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Ecco come succedono queste tragedie




Zen cafè, un long island ed un havana cola. Chiacchiero con l’amico Carabiniere quando la frase “ah, Nebo, una mia amica ha detto che passa con un’amica” esce dalla sua bocca e si appoggia sul tavolo, sinistra e minacciosa come una pistola. Io ho trent’anni, signora. So quando, come e perché succedono queste tragedie. Le trentenni per evitare il confronto con le ventenni cacciano a coppia, possibilmente dentro posti tattici dove star seduti. Da seduti le prede vedono trucco e scollatura mentre il culo sta occultato sotto il tavolo. Sto pensando al leone che viene impallinato all’abbeverata quando
«Uff… cosa ci offrite da bere?» dice una voce femminile alla mia sinistra.
Da qualche parte sento uno sparo.
Appare prima un barile di olive ascolane. Indossa camicetta bianca scollatissima con pushup, pantalone nero sintetico a zampa di tirannosauro e sandali sfighi con accenno di tacco rinforzato titanio. Dalla punta fuoriescono grappoli di cotechini somiglianti a dita. Il viso è una maschera impenetrabile di creme e colori. Muggisce con pacata euforia.

 «Dov’è la tua motosega, Jason?» domando.
 «Come?»

E’ dolcissima. E’ un’adorabile balena spiaggiata sulle coste della vita. Mi alzo, le stringo la mano.

 «Scusami, parlavo col mio amico. Piacere, Nebo»
 «Claudiahehe, eh»

Nei suoi primi 20 dev’esser stata un bluff che ha funzionato da Dio, permettendole di aggrapparsi alle testiere del letto di molti giovani imprenditori. Poi, la convivenza e le Pringles. Una vagina che dall’oggi al domani si ritrova schifata da tutti potrebbe ricalcolare la sua intera esistenza. Penso che la serata potrebbe funzionare, penso che voglio davvero ascoltarla parlare. C’è una luce, sotto quegli occhi d’aspirante suicida. Felice della cosa, incrocio sbadatamente lo sguardo con l’amica.

E capisco che devo andarmene il prima possibile.

«Bè? A me nessuno dà la mano?»
«Nebo»
«Ah, ecco» stringe a pesce morto «Marta. Cos’è che si beve in ‘sto posto?»

Al tavolo non c’è più nessuno. Nel locale non c’è più nessuno. Siamo solo io, lei, un video con un pupazzo ed una chiave nascosta da qualche parte. Mi guarda da sopra la montatura hipster mentre ciuccia la caipiroska con il mignolo di fuori. Larghi occhi spalancati. Frrplllch, fa la fragola dalla cannuccia. Frrplllch.

 «Di cosa ti occupi?»
 «Scrivo. Sono freelance per il Gazzettino e per la Nuova»
 «Ah» sposta lo sguardo, sorriso sarcastico.
 «Tu invece che fai?»
 «Sono precaria»
Giuro.

 «Cosa vuol dire precaria?»
 «Non ho sicurezze, per adesso»
 «Fai il manichino per i crash test?»

Quando non riescono a dire che lavoro fanno alla seconda battuta se sono maschi fanno lavori tipo “Social aggregator Manager”, se sono donne fanno ripetizioni a bambini ritardati ed escono tutte le sere alla disperata di ricerca di qualcuno da divorziare. 

«Lavora in un’agenzia interinale» interviene il carabiniere.
«Però sono psicologa» precisa.
Parte la sigla dell’eurovisione.

Le psicologhe. Per buona parte della mia vita ho creduto di avere una malattia che calamitava a me queste tizie. Stetti per due anni con una psicologa che tentava di convincermi che la Pet therapy avrebbe rivoluzionato il mondo e salvato vite umane dall’autodistruzione.


