All posts by Nebo

Power Francers



Il mondo della musica italiana ha una regola non scritta: deve essere istruttiva. Chiunque prenda un microfono o una telecamera deve cantare o rappresentare una sensibilità politica o sociale. Se non lo fa rischia di non venire preso sul serio, e questo è l’incubo ricorrente dei nostri artisti: essere scambiati per artisti. 

Va bene guru, opinionisti, educatori, filosofi, ma cazzo: artisti no. 
Fa sfigato.



Dalla parte del pubblico invece si è sviluppato un distorto senso di colpa. Se ti piace qualcosa di non formativo, non culturale, non educativo, sei una persona vuota. Oggi bisogna giustificarsi se ti piace qualcosa, premettere che normalmente ascolti tutt’altro sciorinando i nomi più underground possibile. Così siamo finiti che pubblico e cantanti vivono nel costante terrore di sé stessi, i primi hanno paura di fare musica e i secondi di ascoltarla. 

Poi sono arrivati i Power Francers.
O i Katerfrancers, devono ancora decidersi.


Quando ho sentito “pompo nelle casse” mi parve una tale figata di ritmo, stile, talento e semplicità che mi spaccò cuore e timpani in due. Il groove strepitoso, i synth nervosi, la metrica di lei che riusciva ad essere musicale e sexy senza mostrare mezza coscia. Compro il brano su iTunes. Poi ascolto “Discoboy”. Lo compro. Trovo “Lei che lo vuole”, lo salto. Trovo “bonita”, lo compro all’istante. Divento loro fan su Facebook e dopo qualche aggiornamento di status ieri mattina leggo questo: 


“Italia! Poliziotti! Politica! Malessere! Tutti che vogliono andarsene! Noi crediamo che se non siamo noi i primi a rimanere per cambiare le cose qui non succede nulla! Facile scappare! Come chi ci chiede perché non cantiamo in inglese!! Perché è tutto fantastico quello che è italiano e noi ci indignamo più per chi vuole scappare senza provare a cambiare e rivalutare le cose che per tutto il resto! Su! Italian do it better!” 



Rileggo il passaggio tre o quattro volte. Non è possibile, penso. All’improvviso mi sento euforico. Perché Internet mi ha abituato al perdentismo, alla commiserazione, al piagnucolio sfigato, all’odio, alle realtà ricostruite e alla serietà per nascondere la pochezza. Soprattutto, Internet mi aveva quasi convinto a considerare ignoranti e presuntuosi delle persone normali. Non lo sono. Chiunque scriva una cosa del genere ha umiltà, coraggio e l’attitudine giusta, quel modo di vedere la vita che ti permette di ridere in faccia ai demoni traendone energia positiva. 

Qualche giorno dopo capito sul blog di Roberto Recchioni, si parla di fumetti. Tra i commenti salta fuori – salta SEMPRE fuori – quello che domanda se nelle tavole ci sono arguti riferimenti a chissà che cazzi. “No” risponde RRobe “sono solo storie”. E’ una frase perfetta. Sono solo storie, è solo musica. Sappiamo che voi conoscete un gozziliardo di autori e volete schiantarci di cultura riguardo citazioni incrociate e punzecchianti assoliti di satira, ma il nostro lavoro è l’intrattenimento. Non siamo professori, vogliamo solo cantare canzoni e raccontare storie. 

Forse un giorno i Power Francers avranno le pretese di educare o di ergersi a portavoci di qualche disagio, diranno che i gay hanno pari diritti, che Berlusconi è disonesto, che gli anni ’70 erano meglio, che i politici sono mafiosi o che i VIP sono stronzi. Forse un giorno scriveranno un libro con la premessa di Marco Travaglio in cambio di una comparsata del figlio nel videoclip, ma non credo. Non ne hanno bisogno. Li vedo vestititi da rincoglioniti con video disgustosi, occhi storti, peli superflui, chiazze di sudore, pancette da birra, coperti di sputi su youtube e mi rendo conto che Goldentrash, Pacchiani e Kate non hanno bisogno di dimostrare niente a nessuno; vogliono solo combattere per il loro diritto di fare festa.

E se non sei d’accordo, chupala.

