di Locusta è invisibile, inodore, facilmente solubile, irrintracciabile e può agire subito come dopo 48 ore. Può essere doloroso o indolore, letale o inabilitante. Basta chiedere.

Diventa subito un punto di riferimento per la ricca borghesia romana. Secondo i libri una delle sue tante clienti fu Messalina, che doveva liberarsi di tale Tito Sestio Laterano, amante di cui s’era stufata e che però non voleva andasse a scopare altre dopo di lei. Locusta, prima di fornire veleno, ascolta. Soppesa con le clienti pro e contro, a volte pianifica con loro l’omicidio o un’altra soluzione. Passa ore davanti a quell’umanità sotterranea che non mostra mai il vero volto per le strade della Capitale. Il resto del tempo lo impiega nel suo laboratorio, dove adora studiare quando fuori piove.

Il problema degli avvelenatori è che sanno comunque troppo e, prima o poi, un cliente decide di tagliare tutti i testimoni. A neanche vent’anni Locusta viene arrestata per omicidio e tradotta in catene in tribunale. La notte prima dell’esecuzione due guardie la prelevano e la portano di peso in una villa stupenda, dove al centro del salotto una donna distesa su un triclinio la osserva.

«Io sono Giulia Agrippina Augusta, seconda moglie dell’Imperatore Claudio» fa la donna, alzandosi in piedi «sono conosciuta come la donna delle domande retoriche. Tra due ore sorgerà l’alba e tu morirai, ma ho una proposta per salvarti la vita: vuoi sentirla?»

«No, guardi, domani devo alzarmi presto» fa Locusta.

«Se troverai un modo per uccidere mio marito, tutto quello che hai fatto sarà perdonato. Diventerai la mia avvelenatrice di fiducia e sarai protetta. Verrai pagata somme stratosferiche, vivrai a palazzo e risponderai solo a me. Ci stai?»

 

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«Quanto tempo ho?»
«Dodici ore»
«Impossibile» scuote la testa Locusta.
«Perché?»
«Perché avvelenare qualcuno si può fare in tre modi: direttamente, indirettamente o incidentalmente. Nel primo gli versi dell’arsenico nel bicchiere, lui forse muore o forse vede che sei nervosa e ti sgama, comunque finisci giustiziata»
«Perché dovrei essere nervosa?» fa Agrippina.
«Hai mai guardato negli occhi una persona che stai per uccidere senza che quella lo sappia? Credi la tua faccia sarebbe la stessa di quando gli passi il sale?»

«Hmmm… no, in effetti no»

«Allora l’indiretto. Paghi uno perché avveleni tuo marito e poi te ne sbarazzi. Il problema è che gli uomini usa e getta sono stupidi, impediti, alcolizzati e con nulla da perdere, oppure sono uomini normali messi alla corda che diventano paranoici, lasciano memorie, lettere, garanzie. Muoiono e domani tutti sanno tutto»
«Non se usassi un mio amante» incrocia le braccia Agrippina, fiera.
«Eh, diamine, a chi mai penseranno?!» allarga le braccia verso il cielo Locusta.
«Penseranno che lui era pazzo di me, e che piuttosto di vedermi assieme a mio marito ha deciso di fare un gesto romantico ed eclatante, ucciderlo e di uccidersi»

«Ma vaffanculo» ride Locusta.
«Esistono decine di uomini pazzi di me che lo farebbero!» sbotta Agrippina.
«No. Un uomo geloso o ammazza il rivale e la donna, o sé stesso e la donna, o la donna e basta. Specie se quando siete diventati amanti c’era già tuo marito. È sempre la donna ad andarci di mezzo. Gelosia, depressione, debiti, infedeltà, alla fine il punto dove sfogarsi è sempre lei, cioè tu. Poi bisogna calcolare il movente, e tu sei la prima che sospetterebbero»

Agrippina tentenna, poi espira sconfitta: «Cosa ti serve?»

«Tutto. Dovrai raccontarmi ogni cosa di tuo marito. Orari, abitudini alimentari, fisiche, mentali. Guardaroba, lavoro, hobby, amanti, consiglieri, amici. Devo vedere cosa fa, cosa tocca, cosa indossa. Chiunque può uccidere qualcuno, pochissimi la sfangano»
«Avrai quello che ti serve» annuisce Agrippina «ma ti avverto: sbaglia, e torni sul patibolo»

Locusta parte dall’idea dei funghi: Claudio li adora, specialmente gli Amanita Cesaria. Somigliano molto all’Amanita Phalloide, fungo così letale che basta un grammo per far andare il fegato in necrosi. I sintomi si manifestano dopo 12 o 24 ore, il che è male. Se Claudio capisce di essere avvelenato ha un sacco di tempo per dare ordini tipo “uccidete quella troia che m’ha dato i funghi avvelenati”.

Il tempo è tutto.

Locusta così inventa uno stratagemma: Agrippina serve i funghi avvelenati. Claudio appena li mangia ha attacchi di vomito e dissenteria tipo me alla proiezione di Prometheus. Convinto si tratti di un’indigestione prende la piuma che usava per vomitare senza sapere che Locusta l’ha imbevuta di coloquintide, sostanza che accelera l’effetto del veleno e ne moltiplica gli effetti. Claudio muore dopo sei ore di agonia mentre Agrippina gli sta di fianco coccolandolo e fingendo di preoccuparsi della sua salute, cosa che la scagiona da ogni sospetto.

È fatta.

 

anigif_enhanced-7727-1413235561-22Salutami l’avvocato divorzista.

 

Agrippina mantiene la parola data, salva Locusta e le fa arrivare ceste di droghe, piante, semi e bestie velenose da ogni parte dell’impero. Sono gli unici doni che entusiasmano Locusta, che passa giornate ad avvelenarsi e guarirsi, felice come una bambina circondata di alambicchi e provette. Anni dopo viene convocata da Nerone, che vuole uccidere Britannico, figlio dell’ex Imperatore Claudio. Anche qui lei domanda quanto tempo ha, ma Nerone non è tipo da aspettare. Le dà un giorno. Locusta deve improvvisare, e la sola cosa su cui può mettere le mani è il vino che verrà servito la sera. Per timore che si sentano sapori strani usa dosi troppo basse: Britannico sopravvive con solo un attacco di diarrea.