Secoli di medicina psichiatrica ci hanno portati a questo


Non sono io, comunque. E’ che l’Italia oramai ne è piena. Se le case di tolleranza fossero ancora aperte queste quaglie avrebbero soldi, fama, un tetto, un lavoro dignitoso, pagherebbero le tasse, contribuirebbero a salvare l’Italia dalla crisi economica ed annullerebbero il fenomeno del turismo sessuale. Sarebbero membri produttivi della società. No. Niente. Siccome siamo in un paese di preti malati bisogna laurearle in psicologia e lasciarle vagare per i centri commerciali.
Fanno i centri di detenzione per gli albanegri, i campi profughi per gli zingari ma non possono fare le case di tolleranza per le psicologhe. No. Tonnellate di carne da bocchini ogni anno patisce l’irrealizzazione personale in uffici, segreterie, sportelli alle poste e saldi da H&M.
«Tu e lui come vi siete conosciuti?» domanda.
«Ci siamo b
«Basta che non sia una roba noiosa, eh?»
«Se vuoi ci metto dentro delle parole chiave così da tenere alta l’attenzione tipo “omicidio”, “pompino” e “stupro”»
Ogni giorno un operaio, un fresatore, un artigiano, un contadino devono andare in un’agenzia interinale ed avere a che fare con queste macchine da eiaculazione che con aria saccente spiegano come il curriculum abbia un font troppo piccolo e sia privo di un brand soddisfacente. Ma perché? Non c’è niente di male a dare il culo per soldi. Lo fanno dall’inizio della storia del mondo. C’era una volta un dinosauro di otto metri, un uomo con la clava e una che apriva le gambe per una bistecca.

Finiva che morivano tutti tranne la tizia che diventava obesa.


Anche nel medioevo era pratica comune. A suon di pagare per sifonare una tizia uno ci si affezionava e se la portava a casa. Quella accudiva i figli, teneva a posto casa, faceva trovare un piatto caldo al ritorno ed ereditava la casa quando il tipo moriva sui campi di battaglia. Poi i preti hanno cominciato a preferire i buchi stretti dei ragazzini ed è andato tutto affanculo.
«Io sono una molto umile, anche se non sembra»
«TU? HAHAHAHAHAHA!» scoppia a ridere Jason, a fianco a me.
«TU? HAHAHAHAHAHA!» sputa il carabiniere.
«Nel senso che minimizzo molto» ringhia «sembra quello che faccio non sia niente di che, mentre invece…»
«Sei la proprietaria dell’Umana?»
«No. Faccio teatro»
Racconta che convive, ma progetti più seri “non si concretizzano”. E’ strano, spiega. Eppure stanno insieme da tanto. L’età è quella giusta, sarebbe tempo ed ora ma lui non fa il grande passo.
Quello che le donne non capiscono della convivenza è che è come l’università: credono sia il lieto fine ma è solo il fine primo tempo, e se non hai un progetto a lungo termine è inutile. Un uomo che convive da anni non è che “non pensa” a sposarti, è che proprio non gli interessa farlo; se credi in qualcosa ci investi. L’uomo sta comodo, ha un posto dove scopare, spese dimezzate e un’interprete tra lui e la lavatrice. Perché legarsi? A differenza della femmina ha tutto il tempo che vuole.
Non che manchino gli uomini interessati, è che le psicologhe di provincia si sopravvalutano sempre. Le supercafone eccole quaaaa e si aspettano alla porta bussi un mix tra Johnny Depp, il Padrino e Vin Diesel. Finisce che la danno solo a quelli che le truffano con SUV a rate ed appartamento dei genitori. Poi dopo sei anni di convivenza si mollano e raccattano il primo che trovano. E’ buffo, a pensarci. Si tengono stretta la fica per tutta la prima metà della vita e nella seconda metà la vita non fa altro che buttarglielo al culo.

Ecco come succedono queste tragedie, penso alzandomi e pagando.
Solo il mio drink.

17. Tumbthumping

Guardo dallo specchietto il campeggio e le insegne francesi allontanarsi. Mi aspetto che l’elicottero di Rambo 3 esca dalle dune sventagliando raffiche di mitra mentre sirene spiegate ci inseguono sparando. Niente di tutto questo accade. Solo l’alba, una strada deserta, quattro catorci umani felici come bambini ed il sole dietro una coltre di nuvole.

«Il fumo c’è tutto, non l’hanno nemmeno toccato. La ganja in compenso l’han massacrata.»
«Ok, torniamo indietro?»
Risate esauste.

Non so dove siamo, la cartina è indecifrabile. Attraversiamo stradine malmesse che prima perdono la segnaletica, poi l’asfalto diventa un insieme di macchie buttate chissà quanti anni fa, la carreggiata si stringe, diventa una sola striscia grigiastra coperta dal terriccio. Un eterno labirinto di viuzze deserte in mezzo alla macchia mediterranea. Nessuno, mai, solo la risacca del mare in sottofondo. Sembra la Transilvania, mancano solo i vampiri in costume da bagno. Solero ed Atza russano, Ario guida silenzioso, prendo fiato e confesso l’atroce verità che mi porto dentro. Mi sento un dietologo davanti ad una con il morbo di McDonald, quello che ti ingrossa le ossa e ti fa assimilare tanto.

