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Anatomia di una battaglia navale (Pirati dei Caraibi)



Quando ho visto pirati dei Caraibi la sola cosa che mi ha lasciato a bocca aperta è stata la battaglia navale tra l’Interceptor e la Perla Nera. Fu una folgorazione. Non ci ho capito niente ma era figa. Le immagini, le tempistiche, i dialoghi, tutto suonava come un’orchestra. Quando guardiamo un film fatto bene di solito non ci accorgiamo del lavoro che c’è dietro. Tutto scorre, amen. Solo quando il montaggio fa merda, la regia è sbagliata o gli attori sono un disastro allora ci rendiamo conto che non stiamo vivendo una storia ma assistendo ad una messinscena. 

Invece, anche se scorreva da Dio, la battaglia navale di Pirati dei Caraibi mi è rimasta impressa. Oggi che di nautica ne capisco un po’ di più ho deciso di riguardarmela e mi ha esaltato il doppio, perché l’ho capita. Ed è bellissima, se non ci fosse Elisabeth Swan. 








«Gente agli alberi, mollate i velaggi! Con questo vento di poppa la nave terrà ogni vela spiegata!» 

Gibbs vede la Perla approssimarsi e mette tutte le vele al vento. Più vento, più velocità. Il vento non è esattamente di poppa, ma al traverso. Ipotizzando circa 20 nodi da SSW, questa è la posizione iniziale di entrambe. 



«Che succede? Ditemi!» chiede Elisabeth.
«La Perla Nera! Ci sta raggiungendo!» spiega Annamaria al timone. 

Qui c’è una stronzata. Il timone è un vecchio modello, il primo, a caviglie. Per manovrarlo servono tre uomini, un timoniere al centro e due aiuto timonieri ai lati. Nel 1600 i timonieri erano famosi per essere i più massicci della ciurma. Su Pirati dei Caraibi l’unico fisico da timoniere, per intenderci, è il negro. Una ragazzetta di 50 chili scarsi non riuscirebbe nemmeno a muoverlo, difatti se notate sulla Perla Nera al timone sono in due. Però vabbé, sono esigenze iconografiche di copione. 

«Noi peschiamo meno di loro, vero?» chiede Elisabeth.
Come questa donna sappia cosa significa “pescare” è il vero mistero del film. 

«Sì»
«Non possiamo staccarli su quelle secche?» 


Il pescaggio, in soldoni, è quanta nave sta sotto la linea di galleggiamento. Più una nave è carica, più carena è immersa. Se la nave a carico vuoto è alta 100, 20 stanno sotto acqua e 80 sopra. A carico pieno sta immersa 60 ed emerge 40, ci sarebbe tutta la terminologia ma vaffanculo. Elisabeth nota che il pescaggio dell’Interceptor è inferiore a quello della Perla, vede una secca (ossia un rialzamento del fondale marino) e suggerisce di passarci sopra. La Perla non può farlo perché si incaglierebbe, dovrebbe passarci attorno perdendo tempo. 



«Ci basta resistere ancora un po’, il tempo di arrivarci» dice Gibbs, esaltato.
«Alleggerite la nave» pigola Annamaria «Da prua a poppa!» 


Questo è importante. Con il vento al traverso, l’ordine con cui la nave si alleggerisce conta assai. Più la prua è leggera, più la nave s’inclina dove c’è ancora peso (a poppa) e di conseguenza si impenna, permettendo alle vele di prendere bene il vento e aumentare la planata. Nave impennata, meno scafo immerso, meno resistenza, più velocità. Se avesse fatto il contrario, la prua si sarebbe abbassata, rallentando di molto. La cosa potrebbe funzionare se non fosse che due zoccole ed un buon nostromo hanno contro il miglior comandante di vascello sia mai stato visto su grande schermo nella storia della cinematografia mondiale. 


«Bracciate in croce! Preparate i cannoni» sogghigna Barbossa sulla Perla Nera «…e fuori i remi» 


Le bracciate in croce sono l’orientamento dei pennoni, quelli che reggono le vele. In questo caso significa metterli perpendicolari all’asse longitudinale della nave, con l’effetto di farla “derapare” sottovento. Si chiama orzata. E’ una manovra pericolosa perché la nave sbanda, se il vento è troppo forte spacca gli alberi. Barbossa dà lo sprint in più con i remi per portarsi in posizione B, ed è lì il colpo di genio che gli sceneggiatori ed il regista hanno tralasciato, ma che è la vera chicca della battaglia. 

