16. Brunelleschi

Naturalmente per “vanno a posto” si intende quando vostra morosa scambia il serbatoio aperto al self service per il posacenere. 

Solero piomba sui biondini, Ario fugge urlando “oh bella raga ci vediamo alla macchina”, Atza agguanta lo zaino ed io mi trovo ultimo ad arrancare sulla sabbia con i borsoni sulla schiena ed i muscoli che protestano. C’è una colluttazione interculturale che parte con una bestemmia e termina rotolandosi nella sabbia a ceffoni. Gli altri del bivacco si rivegliano senza capire, credono si scherzi, ridacchiano distesi nell’alba che nasce.

E’ una scena epica nella sua demenzialità: tanta strada solo per farsi ravanare di botte da un tedesco ed arrestare da un guardiano francese.

La metafora perfetta della mia adolescenza. Atza fruga dentro il suo zaino. Impreca, poi grida trionfante. Solero si mena con quell’altro. L’astronauta è sparito. I guardiani arrivano. Questa è la mia gita in Spagna. Questo è il viaggio della mia vita. Son sempre stato come Brunelleschi: ad ogni grande occasione, ho sempre fatto grandi cappelle. Diciassette anni di occasioni nel cesso per una puttanata. Potrei scoprire la cura del cancro ed usare il foglietto della formula per scarabocchiare al telefono. Ho perso la scopata con una fotomodella per un calypso. L’ultima volta che mi chiesero di cercare foto di castelli in Internet sono rimasto per otto anni nel forum di un tizio in mutande. Brunelleschi. 

No, penso.

Non questa volta. 

Mollo le borse, mi lancio a separare Solero ed il tedeschese. Atza è già lanciato verso le dune. Scattiamo con l’ultima adrenalina rimanente. La salita di sabbia sembra eterna, alle nostre spalle concitate imprecazioni. Mi volto, l’ultimo sguardo che lancio al bivacco dei crucchi mostra guardiani che prendono i borsoni da me mollati, svegliano i presenti e indicano verso di noi. Forse credono siano nostri amici. Forse daranno la colpa a loro. Forse no. Poi la vegetazione mediterranea mi nasconde e rotolo giù, con sabbia anche dietro le cornee. Attraversiamo la pineta graffiandoci mani e braghe, ansimando con il sudore che appiccica polvere, foglie, aghi e sabbia. Arriviamo alla strada deserta nell’alba umida. Ario parte mentre sto ancora mezzo fuori. Chiudo la portiera che ormai è già in seconda diretto verso l’ignoto. Nessuno ci insegue, ma non importa. Il suono del motore che ci porta via da lì rimarrà paragonabile solo al primo orgasmo senza autopilota. Prendiamo fiato tra l’esausto e l’incredulità. Solero guarda dentro. Riguarda. Sorride, annuisce e se lo stringe al petto. E’ andata, abbiamo tutto. Niente al mondo potrà più fermarci.  

«Dove andiamo?» 
«Lontano da qui, troviamo un posto isolato e dormiamo» 
«Giusto. Cerca per l’autostrada, Nebo»  


Sto già scorrendo il dito sulla cartina.  

«Ustia, Solero perde sangue»  

























Tessera, Venezia, fine agosto 1997
 Aeroporto Marco Polo, ore 14:00 

«Ciao mamma, ciao papà» 
«Lucaaaa! Ma che abbronzatissimo!» 
«Ehe» 
«Com’è andata la vacanza? E i tuoi amici? Son tornati in macchina?»


«Amici? Che amici?»
«Ario, Nebo. Ti volevano fare una sorpresa, non vi siete trovati?»

«Scusa, quando sarebbero partiti?»