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Capitolo 4 – I cambiamenti hanno due strade

«Ti fa male qualcosa?»

Mi ascolto. Sì. Tutto. La vita è uno schifo. Abbasso il parasole, guardo nello specchietto. Il buco del dente si vede benissimo, un triangolo isoscele acuminato. Il resto ancora attaccato alla gengiva diventerà nero in 72 ore senza rimedio. Sto in un down spaventoso. Impreco, guardandomi e passando il pollice sul bordo affilato.

«Cristo, e non c’è modo di metterlo a posto»
«Come no? Esistono i dentisti»
«Questo è morto e sepolto, c’è poco da fare i fighi col trapanino»
«Useranno attack e il bianchetto»
«Non ho tanta voglia di ridere, Ale»

«Oh Gesù, certo che te lo rimettono a posto, Nebo. Protesi, capsule, ricostruzioni… la chirurgia dentale ha rifatto da principio i denti di tre quarti degli attori che vedi nei blockbuster. Ti ricordi che denti c’aveva Tom Cruise su Top Gun?»
«No»
«Fidati, si sistema. Poi pensa al lato posit
«POSSO FUMARE A DENTI STRETTI!» esclamo.
«ESATTO!»
Jesolo fa capolino.

Arriviamo in una laterale di via Bafile, vicino all’entrata della Capannina. Scendiamo, vengo investito da una seconda rata di botte. Al fianco sinistro ho una fitta atroce ogni volta che mi muovo. La testa ha un bozzo sulla fronte che non tornerà mai a posto del tutto. Un braccio è indolenzito, contrarre il bicipite mi fa venire brividi di freddo dal male. Mani sbucciate e spelate. Il sangue che ho sulla camicia è dovuto ad un taglio sul labbro inferiore che si è infilzato nella scheggia del dente. E’ gonfio e pulsa. Siamo in una laterale buia, sterrata, nella pineta. Venti metri più in fondo c’è la spiaggia illuminata a malapena dai fari della Capannina. Sembra di guardare l’utero dall’interno.

Mi incammino verso il mare e la luce, seguito da Ale o da quello che abita il corpo del mio compagno di classe. Non so cosa possa cambiare una persona fino a renderla irriconoscibile. Di solito l’attitudine che hai da bambino dice quello che sarai da grande. Con enormi sforzi tolgo camicia e pantaloni ed entro in acqua coi boxer. Il freddo anestetizza, la salsedine disinfetta cicatrizzando e strappandomi un gemito. Faccio pian piano entrare l’acqua in bocca, sciacquo, sputo. Sento pizzicare il taglio, ma nulla di più. Non faccio l’errore di chiudere gli occhi o di rilassarmi. Risalgo. Mi levo le mutande fradice, indosso i jeans e uso le parti sane della camicia per asciugarmi. Con pochi passi sulla sabbia ritorniamo alla civiltà. Tra turisti, sbarbati e ubriachi Jesolo è piena di gente a torso nudo in qualunque momento del giorno e della notte. C’è il truzzo su di giri, lo sbarbato ubriaco, quelli del bagno di notte, l’addio al nubilato, americani in vacanza, quelli che si fanno il bagno nelle fontane, quelli che hanno perso una scommessa. Nessuno bada a due in più. Io saltello entusiasta tra macchinoni e plastiche al seno.

«Guarda che macchina, guarda!»
«Quale, la diligenza?»
«Sì, l’unica che invece le cavalle le carica»
«Ma va là, è targata Cartagine»

Negozi e bancarelle che vendono ciarpame di ogni tipo stanno aperti fino a tardi, una maglietta si compra o si sgraffigna senza problemi. Dieci minuti dopo ho una camicia hawaiana blu e posso arrancare per piazza Drago tra tope stellari che mi guardano inorridite e luci, gente, alcolici. Ale è frizzante e mi tiene su vedendo che sto sprofondando in una buca colossale. Decidiamo di berci qualcosa. Seduti al tavolo del pub parliamo di niente, uno che guarda da una parte e uno dall’altra la gente che passa. Prendi quelle che stanno arrivando, ad esempio.
«Ale» dico, interrompendolo «ma tu, nella vita, cosa fai?»
«In che senso?»
«Nel senso, ti alzi e?»
«E’ tanto veneta, ‘sta cosa, sai? Lavoro, lavoro, lavoro… cosa faccio? Mi occupo di un po’ di tutto. Pubbliche relazioni, incontri, eventi…»
«Dici cose, vedi gente»
«Più o meno»

Vi prego di notare lo spacco di quella tizia in fondo con moroso.