Nerone entra nella bottega di Locusta con tre tizi grossi come montagne, spade in pugno. La prende per il collo, la scaraventa contro una parete di alambicchi, le monta sopra e le punta una spada al collo.

«Britannico è vivo, stupida incapace» ruggisce Nerone «l’unico modo in cui puoi servirmi ancora è consegnarti morta e dire che ho scoperto chi ha tentato di avvelenarlo»
«Mi hai dato un giorno di tempo, idiota!» sbotta lei con gli occhi lucidi «cosa volevi che facessi?!»
«Siano queste le tue ultime parole, allora» fa lui, alzando la spada.
«Aspetta!» grida lei «fammici riprovare»
«E come? Ora Britannico ha un assaggiatore di fiducia, è impossibile»

Teoricamente è vero. Un assaggiatore protegge il figlio dell’Imperatore in due modi: se c’è del veleno istantaneo muore al posto suo, se c’è del veleno a lungo decorso ne riconosce il sapore e avvisa. Non si può battere.

Ma Locusta è un genio.
Studia tutto. Stagione, temperatura, mappa del palazzo, elenco del personale, gusti di Britannico, portate principali e secondarie, posateria, calendario delle feste. Crea un veleno e lo prova su una capra che muore dopo cinque ore. Per Nerone è troppo tempo, lei riformula aumentando la concentrazione. Prova su un maiale e scende a un’ora e mezza. A Nerone va bene, ora bisogna trovare un modo per aggirare l’assaggiatore. Locusta trova un piano che per funzionare richiede una tale conoscenza della chimica che per quell’epoca va oltre l’immaginabile: creare un veleno a reazione controllata.

A Roma è un inverno particolarmente rigido, nel 53 d.C. Britannico da un banchetto sontuoso, per cui vengono chiamati altri servitori a lavorare. Locusta tramite Nerone informa i novellini che Britannico esige pietanze e bevande il più calde possibile, poi organizza una serie di questuanti che rallentino il pranzo. Tutto funziona. Quando Britannico riesce a sedere a tavola c’ha le bave alla bocca e il vino viene consegnato bollente tipo vin brulè. L’assaggiatore beve, dice che è buono ma scotta. Non è casuale. Il bollore nasconde bene il sapore della sardonia e maschera il reagente che, di fatto, è inerte. Britannico senza pensarci ci versa dell’acqua ghiacciata per raffreddarlo e si avvelena da solo, perché l’acqua contiene il secondo reagente che appena incontra il vino si attiva. È il più grande capolavoro di Locusta. Il veleno lo uccide, la sardonia gli deforma la faccia in spasmi facendo sembrare un omicidio una crisi epilettica.

Nerone la copre d’oro e di terreni, diventa suo amico e confidente e le regala animali e vecchi schiavi su cui testare i suoi prodotti. Le fa persino aprire una scuola tutta sua. Dopo l’ennesima rivolta, nel 68 d.C. le chiede un veleno per suicidarsi, che lei gli fornisce assicurandogli che “sarà come addormentarsi in un sogno bellissimo”. Morto lui morirà anche lei, pochi mesi dopo. Il numero di vedove ricche, a Roma, era troppo alto e sospetto. Incarcerata con l’accusa di aver ucciso oltre 400 persone, venne giustiziata il 9 gennaio del 69 d.C. assieme ad altri detenuti dall’Imperatore Galba.

Di lei i libri parlano di rado, quasi per sbaglio. Se ne trova qualche traccia nell’Enciclopedia Treccani, nella Storia d’Italia di Montanelli, in qualche libro sull’antica Roma, pochissimo in rete (e spesso mal riportato). Per il resto, Locusta sparisce tra le pagine della Storia nello stesso modo in cui è nata e vissuta: silenziosa, invisibile, letale.

 

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Il Corriere della sera affronta la realtà e fugge inorridito

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A Parigi tre mangiamerda dell’ISIS entrano nella sede del giornale satirico Charlie Hebdo (ossia la versione senza stile e carisma del Vernacoliere) e accoppano gli autori a mitragliate. Il mondo si erge a difesa della libertà di parola e del diritto di satira. Viene creato lo slogan “je suis Charlie” e tutti, anche i peggiori retrogradi oscurantisti, se lo stampano addosso. Travaglio per esempio è quello che davanti agli sfottò dei raccontini pedopornografici della Borromeo scrisse che avrebbe ricacciato quella merda in gola agli autori. Buona parte dei giornali schierati politicamente, specie Repubblica e Il Fatto, sono censori spietati, permalosi e implacabili.

Comunque.

Il numero successivo di Charlie Hebdo viene stampato in tre milioni di copie e distribuito in 25 paesi. In Italia, l’unico giornale che ha il coraggio di allegare Charlie è Il Fatto. Grazie alla mancanza di concorrenza vendono tonnellate di copie, perché anche chi di solito non compra il Fatto Quotidiano se vuole leggersi Charlie Hebdo non ha alternative. Gli introiti economici sono altissimi, ma il vero premio è il ritorno in termini di visibilità e autorevolezza: d’ora in poi Travaglio&Co. potranno sempre sbandierare di essere stati gli unici coraggiosi paladini della libertà d’espressione.

Questo fa rodere il culo agli altri giornali che per semplice codardia sono rimasti a bocca asciutta. Come rimediare? Come fare anche loro bella figura, adesso che l’occasione è sfumata? Nella redazione del Corriere della sera qualcuno nota che tanti disegnatori italiani hanno fatto delle vignette di solidarietà. Al Corriere se le scaricano, le infilano in un libro chiamandolo “Je suis Charlie – matite a difesa della libertà” e promettono che i ricavati andranno in beneficenza.

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Tutto senza chiedere un cazzo a nessuno.