«Ario, sai che giorno è oggi?»
«No. Perché, ti devono venire?»
«E’ domenica, se ho fatto bene i conti. Noi siamo partiti sabato. Sabato scorso, ci sei?»
«E allora?»
«Ario, Luca stava una settimana in Spagna. E’ tornato ieri pomeriggio.»
Si gira.
Lo so, lei non mangia praticamente niente, signora, è tutta costituzione.

«Vuol dire che non c’è nessuno ad aspettarci?»
«Sì. Ci abbiamo messo troppo tempo.»

La macchina rallenta e accosta. Neanche sei metri a sinistra c’è una scogliera sul mare. Ario scende, si accende una Lucky Strike, passeggia in quella direzione. Temo un gesto sconsiderato. Il resto della ciurma russa, io esco e lo seguo come la migliore Rossella o’Hara. Guardiamo in silenzio l’enorme e sconfinata tavolata azzurra, la brezza di mare risale la parete rocciosa e soffia via il fumo della sigaretta accarezzando il viso a noi, piccoli bambini sperduti e focomelici.

«Che vuoi fare?» domando «il confine è a due passi da qui».
Sta senza rispondere, seduto su uno spuntone di roccia.
Quando apre la bocca è stranamente serio: «Nebo, sarei stanco.»
«Andiamo avanti» dice Solero, spuntando alle nostre spalle «se mi fate arrivare ai soldi ci penso io.»

Ario lancia il mozzicone nel vuoto. Questo è il momento in cui si decide tutto. Stiamo da schifo, la macchina tra fuori e dentro è un catorcio, non abbiamo una lira e siamo Dio sa dove nella francia del cazzo. Il morale è più in basso delle palle di Brunetta. Adesso sappiamo che manco troviamo Luca perché mi sono svegliato con il calendario mentale postposto. Non dormiamo da due giorni. Solero ha le labbra che sono un filo. Lo sguardo di ghiaccio, la voce esce come un ronzio sinistro. Espira piano.

«Portami a Barcellona, ti dico. Facciamo il confine e in due ore ci siamo, tre al massimo. Ho amici lì per tutta l’estate. Ne abbiamo passate troppe per mollare adesso. Ti pago carrozzeria, finestrino e benzina per il ritorno. Tutti io. Ne abbiamo passate troppe per tornare indietro adesso.»
Ario lo guarda tra lo scettico ed il divertito: «Tutti tu?»
«Tutti io. Poi ‘sti tizi hanno una casa. Se gli chiedo di stare lì non mi dicono di no, non con questo zaino dietro.»
«Atza non sarebbe d’accordo.»
«Atza dorme.»

La 127 parte. La stradina si allarga, diventa una specie di statale. Alla frontiera la polizia spagnola non si capisce se stia lì a lavorare o a ciucciar ghiaccioli, ma non importa. Il poliziotto Ibanez Ybarra tortillas caliente hola carramba agita la mano annoiato e ci spalanca le porte del paradiso. San Pietro non sarà così clemente, un giorno. Siamo in Spagna. Vorrei svegliare Atza, urlare, gridare che finalmente è fatta, ma non ne ho la forza. Nessuno ce l’ha, è solo l’aria che cambia. Siamo in Spagna. Una macchia mediterranea tutta uguale, un asfalto sbranato dal sole che scorre nel cicalio assordante tra comitive di turisti, camper e poi finalmente scooter. Siamo in Spagna. L’odore di civiltà si fa più presente via via che le rocce lasciano il posto a terriccio giallognolo, ulivi, cespugli di ginepro, cartelli che dicono burritos putas y toro sombrero cobron sono chiari. Siamo in Spagna. Quando la strada diventa chiassosa nel mattino, quando un cartello recita “Carrer marina”, quando i negozi e le facce e i colori e gli attraversamenti pedonali si fanno vedere, siamo in Spagna. Scuoto Atza: «SVEGLIO, GUARDA!»
«Nonno, mi dispiace, avevo fame…»
«Eh?»
«Cos’ha detto?»
«Non so, ATZA, GUARDA DOVE SIAMO, ATZA!»
Si guarda attorno. Sbarra gli occhi: «Ce l’abbiamo fatta?»
«SI!»
«Questa… QUESTA E’ BARCELLONA?!»
«SI! No. No, questa è Badalona»
«Ecco, allora vaffanculo, ora ci capiterà qualche altra sfiga mostruosa per cui dovremo passare per la Norvegia nordorientale braccati dalla polizia cecena con uno di noi ferito a morte, no, no, sfiga, io dormo.»
«Barcellona è qui davanti»
«Davvero?»
Davvero.