«Va bene, appurato che ti pagano perché ti fai vedere, mi spieghi la trasformazione da figlio di papà timidone e fancazzista al Guido Nicheli della situazione? Pure l’accento milanese, scandalo»

Scoppia a ridere. Passano tre tizie da far girare anche le colonnine spartitraffico. Le comunicazioni tra uomini si interrompono, come si confà tra gentiluomini. Le altre donne sibilano infastidite.

«Per chi è il mojito?» fa la cameriera.
Mio. Lui Jack Daniel’s.

«Mettiamola così: secondo me i cambiamenti arrivano dal coraggio o da una tragedia. Nel mio caso la mia famiglia ha fatto un botto contro un camion sulla Milano Venezia e ci sono rimasti secchi tutti. Papà, mamma, fratello e sorella. Morti sul colpo mentre ero sbronzo a una festa. Quando ti capita una cosa del genere…» dice, fermandosi un istante «…ecco, ti domandi cosa ci fai ancora qui»

Il mio corpo è paralizzato.
In fondo a destra si apre la porta del bagno ed esce la mia ex.

Capitolo 3 – Corri incontro alle cose

Vedo la gente disinteressarsi a questo pezzo di Xzibit. Coinvolgente, maestoso, liquido e brillante dai suoni fragranti e caldissimi. Le donne in pista si dimenano poco convinte in attesa della truzzeria. Resto focalizzato sugli effetti sonori della base, tastierine tutte WhIiIiIsSsSsH e U-U-U-U-U che titillano il timpano. Questo pezzo è fantastico. Il rullante pare un pacchetto di cracker d’acciaio. La voce grezza e oleosa come petrolio di Xzibit, perfetta. Notate i charleston che enfatizzano il cadere della cassa, anticipandola. Poi lui, il piano. Quegli accordi sembrano l’entrata in scena del Re Sole all’orgia del secolo. Voglio rendere partecipe di queste riflessioni Ale ed i suoi amici gangsta contadi.
Nebo, sogghigna Ale, forse lo hai già fatto.
Cheppalleee.
Questo ragazzo non lo capisco, ma visto che continua a parlare bla bla bla con i tizi mi dedico alle ragazze. Mi osservano con sospetto. Credo dovrei dire qualcosa per rompere il ghiaccio, così plano a fianco di quella con le tette più grosse e comincio a parlarle di questo, di musica, del motivo principale per cui la gente dovrebbe andare in discoteca, capite? La musica. Ballare ed ascoltare musica. Non stare seduta sui divanetti ad annoiarsi, piccola principessa incompresa. Di dove sei? Non dirmelo. Ucraina. Ho conosciuto un’ucraina una volta, Irene. Anche tu sei dell’Ucraina? Siete amiche o vi conoscete e basta? Altrimenti vi presento! Come ti chiami, bellissima regina dei ghiacci? Caterina. No, Katrina. Come il tornado, sarà perché anche tu tiri su un botto! Hahaha, sto scherzando sto scherzando, son tranquillo su ste cose. Però hai riso. Eh? Eeeeh, ti ho vista che hai riso.
Nebo, domanda Ale, ridendo e dandomi una pacca sulle spalle. E’ meglio se ti dai una calmata un attimo, sussurra.
Bla bla bla.
Sono più lucido di quello che crede, gli spiego, gli dico, gli spiego. Calmo, tranquillo, che faccia pure i suoi sporchi affari. Sto benissimo che sono un agente segreto, la spalla perfetta, il socio ideale. So in anticipo cosa penserà chiunque qui dentro. So la cosa migliore da fare. Posso dirti cosa sta bevendo metà della gente qui dentro con uno sguardo. Sono la cosa più simile a una divinità della movida, a un Dio delle PR. Potrei buttarmi da un ponte ed atterrare senza farmi niente, rialzarmi, spolverarmi e andare a andiamo a ballare, ragazze? Le prendo per mano e le porto lontano e loro ridacchiano tra loro che è un suono bellissimo perché con le donne bisogna sempre guardare cosa fanno e mai quello che dicono DIO la pista è il mio mondo. Entro scortato dall’Ucraina, balliamo. Le ragazze si strusciano tra loro con mani e sguardi tipicamente ucraini. Felici e spensierati, uniti da uno strano feeling, ci lasciamo andare e penso che potrei tenerle sveglie anche tutta la notte perché o qualcuno mi ha messo una mattonella di marmo nei boxer o signori con questa roba posso sconfiggere una dozzina di diciottenni sudamericane, quello mette le mani addosso all’Ucraina perché? Perché se due fiche stellari si strusciano in pista la gente dà di matto, dovrei portare le ragazze via dalla pista ma, no. Tanto è una perdita di tempo. Non è il momento, non sono il tipo, non è il caso. Non adesso, non stasera, perché già ho un sacco di casini, già all’università vado una merda, già ho un lavoro di merda, già quella troia m’ha mollato, già sono finito in un posto di strGli tiro un calcio in pancia.