Non è la prima volta che i cartacei prendono senza chiedere. A Doc Manhattan la Gazzetta dello sport ha rubato interi passaggi e se il Doc non avesse avuto una fanbase potente a combattere con e per lui, se la sarebbe presa a poppa.

Ora, tralasciando il fatto che la beneficenza coi soldi degli altri è disgustosa, è come se uno ti entrasse in casa, ti rubasse l’impianto stereo, lo vendesse al mercatino, ci togliesse le spese di trasporto e i soldi restanti li regalasse alla Caritas: non sei Robin Hood, sei Giuliano Amato.

 

 

I disegnatori s’incazzano a mostro, il Corriere fa finta di niente. Poi, siccome la cosa diventa grossa, pubblica l’occhiale a specchio. È un tipo di scusa particolare di noi giornalisti che consiste apparentemente nel chiedere scusa, in realtà dice in termini avvocatesi mi dispiace se siete stupidi e non avete capito un cazzo.

Se vi suona familiare è perché l’ho fatto anch’io su GQ.

I vignettisti la prendono malino. L’occhiale a specchio funziona se hai a che fare con subnormali esagitati a caccia della dose quotidiana d’indignazione: gli dai il contentino, si sentono importanti e tornano alla loro vita di odio e miseria. Se invece hai a che fare con un’intelligenza media e magari ci sono soldi (o immagine) di mezzo, le cose sono più complicate ma possono reggere, a patto tu dopo stia zitto al limite del mutismo aspettando gli indignados si frammentino. Invece la marketing manager (dico, la marketing manager) del Corsera twitta questo capolavoro di stupidità.

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Tweet che fa ben capire quanto siano davvero dispiaciuti di aver rubato il lavoro altrui e di averne ottenerne un profitto. La domanda è:

Perché giornalisti italiani rubano dalla rete?

Per lo stesso motivo per cui un mensile in edicola paga chi scrive sulla copia cartacea, ma chi scrive sul sito lo fa per la gloria. Il giornalismo in Italia è ancora nelle mani di vecchi citrulli che non si sono mai voluti aggiornare e nel 2014 credono Internet sia “una nicchia di falliti”. Metto le virgolette perché ho sentito un collega (nome grosso, nazionale) usare esattamente queste parole: una nicchia di falliti. Ergo lo si può saccheggiare liberamente. Questo è il motivo per cui il Corriere ha fatto ‘sta porcata: perché le vignette erano in Internet, ossia alla stregua dei cessi degli Autogrill.

Tuttavia, da giornalista, penso ci sia anche un secondo motivo che i lettori (o i giornalisti che non han fatto gavetta nei quotidiani) non possono sapere.

La prendo un po’ da lontano.

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Nel 2003 facevo il rapper e volevamo fare un videoclip all’interno dei negozi di Mestre, piccoli spezzoni di non più di dieci secondi montati assieme. Siccome volevamo fare le cose per bene abbiamo domandato il permesso al proprietario. Che problemi potevano esserci? Noi facevamo il video, lui ci guadagnava in pubblicità. A ripensarci è ridicolo, ma avevo 23 anni.

«Mah, prima voglio sentire la canzone» dice il proprietario incrociando le braccia.
Gliela facciamo sentire.

«Non mi piace» fa.
Chiediamo se possiamo comunque fare il video.

«Ma di che tipo?»
Spieghiamo che si tratterebbe di camminare tra gli scaffali e parlare.

«E dove verrebbe proiettato?»
Su MySpace, diciamo.

«Ah, no su MTV?»
No. Magari in futuro.

«Eh, ma io dovrei allontanare i clienti»
Diciamo che no, sarebbe una cosa di pochi secondi.

«Ma magari a loro da fastidio e io perdo soldi»
Ci fa capire con un giro di parole che vuole la mandola. Spieghiamo che non possiamo permettercelo, siamo due sfigati di 23 anni.

«Eh ma allora io cosa ci guadagno?»
In effetti, niente.

«Allora non vi do l’autorizzazione»
Salutiamo e passiamo al negozio successivo, dove si replica la stessa scenetta. In quello dopo, idem. E poi in quello dopo ancora. Troviamo un solo negozio disponibile su una cinquantina. Badate, tutto quello che sto raccontando è vero. Nel negozio iniziamo a fare riprese. Siamo io e un tipo con una videocamera. Dopo tre secondi una tizia sui quarant’anni ci guarda allibita e domanda cosa facciamo. Spieghiamo che stiamo facendo un videoclip.

«Ma voi non mi avete chiesto l’autorizzazione per essere ripresa» dice.
Effettivamente no, diciamo. Se le da fastidio aspettiamo che se ne vada.

«Io resto qui quanto mi pare»
Domandiamo se la signora è disposta a rilasciare l’autorizzazione. Lei dice che dovrebbe leggere il contratto e sapere “a lei quanto viene”. Nel frattempo attorno si forma una folla di gente che la supporta. Noi spieghiamo a tutti quello che abbiamo spiegato prima, ossia che è un videoclip amatoriale a basso budget. Le persone quando sentono “Internet” si allontanano deluse, ma resta la quarantenne che insiste per essere cancellata dai filmati. Cancelliamo e ci allontaniamo in un’altra corsia. Lei ci segue, determinata. Domandiamo perché, lei risponde “è un suo diritto”.

Mentre penso a quali grandi vittorie devono aver costellato la sua vita, rinunciamo.

Il giorno dopo passiamo la mattinata a farci compilare da uno studente di giurisprudenza il consenso all’utilizzo dei dati personali. Ne facciamo una ventina di fotocopie e ci ripresentiamo. Iniziamo a girare e un tizio si intromette dicendo che lui non ha dato l’autorizzazione a farsi riprendere. Esibiamo il foglio, quello ci blocca dicendo “io non leggo niente, non m’interessa”. Allora cambiamo corsia e si forma un capannello di gente con sguardo ebete che osserva e fa “ciao ciao” alla telecamera, o fa scenette che reputa buffissime. Ogni volta che lo fanno, quello che riprende smette e chiede cortesemente di non fare così. Loro rispondono dicendo “io faccio quello che mi pare”, “ho il diritto di” e altre amenità. Quando al terzo tentativo uno cerca di mostrare che sa fare il giocoliere rinunciamo definitivamente.

