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Tieni quei bottoni lontani da me



Trieste o la ami o la odi, io l’ho amata fin dal primo giorno. 

Ti trovi all’interno di questa piccola roccaforte tra mare e montagne fatta di palazzi decadenti, parcheggi inesistenti, strade con salite e discese da pista nera, malati mentali ovunque e bora a 180 chilometri orari. 

A Trieste per strada una donna potrebbe cominciare ad urlare che le dovete ridare i venti milioni che vi ha prestato. Un vecchio cammina, vi guarda, scuote la testa, rallenta, poi scatta di testa contro il muro, cade per terra sanguinante e in lacrime: così imparate, svizzeri maledetti, piange rotolando per terra.



La vita universitaria a Trieste nel 2001 era nulla. A parte minuscoli locali che venivano smantellati in breve tempo da anziani incattiviti la sola possibilità di vita sociale erano le cene. Quella sera la mia ragazza dell’epoca, Sara, mi ferma sulla soglia del suo nuovo appartamento. 

– Aspetta – dice iniziando a togliermi la giacca – Ha bottoni, alla Gioia fanno paura.
– Gna ha ha ha ha –
– Non sto scherzando. Ha la koumpounofobia –
– Sì, vabbè –
– KOUMPOUNOPHOBIA, la paura dei bottoni. Esiste. Adesso ti prego, evita d… EHI! –

Come il miglior Pelè la dribblo strappandole di mano la giacca, entro correndo e piombo nel salotto dove trovo Stanlio e Ollio versione femminile e una ragazza e io non so chi sia e improvviso e impugno la giacca e mostro il bottone e lo sporgo in avanti e AAAAGH, grida una. Mani sul viso, respirazione affannata e piagnucolante, hiiiii hiiii, per favore, hiiiii, hiiii, mi fanno paura. Rido felice. Sara mi tira per il braccio, ringhia insulti a denti stretti. Sono una bestia insensibile. Devo vergognarmi. Non posso capire. Non si ride dei più sfortunati, non sta bene. 

Pochi minuti dopo sono un lord inglese, ascolto la mia voce che si scusa tantissimo e che pensava fosse uno scherzo e che gli dispiace così tanto ma dentro di me sento l’aria sulla quarta corda di Bach, ho un cappello da esploratore sulla testa e guardo con eccitato appetito l’attrazione della serata: lei, Gioia da Treviso. Alta un metro ed un citofono, nervi che sembrano “00:03 TAGLIA IL CAVO ROSSO PER L’AMOR DI DIO”, Gioia è un paffuto bocconcino paranoide che durante la cena sussurra nulla con voce flebile. Le altre donne presenti sono Paolona, un pachidermico utero oltre il quintale iscritta a scienze dell’interculturalità e Silvia, uno stecco che non ricordo cosa studiasse ma 


– Principalmente sono batterista in un complesso noise, facciamo cover dei Marlene Kunz –
– Ah, bello!
– Daaaai, conosci i Marlene Kuntz?!

Temporeggio bevendo cabernet: – Sì, bè, il loro album precedente era più, come dire… ma perché parlare di cose settoriali, non trascuriamo Gioia – dico girandomi – o ti scoccia che attacco bottone, ha ha ha!

– No.
– Bene! Cosa studi, Gioia?
– Scienze politiche.
– Insomma vuoi finire nella stanza dei bottoni, eh?

La Sara stringe la forchetta fino a sbiancarsi le nocche. Tra atmosfera e mobilità la tavola sembra un crash test coi manichini dentro una cella frigorifera. Sento respirare una zanzara al terzo piano. 

– Divertente.
– Ma hai paura solo dei bottoni dei vestiti o anche di quelli tipo ascensore..? –
– Solo dei vestiti.
– E da quando?
– Da piccola.
– E’ una cosa innata o è legata a traumi tipo induzione Pavloviana, sai i cani che attaccano a sbavare quando sentono il campanello…

– Preferirei non parlarne.
– Eh, difatti mi sembri abbottonataaaaAHAHAHAHA ODDIO HA HA HA HAHAHAH

Sara porta pollice, indice e medio al setto nasale, poi chiude gli occhi. Fa un’espressione d’intenso dolore. Marlene Kunz smette di masticare e appoggia lentamente la forchetta sul piatto. La cicciabomba sarà tre volte che prova a dire qualcosa senza riuscirci. Mentre mi sbattevano fuori sono riuscito a tirarmi dietro la bottiglia di cabernet, faccio due passi, giro l’angolo ed eccomi qua –

Verso nel bicchiere di plastica, poi bevo un sorso direttamente dalla bottiglia.