Barcellona è più di una città. E’ l’occhiata della donna per strada che hai ignorato un secondo di troppo e sarebbe diventata tua moglie. Il secondo di meno in vagina che sarebbe stato tuo figlio. E’ la scelta dell’ospedale giusto, smettere di fumare o provare l’eroina o conoscere Ario. Tutte le tue occasioni, Barcellona te le può ripresentare. Non c’è niente che questa città non possa ridarti, dall’illusione della fuga alla sicurezza della libertà. E’ il paese dei balocchi con il passaporto firmato da Faust. Dalle palme ai rumori, dalle facciate dei palazzi alle gonne delle donne, capisci perché di questa città generazioni si sono innamorati. Gridiamo come indiani all’assalto della diligenza. Pacche sulle spalle, ululati belluini, insulti, Atza si abbassa le braghe ed incolla le chiappe al finestrino della 127. Mi viene da piangere mentre Ario guida lento, sorridente, ebete.

«Solero, a questo punto siamo in mano tua»
«Cerca un bar.. quello va benissimo, parcheggia dove vuoi»
Esegue. Vibriamo come martelli pneumatici: «Devo chiamare un numero, voi venite?»
Risate sguaiate.

Mettiamo piede come cowboys nel saloon. Dentro ci sono poche persone, è appena passata l’ora di pranzo. Un trentenne al bancone guarda MTV, due vecchi parlano tra loro. Solero fa il gesto della cornetta e dice “telefono”. Il trentabarista annuisce. Contrattano per i soldi, alla fine gli fa il gesto di chiamare stringendosi nelle spalle. Prende la cornetta in mano, il foglietto nell’altra e parla italiano. Beviamo coca cola seduti sul marciapiede senza dire una parola. Venti minuti dopo arriva un tizio con una BMW. La targa è Treviso. Scende, saluta tra lo schifato e l’incerto. Sì che siamo quelli che cerca. Solero si alza in piedi.

«Oh, sei te Edoardo?» domanda a Solero.
«Sì»
Sappiamo il nome vero di Solero con impassibilità.

«Com’è andato il viaggio?»
«Hai presente Jurassic park, il pezzo delle jeep?»
«Hai presente Top Gun, il pezzo che si eiettano?»
«Hai presente Edward Mani di forbice che si fa una sega?»
«Ok, mi pare di capire non bene, hehe, vabbè dai, ormai siete arrivati. Hai la… ?»
«Sì. Meno del previsto, però»
«Quanto meno?»
Sguardi da X-men.

L’altro gli fa cenno di seguirlo in macchina, stan lì a parlottare un po’, alla fine ridacchiano. Solero, nell’assolato pomeriggio del settimo giorno, torna da noi e spiega che Treviso non ha fatto tante storie perché c’è una festa e siam capitati giusti a fagiolo. Vogliamo andare anche noi? Partiamo seguendo la BMW, sospetto un paio di volte abbia tentato di seminarci ma Ario al volante non lo frega nessuno, come ha sempre saputo dimostrarci nei momenti migliori. Arriviamo in una specie di piazzola, sentiamo i bassi di musica commerciale.
Tratteniamo il fiato.

E giriamo l’angolo.

 

Fine

Solero, Ario, io, in quel campo di pannocchie, agosto 1997

16. Brunelleschi

Naturalmente per “vanno a posto” si intende quando vostra morosa scambia il serbatoio aperto al self service per il posacenere. 

Solero piomba sui biondini, Ario fugge urlando “oh bella raga ci vediamo alla macchina”, Atza agguanta lo zaino ed io mi trovo ultimo ad arrancare sulla sabbia con i borsoni sulla schiena ed i muscoli che protestano. C’è una colluttazione interculturale che parte con una bestemmia e termina rotolandosi nella sabbia a ceffoni. Gli altri del bivacco si rivegliano senza capire, credono si scherzi, ridacchiano distesi nell’alba che nasce.

