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In agosto non mi riconosco



E’ agosto quando arriva il brillante gioco di parole “e… state”.


Sui muri delle città appaiono poster che recitano “e(state) a leggere”, “e… state con noi”, “e!state”, “e-state senza zanzare”, “e.. state ballando”. E’ agosto quando almeno una reclame usa “a-a-abbrrrronzatissima” remixata dal remix di un vecchio remix. Nessuno sa di quando sia l’originale, ma si sospetta la cantasse Garibaldi all’ingresso a Bronte. 



E’ agosto quando due su tre videoclip contengono una bionda ferma in coda che apre la portiera e comincia a cantare tra la gente. Camionisti ventenni belli come adoni balleranno sopra autocisterne regalando acqua alle altre automobili. E’ agosto quando i telegiornali dicono che fa più caldo di tre estati fa ma meno caldo di un’estate fa. E’ agosto quando la desertificazione è alle porte assieme ad una nuova glaciazione, avremo inverni sempre più rigidi ed estati sempre più torride. Insomma: non ci saranno più le mezze stagioni. 

Il giorno ti abitua a deliziose mattonate di afa, poi il fresco della sera si trasforma in vento himalayano mentre passeggi con il gelato a fianco della tua dolce metà. E’ un attimo. Gola. Stomaco. Intestino. ORAnnno. Colica.

– Tesoro, tutto bene?
– M’è venut-t-ta in mente una c-c-cosa – balbetti, pensando se sia possibile peto diventi rutto.

La città una rovina in mano ad adolescenti coccolosissimi, anziani che escono dai rifugi a caccia di aria condizionata gratis, albanegromadi che vendono accendini o fanno la questua sempre più incazzati. E poi ci sono i single 30-45. 

Vista la scarsità di passanti e testimoni, i pochi maschi presenti si fanno audaci e tentano di rimorchiare qualunque essere dotato di vagina. Ogni mezzo è concesso; occhiate assassine, fischi, attacchi di tosse, versetti, richiami stile addestratore di cani, sorrisi lubrici, frasi che appena senti pronunciare devi lavarti le mani. Tutto. Uomini di mezz’età che a furia di rate-a-interessi-zero non possono permettersi manco una gita a Burzate inferiore si barricano in casa fingendosi alle Canarie. Così come Ulisse si fece incatenare all’albero, loro strappano la connessione per riuscire a non aggiornare lo status di facebook. Saranno ferie a base di pizza a domicilio, videonoleggio e seghe.

E’ in questa settimana di deserto e noia che scoprono davvero chi sono. Il cervello umano maschile può riadattarsi facilmente alla vita preistorica. L’igiene intima è basata sulla sequenza sega → pisciata → tubi puliti → fine. Il motto è “non serve lavarlo, se continui ad usarlo” e vale per il cazzo come per le tazzine. Dopo quattro giorni di noia e nessun contatto umano si dedicano a scenette divertenti tipo cacare nella lettiera del gatto e ridere osservandolo mentre tenta di seppellirlo.

Li vedi in strada, pere umane dal colorito bianchiccio e calvizie incipiente che deambulano dentro polo larghe da cui emerge la buzza alcolica. Ammiccano alla sedicenne che li indica urlando “ECCO CHI HA NASCOSTO L’ANGURIA”. Si guardano allo specchio nella penombra e si vedono fisicatissimi, poi accendono la luce. Dramma. Fanno l’iscrizione annuale in palestra che fa la promozione estiva, vanno tre volte e poi quella chiude per ferie. Addio. Quando la settimana dopo torneranno in ufficio si ritrasformeranno in impiegati modello.

Ma ora è agosto.

Oh marinaio, mio marinaio



Sera, vaporetto, canal Grande. Pochi a bordo, mi godo la brezza della sera mentre scorrono palazzi, luci, ristoranti, bettole, chioschi ed alberghi. Guardo il Carinthia VII e il Vibrant curiosity. A me macchine e motociclette non fanno il minimo effetto, ma per fare un’orgia a bordo di quelle meraviglie io sgozzerei trenta bambini, altro che trasferire le fabbriche in Serbia. 

Poi sorrido scuotendo la testa: ragiono come un membro dell’Italia dei valori. 