– Bottoni, dici – ripete una voce roca.
– E tu invece come sei finito qui? – domando.
– A me m’hanno rapito i russi nell’89 – dice con tono greve Gino, barbone pazzo di parco della madonnina – facevo il giostraio.
– Racconta –

Trieste o la ami o la odi, io l’ho amata fin dal primo giorno.

Martina cuore Davide



Mestre d’estate è una copia di Racoon City: silenzio, deserto, corpi per terra, pochi zombie arrancano gemendo nell’umidità al 92% con 30°. Gli umani sono a Jesolo, un mondo migliore dove il mojito è la bevanda dei campioni e se giri in mezzo alla gente la conversazione femminile più colta è “questa settimana ho succhiato così tanti uccelli che sto cominciando a sudare sperma”. L’estate scorsa c’era una seminuda che tra le risate delle amiche tastava il cazzo ai passanti urlando “solo il più valoroso di voi cavalieri avrà il privilegio di scortarmi al castello”. 


Incontro Martina alle 10 che sto andando in spiaggia ed è tutto un MACCIAO e MADDAI e MASSAI, cosa fai, come stai? Haha! Bello! Io invece sai, haha, bello! E le vacanze? Haha, hai più rivisto i vecchi compagni di scuola? Te la ricordi la Manuela, che faceva ballo fin da bambina, quella coi capelli rossi? Haha, sì, quella! 

– Sì!
– S’è suicidata!
Morte. 

– Eh, ma era diventata strana, naziskin, per me era un po’ lesbica.
– Cosa vuol dire naziskin un po’ lesbica?
– Che si era tagliata i capelli tipo te, faceva paura.. 
– Vabbè ma scusa, cosa c’entra ch
– Dei capelli? Chemioterapia.
Silenzio. 


– E’ un farmaco contro la depressione – spiega.

Annuisco. Stiamo zitti qualche istante. 

– M… – inizio. Mi fermo, ci penso: – Ti va un caffè?
– Ma è tutto chiuso!
– Abito qua dietro.
Silenzio. 

– Tranquilla, non ti copio i compiti.
Niente. 

– Scherzavo?
– AAAHahahahah!

Il culo è miracolosamente intatto, penso sfiorandone l’accesso principale con il medio. Ci sono persone che appena le guardi in faccia sai che sbaglieranno casello per il Telepass. Martina, corporatura esile, capelli biondi stopposi e finissimi incorniciano uno sguardo ottuso, bestiale. Quando ti ascolta sporge la testa in avanti, labbra lievemente schiuse a far vedere i dentini. Sbatte le palpebre ripetutamente. Vacui, assenti occhi da poiana ti scrutano senza capire. Come un cane abbandonato in autostrada, il cervello di Martina vede idee e pensieri sfiorarla a 230 chilometri orari. Lei tenta di inseguirli abbaiando, ma vanno troppo veloci. Lenta, serena, annusa una carcassa sul ciglio della strada. Si domanda cos’è, come è arrivata lì e perché ha del pelo così uguale al suo: “Forse ho capito” pensa. VRROOOAAAAAM. 

No. 
Niente. 
Proviamo aVRROOOAAAAAM. 

E’ impossibile trombare Martina senza sentire una qualche affinità con Buck di Kill Bill, ma profani il più sacro dei suoi buchi dicendoti che su carta è legale. E’ maggiorenne, consenziente e tecnicamente in grado di intendere e di volere. Fai scempio del suo utero dicendoti che è per il suo bene, perché in giro non c’è un’anima e questa sarebbe capace di commettere gesti inconsulti tipo noleggiare film di Vanzina o calarla a chiunque le rivolga la parola senza insultarla. Andiamo avanti tutto il pomeriggio in due posizioni e varianti, ma pecorina no perché è da puttana. Quando la riaccompagno a casa in 600 le dico che potremmo rivederci qualche volta. Risponde che è improbabile perché ha il ragazzo. 