E’ una scena epica nella sua demenzialità: tanta strada solo per farsi ravanare di botte da un tedesco ed arrestare da un guardiano francese.

La metafora perfetta della mia adolescenza. Atza fruga dentro il suo zaino. Impreca, poi grida trionfante. Solero si mena con quell’altro. L’astronauta è sparito. I guardiani arrivano. Questa è la mia gita in Spagna. Questo è il viaggio della mia vita. Son sempre stato come Brunelleschi: ad ogni grande occasione, ho sempre fatto grandi cappelle. Diciassette anni di occasioni nel cesso per una puttanata. Potrei scoprire la cura del cancro ed usare il foglietto della formula per scarabocchiare al telefono. Ho perso la scopata con una fotomodella per un calypso. L’ultima volta che mi chiesero di cercare foto di castelli in Internet sono rimasto per otto anni nel forum di un tizio in mutande. Brunelleschi. 

No, penso.

Non questa volta. 

Mollo le borse, mi lancio a separare Solero ed il tedeschese. Atza è già lanciato verso le dune. Scattiamo con l’ultima adrenalina rimanente. La salita di sabbia sembra eterna, alle nostre spalle concitate imprecazioni. Mi volto, l’ultimo sguardo che lancio al bivacco dei crucchi mostra guardiani che prendono i borsoni da me mollati, svegliano i presenti e indicano verso di noi. Forse credono siano nostri amici. Forse daranno la colpa a loro. Forse no. Poi la vegetazione mediterranea mi nasconde e rotolo giù, con sabbia anche dietro le cornee. Attraversiamo la pineta graffiandoci mani e braghe, ansimando con il sudore che appiccica polvere, foglie, aghi e sabbia. Arriviamo alla strada deserta nell’alba umida. Ario parte mentre sto ancora mezzo fuori. Chiudo la portiera che ormai è già in seconda diretto verso l’ignoto. Nessuno ci insegue, ma non importa. Il suono del motore che ci porta via da lì rimarrà paragonabile solo al primo orgasmo senza autopilota. Prendiamo fiato tra l’esausto e l’incredulità. Solero guarda dentro. Riguarda. Sorride, annuisce e se lo stringe al petto. E’ andata, abbiamo tutto. Niente al mondo potrà più fermarci.  

«Dove andiamo?» 
«Lontano da qui, troviamo un posto isolato e dormiamo» 
«Giusto. Cerca per l’autostrada, Nebo»  


Sto già scorrendo il dito sulla cartina.  

«Ustia, Solero perde sangue»  

























Tessera, Venezia, fine agosto 1997
 Aeroporto Marco Polo, ore 14:00 

«Ciao mamma, ciao papà» 
«Lucaaaa! Ma che abbronzatissimo!» 
«Ehe» 
«Com’è andata la vacanza? E i tuoi amici? Son tornati in macchina?»


«Amici? Che amici?»
«Ario, Nebo. Ti volevano fare una sorpresa, non vi siete trovati?»

«Scusa, quando sarebbero partiti?»

15. Serenata francese

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In Francia di notte fa freddo. Le champs elisée, il roquefort, il foile gras non hanno scritto sulla confezione questa cosa.

Siepi ben potate, bungalow, camper, tende. Buio, silenzio assoluto. In sottofondo appena percepibili i sifoni delle piscine e le grida dei tizi in spiaggia. Portate dal vento, sono a malapena una eco. Riesco a sentire il suono delle biciclette dei guardiani con grande preavviso, mi distendo dietro una siepe e sto immobile. Passano. Mi rialzo e continuo a cercare. Ora, non giudicatemi, ma in Francia fa freddo ed io avevo solo una canottiera azzurra ed un paio di bermuda. Uno trova un paio di pantaloni lunghi stesi, poi magari una maglietta, poi un’altra che i ragazzi avranno freddo, ehi guarda che belline ‘ste Puma, un’ora dopo torno alla base e scopro che siamo una compagnia di altruisti.

«Vedo che abbiamo avuto la stessa idea» dico.
«Tanto sono rovinate»
«Questo non gli serve, ne avevano due»
«Io gli ho preso le braghe ma gli ho lasciato le mutande»
«Te cos’hai, lì?»
«Te la do per il borsone dell’Adidas»
«Però mi dai anche la canotta»
«Se dentro il borsone ci metti le foto di tua madre»
I bagni diventano rapidamente un mercato marocchino.