Ossia, con l’orzata a bracciate incrociate, la Perla si intromette tra il vento e l’Interceptor. Niente vento, niente propulsione. Di fatto questa manovra immobilizza l’Interceptor togliendogli qualunque possibilità di fuga mentre la Perla gli derapa contro dal lato dei cannoni senza che loro possano rispondere al fuoco. E’ una manovra geniale, che richiede un’assoluta conoscenza del mare e della nave che si governa. L’Interceptor è fottuto. 


Gibbs capisce la mossa: «La Perla orza sulla nostra quarta di babordo! Ci infilerà senza neppure offrirci un bersaglio!». 

A questo punto accade l’inspiegabile. Invece che rintanarsi da qualche parte a frignare disperata in vista dello stupro imminente, un’insopportabile stronza viziata che è sempre vissuta sulla terraferma, figlia di un governatore rincoglionito e priva di qualsiasi esperienza ha un’idea. Elisabeth Swan partorisce un misto di follia, coraggio e strategia militare tali da superare quella di Barbossa. 

«Caliamo l’ancora di destra. Quella di tribordo!» 



Virare sull’ancora significa tirare il freno a mano a 180 all’ora. Obbliga la nave a virare quasi su sé stessa, causa danni ingenti sia allo scafo che alle vele. E’ una manovra disperata, che sacrifica un’ancora e a volte la nave stessa. Annamaria lascia il timone, il che permette una virata ancora più secca e rischiosa. Questo momento è girato in maniera spettacolare, con un’epica che nessun assalto al fosso di Elm potrà mai ripetere. Lo scafo emerso dell’Interceptor, con le onde che se lo contendono ed il vento che lo schiaffeggia è un’immagine che può persino commuovere, se non siete delle mamme Twilight o gente che ha potuto votare Pisapia e beve Campari.




A questo punto la situazione entra in pareggio. 
Barbossa vede che virano sull’ancora e può solo accostare a sinistra per arrivare ben parallelo alla fiancata dell’Interceptor, così da evitare alcuni dei suoi cannoni siano inutili e tirino in acqua perché fuori assetto. Ora comincerebbe la bassa macelleria, quando nelle stive interamente in legno venivano sparate palle di cannone che creavano migliaia di scheggie ultrasoniche che mutilavano ed uccidevano, ma la Disney ha preferito mettere Orlando Bloom che fa snorkeling dentro un galeone. 

La mia pistola è come il mio pene, piccolo e inaffidabile



A casa di un pittore è facile trovare colori. A casa di un programmatore, computer. A casa di uno sceneggiatore, libri. A casa di un grafico, riviste gay. A casa della Minetti, tanga. Mi chiedo perché a casa di un manager troviamo un fucile e due pistole semiautomatiche. 

La risposta è: perché vuole usarli.
Non so voi come chiamiate una persona ansiosa di usare un’arma da fuoco, io di solito chiamo i Carabinieri. Oggi però gli handicappati diventano diversamente abili, i negri diventano persone di colore[sottointeso diverso dal bianco], le puttane diventano escort e le persone ansiose di usare un’arma da fuoco diventano cacciatori sportivi. 
Quando sento “caccia” penso ai Masai in Kenya. Ancora oggi vanno contro un leone in 5, ognuno armato di una zagaglia. Spesso ce la fanno. Venti-trenta ragazzi che scavano buche e preparano trappole per cinghiali per poi corrergli incontro con un coltello sperando quello ci caschi e non carichi. Gli indiani con l’arco contro i bisonti. Ario in un locale hipster. La caccia alla balena nel 1800, con scialuppe e ramponi tiravano giù una bestia grossa come una portaerei. Quella per me è caccia sportiva. Uno ha punti deboli che l’altro non ha e viceversa, entrambi rischiano di morire o di uccidere l’altro. 

Nel caso del nostro manager, invece, premi un pulsante e uccidi una poiana.

Entrare in un asilo per bambini ritardati e sterminarli a fucilate senza manco le suore a confonderti la mira o le associazioni dei genitori che ti fanno sprecare munizioni viene considerato uno sport. Persino il curling ha più dignità, e tenete presente che stiamo parlando della masturbazione elevata a pratica agonistica. Come risolvere questo imbarazzante problema? Cambiandogli il nome. Stai socializzando con un collega alla macchinetta del caffè e ti domanda che fai questo fine settimana? “sparo a creature indifese per divertimento” suona malino. Così rispondi “vado a caccia, la natura mi rilassa” ed i colleghi annuiscono ammirati dall’immagine poetica. Il panorama mozzafiato, il cinguettìo degli uccelli, la brezza tra gli alberi, i ruscelli di montagna, un cervo che passeggia e tu che li ammazzi tutti.