Capitolo 5 – Il cane di fuoco

La parola “smarrimento” indica con simpatico distacco un’emozione sgradevole. Siamo stati tutti un po’ smarriti. A quattro anni quando all’asilo ci fregarono Gordian. A sedici quando lei voleva farlo al buio. A venti quando voleva un uomo che la facesse ridere. A ventuno quando il rombo del motore copriva le battute ma andava bene lo stesso. Smarriti. Tutti noi, almeno una volta nella vita, abbiamo avuto lo sguardo di Flavia Vento. Ora il mio occhio sinistro ha appena visto la mia ex con tacco 13 e un’ipotesi di vestito dirigersi verso un punto indefinito, l’occhio destro invece si è paralizzato davanti ad un uomo che mi ha appena raccontato di aver seppellito tutta la famiglia in blocco. Sono smarrito. “Hai bisogno della cartina?” domanda dal 1996 Francesca, al buio, mentre tento di scoparle l’ombelico.

«Se vuoi cambiamo argomento» fa Ale.
Cerco di concentrarmi, concentrarmi, concentrarmi.

«No, bè… dipende da te, credo»
«Tanto te l’avrei raccontato lo stesso, stanotte»
La vedo che va a sedersi in un punto imprecisato del locale.

«Non riesco ad immaginare come ci si senta»
«Oh, il peggio possibile. Calcola che i miei sono morti reputandomi un fallito incapace che nella vita non avreebbe mai combinato nulla di buono»

Sto zitto. Non so come guardarlo. Immagino dovrei dire qualcosa, ma sono attratto dal suo sguardo assente e scanzonato. Sembra stia raccontando un film o una storia non sua. Non riesco ad associare le parole alla faccia, è una scena surreale.

«Insomma, devi capire che mi sono trovato solo, bambinone, con un patrimonio discreto che non sapevo né come usare né perché. Ho passato buona parte della mia vita ad aspettare che i miei risolvessero tutti i problemi. Sai, una specie di sicurezza inconscia, tipo la vita con la rete di salvataggio. Tanto ci sono loro, tanto ci penseranno loro… Per quello potevo permettermi il lusso di avere paura»
«Quando è successo?»
«Un anno fa, circa»
Gesù.

«Mi sembra tu abbia reagito bene» tento.
Solleva le sopracciglia: «Me so comprà na bottja de Laphroig, un Cohiba, sono salito sul tetto di casa con l’obiettivo di buttarmi sul parcheggio che c’è sotto, un volo di cinque piani circa. Bam, fine. Il Laphroig è perché un po’ mi cagavo addosso»
«Ah»
«Eh. Mi son fatto tre quarti di bottiglia ed avevo quasi trovato il coraggio, quando mi è venuta in mente una vacanza di quando ero bambino, in Calabria. Sarà stata l’estate del ’94, quella lunga e calda»

«Me la ricordo»
«Bè, un giorno io e mio padre stiamo andando in spiaggia, incrociamo il guardiano. Un vecchio senza denti messo lì per nulla, ma se non lo pagavi ti spaccava tutte le finestre. Papà si ferma a farci due parole, entra nell’argomento incendi. Quello annuisce con l’aria stanca che hanno i calabresi e ci racconta come si appiccano gli incendi. Tu lo sai?»

«Non so, i mozziconi di sigaretta, una tanica di benzina…»
«Noo, sei matto?! Una tanica di benzina lascia tracce e crea incendi isolati. Li puoi spegnere facilmente. Il trucco per un incendio fatto bene, di quelli che fanno tabula rasa, sono tanti incendi isolati appicciati nello stesso momento. Il segreto sono i cani»
Mi scuoto: «I cani?»
«Già. In Calabria prendono dei cani randagi, li inzuppano di benzina e gli danno fuoco. Le bestie impazziscono per il dolore e corrono fino a morire attraverso ettari di erba secchissima, a cui basta una fiammella per accendersi. In pochi secondi fanno il lavoro di un esercito. Tanti piccoli focolai. Poi quando muoiono non lasciano tracce; anche se trovano le carcasse sono alcuni tra i tanti animali carbonizzati. E’ geniale, se ci pensi. Così, sbronzo e depresso sul tetto di casa mia, ho realizzato che è esattamente quello che volevo essere: un cane di fuoco»