Barattiamo spensierati, quando un vociare all’esterno ci mette in allarme. Scattiamo nei cabinotti dei bagni a schiera in ordine sparso, silenzio assoluto. Arriva un piagnucolìo maschile, due o tre tonfi di porte che sbattono, urla di disperazione mescolate a gorgoglii.

«ODDIO MAI PIU’» piagnucola la voce, in italiano «MAI MAI MAI MAI».
Squaglio di diarrea. Sforzi di vomito. Peti liquidi. Sputi. L’uomo continua a piagnucolare tra un boato e l’altro che risuonano nel silenzio assoluto. Tre minuti, torna la quiete: «Calma» si dice con accento del sud, annaspando «calma calma calma». Rumori, la porta che si apre. Cammina piano verso i rubinetti. Acqua scorre, sputi. Un’altro sforzo di vomito, sputi. «Calmo, Luci, calmo. Mai più. E’ una botta. Hai provato, basta. Mai più. Non sei gay. Non sei gay. Non. Sei. Gay».
Il mondo è cristallizzato nel silenzio.
Seeeeei ricchioooooooneeeeeeeee, sussurra una porta.

«CHI C’E’? C’E’ QUALCUNO?» grida l’uomo.
«SIGNORE, NO, SIGNORE» risponde un urlo «QUI NESSUNO, SIGNORE».

Contro ogni mia volontà esplodo inorridito da me stesso, seguito a ruota da Atza dall’altra parte, poi Solero ed infine Ario. Le porte si spalancano ed usciamo con le convulsioni tra un carnevale di asciugamani, felpe, magliette. Ci troviamo di fronte ad un tizio qualunque, che prima tentenna e poi fugge. Appena riusciamo a riprendere fiato per questo episodio ributtante, decidiamo di mollare la refurtiv gli oggetti abbandonati e ricominciare a cercare in quel campeggio che non fa più paura. Il camper lo trova Atza al secondo giro. Perde una marea di tempo a trovarci tutti. Quando arriviamo davanti a noi c’è la roccia di Odissea nello spazio. La colonna sonora è quella. Perquisiamo inutilmente l’esterno, nulla.

«Potrebbero averlo messo dentro»

Solero sta già scavalcando la finestrella posteriore, perché nel 1997 non esistevano arie condizionate e dormivano tutti a finestre spalancate e zanzariere. Prima intravedo la flebile luce di un accendino, poi quella decisa di una torcia elettrica. Ci sta dentro meno di due minuti senza fare alcun rumore. Mette fuori la testa, la scuote e scende. Non c’è. Siamo incerti sul da farsi e più l’alba si avvicina più il nervosismo sale. Non abbiamo facce che corrispondono ai clienti ideale di un campeggio a quattro stelle in costa azzurra. L’unica è che siano in spiaggia. Avremo un’ora al massimo prima dei primi risvegli, se sono ancora lì saranno fatti come draghi e stanchi. L’importante è uscire dal campeggio prima che il presagio di chiarore diventi un tequila sunrise. Senza dire una parola torniamo nei bagni, ficchiamo tutto nei borsoni e ci dirigiamo verso l’uscita . Percorriamo il vialone dove ci aspetta lo sguardo del guardiano, ma molto meno inquisitorio di quello che lancia a chi entra. Testa bassa, passiamo nell’indifferenza.

Alle cinque di mattina avanziamo noi quattro sulla sabbia, diretti verso l’unico gruppo di ragazzi che ancora strimpella chitarre e bevicchia attorno ad un falò. Siamo davvero stanchi, la sabbia sembra polvere di piombo ed ogni passo ci costa fatica. Una volta lì non so cosa diremo nè cosa succederà, non so nemmeno se siano loro. Mi giro verso il cancello che abbiamo appena passato. Non ho la forza di preoccuparmi, lo dico e basta.

«Fioi, vi ricordate il tizio del bagno?»
«E’ al cancello che parla coi guardiani. Indica verso di noi»
«Non giratevi, tirate dritto» sibila Atza «è ancora troppo buio perché ci vedano, qua in fondo»
«Tanto siamo fuori dal campeggio, non possono farci niente».
«Era vero, se non fosse per la roba che abbiamo in spalla»
Una doccia gelata ci investe.