Un’immagine che trasmette sanità mentale da tutte le parti. 


Volendo analizzare nel dettaglio quella sopra, invece, il messaggio è chiaro: proteggerò la mia splendida famiglia e non esiterò a sparare se zombie/ serial killer/ vampiri/ passanti negri/ commessi dell’Iranistan/ ragazzini con giubbotti di pelle si avvicineranno per farle del male. La Paramount Pictures mi ha spiegato come fare nei contenuti extra dei DVD. Anche tu, sì, tu che guardi. Che cazzo vuoi? Tira dritto, stronzo. Sei sotto tiro. 

Avete presente quando a tredici anni sognavamo di trovarci nella stessa situazione di McLane su Trappola di cristallo? Bene. Anche lui. Solo che ha passato i 40, è un impiegato alle poste impazzito dalla paura verso il mondo esterno e nuota tra attacchi di panico e crisi di paranoia. Insomma, la persona giusta a cui dare una pistola. E difatti per loro la vecchiaia e il caldo si trasformano in un assedio dei GIS o in un carabiniere morto. Una litigata in famiglia diventa una strage. Un momento di depressione diventa omicidio/suicidio. Una passeggiata nei boschi diventa un revival della seconda guerra mondiale. Una gita con tuo figlio diventa un aborto in extremis che in altri casi può sfociare in una faida. Maneggiarla può trasformarsi in un omicidio colposo

Tutto questo perchè sparare è bello e dà quella sicurezza in più: quale ladro verrebbe a casa tua, sapendo che al minimo rumore potresti abbattere televisore, cane, credenza e moglie incinta?

Fragile come una bomba atomica



Il progetto Manhattan ha richiesto un lavoro di oltre 130.000 persone ed una spesa di due miliardi di dollari. Scienziati, fisici, militari e manovali guidati da Robert Oppenheimer crearono la prima bomba atomica nel 1942. La posta in gioco era altissima. L’atmosfera in cui si lavorava, i due tipi di prototipi, i livelli di segretezza, i rischi, la fretta, gli hamburger. Se guardiamo le fotografie ed i mezzi dell’epoca la sola parola che viene alle labbra è “impossibile”. 

Non “incredibile”.
Incredibile è un termine che implica l’accettazione incredula.
“Impossibile” è la ferma negazione di un principio base dell’esistenza stessa.
Settant’anni dopo, nel 2011, la bomba atomica rimane l’arma con il più alto potenziale distruttivo in assoluto. Ci sarebbe da dibattere. La bomba A di Oppenheimer nemmeno si usa più, è troppo dispendiosa in termini di costi/prestazioni ed esistono testate termonucleari che minimizzano l’effetto radioattivo e milluplicano quello termico. Bla bla bla. Però quel vecchietto dall’aria innocua è stato il primo ad inventare una bomba a fissione nucleare incontrollata, l’arma più potente che il genere umano abbia mai progettato in cinquemila anni di storia.

Ogni volta che una centrale nucleare ha casini tra la popolazione si diffonde quel timore reverenziale dettato dall’equazione nucleare = fungo atomico. E’ come aver paura che agitando una batteria possa partire un fulmine ed incenerirci. Per ottenere quella detonazione sono necessari equilibri, tempistiche, materiali ed impulsi talmente microscopici e perfetti che anche solo l’idea una centrale nucleare possa fare il funghetto per errore è ridicola. E sapete perché?
Perché una bomba atomica è fragile come un cristallo. 
Bastano un pulviscolo di polvere all’interno, un ritardo di pochi millesimi di secondo, e sarà solo un pezzo di ferro che emette un tonfo sordo cadendo a terra.


Le idee sono la stessa cosa.
Prendi una squadra di gente piena di talento e motivata, dà loro un’idea brillante e mettili all’opera. Creeranno un prototipo, faranno dei tentativi, correggeranno, miglioreranno e qualunque ostacolo esterno verrà risolto. Quando l’ostacolo è interno, invece, il discorso cambia. Se in un team di 100 persone ce ne sono 2 sbagliate, messe nei posti giusti fotteranno tutto. Basta un pulviscolo e all’improvviso la squadra diventa demotivata, stanca, irascibile. Neanche un anno dopo stan tutti parlando tedesco.
Bene.
Nel mondo dei media italiani ci son così tanti pulviscoli che sembra la camera di uno studente di filosofia. Le cose si sono invertite. L’idea che da lì possa uscire qualcosa di buono è talmente ridicola che è diventata una battuta. Ho avuto la fortuna di lavorare con delle persone straordinarie ed ho visto sotto i miei occhi nascere un piccolo progetto Manhattan. Mi ci sono affezionato, come le donne delle pulizie russe che nei cantieri chiamavano “piccolo figlio” i prototipi lunari URSS. L’ho visto crescere, cadere, rialzarsi, rinforzarsi e non c’è nulla al mondo di più osceno che vederlo imputtanato da qualche idiota. Un incapace che non lo fa nemmeno con cattiveria, ma solo perché è un pulviscolo ed il suo compito è quello, stare lì a rovinare tutto.