Gireremo “Generazione” nel sotterraneo di un condominio. L’unico spezzone coi negozi è un fotogramma di qualche secondo che abbiamo girato fuori, dopo che aveva chiuso.

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Nel 2008 facevo l’apprendista giornalista. Ogni volta che ho avuto a che fare col pubblico mi sono trovato di fronte alle stesse pretese di soldi e atteggiamenti da viveur cosmopolita il quale per sciorinare gossip sulla signora del terzo piano pretende somme favolose e di essere trattato manco fosse Mitrokhin. Nel caso migliore, quando domandavo “cosa pensa della nuova urbanistica”, lui rispondeva “eh, guardi, io saprei certe cose…”. Domandavo chiarimenti e lui asseriva con mascella alta e fiera “ehe, devi farmi la domanda giusta”.

All’inizio ci provavo. Dopo ore di dialogo patetico tipo Jason Bourne di Marghera scoprivo che la sconcertante rivelazione erano un grumo di illazioni, cattiverie, farneticazioni da pescivendoli e borborigmi da analfabeta. E questo schema si ripeteva per commercianti, passanti, lavoratori, unica eccezione gli studenti. Tenete presente che facevo cronaca bianca a Mestre, eh, neanche 200,000 anime. Appena ingrandisci un po’, peggiora notevolmente.

 

Quindi?

Penso che oltre ai motivi economici e d’immagine, forse, il Corsera ha preso senza chiedere per la sua esperienza pregressa col nostro strampalato popolo. Il quale, generalmente, rende la via disonesta l’unica percorribile.

Un attentato da leoni

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Nel febbraio 2012 a Bangkok ci sono 28 gradi all’ombra, l’aria è quieta e immobile. Le strade traboccano di venditori, carretti, scooter, biciclette e ultimi turisti. Sunan, tassista di 43 anni, percorre a passo di capra il quartiere Ekemai alla ricerca di eventuali clienti. Vediamo piccole prostitute, ladruncoli, spacciatori, buttadentro, commercianti, un iraniano coperto di sangue che agita una bomba a mano urlando “taxi”, turisti che fanno fotografie, il sole tra le p

 

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Facciamo qualche passo indietro.

 

Il sogno di Ahmadinejad è avere la bomba atomica, il Philippe Patek degli status symbol per estremisti di un certo livello. Al mondo però non piacciono le sostanze radioattive in mano ai pazzi, così Ahmadin dichiara che l’Iran necessita di centrali nucleari per scopi energetici. È come dire che il Venezuela ha bisogno di figa. L’idea che l’Iran e i suoi schioppados siano in grado di polverizzare Israele premendo un tasto non aggrada gli USA. Gli ammeregans tramite chiavetta USB iniettano Stuxnet; un virus informatico che da un lato imputtana tutto, dall’altro fa sembrare tutto funzioni. Risultato, Ahmadinejad non osa accendere manco mezza centrale perché non sa se i sistemi sono infettati e rischierebbe di trasformare l’Iran in Chernobyl director’s cut extended version. Incazzatiello, decide di vendicarsi contro Israele usando il metodo vintage.

«Allora, Alì, che mi hai procurato?» domanda Ahmadin al suo segretario, entrando nel salone del palazzo.
Tutti gli uomini si alzano in piedi, fieri.
«Lasci che le presenti i nostri guerrieri» dice Alì, indicando il più grosso «lui è Assan “Cammellator” Ramallah, lo chiamano così perché s’è addestrato con gli americani e una volta, fatto di eroina, ha ammazzato tutti i cammelli»
«Mi fissavano» precisa Assan «quei cammelli mi fissavano»

«Lui invece è Madib “Miracle blade” Al-Arab, è talmente abituato a usare bottiglie rotte che ormai le usa anche per affettare il pane»
«Poffa il profeta protefferfi» sorride Madib mostrando gengive imperlate di schegge verdi.
«E ora il più puro dei nostri soldati di Dio» sancisce con orgoglio Alì, mettendo una mano sulla spalla dell’ultimo «lui è Saied “San Culamo” Moradi, 28 anni, segue i precetti del Corano rigorosamente»
«Chi è quella?!» sbotta Saied, indicando nell’angolo «cosa ci fa una donna, qui?! Chi l’ha fatta entrare?!»
Tutti seguono l’indice con lo sguardo.

«È un sacchetto della spazzatura» dice Ahmadinejad.

 

 

«Hm»

Il dittatore prende per il collo il segretario e lo porta via: «Questi avanzi di psichiatria dovrebbero essere i migliori kamikaze iraniani?» domanda a denti stretti.
«Maestà, sia comprensivo, abbiamo perso il migliore»
«Jamal? Che fine ha fatto?»
«Ha spedito una busta esplosiva negli USA ma l’affrancatura era insufficiente»
«E quindi?»
«È stata rispedita al mittente. Così lui l’ha aperta e…»
Ahmadinejad chiude gli occhi. Allah, perché tanto ritardo mentale?

«Avevamo un campo d’addestramento» fa il dittatore.
«Sì, ma siamo a corto di alunni. L’ultimo istruttore ha spiegato troppo bene come indossare le cinture esplosive»
«Troppo…?» tenta di indovinare Ahmadin.
«Sì, ha detto “prestate la massima attenzione, ve lo faccio vedere una volta sola”, poi bum. Hanno trovato una gamba sul tetto ieri. Però almeno ora il mondo sa che i nostri istruttori sono una bomba» ride Alì, menando una pacca sulla spalla al dittatore.

È un tipo allegro, Alì.

 

Nel cortile del palazzo è un tranquillo pomeriggio di sole. In sottofondo si odono gli schiocchi della frusta seguiti dai gemiti di Alì.