«A che pensi?» domanda lei.

E’ metà ottobre. Sul letto cade quella luce dorata che hanno le sei di pomeriggio. L’aria sa di coperte e chiuso. Fuori, seimila metri più in alto, un aereo porta passeggeri chissà dove.

«Ascolta» dico.
«Puoi sempre prendere il brevetto più avanti» sospira.
«Pilotare un Cessna non è come pilotare un Harrier, ostrega» sbotto.
«Dovevi fare l’accademia, giusto?»
«Hm hm»
«Ormai è fatta. Stop. Fai altro. Hai la musica, l’università, lo sport…»
«Non è come volare»
«Prendilo come insegnamento. La prossima volta, corri incontro alle cose invece che pensarci troppo. Rimpiangerle serve solo alla gastrite. E poi credo il volo per te sia una specie di sogno che è un bene rimanga tale»
«Non ti seguo» dico, confuso.
Lei indica il soffitto: «Guarda quella mosca. Sta cercando di uscire da quando siamo qui. Il soffitto deve sembrarle la fine del mondo, eppure continua a provarci»

 

 

Il tizio vola addosso una coppia che sta ballando e molto prima che quello si rialzi gli corro dietro, gli monto sopra e gli pianto le mani nel collo. Così. La faccia gli diventa rossa, prima mi piglia a pugni, poi prende il collo anche a me, poi all’improvviso la faccia gli diventa rossa paonazza, gli occhi cambiano molto espressione, la bocca gli si spalanca e allora cerca di togliermi le mani, cosa che sarebbe pressoché impossibile se un’incudine non centrasse la mia mascella in pieno con un *crùnk* in bocca facendomi cadere dalla parte opposta. Per nulla intimorito mi rialzo in tempo per vedere quello per terra contorcersi tra conati di vomito e gli amici dell’entrata che mi corrono addosso. Non ne ho il minimo timore.

Prendo tante di quelle botte che non ho idea da dove arrivino o perché, il dolore è relativo ma non vedo più nulla e quando capisco cosa succede sono fuori dal locale, per terra, con in bocca un saporaccio e tutta la camicia coperta del mio rossissimo 0+. Mi rialzo e comincio a camminare verso l’entrata da cui mi hanno sbattuto fuori, solo che proprio quando i neandertaliani erano pronti a ripartire esce Ale che confabula qualcosa e mi tirona via. Lo seguo barcollante. Sputo per terra una roba che ho in bocca. Guardo, è metà del mio premolare di sinistra. Mi fermo un attimo a guardarlo, lo raccolgo. Mi tocco in bocca, non sento niente. Il nervo è morto, il dente pure.

Me lo metto in tasca.

All’improvviso 21 anni di vita mi crollano addosso assieme a un dolore acuto al viso, al braccio, alla testa, in bocca. Mi accorgo degli odori che fanno tutti schifo. Rimango fermo, imbambolato. Ale mi osserva con quel suo sorrisetto sulla faccia. Sto male. Immagini di lei mi tornano in mente come coltellate. Mi giro e vomito su un’aiuola del parcheggio.

