17. Tumbthumping

Guardo dallo specchietto il campeggio e le insegne francesi allontanarsi. Mi aspetto che l’elicottero di Rambo 3 esca dalle dune sventagliando raffiche di mitra mentre sirene spiegate ci inseguono sparando. Niente di tutto questo accade. Solo l’alba, una strada deserta, quattro catorci umani felici come bambini ed il sole dietro una coltre di nuvole.

«Il fumo c’è tutto, non l’hanno nemmeno toccato. La ganja in compenso l’han massacrata.»
«Ok, torniamo indietro?»
Risate esauste.

Non so dove siamo, la cartina è indecifrabile. Attraversiamo stradine malmesse che prima perdono la segnaletica, poi l’asfalto diventa un insieme di macchie buttate chissà quanti anni fa, la carreggiata si stringe, diventa una sola striscia grigiastra coperta dal terriccio. Un eterno labirinto di viuzze deserte in mezzo alla macchia mediterranea. Nessuno, mai, solo la risacca del mare in sottofondo. Sembra la Transilvania, mancano solo i vampiri in costume da bagno. Solero ed Atza russano, Ario guida silenzioso, prendo fiato e confesso l’atroce verità che mi porto dentro. Mi sento un dietologo davanti ad una con il morbo di McDonald, quello che ti ingrossa le ossa e ti fa assimilare tanto.

«Ario, sai che giorno è oggi?»
«No. Perché, ti devono venire?»
«E’ domenica, se ho fatto bene i conti. Noi siamo partiti sabato. Sabato scorso, ci sei?»
«E allora?»
«Ario, Luca stava una settimana in Spagna. E’ tornato ieri pomeriggio.»
Si gira.
Lo so, lei non mangia praticamente niente, signora, è tutta costituzione.

«Vuol dire che non c’è nessuno ad aspettarci?»
«Sì. Ci abbiamo messo troppo tempo.»

La macchina rallenta e accosta. Neanche sei metri a sinistra c’è una scogliera sul mare. Ario scende, si accende una Lucky Strike, passeggia in quella direzione. Temo un gesto sconsiderato. Il resto della ciurma russa, io esco e lo seguo come la migliore Rossella o’Hara. Guardiamo in silenzio l’enorme e sconfinata tavolata azzurra, la brezza di mare risale la parete rocciosa e soffia via il fumo della sigaretta accarezzando il viso a noi, piccoli bambini sperduti e focomelici.

«Che vuoi fare?» domando «il confine è a due passi da qui».
Sta senza rispondere, seduto su uno spuntone di roccia.
Quando apre la bocca è stranamente serio: «Nebo, sarei stanco.»
«Andiamo avanti» dice Solero, spuntando alle nostre spalle «se mi fate arrivare ai soldi ci penso io.»

Ario lancia il mozzicone nel vuoto. Questo è il momento in cui si decide tutto. Stiamo da schifo, la macchina tra fuori e dentro è un catorcio, non abbiamo una lira e siamo Dio sa dove nella francia del cazzo. Il morale è più in basso delle palle di Brunetta. Adesso sappiamo che manco troviamo Luca perché mi sono svegliato con il calendario mentale postposto. Non dormiamo da due giorni. Solero ha le labbra che sono un filo. Lo sguardo di ghiaccio, la voce esce come un ronzio sinistro. Espira piano.

«Portami a Barcellona, ti dico. Facciamo il confine e in due ore ci siamo, tre al massimo. Ho amici lì per tutta l’estate. Ne abbiamo passate troppe per mollare adesso. Ti pago carrozzeria, finestrino e benzina per il ritorno. Tutti io. Ne abbiamo passate troppe per tornare indietro adesso.»
Ario lo guarda tra lo scettico ed il divertito: «Tutti tu?»
«Tutti io. Poi ‘sti tizi hanno una casa. Se gli chiedo di stare lì non mi dicono di no, non con questo zaino dietro.»
«Atza non sarebbe d’accordo.»
«Atza dorme.»