«Cosa facciamo? Molliamo i borsoni e corriamo?»
«FIOI, COSA FACCIAMO?»
«Auf wiedersehen, adieu, goodbye… ha ha ha, Franz! Bestimmel kartoffeln von krat, ach so! Ha ha ha!» ridacchia il tizio con la chitarra, mezzo morto, a nemmeno sei metri da noi. E’ stravaccato sulla sabbia tra una valanga di cadaveri, bottiglie vuote, legname vario e cartacce. Dal cancello i guardiani vengono nella nostra direzione, uno parla nel walkie talkie. Solero non vede niente di tutto questo.

Vede lo zaino.
Poi tutti i pezzi del puzzle vanno al loro posto.

Il viola è il nuovo rosso



– Noi ci dobbiamo ribellare!
Applausi. 

– …ora decidiamo a cosa – conclude la rappresentante d’istituto. E’ il liceo scientifico G.Bruno di Mestre, secondo anno, aula magna. Centinaia di studenti riuniti osservano con sacro timore quelli che organizzano l’autogestione. Tanti. Grandi. Forti. Adulti, si vede chiaramente perché tutti fumano. 

– Il razzismo? – grida una voce nell’aula gigantesca. 
– Già fatto l’anno scorso.
– La liberalizzazione delle droghe leggere?
– Mah…
– L’antifascismo?
– Ecco, sì. Dove possiamo trovare fascismi?

Al tempo non c’era Berlusconi. 


– La scritta che ha fatto l’MSI al Pacinotti?
– Ma l’han fatta tre anni fa…
– Vabbè in linea di massima ci ribelliamo alle prevaricazioni fasciste. OH, SENTITE TUTTI?
– Seee – coro. 
– LUNEDI’ PROSSIMO AUTOGESTIONE, CHIARO? NO CHE DOPO CI SONO GLI STRONZI CHE ENTRANO, TANTO SAPPIAMO CHI SIETE E VI SPUTTANIAMO –
– Io ho l’interrogazione, c’ho studiato una settimana…» 
– Me ne inculo.
– Chi s’è acceso un razzo?
– La Montenegri.
– Spegnilo, che arriva quello di latino.

L’aula rumoreggia, poi: 

– Siete voi i veri fascisti! –
– COSA? COS’HAI DETTO? –
– Ho detto che siete voi i veri fascisti, scusa, se uno vuole andare a scuola ha il diritto…
– COMPAGNI, AVETE SENTITO? –
– EH, CHE SENTANO ANCHE QUANTO PUZZI!
– RASTABBESTIA MERDA!
– TROIA! –

Dopo mezz’ora gli ormoni prendevano il sopravvento e concludevano la riunione a sberle. Oggi questi tizi hanno cambiato aspetto, hanno una decina di anni di più ma si domandano lo stesso come mai in Italia non ci faccia la rivoluzione. Stan tutti lì in attesa, è una domanda molto diffusa su Google. Perché in Italia non si fa la rivoluzione? Eppure han tutto pronto. Twitter #gosocial, Reflex ed account Flicr pronti per uppare gli sviluppi in tempo reale, Facebook mobile per iscriversi agli eventuali gruppi a sostegno, videofonini e canale youtube pronti a filmare gli abusi della polizia, siti di informazione libera tra i preferiti, manuali di sopravvivenza in PDF già caricati sul loro eReader, Repubblica e Il Fatto alla mano. E’ tutto pronto. L’informazione libera corre sul filo. Hanno fatto il NO B DAY: è stato un momento storico, erano migliaia. Hanno fatto Raiperunanotte: è stato un momento storico, erano migliaia. C’è tutto. 

Guardano fuori, è primavera. Per strada la solita gente va al lavoro. L’anziana signora fa la spesa. Gli operai martellano. Taxi. Autobus. Traffico. Gente al parco, pallavolo, bastoni al cane, passeggini, primi gelati. Studenti che si baciano, zaini abbandonati sull’erba, libri di algebra sottolineati, una margherita come segnalibro. Vaffanculo, ma perché? 

La grande magia dei social network ripropone la grande magia delle assemblee d’istituto: consiste nel crearti un micromondo su misura dove tutti sono d’accordo con te o non esistono. Funziona finché non viene portata nel mondo reale. Poi diventa il tubo Tucker.