«Allora, miei guerrieri, gli obiettivi sono tre: nuova Delhi, Tbilisi e Bangkok. Chi vuole andare dove?» domanda Ahmadinejad.
«Per noi è lo stesso, maestà» dice Cammellator «viviamo da tutta la vita nella povertà più assoluta massacrandoci di seghe, mangiando pane raffermo, bevendo acqua stagnante e pregando Allah. Non temiamo difficoltà o stenti»
«Voi siete uomini puri, amico mio» annuisce ammirato il dittatore «non immaginate quali nequizie ci sono là fuori. In voi vedo la purezza dei martiri, con che coraggio posso mandarvi a morire laggiù?»

«Non comprendiamo» dice Saied.

«La Thailandia è una capitale del vizio. Ovunque troverete prostitute capaci di cavalcarvi per ore e ore mentre lesbicano altre meretrici. Corpi sodi e minuti, tette ingigantite da mastoplastiche e culi marmorei, aperti a ogni tipo di fornicazione. Poi alcool a fiumi, birra, rum, whisky, per non parlare di maiale cucinato in ogni modo a ogni angolo di strada. E droga, amici miei. Droga. Montagne di droga. Oppio, ganja, cocaina, tutto di qualità purissima. Inoltre avreste un conto corrente illimitato, merito dei nostri ricchi finanziatori» scuote la testa Ahmadinejad, schifato «voi siete martiri. Meritereste di morire circondati da sabbia, umiltà, morigeratezza. Due di voi andranno a Nuova Delhi e a Tbilisi, ma chi di voi si sacrificherà andando a Ba
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Cammellator arriva a Tbilisi, scopre qual è la macchina dei diplomatici e attacca la bomba sotto la marmitta, luogo visibile anche a un imbecille. L’autista passa di lì, nota l’ordigno, chiama la sicurezza e la bomba viene disinnescata senza problemi. Il mattino dopo arrestano un idiota che in mezzo alla strada continua a premere il pulsante di un telecomandoMiracle blade, a Nuova Delhi, mette una bomba sotto il bagagliaio del minibus che dovrebbe trasportare diplomatici israeliani. Esplode uccidendo le valigie mentre quattro persone si domandano chi ha scorreggiato. Ad Ahmadinejad resta una sola, ultima, disperata possibilità: la squadra di Moradi.

 

 

Saied Moradi, Mohammad Khazaei e Masoud Sedaghat Zadeh escono dall’aeroporto di Pattaya alle 22. L’idea è quella di trovare un albergo a basso prezzo per non intaccare troppo le finanze di Al Qaeda, svegliarsi di buon’ora, pregare, documentarsi sull’obiettivo e vivere in ristrettezze economiche fino al giorno dell’agguato. Questo splendido programma viene polverizzato da una ragazza-buttadentro che all’ingresso del quartiere turistico regge un cartello.

8562158(Che per la cronaca non è photoshoppato)

I tre dicono “vabbè, una birretta, giusto per ambientarsi”, dopodiché il resto è un degenero verticale di droga, alcool e prostitute. Manco tre ore dopo l’atterraggio Saied e gli altri brancolano per strada fatti come stegosauri e col cazzo fuori perennemente in tiro, perché se da loro devono infoiarsi guardando un tappeto arrotolato che cammina, qui una ha il reggiseno solo se ha freddo. Tra bamba, mortazza, whisky e pompini si fanno Pattaya, poi Phuket e in cinque giorni arrivano a Bangkok. Ormai ridotti a bestie prive di raziocinio o memoria rimorchiano ulteriori mignotte con lo splendido approccio “ciao bella, siamo terroristi, domani uccideremi gli ebrei, scopiamo?“.

0a18b037-dfac-4558-a5f1-f6ca376b3e65 Da sinistra Kahzei, Saeid, Masoud. La foto è vera.

 

All’alba del quinto giorno Masoud apre un occhio. Nell’appartamento pare sia passato l’uragano Katrina. La nebbia del fumo è densa, il puzzo di sudore micidiale. Il pavimento è allagato, dal bagno proviene il suono di acqua corrente. Ci sono bottiglie vuote, schegge di vetro, cicche, scatole vuote di Viagra, cenere e cocaina sparpagliata, porchetta in putrefazione sui braccioli delle poltrone, schizzi di sperma sui muri, sulle tende, sulle coperte. Ovunque. Sul soffitto troneggia una macchia di vomito da cui cadono, pigri, pezzetti di cibo etnico. Saied russa, nudo, con un coniglio di pelouche che gli spunta dal culo. Khazai dorme sulla poltrona. Dollari americani bruciacchiati, macchiati o arrotolati fluttuano nel putridume. Un rotolo galleggia vicino al piede di Masoud. Dall’esterno, il solito suono del traffico. A fatica raggiunge il bagno. Che ore sono? Che giorno è? Dove sono? pensa, pisciando con una smorfia di dolore su quello che resta del water. Si gira e sullo specchio legge scritto a pennarello “oggi kaboom”.

«ALLAH!» sbraita, risvegliandosi «RAGA SVEGLI, È IL GRAN GIORNO! DOBBIAMO MORIRE PER IL PROFETA, IN PIEDI!»
Saied si contorce per dire qualcosa, poi espira sconfitto e si piscia addosso. Le prostitute si alzano, vigili, poi attaccano a gridare anche loro.

«Pheṣ̄ xūṭ̄h khuṇ ca t̂xng h̄ı̂ ngein h̄ı̂ kạb reā!»
«Cazzo dite, non capisco niente» fa Masoud, arrancando nel cacaio del pavimento «allora, per montare la bomba dovevo… hmm, dovevoo…»
«Mī pheṣ̄ s̄ạmphạnṭh̒ thuk khụ̄n txn nī̂ c̀āy!» bercia una, poi gli assesta una sberla.
«Kị̀ k̄hnād lĕk cāk ngein c̄hạn h̄rụ̄x c̄hạn ca ḳh̀ā khuṇ!» fa un’altra, emulandola.
«SAIED, NOSTRO FIDO CONDOTTIERO, GUIDAMI!» geme Masoud, tentando di liberarsi dal vortice di botte.
«I laik small transex» replica Saied nel sonno.
«Mị̀ dị̂ khuṇ r̂xng khuṇ ca t̂xng c̀āy!» strillano le ragazze prendendolo a borsettate «H̄ı̂ c̄hạn ngein! HI CHAN NGEIN!»
«C̄hạn ca rāyngān h̄ı̂ khuṇ tảrwc!»