Oh, guarda, il tono di voce di un malato mentale. I peli delle braccia si raddrizzano: «Caaaapisco»
«Non credo. Per me le persone importanti… Il loro disprezzo me lo tengo senza possibilità di rimediare. Amici o amori sono andati o non ne ho mai avuti. Quindi vaffanculo. Il cambiamento arriva per una tragedia o per coraggio. Ho un bel gruzzolo da parte, mi faccio schifo e la vita per me ha un significato ridicolo. Queste cose messe assieme creano un cambiamento. Così sono sceso dal tetto felice. Finalmente nella mia vita sapevo cosa fare. Ho iniziato questa sera»

Il dente comincia a pulsarmi: «A far che?» chiedo.
«A bruciare tutto» sogghigna.

Inizialmente non capisco. Poi qualcosa nella mia testa si domanda se il nostro incontro sia stato casuale. È paranoia? È la droga? Cosa so davvero di lui? Mi accorgo troppo tardi che Ale sta seguendo il mio sguardo fino a vedere lei, seduta al tavolo che ora sembra orrendamente vicino.

Capitolo 4 – I cambiamenti hanno due strade

«Ti fa male qualcosa?»

Mi ascolto. Sì. Tutto. La vita è uno schifo. Abbasso il parasole, guardo nello specchietto. Il buco del dente si vede benissimo, un triangolo isoscele acuminato. Il resto ancora attaccato alla gengiva diventerà nero in 72 ore senza rimedio. Sto in un down spaventoso. Impreco, guardandomi e passando il pollice sul bordo affilato.

«Cristo, e non c’è modo di metterlo a posto»
«Come no? Esistono i dentisti»
«Questo è morto e sepolto, c’è poco da fare i fighi col trapanino»
«Useranno attack e il bianchetto»
«Non ho tanta voglia di ridere, Ale»

«Oh Gesù, certo che te lo rimettono a posto, Nebo. Protesi, capsule, ricostruzioni… la chirurgia dentale ha rifatto da principio i denti di tre quarti degli attori che vedi nei blockbuster. Ti ricordi che denti c’aveva Tom Cruise su Top Gun?»
«No»
«Fidati, si sistema. Poi pensa al lato posit
«POSSO FUMARE A DENTI STRETTI!» esclamo.
«ESATTO!»
Jesolo fa capolino.

Arriviamo in una laterale di via Bafile, vicino all’entrata della Capannina. Scendiamo, vengo investito da una seconda rata di botte. Al fianco sinistro ho una fitta atroce ogni volta che mi muovo. La testa ha un bozzo sulla fronte che non tornerà mai a posto del tutto. Un braccio è indolenzito, contrarre il bicipite mi fa venire brividi di freddo dal male. Mani sbucciate e spelate. Il sangue che ho sulla camicia è dovuto ad un taglio sul labbro inferiore che si è infilzato nella scheggia del dente. E’ gonfio e pulsa. Siamo in una laterale buia, sterrata, nella pineta. Venti metri più in fondo c’è la spiaggia illuminata a malapena dai fari della Capannina. Sembra di guardare l’utero dall’interno.

Mi incammino verso il mare e la luce, seguito da Ale o da quello che abita il corpo del mio compagno di classe. Non so cosa possa cambiare una persona fino a renderla irriconoscibile. Di solito l’attitudine che hai da bambino dice quello che sarai da grande. Con enormi sforzi tolgo camicia e pantaloni ed entro in acqua coi boxer. Il freddo anestetizza, la salsedine disinfetta cicatrizzando e strappandomi un gemito. Faccio pian piano entrare l’acqua in bocca, sciacquo, sputo. Sento pizzicare il taglio, ma nulla di più. Non faccio l’errore di chiudere gli occhi o di rilassarmi. Risalgo. Mi levo le mutande fradice, indosso i jeans e uso le parti sane della camicia per asciugarmi. Con pochi passi sulla sabbia ritorniamo alla civiltà. Tra turisti, sbarbati e ubriachi Jesolo è piena di gente a torso nudo in qualunque momento del giorno e della notte. C’è il truzzo su di giri, lo sbarbato ubriaco, quelli del bagno di notte, l’addio al nubilato, americani in vacanza, quelli che si fanno il bagno nelle fontane, quelli che hanno perso una scommessa. Nessuno bada a due in più. Io saltello entusiasta tra macchinoni e plastiche al seno.