Cinque minuti dopo sto sognando ad occhi aperti la mia nave pirata carica di rum e lesbiche in tanga quando a bordo montano due punkabbestia. L’afrore mi riporta alla realtà. Lei ha l’età indefinibile che hanno i cadaveri all’obitorio, ha denti verdastri e capelli azzurri a macchie. Occhio cisposo, occhiaie, piercing. Innumerevoli buchi tra faccia e orecchie per catturare il più infezioni possibile completano un culo enorme e bianchiccio. In una mano tiene la lattina di birra, nell’altra la sigaretta. Pare la statua della libertà delle baraccopoli indiane. Arranca a bordo seguita dal compagno, tale Luigi. Magrolino, occhialuto, ora ha un alveare di pidocchi in testa ma al tempo era un rispettato spacciatore del liceo Giordano Bruno. Non credo mi riconosca. Anche lui ha le mani occupate dal maggior numero di simboli fallici possibile, tra cui stona un guinzaglio a cui è attaccato il protagonista della serata, un bastardo grosso due volte lui che risponde al nome di 

– SCIALLAAAA! CHE CAZZO TIRI, OOH? OOOOH! – 

Scialla è un cane bellissimo. In forma, attivo, curioso, palesemente scazzato dal doversi tirare dietro questi due rottami, scodinzola girando su sé stesso ed annusando in giro mentre il vaporetto riparte. Il marinaio è un ragazzo sui venti, sospira e si dirige verso i due. 

– Biglietto.
– Che cazzo… SCIALLAAAH! NON TIRARE, PORCODDIO! OOOH!
– Scendiamo alla prossima – risponde la donna. 
– Ho capito, il biglietto dovete farlo lo stesso.
– Vabbè, per una fermata…
– Fioi, se prendete il vaporetto dovete pagare come tutti.
– Tanto adesso scendiamo.

Pausa. 

– E non si fuma – dice il marinaio, indicando. 
– Oh ma che t’abbiamo fatto, porcoddio, t’ho detto…
– Non m’avete fatto niente, ma se c’è scritto che non si fuma e si paga il biglietto voi dovete farlo come tutte le persone normali.
– DI’ CHE TI STIAMO SUI COGLIONI, DAI, DILLO!
– NO, ADESSO PAGATE LA MULTA! – urla un vecchio, dal fondo. 
– TE FATTI I CAZZI TUOI!

In meno di un minuto il vaporetto è un carnevale di “fascista”, “sono della lega”, “adesso chiamo il 112” e tutte le anime a bordo sentono l’irrefrenabile bisogno di dire la loro. Arrivano, non sanno nulla, non hanno sentito nulla, guardano la scena e sparano “ha ragione il signore”. In un crescendo di pregiudizi, odio, frustrazione, caldo, vecchiaia e rancore verso la vita il vaporetto si avvicina alla prossima fermata. Poi lo vedo. Mi fissa. Siamo gli unici due zitti. Mi guarda con gli occhi più intelligenti che abbia mai visto in un animale. Pare capisca tutto. E’ seduto, composto. Il guinzaglio penzola abbandonato, perché nelle situazioni di crisi un punkabbestia non deve abbandonare il ciuccio, sia alcool o tabacco. Se non ciuccia qualcosa perde ogni credibilità. Scialla lo sa. Pare una statua, una scena da film. Non ha nemmeno la lingua di fuori. Il marinaio lancia la corda, lega, leva la barra di sicurezza. E’ in quel momento che Scialla si lancia nel buco tra il vaporetto e l’imbarcadero. 


– IL CANE! – urlo, troppo distante. Luigi si lancia sul guinzaglio. Tira con una mano, pesa troppo. Molla la birra e tira con entrambe. Pesa ancora troppo. La donna dietro urla “tiralo su, tiralo su”. Dal basso parte un “uhày”. Il marinaio afferra la mano del punkabbestia ed estrae Scialla mezzo istante prima che diventi un monotono 33 giri. THUM. 

Silenzio a bordo. La birra cola sul pavimento. 

– Oh, grazie, oh – dice Luigi con un filo di voce. 
– Dai, scendere – dice il marinaio. 