E’ il mondo del lavoro. Là fuori esistono canzoni bellissime, libri meravigliosi, storie fantastiche o autori brillanti che non conosceremo mai. A volte per tempismo, a volte per caso, a volte per cattiveria, per invidia, non ha importanza. Succede. Solo che se succede SEMPRE, allora la frustrazione sfocia in rabbia, nei perdenti in autocommiserazione, ma in entrambi i casi in un desiderio di aria pura. Di mollare tutto con il più sacro dei gridi di battaglia, il sempiterno “mavvaffanculo” che prelude ad una sbronza e due lacrime strappate a fatica dalla gola.
Perché il sistema è una merda che funziona da Dio. Così ti capita di pensare che il solo modo per fregarlo è quello di andartene; sognando, sperando e masturbandoti all’idea che se lo fai altri ti seguiranno e cambierai qualcosa. Forse, mentre crepi da solo nella desolazione, sarai abbastanza sfortunato da realizzare quanto sei stato coglione. Perché mollare consegna tutto ai tedeschi. E se ti salva, piccolo Efialte, il resto della tua vita sarà una pozzanghera di rimpianti e rancori abbastanza miserabile. Come quelle anime tristi che si sono affrettate ad emigrare ed ora passano la vita a leggere cosa succede in madrepatria sputandoci sopra, senzaterra dannati dalla loro stessa, patetica, vanitosa impotenza.
Oppenheimer non aveva i raccomandati ed aveva due miliardi di dollari. Però aveva Hitler oltreoceano. Ok, non è come lavorare coi romani, però somiglia. Non ha mollato. E’ riuscito a creare quel piccolo germoglio d’acciaio che una volta piantato nel terreno fa sbocciare un enorme fiore di fuoco tale da cambiare la storia.

Ogni volta che mi scoraggio davanti a tutta la merda che la mia generazione si sta mangiando guardo la foto di Oppenheimer sul PC e penso che il fallimento sia un requisito necessario al successo. E che niente, come la nostra generazione, somiglia ad una bomba atomica.

Rocco Siffredi è statisticamente sfigato



Come disse Bukowsky anni fa, non mi fido delle statistiche perché un uomo col culo nel freezer e il cazzo nel forno ha una temperatura normale. 

Prendete la frase che ti dicono in concessionaria dei tizi dai denti rifatti che trombano vostra moglie e pestano la loro: “quest’auto fa 40 chilometri con un litro”. Appena senti questo mantra immagini ingegneri in camice bianco che si congratulano tra loro per avere inventato la prima automobile a moto perpetuo. La compri fiducioso, a fine mese fai i conti e scopri che invece di una macchina piloti un Evangelion col cavo attaccato al distributore Eni. Non è possibile, pensi, avrai sbagliato a fare i conti. Fai il pieno, nove chilometri dopo la spia della riserva si accende col suono delle sirene antiaeree, WEEEEEEEE e venti metri dopo il motore si spegne. 



– Caro, che succede? 


La vagina al tuo fianco ti guarda confusa. Come ogni donna del pianeta ignora il funzionamento meccanico di pressoché qualunque cosa e considera la benzina un liquido magico e prodigioso alla stregua dello shampoo di Gucci o un farmaco omeopatico. Tu invece sai leggere quegli arabeschi euro/litri che scorrono sul distributore, serri la mascella e tenti di sorridere anche quando lei ti domanda con voce angelica se si può riparare col crick. In realtà il tizio con i denti di ceramica non ha mentito. Nella media bisogna considerare anche l’unica domenica dell’anno gita-moglie-e-suocera verso ignote località montane, cinque ore di autostrada dritta e piatta a velocità costante dove anche fare gli abbaglianti diventa una gioia incontenibile. Se aggiungi il ritorno in discesa a motore spentostatisticamente la tua auto ha consumato pochissimo ed è stata un investimento per l’ambiente ed il futuro dei tuoi figWEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEE 


– Tesoro, non faremo tardi da mia madre, vero? 
– P’pà, pecché non mi ‘compagni a giocaae coi miei ‘mici? 