«Guarda che macchina, guarda!»
«Quale, la diligenza?»
«Sì, l’unica che invece le cavalle le carica»
«Ma va là, è targata Cartagine»

Negozi e bancarelle che vendono ciarpame di ogni tipo stanno aperti fino a tardi, una maglietta si compra o si sgraffigna senza problemi. Dieci minuti dopo ho una camicia hawaiana blu e posso arrancare per piazza Drago tra tope stellari che mi guardano inorridite e luci, gente, alcolici. Ale è frizzante e mi tiene su vedendo che sto sprofondando in una buca colossale. Decidiamo di berci qualcosa. Seduti al tavolo del pub parliamo di niente, uno che guarda da una parte e uno dall’altra la gente che passa. Prendi quelle che stanno arrivando, ad esempio.
«Ale» dico, interrompendolo «ma tu, nella vita, cosa fai?»
«In che senso?»
«Nel senso, ti alzi e?»
«E’ tanto veneta, ‘sta cosa, sai? Lavoro, lavoro, lavoro… cosa faccio? Mi occupo di un po’ di tutto. Pubbliche relazioni, incontri, eventi…»
«Dici cose, vedi gente»
«Più o meno»

Vi prego di notare lo spacco di quella tizia in fondo con moroso.

«Va bene, appurato che ti pagano perché ti fai vedere, mi spieghi la trasformazione da figlio di papà timidone e fancazzista al Guido Nicheli della situazione? Pure l’accento milanese, scandalo»

Scoppia a ridere. Passano tre tizie da far girare anche le colonnine spartitraffico. Le comunicazioni tra uomini si interrompono, come si confà tra gentiluomini. Le altre donne sibilano infastidite.

«Per chi è il mojito?» fa la cameriera.
Mio. Lui Jack Daniel’s.

«Mettiamola così: secondo me i cambiamenti arrivano dal coraggio o da una tragedia. Nel mio caso la mia famiglia ha fatto un botto contro un camion sulla Milano Venezia e ci sono rimasti secchi tutti. Papà, mamma, fratello e sorella. Morti sul colpo mentre ero sbronzo a una festa. Quando ti capita una cosa del genere…» dice, fermandosi un istante «…ecco, ti domandi cosa ci fai ancora qui»

Il mio corpo è paralizzato.
In fondo a destra si apre la porta del bagno ed esce la mia ex.