I due scendono, il motore riparte, la barra si chiude. Li guardo andarsene quando dal cielo, con una parabola perfetta, la lattina di birra dimenticata centra la testa di Luigi. Si tiene la testa. Mi volto a guardare il lanciatore, è il marinaio. Si sporge e sbraita in veneziano “Se là dentro c’eri tu ti lasciavo morire, testa di cazzo”. 

Onore alla marina veneziana.

Ecco come succedono queste tragedie




Zen cafè, un long island ed un havana cola. Chiacchiero con l’amico Carabiniere quando la frase “ah, Nebo, una mia amica ha detto che passa con un’amica” esce dalla sua bocca e si appoggia sul tavolo, sinistra e minacciosa come una pistola. Io ho trent’anni, signora. So quando, come e perché succedono queste tragedie. Le trentenni per evitare il confronto con le ventenni cacciano a coppia, possibilmente dentro posti tattici dove star seduti. Da seduti le prede vedono trucco e scollatura mentre il culo sta occultato sotto il tavolo. Sto pensando al leone che viene impallinato all’abbeverata quando
«Uff… cosa ci offrite da bere?» dice una voce femminile alla mia sinistra.
Da qualche parte sento uno sparo.
Appare prima un barile di olive ascolane. Indossa camicetta bianca scollatissima con pushup, pantalone nero sintetico a zampa di tirannosauro e sandali sfighi con accenno di tacco rinforzato titanio. Dalla punta fuoriescono grappoli di cotechini somiglianti a dita. Il viso è una maschera impenetrabile di creme e colori. Muggisce con pacata euforia.

 «Dov’è la tua motosega, Jason?» domando.
 «Come?»

E’ dolcissima. E’ un’adorabile balena spiaggiata sulle coste della vita. Mi alzo, le stringo la mano.

 «Scusami, parlavo col mio amico. Piacere, Nebo»
 «Claudiahehe, eh»

Nei suoi primi 20 dev’esser stata un bluff che ha funzionato da Dio, permettendole di aggrapparsi alle testiere del letto di molti giovani imprenditori. Poi, la convivenza e le Pringles. Una vagina che dall’oggi al domani si ritrova schifata da tutti potrebbe ricalcolare la sua intera esistenza. Penso che la serata potrebbe funzionare, penso che voglio davvero ascoltarla parlare. C’è una luce, sotto quegli occhi d’aspirante suicida. Felice della cosa, incrocio sbadatamente lo sguardo con l’amica.

E capisco che devo andarmene il prima possibile.

«Bè? A me nessuno dà la mano?»
«Nebo»
«Ah, ecco» stringe a pesce morto «Marta. Cos’è che si beve in ‘sto posto?»

Al tavolo non c’è più nessuno. Nel locale non c’è più nessuno. Siamo solo io, lei, un video con un pupazzo ed una chiave nascosta da qualche parte. Mi guarda da sopra la montatura hipster mentre ciuccia la caipiroska con il mignolo di fuori. Larghi occhi spalancati. Frrplllch, fa la fragola dalla cannuccia. Frrplllch.

 «Di cosa ti occupi?»
 «Scrivo. Sono freelance per il Gazzettino e per la Nuova»
 «Ah» sposta lo sguardo, sorriso sarcastico.
 «Tu invece che fai?»
 «Sono precaria»
Giuro.

 «Cosa vuol dire precaria?»
 «Non ho sicurezze, per adesso»
 «Fai il manichino per i crash test?»

Quando non riescono a dire che lavoro fanno alla seconda battuta se sono maschi fanno lavori tipo “Social aggregator Manager”, se sono donne fanno ripetizioni a bambini ritardati ed escono tutte le sere alla disperata di ricerca di qualcuno da divorziare. 

«Lavora in un’agenzia interinale» interviene il carabiniere.
«Però sono psicologa» precisa.
Parte la sigla dell’eurovisione.

Le psicologhe. Per buona parte della mia vita ho creduto di avere una malattia che calamitava a me queste tizie. Stetti per due anni con una psicologa che tentava di convincermi che la Pet therapy avrebbe rivoluzionato il mondo e salvato vite umane dall’autodistruzione.