– Scusa?
– Te lo ricordi Davide, quello della 5°F?
– State ancora insieme?
– A-ha.
– Maa…

Mento, palpebre. Flap flap flap flap. 

– Vabbè, fa niente, allora –

Chiude la portiera della mia 600 nel bel mezzo dell’estate 2004. La guardo andare via nel fresco della sera. Oggi un’amica comune mi informa che a marzo la dolce coppietta convolerà a nozze. Congratulazioni, Davide!!1!

13. Maracaibo

La mattina è un cinguettare di rumori domestici, odore di albergo e caldo estivo. Dormire in un letto dopo quattro giorni di sedili d’auto è la cosa più bella vi possa capitare. Fuori non c’è una nuvola, il cielo è azzurro come solo l’estate di un diciassettenne sa dipingere. Mi sveglia Ario, calci sul fianco. Postpongo con un cazzotto in centro petto. Si allontana. Cinque minuti dopo ritorna alla carica gettandomi un gatto addosso. Prendo la bestia e la rilancio verso la porta. Gnaulìo offeso.

«Gli altri?» mugugno contro il cuscino.
«Fan colazione.»
«Con?»
«Caffè su moka ed è grasso che cola» dice girando l’angolo.

M’infilo in fretta nei vestiti, scendo. La colazione è silenziosa, baciata dal sole del mattino e vigilata dallo sguardo del padrone. Facciamo qualche battuta per ridurre l’eccitazione del pagare qualcosa lavorando lì, sul momento, lontano chilometri da casa. Prima la legnaia, perché il fresco della mattina ancora resiste. Già alle 11 sarebbe stata dura. Organizziamo i compiti in modo meccanico, siamo ancora addormentati. Ci tiene compagnia una radiolina che manda pezzi qualsiasi di musica italiana permettendoci di fare gli idioti più del solito. Dopo un’ora ho legna fin nelle tasche ed i bicipiti che pulsano quando Ario esordisce: «Che dice la tizia?»

«Quale?»
«La musica, il testo, cosa dice?»
Ascolto: «E’ Maracaibo. Raffaella Carrà.»
«Noo-o-o, è di Lu Colombo» interviene Atza.
«Sì, ma il testo di che parla?»
«Cosa ne so, AC/DC per sempre.»
«E le Spice?»
«Vaffanculo.»
«MI DITE DI COSA PARLA ‘STO PEZZO O NO?»

«Allora» sospira Solero «Maracaibo è in Venezuela.»
«E fin lì…»
«Fin lì cosa, Nebo, te è un miracolo se sai che Berlino è in Germania.»
«C’è questa tizia che balla nuda al Barracuda, un locale che te lo raccomando. Si suppone lei faccia la puttana ma non è così; sta sotto copertura, parla inglese e francese e traffica armi con Cuba, probabilmente guerriglieri indipendentisti e roba simile» continua Solero.

«Salta fuori che è sua madre» sussurra Atza.

«E’ innamorata di un certo Miguel, che però sta sempre in Cordigliera.»
«Una sala giochi?»
«Montagne. I trafficanti si nascondevano nelle grotte tra le ande, sennò li sgamavano e li fucilavano»

«Sì, ma c’era Pedro»
«Appunto, siccome Miguel sta in montagna lei se la fa tenere calda da Pedro, probabilmente un cubano che le lappava la passera sulle casse di nitroglicerina.»
«Questa te la sei inventata.»
«Tu scoperesti sulla nitroglicerina? No, fai casino, ti agiti ed esplodi»
«Quindi?»
«Quindi o lei gli staccava bocchini o lui le lucidava il grilletto, ma tant’è»

«Forse era rispetto, insomma lui non la scopava davvero, stavamo sui preliminari.»
«Se uno scartabella le grandi labbra a tua morosa t’incazzi di meno se invece te la tromba?»
«Bè, tecnicament
«STICAZZI, tanto Miguel li sgama e spara quattro colpi alla tizia.»