Capitolo 3 – Corri incontro alle cose

Vedo la gente disinteressarsi a questo pezzo di Xzibit. Coinvolgente, maestoso, liquido e brillante dai suoni fragranti e caldissimi. Le donne in pista si dimenano poco convinte in attesa della truzzeria. Resto focalizzato sugli effetti sonori della base, tastierine tutte WhIiIiIsSsSsH e U-U-U-U-U che titillano il timpano. Questo pezzo è fantastico. Il rullante pare un pacchetto di cracker d’acciaio. La voce grezza e oleosa come petrolio di Xzibit, perfetta. Notate i charleston che enfatizzano il cadere della cassa, anticipandola. Poi lui, il piano. Quegli accordi sembrano l’entrata in scena del Re Sole all’orgia del secolo. Voglio rendere partecipe di queste riflessioni Ale ed i suoi amici gangsta contadi.
Nebo, sogghigna Ale, forse lo hai già fatto.
Cheppalleee.
Questo ragazzo non lo capisco, ma visto che continua a parlare bla bla bla con i tizi mi dedico alle ragazze. Mi osservano con sospetto. Credo dovrei dire qualcosa per rompere il ghiaccio, così plano a fianco di quella con le tette più grosse e comincio a parlarle di questo, di musica, del motivo principale per cui la gente dovrebbe andare in discoteca, capite? La musica. Ballare ed ascoltare musica. Non stare seduta sui divanetti ad annoiarsi, piccola principessa incompresa. Di dove sei? Non dirmelo. Ucraina. Ho conosciuto un’ucraina una volta, Irene. Anche tu sei dell’Ucraina? Siete amiche o vi conoscete e basta? Altrimenti vi presento! Come ti chiami, bellissima regina dei ghiacci? Caterina. No, Katrina. Come il tornado, sarà perché anche tu tiri su un botto! Hahaha, sto scherzando sto scherzando, son tranquillo su ste cose. Però hai riso. Eh? Eeeeh, ti ho vista che hai riso.
Nebo, domanda Ale, ridendo e dandomi una pacca sulle spalle. E’ meglio se ti dai una calmata un attimo, sussurra.
Bla bla bla.
Sono più lucido di quello che crede, gli spiego, gli dico, gli spiego. Calmo, tranquillo, che faccia pure i suoi sporchi affari. Sto benissimo che sono un agente segreto, la spalla perfetta, il socio ideale. So in anticipo cosa penserà chiunque qui dentro. So la cosa migliore da fare. Posso dirti cosa sta bevendo metà della gente qui dentro con uno sguardo. Sono la cosa più simile a una divinità della movida, a un Dio delle PR. Potrei buttarmi da un ponte ed atterrare senza farmi niente, rialzarmi, spolverarmi e andare a andiamo a ballare, ragazze? Le prendo per mano e le porto lontano e loro ridacchiano tra loro che è un suono bellissimo perché con le donne bisogna sempre guardare cosa fanno e mai quello che dicono DIO la pista è il mio mondo. Entro scortato dall’Ucraina, balliamo. Le ragazze si strusciano tra loro con mani e sguardi tipicamente ucraini. Felici e spensierati, uniti da uno strano feeling, ci lasciamo andare e penso che potrei tenerle sveglie anche tutta la notte perché o qualcuno mi ha messo una mattonella di marmo nei boxer o signori con questa roba posso sconfiggere una dozzina di diciottenni sudamericane, quello mette le mani addosso all’Ucraina perché? Perché se due fiche stellari si strusciano in pista la gente dà di matto, dovrei portare le ragazze via dalla pista ma, no. Tanto è una perdita di tempo. Non è il momento, non sono il tipo, non è il caso. Non adesso, non stasera, perché già ho un sacco di casini, già all’università vado una merda, già ho un lavoro di merda, già quella troia m’ha mollato, già sono finito in un posto di strGli tiro un calcio in pancia.

«A che pensi?» domanda lei.

E’ metà ottobre. Sul letto cade quella luce dorata che hanno le sei di pomeriggio. L’aria sa di coperte e chiuso. Fuori, seimila metri più in alto, un aereo porta passeggeri chissà dove.

«Ascolta» dico.
«Puoi sempre prendere il brevetto più avanti» sospira.
«Pilotare un Cessna non è come pilotare un Harrier, ostrega» sbotto.
«Dovevi fare l’accademia, giusto?»
«Hm hm»
«Ormai è fatta. Stop. Fai altro. Hai la musica, l’università, lo sport…»
«Non è come volare»
«Prendilo come insegnamento. La prossima volta, corri incontro alle cose invece che pensarci troppo. Rimpiangerle serve solo alla gastrite. E poi credo il volo per te sia una specie di sogno che è un bene rimanga tale»
«Non ti seguo» dico, confuso.
Lei indica il soffitto: «Guarda quella mosca. Sta cercando di uscire da quando siamo qui. Il soffitto deve sembrarle la fine del mondo, eppure continua a provarci»

 

 

Il tizio vola addosso una coppia che sta ballando e molto prima che quello si rialzi gli corro dietro, gli monto sopra e gli pianto le mani nel collo. Così. La faccia gli diventa rossa, prima mi piglia a pugni, poi prende il collo anche a me, poi all’improvviso la faccia gli diventa rossa paonazza, gli occhi cambiano molto espressione, la bocca gli si spalanca e allora cerca di togliermi le mani, cosa che sarebbe pressoché impossibile se un’incudine non centrasse la mia mascella in pieno con un *crùnk* in bocca facendomi cadere dalla parte opposta. Per nulla intimorito mi rialzo in tempo per vedere quello per terra contorcersi tra conati di vomito e gli amici dell’entrata che mi corrono addosso. Non ne ho il minimo timore.