Secoli di medicina psichiatrica ci hanno portati a questo


Non sono io, comunque. E’ che l’Italia oramai ne è piena. Se le case di tolleranza fossero ancora aperte queste quaglie avrebbero soldi, fama, un tetto, un lavoro dignitoso, pagherebbero le tasse, contribuirebbero a salvare l’Italia dalla crisi economica ed annullerebbero il fenomeno del turismo sessuale. Sarebbero membri produttivi della società. No. Niente. Siccome siamo in un paese di preti malati bisogna laurearle in psicologia e lasciarle vagare per i centri commerciali.
Fanno i centri di detenzione per gli albanegri, i campi profughi per gli zingari ma non possono fare le case di tolleranza per le psicologhe. No. Tonnellate di carne da bocchini ogni anno patisce l’irrealizzazione personale in uffici, segreterie, sportelli alle poste e saldi da H&M.
«Tu e lui come vi siete conosciuti?» domanda.
«Ci siamo b
«Basta che non sia una roba noiosa, eh?»
«Se vuoi ci metto dentro delle parole chiave così da tenere alta l’attenzione tipo “omicidio”, “pompino” e “stupro”»
Ogni giorno un operaio, un fresatore, un artigiano, un contadino devono andare in un’agenzia interinale ed avere a che fare con queste macchine da eiaculazione che con aria saccente spiegano come il curriculum abbia un font troppo piccolo e sia privo di un brand soddisfacente. Ma perché? Non c’è niente di male a dare il culo per soldi. Lo fanno dall’inizio della storia del mondo. C’era una volta un dinosauro di otto metri, un uomo con la clava e una che apriva le gambe per una bistecca.

Finiva che morivano tutti tranne la tizia che diventava obesa.


Anche nel medioevo era pratica comune. A suon di pagare per sifonare una tizia uno ci si affezionava e se la portava a casa. Quella accudiva i figli, teneva a posto casa, faceva trovare un piatto caldo al ritorno ed ereditava la casa quando il tipo moriva sui campi di battaglia. Poi i preti hanno cominciato a preferire i buchi stretti dei ragazzini ed è andato tutto affanculo.
«Io sono una molto umile, anche se non sembra»
«TU? HAHAHAHAHAHA!» scoppia a ridere Jason, a fianco a me.
«TU? HAHAHAHAHAHA!» sputa il carabiniere.
«Nel senso che minimizzo molto» ringhia «sembra quello che faccio non sia niente di che, mentre invece…»
«Sei la proprietaria dell’Umana?»
«No. Faccio teatro»
Racconta che convive, ma progetti più seri “non si concretizzano”. E’ strano, spiega. Eppure stanno insieme da tanto. L’età è quella giusta, sarebbe tempo ed ora ma lui non fa il grande passo.
Quello che le donne non capiscono della convivenza è che è come l’università: credono sia il lieto fine ma è solo il fine primo tempo, e se non hai un progetto a lungo termine è inutile. Un uomo che convive da anni non è che “non pensa” a sposarti, è che proprio non gli interessa farlo; se credi in qualcosa ci investi. L’uomo sta comodo, ha un posto dove scopare, spese dimezzate e un’interprete tra lui e la lavatrice. Perché legarsi? A differenza della femmina ha tutto il tempo che vuole.
Non che manchino gli uomini interessati, è che le psicologhe di provincia si sopravvalutano sempre. Le supercafone eccole quaaaa e si aspettano alla porta bussi un mix tra Johnny Depp, il Padrino e Vin Diesel. Finisce che la danno solo a quelli che le truffano con SUV a rate ed appartamento dei genitori. Poi dopo sei anni di convivenza si mollano e raccattano il primo che trovano. E’ buffo, a pensarci. Si tengono stretta la fica per tutta la prima metà della vita e nella seconda metà la vita non fa altro che buttarglielo al culo.

Ecco come succedono queste tragedie, penso alzandomi e pagando.
Solo il mio drink.

17. Tumbthumping

Guardo dallo specchietto il campeggio e le insegne francesi allontanarsi. Mi aspetto che l’elicottero di Rambo 3 esca dalle dune sventagliando raffiche di mitra mentre sirene spiegate ci inseguono sparando. Niente di tutto questo accade. Solo l’alba, una strada deserta, quattro catorci umani felici come bambini ed il sole dietro una coltre di nuvole.

