Power Francers



Il mondo della musica italiana ha una regola non scritta: deve essere istruttiva. Chiunque prenda un microfono o una telecamera deve cantare o rappresentare una sensibilità politica o sociale. Se non lo fa rischia di non venire preso sul serio, e questo è l’incubo ricorrente dei nostri artisti: essere scambiati per artisti. 

Va bene guru, opinionisti, educatori, filosofi, ma cazzo: artisti no. 
Fa sfigato.



Dalla parte del pubblico invece si è sviluppato un distorto senso di colpa. Se ti piace qualcosa di non formativo, non culturale, non educativo, sei una persona vuota. Oggi bisogna giustificarsi se ti piace qualcosa, premettere che normalmente ascolti tutt’altro sciorinando i nomi più underground possibile. Così siamo finiti che pubblico e cantanti vivono nel costante terrore di sé stessi, i primi hanno paura di fare musica e i secondi di ascoltarla. 

Poi sono arrivati i Power Francers.
O i Katerfrancers, devono ancora decidersi.


Quando ho sentito “pompo nelle casse” mi parve una tale figata di ritmo, stile, talento e semplicità che mi spaccò cuore e timpani in due. Il groove strepitoso, i synth nervosi, la metrica di lei che riusciva ad essere musicale e sexy senza mostrare mezza coscia. Compro il brano su iTunes. Poi ascolto “Discoboy”. Lo compro. Trovo “Lei che lo vuole”, lo salto. Trovo “bonita”, lo compro all’istante. Divento loro fan su Facebook e dopo qualche aggiornamento di status ieri mattina leggo questo: 


“Italia! Poliziotti! Politica! Malessere! Tutti che vogliono andarsene! Noi crediamo che se non siamo noi i primi a rimanere per cambiare le cose qui non succede nulla! Facile scappare! Come chi ci chiede perché non cantiamo in inglese!! Perché è tutto fantastico quello che è italiano e noi ci indignamo più per chi vuole scappare senza provare a cambiare e rivalutare le cose che per tutto il resto! Su! Italian do it better!” 



Rileggo il passaggio tre o quattro volte. Non è possibile, penso. All’improvviso mi sento euforico. Perché Internet mi ha abituato al perdentismo, alla commiserazione, al piagnucolio sfigato, all’odio, alle realtà ricostruite e alla serietà per nascondere la pochezza. Soprattutto, Internet mi aveva quasi convinto a considerare ignoranti e presuntuosi delle persone normali. Non lo sono. Chiunque scriva una cosa del genere ha umiltà, coraggio e l’attitudine giusta, quel modo di vedere la vita che ti permette di ridere in faccia ai demoni traendone energia positiva. 

Qualche giorno dopo capito sul blog di Roberto Recchioni, si parla di fumetti. Tra i commenti salta fuori – salta SEMPRE fuori – quello che domanda se nelle tavole ci sono arguti riferimenti a chissà che cazzi. “No” risponde RRobe “sono solo storie”. E’ una frase perfetta. Sono solo storie, è solo musica. Sappiamo che voi conoscete un gozziliardo di autori e volete schiantarci di cultura riguardo citazioni incrociate e punzecchianti assoliti di satira, ma il nostro lavoro è l’intrattenimento. Non siamo professori, vogliamo solo cantare canzoni e raccontare storie. 

Forse un giorno i Power Francers avranno le pretese di educare o di ergersi a portavoci di qualche disagio, diranno che i gay hanno pari diritti, che Berlusconi è disonesto, che gli anni ’70 erano meglio, che i politici sono mafiosi o che i VIP sono stronzi. Forse un giorno scriveranno un libro con la premessa di Marco Travaglio in cambio di una comparsata del figlio nel videoclip, ma non credo. Non ne hanno bisogno. Li vedo vestititi da rincoglioniti con video disgustosi, occhi storti, peli superflui, chiazze di sudore, pancette da birra, coperti di sputi su youtube e mi rendo conto che Goldentrash, Pacchiani e Kate non hanno bisogno di dimostrare niente a nessuno; vogliono solo combattere per il loro diritto di fare festa.

E se non sei d’accordo, chupala.