Prendo tante di quelle botte che non ho idea da dove arrivino o perché, il dolore è relativo ma non vedo più nulla e quando capisco cosa succede sono fuori dal locale, per terra, con in bocca un saporaccio e tutta la camicia coperta del mio rossissimo 0+. Mi rialzo e comincio a camminare verso l’entrata da cui mi hanno sbattuto fuori, solo che proprio quando i neandertaliani erano pronti a ripartire esce Ale che confabula qualcosa e mi tirona via. Lo seguo barcollante. Sputo per terra una roba che ho in bocca. Guardo, è metà del mio premolare di sinistra. Mi fermo un attimo a guardarlo, lo raccolgo. Mi tocco in bocca, non sento niente. Il nervo è morto, il dente pure.

Me lo metto in tasca.

All’improvviso 21 anni di vita mi crollano addosso assieme a un dolore acuto al viso, al braccio, alla testa, in bocca. Mi accorgo degli odori che fanno tutti schifo. Rimango fermo, imbambolato. Ale mi osserva con quel suo sorrisetto sulla faccia. Sto male. Immagini di lei mi tornano in mente come coltellate. Mi giro e vomito su un’aiuola del parcheggio.

«Ale, voglio andare a casa» sputo.

Allarga il sorriso e mi mette il braccio attorno alle spalle, incamminandosi: «Ho visto gente che la droga la piglia male, tu le batti tutte» sorride.
«Una volta mi han dato un cartone» dico «mi sono cagato addosso dalla paura»
«Sul serio?»
«No non sul serio, ma mi sono visto tipo i fantasmi che mi parlavano, una roba…»
«Che dicevano?»
Quello che dicono tutti, immagino.

«Non so» mento «Non so nemmeno perché faccio queste stronzate. Ti ho rovinato la serata»
«Macché, basta che ci leviamo di qui che magari il tizio ha chiamato gli sbirri»
«Per due sberle?»
«Non erano due sberle, ma stai tranquillo»
«Perché sono così? Sono così. Le peggio cazzate, una dietro l’altra. Sembrano sempre buone idee, poi passo la vita a-a cercare… Ho un lavoro di merda, a scuola vado di merda, ho una facoltà di merda e faccio musica di merda»

«Madonna, che down t’ha preso» sghignazza.
«Che?»
«Scommetto che ti faresti un altro tiro»
«SI»
«E se invece lasciamo perdere e andiamo a Jesolo?»
«Così?» dico, indicando la camicia ridotta ad un grembiule da macelleria.
«Si rimedia»

Massì, corriamo incontro alle cose.
Andiamo a Jesolo.

Vorrei del cattivo gusto senza salsa piccante, grazie

– Ciao, Jalal, mi fai un kebab?
– Kebap? Cosa dentro?
– Niente, solo carne e verdure.
– Sìsì anche carne e verdure.
Si mette all’opera.

– Jalal, te sei della Libia, vero?
– Sìsì Tripoli, Tripoli, visto tanti quanti morti, eh?

Guarda che anche gli italiani hanno i loro problemi, Jalal.
Diversi dai tuoi, ma pur sempre problemi.

Il sig. Marletti, pensionato di 69 anni, ha notato un giovane che camminava sul marciapiede dietro di lui. Si è dovuto fermare a fissarlo con aria terrorizzata, è stato uno dei peggiori spaventi della sua vita. Pensa a Francesco Piccin, si è dimenticato di caricare l’iPod e ora dovrà farsi tutto il viaggio senza musica. Cosa penseranno di lui? Meglio tenere le cuffiette bianche lo stesso. Qui ci sono coppie che per colpa della crisi non sanno decidere se andare in Thailandia o in Malaysia. Parlo di litigate fino a tarda notte nel loro monolocale, con urla piene di rabbia e frustrazione.