Esce dalla porta il padrone, piove il silenzio, il volume di lavoro aumenta. Sta a guardarci, ci informa che se vogliamo bere c’è la pompa dell’acqua. Ringraziamo.

«L’ha presa bene, il buon Miguel.»
«Eh, lei però sopravvive.»
«Con quattro colpi in petto?»
«Sennò la canzone finiva, ti pare? Lei decide di scappare perché appena Miguel verrà a sapere che è ancora viva la cercherà per finirla. Il mare è impraticabile però lei s’imbarca. La nave non ce la fa, si spezza l’albero e finisce in acqua.»
«Ma è una tragedia, pare Pollyanna!»
«In acqua c’è un pescecane.»
«Pure.»
«Il pescecane la morde, non l’uccide. Lei riesce a tornare a terra. Tempo più avanti la ritroviamo che pesa 130 chili, fa la pappona, gestisce uno strip bar con 23 mulatte e nuota nel rum e nella cocaina. Ancora oggi se sei gentile con lei ti fa vedere la ferita dello squalo. O forse ti si scopa, per quanto scopare 130 chili sfregiati non debba essere come impalare Pamela Anderson.»
«Pareva tanto allegra…»
«Anche questo viaggio pareva tanto bello prima che diventassimo i protagonisti di un film sul contrabbando di droga e il lavoro minorile.»
«Si dice minorato, mia madre ne parla sempre» corregge Atza.
«E ti guarda dritto negli occhi, vero?»

A mezzogiorno abbiamo sistemato la legnaia che pare un plastico in miniatura. Un piatto di pasta, coca e caffè, la pausa pranzo è allegra e socievole mentre fuori qualche turista mangia toast e gelati. Non abbiamo molto da dire, impegnati come siamo a metabolizzare le curiose sensazioni che proviamo. A metà pomeriggio la cantina è ordinata e gli sguardi dei proprietari sono molto più benevoli. E’ strano come vedere qualcuno che fa fatica lo renda rispettabile. Le carte d’identità ci vengono restituite. Spingiamo fuori la 127 che somiglia sempre più ad un rottame, la coppietta sta sul davanzale a salutarci. Appena le molle del sedile sprigionano l’odore di muffa, piedi e fumo tutto mi torna alla mente. Il viaggio. Il finestrino rotto. L’inseguimento. La dogana. Lo zaino. La

«La… Aspetta» dico.

Macchina ferma, la coppia dei gestori sulla porta, tutto immobile.
«Cos’hai?»
«Mi sembra di ricordar qualcosa che dovevo… ieri sera, prima di addormentarmi.»
«I soldi? I vestiti? Il gatto? Atza che russava? Io, me l’hai succhiato che dormivo?»
«No, era qualcosa di diverso…»
«I bagagli? L’auto? La Francia di merda?»
«I TEDESCHI!»
«Che tedeschi?»

Apro la portiera. Corro a vedere il parcheggio sul lato destro della locanda. Niente. Entro. Chiedo alla cicciabomba che mi guarda confusa: se c’erano tedeschi? Sì, sono partiti la mattina sulle 11 mentre noi facevamo la legnaia. Per dove? Non sa. Addio. Adesso abbiamo quasi un giorno di distanza, non sono certo fossero loro e chissà dove stanno andando. Rientro in macchina senza dare spiegazioni. La locanda sul porto ci saluta dal lunotto posteriore alle 16 di pomeriggio del quinto giorno. La 127 arranca in salita, risale sulla strada principale, il fiume di macchine c’inghiotte.

Nel mio curriculum vitae la prima esperienza lavorativa è magazziniere presso la locanda La belle oie, Montecarlo, Monaco, agosto 1997.

Natale 1999

Voi credete si batta la fiacca, invece in quel di Venezia si lavora. Ho scritto due post (Incoming Christmas e Noi salveremo il mondo) sul blog di RRobe. Da Milano persone importanti nel mondo dell’editoria mi hanno chiamato per partecipare ad un progetto di prossima – speriamo – uscita.






Venezia. 