– Ora facciamo il gioco del silenzio – dite, coprendo le fosse. 


Nelle pubblicità tutto questo viene subdolamente occultato. Gli unici spot ambientati nel mondo reale hanno l’auto che scava buche nell’asfalto o si parcheggia da sola o diventa Vultus 5 o è guidata da una donna che sa controsterzare. In quelle fantasiose, invece, boschi. Colline, montagne, quiete e silenzio (chiaro indice del motore spento). Non ci sono cornuti che fanno i furbi né vecchi col cappello a venti all’ora né asiatici che ignorano l’utilità della frizione, la tengono onnipremuta e fondono due-tre motori al mese. Non ci sono. Allo stop non c’è Feng Dong che dieci chilometri dietro di voi confonde freno con frizione e procede a due all’ora verso il vostro paraurti con aria sconvolta. Non c’è il vostro sguardo terrorizzato specchietto/parabrezza/specchietto/parabrezza e lo scatto disperato della vostra utilitaria per sottrarsi all’inevitabile avanzata cinese. Non c’è il camionista rumeno sbronzo che sorpassa senza guardare. Non c’è Alessandro Minoggi al volante.

Nel complesso mancano tutte le cause dei bombardamenti alla Libia.

Questa specie di religione di massa campa grazie a difese mentali, piccoli rassicuranti trucchi che sono in grado di farvi fare rate per generazioni senza battere ciglio fino a farvi dire dal finestrino del SUV all’amico in 600 “guarda che la mia consuma meno della tua”. Per fare un paragone, calcolando l’infanzia, le ore di sonno, il tempo passato a masturbarsi dentro e fuori dai set, Rocco Siffredi ha scopato poco.

Statisticamente.

Ho pagato 250 euro per un paio di pinne







Nella mia testa i piedi sono sempre rimasti al posto giusto: per terra quando ragioni, per aria quando balli e in faccia quando discuti. Per altri invece i piedi femminili sono oggetto di culto, adorano farcisi masturbare immaginando vi sia una vagina all’interno, scena che secondo me potevano mettere ne “la passione di Cristo” al posto dei chiodi. 


Ma questa è una cosa da Internet. 




Nel mondo reale un qualche stilista dall’ano trafficato nel 2000 decise di creare le punte allungate. Dramma. Tre settimane e tutte le donne d’Italia avevano i piedi di Pippo. Orripilanti stivali acuminati, escrescenze inguardabili che inciampavano nei tappeti, sgambettavano anziani, facevano da dosso alle biciclette e trafiggevano bassotti. Potevi giocare a freccette con ‘sto squallore di pinna di merda. Una mia ex ne aveva un paio di scure, tonde e affusolate che abbinate a jeans neri e camicetta pareva di fare lo struscio con Penguin. 

– Ma perché? – domandavo.
– Perché sono raffinate. 

Dieci anni dopo, nonostante la moda sia passata, questi obbrobri resistono. Sì. In questo momento da qualche parte nel mondo una donna si fa fotografare dal marito mentre indossa solo le sue scarpe migliori, due skateboard rosa shocking. E’ impossibile non vederle. Un tripudio di carne bianchiccia a buccia d’arancia, rughe, la selva oscura impiastricciata, la pancia pelosa del marito in primo piano da cui spunta un timido funghetto viola, la cucina Ikea coi piatti sporchi e tutto ciò che vedrete saranno loro. Risaltano come la bambina dal cappotto rosso di Schindler’s list. Quando i protagonisti di questa foto memorabile vedranno l’anteprima la loro frustrazione sarà inferiore solo alla mia quando la visionerò in Internet col nome di Mia Moglie Vi Fa Vedere A Pecorina La Sua Figa Pelosa-Puttana-Troia-Culo(259). 

Manca con scarpe raffinate, stranamente.
Magari lo aggiungerà la moglie.

Ho quindi capito che tutto ciò che ispira sesso, desiderio e libidine è volgare. Scarpe con la zeppa? Da troia. Pantaloni a vita bassa? Via. Scollature? No. Capelli mossi? Male. Minigonne? Sembri la d’Addario. Bikini, tanga, perizomi, roba da pervertiti. Viceversa, tutte quelle cose che comunicano “sono segretaria d’azienda leggo L’Internazionale e sono una rompicoglioni” vanno bene. Raffinato.

E’ possibile io non capisca niente di moda.
Poi però non devono incazzarsi se all’aperitivo attacco bottone con quella di destra.