Tra le botte Masoud guarda l’orologio: ha tre minuti per svegliare i compagni, lavarsi, pregare, vestirsi in modo da non attirare l’attenzione, assemblare l’ordigno, raggiungere l’ambasciata israeliana e piazzare la bomba che avrebbe dovuto essere già lì molti giorni fa. Invece è in un appartamento circondato da drogati e puttane.

 

In quel momento, a nel palazzo imperiale a Teheran, Ahmadinejad guarda il televisore sintonizzato sul canale thailandese. Di fianco, il segretario suda.

«Tra pochi minuti i nostri martiri colpiranno, maestà» dice Alì «con la precisione, la potenza e la determinazione di chi è nel giusto»
«Inshallah» dice Ahmadinejad, orgoglioso.

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Bangkok.

«VABBÈ FORSE MI RICORDO» dice Masoud, lanciandosi sul tavolo dove sono ammassati i componenti della bomba, inseguito dalle isteriche «FILO ROSSO VUALA’, FILO GIALLO VUALA’, NITRATO D’AMMONIO VUALA’, INNESCO VUALA’, BOMBA ASSEMB

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L’esplosione disintegra l’appartamento proiettando sul quartiere una pioggia di liquidi organici, soldi, droga e brandelli di prostitute. Masoud si rialza, ferito ma inspiegabilmente vivo. Le pareti non ci sono più. Il soffitto ha lasciato il posto a un cielo azzurro. Khazai ha lo sguardo inebetito, perde sangue dalle orecchie e dondola ripetendo “i’m Prada, you’re nada”. Saeid si alza dalla poltrona, sveglio. Guarda Masoud.

«Hai fatto bene ad aprire la finestra» sbadiglia, togliendosi una tetta di silicone sanguinolenta dalla faccia. Si esamina. Ha il corpo martoriato di schegge e di ferite aperte.
«È ANDATO TUTTO AFFANCULO, IMBECILLE!» grida Masoud, barcollante «LA BOMBA È ESPLOSA, ARRIVANO GLI SBIRRI, SCAPPIAMO!»
«COME ESPLOSA?!» sbotta Saeid «e gli ebrei? Il Corano dice che se non moriamo uccidendoli…
«Ma tu l’hai mai letto, il Corano?» fa Masoud, raccattando roba e ficcandola in borsa.
«No, ma ho visto il film»
«È proibito rappresentare Maometto o Allah, cazzo di film hai visto?»
«Dai, quello che ci siamo noi vestiti di nero guidati dall’occhio di fuoco che andiamo a spaccare il culo all’occidente perché ha le donne e noi no»
«Quello è il Signore degli Anelli» si blocca Masoud «cioè tu credi davvero di lavorare per Sauron l’oscuro signore?»

Saied impiega un po’ a realizzare che quello in cui crede sono baggianate e le cose sono ormai irrimediabilmente fottute. A quel punto afferra due bombe a mano e corre in strada perché tanto, ormai, a ‘sto punto andiamocene con stile.

 

A Teheran, gli occhi di Ahmadinejad giocano a ping pong tra l’orologio e il televisore. Di fianco, il segretario divora unghie e trema con brio.

«Questione di secondi, maestà» pìgola «sa, queste cose non possono essere proprio precise. Uno scarto di qualche secondo, il tempo che i giornalisti assemblino le notizie…»
«Hmm» commenta Ahmadinejad.

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Bangkok.

Saied raggiunge la via principale indossando solo una tunica insanguinata, l’afrore di urina e due bombe a mano. Vorrebbe raggiungere l’ambasciata, ma a piedi impiegherebbe mesi; così l’idea più logica che il suo debilitato intelletto partorisce è di chiamare un taxi agitando una bomba. Qualunque tassista farebbe salti mortali per caricare uno straccione ansioso di farsi esplodere, ma non quel giorno. Non lì. Il taxi lo dribbla e Saied ci resta male. Gli lancia dietro la prima granata, che rimbalza e detona senza conseguenze.

«Ah, bene, ora le granate rimbalzine» esclama, mentre la folla attorno fugge. «Adesso ci starebbe un mojito».

 

 

In Iran, Ahmadinejad riceve un plico di fogli coi prelevi del conto corrente. Li sfoglia con impassibilità. Il segretario butta un’occhiata e riesce solo a leggere “Anal vortex stripclub – 12.590 dollari” e “Pork paradise kitchen – 6.799 dollari”. Ruota la testa verso il segretario molto, molto lentamente.

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A Bangkok tutta la polizia dell’Asia sudorientale arriva nel quartiere a sirene spiegate e intima a Saied di lasciare la granata. Il terrorista reagisce con un gesto così idiota da immobilizzare lo sbirrume; invece di giustiziarlo, i poliziotti restano a guardare la granata che colpisce la fiancata di un’auto, rimbalza, poi colpisce un albero e rimbalza ancora fino a rotolare tra le gambe di Saied, ove detona gloriosa.

A Teheran la televisione racconta i fatti mostrando in mondovisione le immagini di Saied ridotto a un moncherino sul marciapiede che ride, probabilmente perché ha letto quelli che si lamentano della loro giornata su Twitter. Masoud verrà arrestato a Kuala Lumpur mentre si ubriaca in un bar, Khazaei lo ammanettano all’aeroporto mentre tenta di volare in Malesia.

Processati, riceveranno tutti e tre il carcere a vita.

Il problema degli estremisti è che sono estremamente stupidi.

Citazioni testuali dal filmato di Barbie Xanax a ferragosto.

2.14 “si tenta terribilmente di far ridere su qualcosa che non fa ridere. La violenza può far ridere in un cartone animato”.

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6.50 (tono sarcastico) “che simpatia lo stupro, maaamma mia, cosa fa più ridere dello stupro? Santo cielo! Io m’immagino, quante risate, mamma mia!”