Prendi Eva, una studentessa di filosofia.
Ogni giorno si chiede perché Starbucks non apre in Italia. Per trovare dei Rayban originali senza lenti ha dovuto spendere 460 euro, ora è riuscita ad andare in pellegrinaggio a Portland e nel supermercato ha trovato solo coca cola e non pepsi. Non hai idea di quanto si è vergognata alla cassa, Jalal. Ora che è tornata in Italia ed ha comprato l’iPhone 4 è confusa e un po’ triste: non c’è ancora il jailbreak untethering, dovrebbe rifarlo ogni volta che lo riavvia! E Giovanna? Non ha abbastanza salsa piccante per le patatine. Certo, potrebbe aprire un’altra scatola, ma a quel punto non avrebbe abbastanza patatine. Una volta, per strada, un barbone l’ha guardata. Ora dovrebbe andare in palestra, ma si è appena fatta i capelli e le dispiacerebbe rovinarli.

Per qualche giorno il sito di qualcuno è stato offline a causa di Aruba. In qualche salotto c’è un uomo con il portatile che avvisa l’esaurimento della batteria ma il cavo è di sopra, a letto. Per colpa del mouse touch invece che cliccare l’icona di Chrome ha cliccato quella di iTunes. Ecco. Perfetto. Ora bisognerà aspettare trenta secondi per riuscire a chiuderlo. A proposito di tempo, per avere quel film gratis bisognerà aspettare cinque ore.
E per completare l’aggiornamento è necessario riavviare il sistema.

A volte capita di lasciare i vestiti bagnati dentro la lavatrice, a quel punto bisogna rilavarli perché se li metti e ci sudi puzzano di cane bagnato. Tu non puoi capire il dolore di quella ragazza che ha tenuto i tacchi tutta la cerimonia ed ora ha delle vesciche tremende.
Sono le 21.30, cazzo, è ora di cena, ma chi ha voglia di cucinare?

Il dolore, Jalal, è quando twetti insistentemente qualcuno e quello non ti risponde. Quando passi un’ora a comporre un tweet geniale e poi nessuno te lo retwitta. Oggi da noi i ragazzini con la paghetta per la merenda muoiono di fame per comprarsi le pokè card e trovano puntualmente quel cazzo di Farfetch’d: ne hanno già 24 di quelle papere di merda e a lezione svengono per l’ipoglicemia. Ti ricordi Eva, la studentessa? La sua carriera di fotografa stranamente non è decollata ed ora lavora come commessa in aeroporto dove la obbligano ad usare Internet Explorer. Il suo ragazzo è un grafico che in questo momento sbuffa: quale font usare? Un Serif? Un Bodoni? Perché non fanno un remake decente di Grim Fandango?
La benzina a 1,60 al litro, un pieno della barca mi costa 300 euro tondi.

Ma sai qual è il vero problema, Jalal?
Che è tutta colpa tua.

Se smettessi d’ammazzarti col tuo vicino di casa perché uno crede al Corano e l’altro al Corano light noi staremmo da Dio. La benzina dovremmo estrarla e produrla qui, costerebbe minimo 900 euro al litro. Andare a fare la spesa costerebbe come uno scooter. Un viaggio in aereo costerebbe come un attico a Venezia. Nessuno si dovrebbe più lamentare del jet lag, del ritardo, degli scioperi. Un mac prodotto in Europa o in USA con manodopera europea o americana costerebbe 300,000 euro, spedizione esclusa. Potrebbero averlo tre persone in tutta Italia. Gli adolescenti non si suiciderebbero per il cyberbullismo. Tutti magicamente avremmo più tempo libero. Per pagare l’elettricità dovremmo svenarci. Mangeremmo tutto quello che capita. Scomparirebbero i celiaci, le intolleranze, i vegetariani, i vegan. Cani, gatti, pappagalli, iguana e criceti finirebbero tutti in forno. Niente più cuccioli abbandonati in autostrada, niente più associazioni, WWF, pubblicità progresso. Niente più animalisti, niente più obesi, dietologi, malattie cardiovascolari.

Ma tu non capisci un cazzo di quello che ti dico e ora dovrò togliere cetrioli, ketchup e salsa piccante dal mio kebab, Jalal.
E questo è un gran problema, nel mio mondo.