Voci di turisti, fisarmoniche, grida, risate, scatti di foto. Odore di salso, muffa, roba fritta: kebapizzenini e piatti tipici offrono rapine legalizzate nelle calli. Venezia scippa il tuo portafogli con il sorriso davanti a tutti. 

Nessuno dice niente, nessuno fa niente.
E’ troppo bella per metterla in imbarazzo.



Questa città tracanna denaro come un’idrovora. Oltre vent’anni del medesimo schieramento politico hanno permesso la stratificazione di ogni sorta di mafie che vanno dai trasporti alla ristorazione, dai parcheggi alla balneazione, dalle forze dell’ordine fino alla regina delle prosciugatrici: l’edilizia.

Un esempio è il molino Stucky. Eterno cantiere di ristrutturazione, ha macinato miliardi di euro finiti nel nulla per poi ardere in una notte assieme ai suoi segreti. L’alba del giorno dopo il rudere ancora fumante viene venduto agli Hilton. In sei mesi riescono dove sedici anni avevano fallito. Trasformano il mulino in un albergo per vipponi che parcheggiano yacht da trenta metri in bacino S. Marco pagando 11,000 euro di ticket giornalieri, tipo il Carinthia VII qui sotto. 





– Excuse me – flauta una vagina.
– YESSMADAM!
– I’m looking for St. Mark plaza, can you help me? – triplo battito di ciglia.

Rincoglionite da maschere e dolci, marmo e profumi, acqua e sguardi, le americane a Venezia sono pronte ad allagare le camere per qualunque cosa odori di tricolore, ma se sei un gondoliere è inevitabile. Esistono garçonnierre apposite proprio perché ricevi otto o nove proposte al giorno dalle varie Fawzi, Hueng Zong, Ana Lucia, Stephanie, Shamira, Francesca, Julie. I controllori ACTV hanno le stanze di riposo, i gondolieri case in comune dove ficcare la propria bandierina tra le gambe di ogni nazione del mondo a botte di tre-quattro al giorno. A testa. E senza bisogno della Kamchatka. 

Quel natale ero alla disperata ricerca di un alloggio, avevo litigato con tutta la mia famiglia ed in tasca avevo quindicimila lire. Marco, il mio amico gondoliere, decise che potevo stare in uno dei loro scannatoi vicino al ponte delle tette. Saran stati nove metri quadrati di monolocale con riscaldamento, luce e persino gas. Tutti per me. L’unica pecca era che tre-quattro volte al giorno degli sconosciuti entravano con una o due turiste e tu dovevi uscire o girarti dall’altra parte o ignorarli mentre s’ingroppavano. All’ora di pranzo del 25 dicembre 1999 stavo in calle tremando di freddo perché la sola roba pesante che avevo era una giacca autunnale della Nike e nel monolocale ci davano sotto come belve. Non importa se questo natale è andato così, pensavo guardando famiglie allegre per strada: almeno adesso so qual è il fondo scala. 

Buon Natale, spiaggianti.

Stupidi ragazzini superficiali




Leonora: Amore, devi farti vedere una cosa assolutamente
Nebo: Te in tanga?
Leonora: meglio
Leonora: un appello online
Leonora: viene da facebook
Nebo: ci sono tutti i requisiti per temere il peggio
Leonora: hai mai sentito parlare del NO B DAY?
Nebo: ecco, benissimo
Nebo: B sta per Berlusconi, scommetto

Leonora: ESATTO
Nebo: fammi indovinare, Frodo di Pietro e Sam Travaglio getteranno l’anello nel monte Repubblica sconfiggendo l’occhio di Berlusconi 4ever e non ci sarà più la fame nel mondo né guerre o malattie?
Leonora: ti copincollo solo il titolo
Nebo: sì ti prego
Leonora: SALVIAMO L’ITALIA, SALVIAMO LA DEMOCRAZIA. BERLUSCONI DIMETTITI.
Nebo: rotfl
Leonora: pare un test “trova l’errore”
Nebo: in quanti l’hanno fallito?
Leonora: blogger, musicisti, precari ed associazioni su facebook
Nebo: ci sono tutti, potete aprire il fuoco
Leonora: coglione