La 127 parte. La stradina si allarga, diventa una specie di statale. Alla frontiera la polizia spagnola non si capisce se stia lì a lavorare o a ciucciar ghiaccioli, ma non importa. Il poliziotto Ibanez Ybarra tortillas caliente hola carramba agita la mano annoiato e ci spalanca le porte del paradiso. San Pietro non sarà così clemente, un giorno. Siamo in Spagna. Vorrei svegliare Atza, urlare, gridare che finalmente è fatta, ma non ne ho la forza. Nessuno ce l’ha, è solo l’aria che cambia. Siamo in Spagna. Una macchia mediterranea tutta uguale, un asfalto sbranato dal sole che scorre nel cicalio assordante tra comitive di turisti, camper e poi finalmente scooter. Siamo in Spagna. L’odore di civiltà si fa più presente via via che le rocce lasciano il posto a terriccio giallognolo, ulivi, cespugli di ginepro, cartelli che dicono burritos putas y toro sombrero cobron sono chiari. Siamo in Spagna. Quando la strada diventa chiassosa nel mattino, quando un cartello recita “Carrer marina”, quando i negozi e le facce e i colori e gli attraversamenti pedonali si fanno vedere, siamo in Spagna. Scuoto Atza: «SVEGLIO, GUARDA!»
«Nonno, mi dispiace, avevo fame…»
«Eh?»
«Cos’ha detto?»
«Non so, ATZA, GUARDA DOVE SIAMO, ATZA!»
Si guarda attorno. Sbarra gli occhi: «Ce l’abbiamo fatta?»
«SI!»
«Questa… QUESTA E’ BARCELLONA?!»
«SI! No. No, questa è Badalona»
«Ecco, allora vaffanculo, ora ci capiterà qualche altra sfiga mostruosa per cui dovremo passare per la Norvegia nordorientale braccati dalla polizia cecena con uno di noi ferito a morte, no, no, sfiga, io dormo.»
«Barcellona è qui davanti»
«Davvero?»
Davvero.

Barcellona è più di una città. E’ l’occhiata della donna per strada che hai ignorato un secondo di troppo e sarebbe diventata tua moglie. Il secondo di meno in vagina che sarebbe stato tuo figlio. E’ la scelta dell’ospedale giusto, smettere di fumare o provare l’eroina o conoscere Ario. Tutte le tue occasioni, Barcellona te le può ripresentare. Non c’è niente che questa città non possa ridarti, dall’illusione della fuga alla sicurezza della libertà. E’ il paese dei balocchi con il passaporto firmato da Faust. Dalle palme ai rumori, dalle facciate dei palazzi alle gonne delle donne, capisci perché di questa città generazioni si sono innamorati. Gridiamo come indiani all’assalto della diligenza. Pacche sulle spalle, ululati belluini, insulti, Atza si abbassa le braghe ed incolla le chiappe al finestrino della 127. Mi viene da piangere mentre Ario guida lento, sorridente, ebete.

«Solero, a questo punto siamo in mano tua»
«Cerca un bar.. quello va benissimo, parcheggia dove vuoi»
Esegue. Vibriamo come martelli pneumatici: «Devo chiamare un numero, voi venite?»
Risate sguaiate.

Mettiamo piede come cowboys nel saloon. Dentro ci sono poche persone, è appena passata l’ora di pranzo. Un trentenne al bancone guarda MTV, due vecchi parlano tra loro. Solero fa il gesto della cornetta e dice “telefono”. Il trentabarista annuisce. Contrattano per i soldi, alla fine gli fa il gesto di chiamare stringendosi nelle spalle. Prende la cornetta in mano, il foglietto nell’altra e parla italiano. Beviamo coca cola seduti sul marciapiede senza dire una parola. Venti minuti dopo arriva un tizio con una BMW. La targa è Treviso. Scende, saluta tra lo schifato e l’incerto. Sì che siamo quelli che cerca. Solero si alza in piedi.

«Oh, sei te Edoardo?» domanda a Solero.
«Sì»
Sappiamo il nome vero di Solero con impassibilità.

«Com’è andato il viaggio?»
«Hai presente Jurassic park, il pezzo delle jeep?»
«Hai presente Top Gun, il pezzo che si eiettano?»
«Hai presente Edward Mani di forbice che si fa una sega?»
«Ok, mi pare di capire non bene, hehe, vabbè dai, ormai siete arrivati. Hai la… ?»
«Sì. Meno del previsto, però»
«Quanto meno?»
Sguardi da X-men.

L’altro gli fa cenno di seguirlo in macchina, stan lì a parlottare un po’, alla fine ridacchiano. Solero, nell’assolato pomeriggio del settimo giorno, torna da noi e spiega che Treviso non ha fatto tante storie perché c’è una festa e siam capitati giusti a fagiolo. Vogliamo andare anche noi? Partiamo seguendo la BMW, sospetto un paio di volte abbia tentato di seminarci ma Ario al volante non lo frega nessuno, come ha sempre saputo dimostrarci nei momenti migliori. Arriviamo in una specie di piazzola, sentiamo i bassi di musica commerciale.
Tratteniamo il fiato.

E giriamo l’angolo.

 

Fine

Solero, Ario, io, in quel campo di pannocchie, agosto 1997