«Ale, voglio andare a casa» sputo.

Allarga il sorriso e mi mette il braccio attorno alle spalle, incamminandosi: «Ho visto gente che la droga la piglia male, tu le batti tutte» sorride.
«Una volta mi han dato un cartone» dico «mi sono cagato addosso dalla paura»
«Sul serio?»
«No non sul serio, ma mi sono visto tipo i fantasmi che mi parlavano, una roba…»
«Che dicevano?»
Quello che dicono tutti, immagino.

«Non so» mento «Non so nemmeno perché faccio queste stronzate. Ti ho rovinato la serata»
«Macché, basta che ci leviamo di qui che magari il tizio ha chiamato gli sbirri»
«Per due sberle?»
«Non erano due sberle, ma stai tranquillo»
«Perché sono così? Sono così. Le peggio cazzate, una dietro l’altra. Sembrano sempre buone idee, poi passo la vita a-a cercare… Ho un lavoro di merda, a scuola vado di merda, ho una facoltà di merda e faccio musica di merda»

«Madonna, che down t’ha preso» sghignazza.
«Che?»
«Scommetto che ti faresti un altro tiro»
«SI»
«E se invece lasciamo perdere e andiamo a Jesolo?»
«Così?» dico, indicando la camicia ridotta ad un grembiule da macelleria.
«Si rimedia»

Massì, corriamo incontro alle cose.
Andiamo a Jesolo.

Vorrei del cattivo gusto senza salsa piccante, grazie

– Ciao, Jalal, mi fai un kebab?
– Kebap? Cosa dentro?
– Niente, solo carne e verdure.
– Sìsì anche carne e verdure.
Si mette all’opera.

– Jalal, te sei della Libia, vero?
– Sìsì Tripoli, Tripoli, visto tanti quanti morti, eh?

Guarda che anche gli italiani hanno i loro problemi, Jalal.
Diversi dai tuoi, ma pur sempre problemi.

Il sig. Marletti, pensionato di 69 anni, ha notato un giovane che camminava sul marciapiede dietro di lui. Si è dovuto fermare a fissarlo con aria terrorizzata, è stato uno dei peggiori spaventi della sua vita. Pensa a Francesco Piccin, si è dimenticato di caricare l’iPod e ora dovrà farsi tutto il viaggio senza musica. Cosa penseranno di lui? Meglio tenere le cuffiette bianche lo stesso. Qui ci sono coppie che per colpa della crisi non sanno decidere se andare in Thailandia o in Malaysia. Parlo di litigate fino a tarda notte nel loro monolocale, con urla piene di rabbia e frustrazione.

Prendi Eva, una studentessa di filosofia.
Ogni giorno si chiede perché Starbucks non apre in Italia. Per trovare dei Rayban originali senza lenti ha dovuto spendere 460 euro, ora è riuscita ad andare in pellegrinaggio a Portland e nel supermercato ha trovato solo coca cola e non pepsi. Non hai idea di quanto si è vergognata alla cassa, Jalal. Ora che è tornata in Italia ed ha comprato l’iPhone 4 è confusa e un po’ triste: non c’è ancora il jailbreak untethering, dovrebbe rifarlo ogni volta che lo riavvia! E Giovanna? Non ha abbastanza salsa piccante per le patatine. Certo, potrebbe aprire un’altra scatola, ma a quel punto non avrebbe abbastanza patatine. Una volta, per strada, un barbone l’ha guardata. Ora dovrebbe andare in palestra, ma si è appena fatta i capelli e le dispiacerebbe rovinarli.

Per qualche giorno il sito di qualcuno è stato offline a causa di Aruba. In qualche salotto c’è un uomo con il portatile che avvisa l’esaurimento della batteria ma il cavo è di sopra, a letto. Per colpa del mouse touch invece che cliccare l’icona di Chrome ha cliccato quella di iTunes. Ecco. Perfetto. Ora bisognerà aspettare trenta secondi per riuscire a chiuderlo. A proposito di tempo, per avere quel film gratis bisognerà aspettare cinque ore.
E per completare l’aggiornamento è necessario riavviare il sistema.