«Il fumo c’è tutto, non l’hanno nemmeno toccato. La ganja in compenso l’han massacrata.»
«Ok, torniamo indietro?»
Risate esauste.

Non so dove siamo, la cartina è indecifrabile. Attraversiamo stradine malmesse che prima perdono la segnaletica, poi l’asfalto diventa un insieme di macchie buttate chissà quanti anni fa, la carreggiata si stringe, diventa una sola striscia grigiastra coperta dal terriccio. Un eterno labirinto di viuzze deserte in mezzo alla macchia mediterranea. Nessuno, mai, solo la risacca del mare in sottofondo. Sembra la Transilvania, mancano solo i vampiri in costume da bagno. Solero ed Atza russano, Ario guida silenzioso, prendo fiato e confesso l’atroce verità che mi porto dentro. Mi sento un dietologo davanti ad una con il morbo di McDonald, quello che ti ingrossa le ossa e ti fa assimilare tanto.

«Ario, sai che giorno è oggi?»
«No. Perché, ti devono venire?»
«E’ domenica, se ho fatto bene i conti. Noi siamo partiti sabato. Sabato scorso, ci sei?»
«E allora?»
«Ario, Luca stava una settimana in Spagna. E’ tornato ieri pomeriggio.»
Si gira.
Lo so, lei non mangia praticamente niente, signora, è tutta costituzione.

«Vuol dire che non c’è nessuno ad aspettarci?»
«Sì. Ci abbiamo messo troppo tempo.»

La macchina rallenta e accosta. Neanche sei metri a sinistra c’è una scogliera sul mare. Ario scende, si accende una Lucky Strike, passeggia in quella direzione. Temo un gesto sconsiderato. Il resto della ciurma russa, io esco e lo seguo come la migliore Rossella o’Hara. Guardiamo in silenzio l’enorme e sconfinata tavolata azzurra, la brezza di mare risale la parete rocciosa e soffia via il fumo della sigaretta accarezzando il viso a noi, piccoli bambini sperduti e focomelici.

«Che vuoi fare?» domando «il confine è a due passi da qui».
Sta senza rispondere, seduto su uno spuntone di roccia.
Quando apre la bocca è stranamente serio: «Nebo, sarei stanco.»
«Andiamo avanti» dice Solero, spuntando alle nostre spalle «se mi fate arrivare ai soldi ci penso io.»

Ario lancia il mozzicone nel vuoto. Questo è il momento in cui si decide tutto. Stiamo da schifo, la macchina tra fuori e dentro è un catorcio, non abbiamo una lira e siamo Dio sa dove nella francia del cazzo. Il morale è più in basso delle palle di Brunetta. Adesso sappiamo che manco troviamo Luca perché mi sono svegliato con il calendario mentale postposto. Non dormiamo da due giorni. Solero ha le labbra che sono un filo. Lo sguardo di ghiaccio, la voce esce come un ronzio sinistro. Espira piano.

«Portami a Barcellona, ti dico. Facciamo il confine e in due ore ci siamo, tre al massimo. Ho amici lì per tutta l’estate. Ne abbiamo passate troppe per mollare adesso. Ti pago carrozzeria, finestrino e benzina per il ritorno. Tutti io. Ne abbiamo passate troppe per tornare indietro adesso.»
Ario lo guarda tra lo scettico ed il divertito: «Tutti tu?»
«Tutti io. Poi ‘sti tizi hanno una casa. Se gli chiedo di stare lì non mi dicono di no, non con questo zaino dietro.»
«Atza non sarebbe d’accordo.»
«Atza dorme.»