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10.59 “Vorrei chiedere, precisamente [alla redazione di GQ]: avete intenzione di togliere questo post? Avete intenzione di evitare che certi argomenti siano trattati in questo schifo di modo?”

 

Sei mesi dopo.

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Libertà d’espressione e censura non vanno molto d’accordo.
Sarebbe come mettere War Machine e Christy Mack nella stessa stanza.

La vera trama de Lo Hobbit 3

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Avevamo lasciato Hamas e la compagnia dei nani McDonald nella montagna proibita dopo aver fatto conoscenza col signor Morte-Distruzione-Smaug, un drago che Internet ha definito “sfaccettato, complesso e molto profondo” perché è un personaggio senza vita affettiva che vive in un buco senza uscita sommerso di oggetti che non gli servono, modo letterario per definire un paladino di 90° livello su World of Warcraft. Tra loro c’è Bilbo Teabaggins, che tutti ben conosciamo.

Nella valle sottostante, a Venezia, il nano figlio del peggior giavellottista del mondo è stato ingabbiato perché incarnava la profezia per cui non dovevano farlo entrare in città, quindi la cosa migliore da fare è tenerlo in città. Gli altri nani, tra cui quello fissato con l’interrazziale, cazzeggiano in giro.

Morte-Distruzione-Smaug plana su Venezia bombardandola col napalm. Il nano incarcerato si libera dalla prigione come fosse di cartapesta, usa il proprio figlio per costruire una balista di fortuna e si prepara allo scontro epico con Smaug che tra monologhi tonitruanti e frasi drammatiche sicuramente impiegherà molt
Muore.

«Smaug è morto» annuncia Bilbo, guardando Venezia dall’alto della montagna proibita.
«Ma smettila» sbuffa un nano.
«Raga, sul serio. È volato in cielo, ha urlato e s’è smaltato per terra»
«Seh vabbè, Smaug Taricone»
Risatine soffocate.

«Ha gettato il sangue sul serio, deficienti!»
«Bilbo, c’han fatto due palle così col personaggio enigmatico e complesso, le profonde pieghe della sua psiche travagliata… figurati se muore»
«È morto che pare il M5S!»
«40 minuti per uscire da casa tua e per accoppare fuoco-morte-distruzione una sveltina? Dai, per cortesia»

«E’ MORTO!»
«Ma va là»

«Se guardassi il cazzo di Bossi vedrei qualcosa più vivo di Smaug»
«Impossibile»
«SE GUARDASSI YARA CHE CAVALCA IL CANE CON L’EBOLA SU PER LE SCALE DELLE TORRI GEMELLE
«Basta!» lo interrompe Hamas «La voce della morte di Smaug si spargerà in fretta, tutti vorranno l’oro della montagna» medita, preoccupato.
«C’avevo parlato con Smaug, era forte» geme Bilbo, sedendosi «orbo come una talpa e privo di motivazioni come me, sì, ma comunque aveva più spessore dell’imbecille lì» dice indicando con la testa un nano a caso.
«Cerchiamo l’arkengemma» dice Hamas «o meglio, voi la cercate, io mi siedo sul trono di marmo nella stanza buia a parlare da solo»

Stacco. Gandalf è imprigionato in una gabbia circondato da orchi e fantasmi, arriva l’elfessa con l’agente Smith di Matrix e lo stregone cattivo del Signore degli Anelli, si menano coi mangiamorte di Harry Potter, Gandalf rimedia il solito ciclomotore cavallo non si sa da dove e galoppa verso Venezia per avvisare che un casino di orchi palestratissimi sta arrivando per appropriarsi dell’oro con cui pagare l’abbonamento al Mordor fitness center.

A Venezia il nano figlio del giavellottista diventa l’eroe degli sfollati e organizza l’evacuazione nella città abbandonata sulla terraferma, cioè Mestre. L’altro nano fissato con l’interracial flirta con l’elfessa che a parte citare Fabio Volo non serve a nulla. Questa portentosa compagine di profughi giunge a Mestre trovando milioni di elfi in armatura, anche loro giunti lì per battere cassa. Nella montagna Hamas decide di barricarsi dentro facendo costruire agli sgherri un muro di Pongo a mo’ di porta. Il portavoce degli elfi giunge sotto le mura cavalcando un alce.

«Ha ha ha, ma vaffanculo» ride Hamas «dai cazzo, era più dignitosa la Lambretta»
«Poche storie, vogliamo la nostra parte di grana!» tuona l’elfo.
«Per farci cosa?» risponde il capo terrorista «che ve ne fate, vivete per migliaia di anni!»
«Appunto! Ogni pranzo di natale coi parenti par la distribuzione degli aiuti umanitari a Mogadiscio! E’ meglio morire qui che dover affrontare una cena con la famiglia di mia morosa, al settordicesimo bisnonno che mi chiede che lavoro faccio m’ammazzo comunque! E poi…»
«…poi?» chiede Hamas, curioso.
«…dobbiamo pagarci un nuovo interior designer, va bene?» spiega il portavoce.
«Un cosa?»

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«Ma l’hai visto Gran Burrone!?» strilla quello « Mia nonna ha la camera da letto al ventesimo piano e il cesso in cantina, si caga addosso al decimo e si riaddormenta al tredicesimo! Ogni mattina c’inciampo, sveglio a calci lei e atterro sulla sua merda io!»

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«Io tornavo a casa dal lavoro alle nove di sera!» grida un soldato elfo «piuttosto che fare cinquanta piani di scale per trombarmi mia moglie preferivo incularmi l’inquilino del primo piano! Ho divorziato e lei s’è buttata dal balcone per disperazione! Abbiamo dovuto fare i funerali col paracadute o arrivava già putrefatta!»
«Poi tutte ‘ste cazzo di cascate senza ringhiere, in un mese totalizziamo più affogati dello sbarco in Normandia! Siamo l’outlet delle barriere architettoniche!»