A volte capita di lasciare i vestiti bagnati dentro la lavatrice, a quel punto bisogna rilavarli perché se li metti e ci sudi puzzano di cane bagnato. Tu non puoi capire il dolore di quella ragazza che ha tenuto i tacchi tutta la cerimonia ed ora ha delle vesciche tremende.
Sono le 21.30, cazzo, è ora di cena, ma chi ha voglia di cucinare?

Il dolore, Jalal, è quando twetti insistentemente qualcuno e quello non ti risponde. Quando passi un’ora a comporre un tweet geniale e poi nessuno te lo retwitta. Oggi da noi i ragazzini con la paghetta per la merenda muoiono di fame per comprarsi le pokè card e trovano puntualmente quel cazzo di Farfetch’d: ne hanno già 24 di quelle papere di merda e a lezione svengono per l’ipoglicemia. Ti ricordi Eva, la studentessa? La sua carriera di fotografa stranamente non è decollata ed ora lavora come commessa in aeroporto dove la obbligano ad usare Internet Explorer. Il suo ragazzo è un grafico che in questo momento sbuffa: quale font usare? Un Serif? Un Bodoni? Perché non fanno un remake decente di Grim Fandango?
La benzina a 1,60 al litro, un pieno della barca mi costa 300 euro tondi.

Ma sai qual è il vero problema, Jalal?
Che è tutta colpa tua.

Se smettessi d’ammazzarti col tuo vicino di casa perché uno crede al Corano e l’altro al Corano light noi staremmo da Dio. La benzina dovremmo estrarla e produrla qui, costerebbe minimo 900 euro al litro. Andare a fare la spesa costerebbe come uno scooter. Un viaggio in aereo costerebbe come un attico a Venezia. Nessuno si dovrebbe più lamentare del jet lag, del ritardo, degli scioperi. Un mac prodotto in Europa o in USA con manodopera europea o americana costerebbe 300,000 euro, spedizione esclusa. Potrebbero averlo tre persone in tutta Italia. Gli adolescenti non si suiciderebbero per il cyberbullismo. Tutti magicamente avremmo più tempo libero. Per pagare l’elettricità dovremmo svenarci. Mangeremmo tutto quello che capita. Scomparirebbero i celiaci, le intolleranze, i vegetariani, i vegan. Cani, gatti, pappagalli, iguana e criceti finirebbero tutti in forno. Niente più cuccioli abbandonati in autostrada, niente più associazioni, WWF, pubblicità progresso. Niente più animalisti, niente più obesi, dietologi, malattie cardiovascolari.

Ma tu non capisci un cazzo di quello che ti dico e ora dovrò togliere cetrioli, ketchup e salsa piccante dal mio kebab, Jalal.
E questo è un gran problema, nel mio mondo.

Le malattie del cinema italiano









1. La scenetta buffa 

Quando in un film italiano c’è una scena che deve trasmettere confusione, smarrimento, agitazione o uno stato d’animo che non sia incazzato o disperato, ha un protocollo: prendere gli attori e farli correre di qua e di là con fare isterico, facendogli fare faccette buffe mentre ravanano i primi oggetti che trovano. 

E’ un passaggio obbligato nel nostro cinema dagli anni ’80 in poi. 
Che siano Castellitto o i Vanzina non ha importanza. 

Se in scena accade qualcosa di scioccante bisogna iniziare questa trafila, quindi: musichetta allegra un po’ zingara (ci torneremo), personaggi che corrono su e giù per il set armeggiando con una coperta – che, ha ha, non riescono a sistemare! – e occhi sbarrati. E’ una procedura standard che deve piacere un casino, tanto che di solito dura dai tre ai cinque minuti ed è onnipresente in qualsiasi produzione. 







2. Il realismo sonoro 

Il cinema è magia. E’ un insieme di suoni, musiche, parole, immagini e volti che se ben orchestrate riescono a farti dimenticare di essere su una poltrona. Non stai guardando il film, sei DENTRO il film. Molte scene nella storia del cinema sono epiche proprio grazie a questo. Sergio Leone perdeva ore a selezionare i suoni degli spari, che voleva fossero “verdi”. Morricone trasformava una fotografia monotona in un mondo malinconico, spietato e selvaggio. Parte del successo di un film è dato proprio dall’audio, e non solo dalla colonna sonora. Il sibilo di Alien. Il telefono di “C’era una volta in America”. Il sinistrissimo verso di Predator. I passi di Charles Bronson. Le spade laser ed il respiro di Darth Vader. L’urlo del tirannosauro di Jurassic park. Suoni che hanno fatto l’immaginario collettivo, perché in un mondo dove una battuta decreta il tuo personaggio un suono ti dà un’atmosfera. 