La 127 parte. La stradina si allarga, diventa una specie di statale. Alla frontiera la polizia spagnola non si capisce se stia lì a lavorare o a ciucciar ghiaccioli, ma non importa. Il poliziotto Ibanez Ybarra tortillas caliente hola carramba agita la mano annoiato e ci spalanca le porte del paradiso. San Pietro non sarà così clemente, un giorno. Siamo in Spagna. Vorrei svegliare Atza, urlare, gridare che finalmente è fatta, ma non ne ho la forza. Nessuno ce l’ha, è solo l’aria che cambia. Siamo in Spagna. Una macchia mediterranea tutta uguale, un asfalto sbranato dal sole che scorre nel cicalio assordante tra comitive di turisti, camper e poi finalmente scooter. Siamo in Spagna. L’odore di civiltà si fa più presente via via che le rocce lasciano il posto a terriccio giallognolo, ulivi, cespugli di ginepro, cartelli che dicono burritos putas y toro sombrero cobron sono chiari. Siamo in Spagna. Quando la strada diventa chiassosa nel mattino, quando un cartello recita “Carrer marina”, quando i negozi e le facce e i colori e gli attraversamenti pedonali si fanno vedere, siamo in Spagna. Scuoto Atza: «SVEGLIO, GUARDA!»
«Nonno, mi dispiace, avevo fame…»
«Eh?»
«Cos’ha detto?»
«Non so, ATZA, GUARDA DOVE SIAMO, ATZA!»
Si guarda attorno. Sbarra gli occhi: «Ce l’abbiamo fatta?»
«SI!»
«Questa… QUESTA E’ BARCELLONA?!»
«SI! No. No, questa è Badalona»
«Ecco, allora vaffanculo, ora ci capiterà qualche altra sfiga mostruosa per cui dovremo passare per la Norvegia nordorientale braccati dalla polizia cecena con uno di noi ferito a morte, no, no, sfiga, io dormo.»
«Barcellona è qui davanti»
«Davvero?»
Davvero.

Barcellona è più di una città. E’ l’occhiata della donna per strada che hai ignorato un secondo di troppo e sarebbe diventata tua moglie. Il secondo di meno in vagina che sarebbe stato tuo figlio. E’ la scelta dell’ospedale giusto, smettere di fumare o provare l’eroina o conoscere Ario. Tutte le tue occasioni, Barcellona te le può ripresentare. Non c’è niente che questa città non possa ridarti, dall’illusione della fuga alla sicurezza della libertà. E’ il paese dei balocchi con il passaporto firmato da Faust. Dalle palme ai rumori, dalle facciate dei palazzi alle gonne delle donne, capisci perché di questa città generazioni si sono innamorati. Gridiamo come indiani all’assalto della diligenza. Pacche sulle spalle, ululati belluini, insulti, Atza si abbassa le braghe ed incolla le chiappe al finestrino della 127. Mi viene da piangere mentre Ario guida lento, sorridente, ebete.

«Solero, a questo punto siamo in mano tua»
«Cerca un bar.. quello va benissimo, parcheggia dove vuoi»
Esegue. Vibriamo come martelli pneumatici: «Devo chiamare un numero, voi venite?»
Risate sguaiate.

Mettiamo piede come cowboys nel saloon. Dentro ci sono poche persone, è appena passata l’ora di pranzo. Un trentenne al bancone guarda MTV, due vecchi parlano tra loro. Solero fa il gesto della cornetta e dice “telefono”. Il trentabarista annuisce. Contrattano per i soldi, alla fine gli fa il gesto di chiamare stringendosi nelle spalle. Prende la cornetta in mano, il foglietto nell’altra e parla italiano. Beviamo coca cola seduti sul marciapiede senza dire una parola. Venti minuti dopo arriva un tizio con una BMW. La targa è Treviso. Scende, saluta tra lo schifato e l’incerto. Sì che siamo quelli che cerca. Solero si alza in piedi.

«Oh, sei te Edoardo?» domanda a Solero.
«Sì»
Sappiamo il nome vero di Solero con impassibilità.

«Com’è andato il viaggio?»
«Hai presente Jurassic park, il pezzo delle jeep?»
«Hai presente Top Gun, il pezzo che si eiettano?»
«Hai presente Edward Mani di forbice che si fa una sega?»
«Ok, mi pare di capire non bene, hehe, vabbè dai, ormai siete arrivati. Hai la… ?»
«Sì. Meno del previsto, però»
«Quanto meno?»
Sguardi da X-men.