«Calma, calma» fa Hamas «capisco le vostre ragioni, in questa montagna è tutto marmo a chilometri sottoterra, fa così freddo che mentre uno cagava è caduto ed è morto impalato. Ma l’oro è solo mio»
«E cosa ve ne fate, voi nani?» domanda l’elfo.
La compagnia dell’obesità si gira verso Hamas, incuriosita. Nessuno di loro saprebbe rispondere.

 

 

 

 

«Bè… statue, perlopiù» fa spallucce lui «…ma grosse, tipo»
«Anche il vostro interior designer è un genio»
«Eh, non si finisce mai di impalare»

La compagnia di Hamas è composta da undici obesi e un muro di plastilina, gli elfi sono milioni incattiviti e ben armati. Non si capisce perché trattare quando potrebbero fresargli il buco del culo ruttando, ma proprio quando questo pensiero sfiora l’elfico portavoce, arrivano gli orchi. Inizia il massacro. Risulta subito chiaro che gli ufficiali degli elfi si sono addestrati su Internet, in quanto l’organizzazione di fanteria, cavalleria, arcieri e artiglieria consiste nel buttarli tutti dentro a cazzo. I fabbri delle armature invece devono averli presi tra i mastri vetrai di Murano perché sono bellissime lucidissime e offrono la stessa protezione dell’imene di Valentina Nappi.

«Sai, Bilbo, m’è venuto in mente che Smaug con tutto quell’oro forse doveva pagare l’ENI» mormora Hamas, osservando la battaglia.
«Mentre ci pensi faccio un salto alla Feltrinelli» risponde Bilbo, calandosi dalle mura e portandosi dietro l’arkengemma.

Nel campo di battaglia arrivano i parenti dei nani che combattono fianco a fianco con gli elfi. Segue siparietto di Legolas che conduce la sospensione dell’incredulità in un campo e la giustizia con una pistolettata alla nuca. Hamas va nelle viscere della montagna, si cala un acido, fa un trip peso e ne esce allucinato. Smonta il muro di pongo e conduce gli undici obesi all’attacco al rallenty, arriva al rallenty, parla al rallenty, mena al rallenty. Purtroppo gli orchi son gente pragmatica e continuano a decapitare, mutilare, squartare gente come se niente fosse. In disparte quelli che dovrebbero essere i protagonisti chiudono le loro linee narrative con duelli contro orchi personalizzati. Hamas si trova su una lastra di ghiaccio contro l’orco capo, che sospetto essere lo stesso attore di Avatar, di Cowboy contro alieni, di Super8, di John Carter, insomma quello che cammina stringendo i deltoidi per evidenziare le possenti spalle. Il duello finisce che s’ammazzano a vicenda nell’indifferenza del pubblico che odiava Hamas molto più dell’orco. Kate le prende da un goblin e sta per morire ma arriva l’elfo interracial che muore, allora Kate passa a un altro goblin e anche qui sta per morire. Lo sguardo di lei è disperato, fiero, spaventato, coraggioso. L’orco è immenso e spietato. Per un istante, caricando il colpo ferale, il mostro alza gli occhi al cielo dietro di lei. L’espressione di rabbioso trionfo gli si scioglie addosso, poi gli sceneggiatori e il regista lanciano la scelta più coraggiosa di tutta la trilogia:

A-ding-ding-ding, ha-ha-haaa, dice Afric Simone dalle casse dell’impianto, a-ding-ding-brrrr, Rama-ya!

Wham! Le luci del cinema s’accendono come d’incanto, dal soffitto cala una palla da discoteca. Per un errore di trascrizione nella sceneggiatura, Radagast è stato trascritto Ramaya. La sala è tutta in piedi mentre sullo schermo Afric Simone cavalca le aquile verso la battaglia finale. E’ una scena bellissima che vale il prezzo del biglietto. Siamo tutti che balliamo cantando e abbracciandoci. Tanto, ormai, nessuno ci rimborserà mai il prezzo del biglietto.

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Afric Simone si appresta a risolvere quello che all’apparenza sembrerebbe l’ennesimo blocco narrativo causato dalla più assoluta ignoranza delle più elementari nozioni di storia militare europea, ma MIRANDA TUMBALA

tumblr_inline_mid81qar7Q1qz4rgpBOKUKO RAMAYA!

Le aquile planano tra le fila degli orchi, decimandoli.  Legolas col fucile Barrett su una torre uccide l’orco che stava per uccidere Kate, poi vola. Vola, sul serio. Legolas vola. Atterra su un sasso che fluttua nel cielo tipo Sonic, si gira verso il basso e grida al generale degli elfi che mettere donne in fanteria e uomini arcieri si è inaspettatamente rivelata un’idea del cazzo ma HEY JAMBOJI BARA BARA, qual è il problema?

Stephen-colbert-celebration-gifLALA LALA LA LA!

Decapitazioni, mutilazioni, sangue, squartamenti ballano sullo schermo e balliamo noi, dimenticandoci che in un film di Hobbit si suppone dovrebbero esserci hobbit mentre l’ultima volta che ho visto Bilbo stava dormendo su un sasso trenta minuti fa. M’importa? BOKUKO RAMAYA. Metà protagonisti sono morti senza che io abbia capito che erano protagonisti, l’antagonista è sbadatamente morto nel prologo ed è stato sostituito dalle comparse orche del primo film, MIRANDA TUMBALA?

tumblr_mbr3owhfBh1qbexe6o1_250OH OH OH RAMAYA!

Gioiamo e balliamo felici perché sono riusciti a truffarmi, mai avrei osato mettere piede al cinema se la trilogia si fosse chiamata “Lo Hobbit – Chi l’ha visto”, se mi avessero detto che avrei speso oltre venti euro per guardare undici spiderman obesi senza storia o personalità messi lì senza motivo tipo me in una facoltà di lettere, ma che importa?

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La battaglia termina: contro tutti i pronostici gli orchi hanno perso di nuovo. Bilbo torna nella Contea e scopre che gli stanno vendendo gli stracci credendolo morto. Lui si barrica dentro e per 110 anni scrive questa perla di storia. Il film si conclude con Gandalf che gli fa una visita, iniziando una trilogia vera.