Dal lontano 1990 gli studi di post produzione utilizzano lo stesso suono per decretare l’inizio di un temporale. Questo. E’ una libreria prodotta dalla Sound Ideas nel lontano 1993. Sono vent’anni che piove nella stessa maniera, sia Vietnam, USA o toscana. Il traffico. Se la scena comprende esterni, è matematico un camion o un’automobile quando passano suonino lo stesso clacson che fa PE-PEEEEEeeeeooow. Ogni volta. Un sorpasso rischioso, una litigata a bordo strada, un cambio di scena rapido. Pe-peeeeooooow. Il corvo di merda.Sei in un posto desolato, un cimitero, una palude, devi creare un’atmosfera cupa? No problem. Usa il corvo, lo stesso identico volatile ormai impagliato dal 1994, anno in cui uscì la libreria (sempre Sound Ideas). Da qualche parte a Hollywood c’è una statua in oro a questa bestia che con il suo coraggioso rumore ha donato disagio ed inquietudine a miliardi di spettatori nel mondo. 

In Italia i suoni sono arrivati tardi. Prima erano tutti in presa diretta, ossia una merda aberrante con tazzine che riverberavano come rullanti, passi che rimbombavano come colpi di cannone e incristavano le voci. Se vi fa piacere saperlo, ancora nel lontano 2002 contattai l’allora unico studio di foley artist serio, l’Anzellotti, mandando curriculum e chiedendo se potevano darmi una possibilità. Dissero che non avevano bisogno di assumere nessuno, così tornai a fare il manovale e a guardare film con un audio decente. 






3. L’h. 

Finalmente un umore congeniale al nostro popolo: la straziata disperazione isterica. Consiste nel lanciare urla belluine tra fiumi di lacrime, insulti in romano, oggetti lanciati o branditi, minacce di omicidio e suicidio. Guardare Giovanna Mezzogiorno nella cucina de “l’ultimo bacio” o le scimmie eccitate che si lanciano la merda allo zoo è pressoché identico. L’urlo però è un’arte. Goku opta per UOOH, mentre i nostri attori hanno come parola d’ordine GNAA. Se prestate attenzione noterete che tutte le grida disperate vengono lanciate con questo principio fondamentale subito seguito dal nostro marchio di fabbrica: gli attacchi d’asma. Nessuno sa perché. E’ una cosa talmente forzata, innaturale, imbarazzante e ridicola che non si capisce come mai sia reiterata in ogni film. Però c’è. In ogni scena dove succede qualcosa che ha a che fare con i sentimenti i nostri attori cominciano ad ansimare come mantici. Lunghi, enfatici respiri che imputtanano ogni parola in un alternarsi di sibili confabulatori e urla da cavallo azzoppato. 







4. GUARDATE QUANTO CAZZO SONO GENIALE IN QUESTA SIMBOLOGICA METAFORA E QUESTA ARGUTA SOLUZIONE VISIVA OH DIO VENGO 


Quello che ha disintegrato il cinema italiano sono le pretese. Pretese di dare un messaggio, di fare politica, di fare il grande capolavoro. Il cinema italiano è morto quando invece di raccontare una storia ha iniziato ad usare la storia come pretesto per la regia. Quando ha avanzato pretese di far pedagogia per adulti con messaggi edificanti, morali e altra merda politicamente corretta. In una parola: S F I G A . Gronda da tutti i pori come l’odore di aglio e curry dagli indiani. Infesta i cinema d’essai, i cineforum, i film filopalestinesi che dopo dieci minuti speri li bombardino col napalm, le strazianti rotture di coglioni su Hassan Al Farahqui povero cammelliere sperduto nel deserto. I fili di stoffa appesi al filo spinato che rappresentano la loro gioventù sfregiata dagli spietati ingranaggi di un sistema che è tutto molto bello, ma io mi cago il cazzo.