L’altro gli fa cenno di seguirlo in macchina, stan lì a parlottare un po’, alla fine ridacchiano. Solero, nell’assolato pomeriggio del settimo giorno, torna da noi e spiega che Treviso non ha fatto tante storie perché c’è una festa e siam capitati giusti a fagiolo. Vogliamo andare anche noi? Partiamo seguendo la BMW, sospetto un paio di volte abbia tentato di seminarci ma Ario al volante non lo frega nessuno, come ha sempre saputo dimostrarci nei momenti migliori. Arriviamo in una specie di piazzola, sentiamo i bassi di musica commerciale.
Tratteniamo il fiato.

E giriamo l’angolo.

 

Fine

Solero, Ario, io, in quel campo di pannocchie, agosto 1997

16. Brunelleschi

Naturalmente per “vanno a posto” si intende quando vostra morosa scambia il serbatoio aperto al self service per il posacenere. 

Solero piomba sui biondini, Ario fugge urlando “oh bella raga ci vediamo alla macchina”, Atza agguanta lo zaino ed io mi trovo ultimo ad arrancare sulla sabbia con i borsoni sulla schiena ed i muscoli che protestano. C’è una colluttazione interculturale che parte con una bestemmia e termina rotolandosi nella sabbia a ceffoni. Gli altri del bivacco si rivegliano senza capire, credono si scherzi, ridacchiano distesi nell’alba che nasce.

E’ una scena epica nella sua demenzialità: tanta strada solo per farsi ravanare di botte da un tedesco ed arrestare da un guardiano francese.

La metafora perfetta della mia adolescenza. Atza fruga dentro il suo zaino. Impreca, poi grida trionfante. Solero si mena con quell’altro. L’astronauta è sparito. I guardiani arrivano. Questa è la mia gita in Spagna. Questo è il viaggio della mia vita. Son sempre stato come Brunelleschi: ad ogni grande occasione, ho sempre fatto grandi cappelle. Diciassette anni di occasioni nel cesso per una puttanata. Potrei scoprire la cura del cancro ed usare il foglietto della formula per scarabocchiare al telefono. Ho perso la scopata con una fotomodella per un calypso. L’ultima volta che mi chiesero di cercare foto di castelli in Internet sono rimasto per otto anni nel forum di un tizio in mutande. Brunelleschi. 

No, penso.

Non questa volta. 

Mollo le borse, mi lancio a separare Solero ed il tedeschese. Atza è già lanciato verso le dune. Scattiamo con l’ultima adrenalina rimanente. La salita di sabbia sembra eterna, alle nostre spalle concitate imprecazioni. Mi volto, l’ultimo sguardo che lancio al bivacco dei crucchi mostra guardiani che prendono i borsoni da me mollati, svegliano i presenti e indicano verso di noi. Forse credono siano nostri amici. Forse daranno la colpa a loro. Forse no. Poi la vegetazione mediterranea mi nasconde e rotolo giù, con sabbia anche dietro le cornee. Attraversiamo la pineta graffiandoci mani e braghe, ansimando con il sudore che appiccica polvere, foglie, aghi e sabbia. Arriviamo alla strada deserta nell’alba umida. Ario parte mentre sto ancora mezzo fuori. Chiudo la portiera che ormai è già in seconda diretto verso l’ignoto. Nessuno ci insegue, ma non importa. Il suono del motore che ci porta via da lì rimarrà paragonabile solo al primo orgasmo senza autopilota. Prendiamo fiato tra l’esausto e l’incredulità. Solero guarda dentro. Riguarda. Sorride, annuisce e se lo stringe al petto. E’ andata, abbiamo tutto. Niente al mondo potrà più fermarci.  

«Dove andiamo?» 
«Lontano da qui, troviamo un posto isolato e dormiamo» 
«Giusto. Cerca per l’autostrada, Nebo»  


Sto già scorrendo il dito sulla cartina.  

«Ustia, Solero perde sangue»  

























Tessera, Venezia, fine agosto 1997
 Aeroporto Marco Polo, ore 14:00 

«Ciao mamma, ciao papà» 
«Lucaaaa! Ma che abbronzatissimo!» 
«Ehe» 
«Com’è andata la vacanza? E i tuoi amici? Son tornati in macchina?»


«Amici? Che amici?»
«Ario, Nebo. Ti volevano fare una sorpresa, non vi siete trovati?»

«Scusa, quando sarebbero partiti?»