E ora, Alexis Amore.


Capitolo 2 – Scelte importanti

Il Terraglio. La nostra 8 mile. Una superstrada lunga 17 chilometri che unisce Treviso a Mestre, l’arteria polmonare dell’entroterra veneto. Su questa strada c’è tutto. Campi, ristoranti, paeselli, discoteche, paninari ambulanti, ospedali e carghi di mignotte. Sono cresciuto in una delle sue laterali, un quartiere in mezzo al nulla a 20 minuti di autobus da Mestre. Niente criminalità, solo tanti cantieri abbandonati. Cinema, centri commerciali, palazzoni iniziati e mai finiti. Nel 1990 pareva uno scenario post atomico.
C’era solo una discoteca, l’Area city, che raccoglieva scoppiati da tutta Italia. Di notte quando eri a letto sentivi in lontananza l’eco dei bassi, a volte grida. La domenica pomeriggio andavamo a curiosare nella zona lì attorno e trovavamo pacchetti di sigarette, stagnole e siringhe. Eravamo affascinati da quella cattedrale di cemento e vetro, visto che tutti sapevamo a memoria “Nella notte” degli 883.

«Ale, ancora un po’ e torniamo indietro nel tempo» dico.
Il contachilometri tocca i 120.

«Tranquillo, so guidare la bambina. Oh, te c’hai la patente?»
«Chiaro»
«Da quanto?»
«Er… Gennaio»

«Hahaha, neopatentato demmerda, come mai così tardi?»
«M’han segato ripetutamente»
«Teoria o pratica?»
«Una per sorte. Tipico mio»
«Gna ha haha ha ha, manco lì studiavi!?»
«Scherzi? Sono un rapper, non faccio queste cosIIIIIH» grido.

Il sorpasso a filo mi fa sbiancare. L’altra macchina lampeggia spaventata, lui ride. E’ su una giostra, felice, spensierato. Guida una macchina da un gozziliardo di lire come fosse uno slittino, col rombo del motore che strapperebbe le mutande a una suora, figurarsi alla mia ex. E per Cortina ci sono un sacco di rettilinei.

«Ale, se non vuoi che mi butti fuori in corsa rallenta»
«Lamadonna, mai fatto un sorpasso?»
«Ascolta, Airton, se vuoi diventare un quadro astratto di lamiere e interiora coi pompieri a farti da critico d’arte fallo da solo, io devo sfondare nel mondo della musica e morire intossicato di bamba e whisky tra due ragazzine ninfomani»
«Va bene, va bene, non chiamare la tua crew, yò?»

Arriviamo a Treviso, fuori dall’Avana. Parcheggia, chiude, si dirige a grandi falcate verso l’ingresso saltando la coda, un enorme stronzone di fica strepitosa e contadini ripuliti che ci guardano tra l’incuriosito e l’astioso. Vedo il buttafuori prepararsi all’impatto e già vedo la figura di merda. Ho il portafogli legato ai pantaloni oversize con una catena da biciclette. Sono la X nel gioco “trova l’intruso”. Ci fermerà a ceffoni, il gestore uscirà sparando, riattraverseremo la fila sanguinanti tra le risate. La gente ci sputerà addosso. Saremo sui i quotidiani di tutto il mondo.

«Sì?» barrisce mr. Wistrol all’ingresso.
«Sono Alessio Seguso»
«Ah! Sì, sì, prego. E lui?» mi indica.
«Non lo conosco» dice Ale, e se ne va dentro.
Valuto il seppuku.

Per un attimo io e il buttafuori ci guardiamo, quelli in fila mi fissano, i riflettori mi puntano e sulla mia maglietta cominciano a muoversi dei puntini rossi. Il pleistocenico incrocia le braccia, l’altro lo raggiunge. Io alzo l’indice e apro la bocca per dire le mie ultime parole da uomo con una dignità quando da dentro spunta la testa di Alessio.
«Bè? Che fai lì, ti muovi? Eddai ragazzi, sto scherzando, un pelo d’ironia, eh?» schiocca le dita con occhi sbarrati.

I colossi si disinteressano istantaneamente a me. Sgattaiolo dentro inseguendo Ale, uno che quando l’ho conosciuto era un asociale figlio di papà con la costante espressione di chi sta leggendo “lessico famigliare” della Ginzburg. Vedi cosa fanno gli anni.

«Mi sono cagato addosso» ansimo.
«Hahaha, fan brutto, eh?»
«Tra bicipite e torace non credo riescano a prendersi l’uccello per pisciare»
Fa un gesto frivolo con la mano: «Buoi d’allevamento consenzienti, lascia là. Facciamo una cosa: tu vai al banco e ordini un mojito per me e per te quello che vuoi, io torno subito»
«Non ci hanno dato la drink card, qui si paga direttamente in organi?»
«La barista si chiama Yelena, digli che sono per me»
«Fiuto il dramma»
«No, perché?»
«Eh, perché co’ ‘sta smania di fare il simpa che c’hai salterà fuori che Yelena è la madre del barista e in men che non si dica sarò l’ingrediente segreto della Simmenthal»

«Nebo, VAI» sogghigna.
Vado.

 

Il ripetitivo pulsare nella penombra, l’enorme mole di fiche stellari. Non è facile raggiungere il bancone, dove mi accoglie una bionda dallo sguardo di ghiaccio. Yelena non crea problemi, versa due mojito e torna dagli altri clienti. Butto le solite cannucce per terra e sto al banco a guardarmi attorno. Dopo dieci minuti che comincio a preoccuparmi Ale spunta dalla folla, piglia il mojito, saluta Yelena e mi fa segno di seguirlo. Arriviamo a un tavolino sul lato rialzato, ci aspettano due tizi qualsiasi sulla trentina accompagnati da due sventole sudamericane che polverizzano qualunque modella di Intimissimi da qui all’eternità. Sul tavolo c’è una cartellina, una penna, bicchieri da cocktail, due calici.

«Questo è Nebo, un mio carissimo amico» dice Ale, indicandomi.
«Ehilà» faccio.
Le tizie neanche si voltano. Una butta un’occhiata distratta.

«Nebo, loro sono Tony M, sai il DJ dell’Area, quella storica? E’ lui. Lui invece è Claudio C, il gestore di questo tempio del peccato»
«E’ un gran bel tempio» dico tentando d’ignorare le scollature.
«Grazie. Vuoi?» domanda mostrandomi la carta di credito.

Ora io non so voi, ma se mi offrono una carta di credito dico di sì a prescindere. E’ simpatico. Non hai idea di cosa cazzo significhi ma dire “no” sarebbe suonato male. Non sbagliato, solo male. Se invece dici “sì” hai un sacco di assist per cavartela con una battuta. Il problema diventa quando dal nulla salta fuori una bustina bianca, le tizie si voltano improvvisamente interessate, la carta di credito viene usata come Mosè sul Nilo e tu, tu hai appena detto “sì”. L’altro arrotola una banconota da 20 euro, in culo agli stereotipi cinematografici.

«Eeeh… Ale?» sussurro.
Si sporge senza guardarmi.

«Io non ho mai, diciamo, avuto l’occasione di… di.»
«Di…? Farlo prima? Mai fatto un pippotto?»
«Ecco»
«E allora perché hai detto sì?»
«Perché credevo di fare chissà che battutoni, non avevo colto…»
«Vabbè, prova. Guarda, è facile»

Gli porgono i 20 euro. Ale mi lancia uno sguardo, si china e con un gesto rapido esegue. Si tira su, gli occhi lucidi, si sistema il naso, inspira ed espira.

«Llllà. Sì. Polvere parlante splendidissima. Tè, segugio, attacca»

Le tizie danno segni di impazienza, se non altro mi guardano. Ho dai due ai tre secondi per fare una scelta importante. Mi chino pensando che chi se ne frega. Quando rialzo la testa il mondo è al suo posto, non c’è nessuna differenza e non provo niente di strano. Sto bene. Sono tranquillo. Prude un po’ il naso. Mentre un reattore nucleare all’interno del mio corpo stacca lentamente il circuito di raffreddamento, Claudio C. chiede ad Ale se fuma.

E tira fuori un pacchetto di Marlboro.