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Via Piave, Mestre

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«Hai zigaretti?»
«No» dico.
«No?!» sbotta alzando la voce.
Sbuffa e si dedica ad una coppia di turisti alla biglietteria automatica.

«Dai me euro, por favor?»
«Sorry, what?»
«Dai me euro, dai?»

Esci dalla stazione, attraversi la strada e sei sotto il portico del Plaza, uno scannatoio per turisti che di recente s’è inventato un Lounge bar. Serve roba surgelata e succhi del Lidl a prezzi da guida Michelin. Oltrepassi botteghe di cinesi tra magrebini già ubriachi alle quattro di pomeriggio, ragazzi di età indefinibile che ti studiano come se fossero condor in attesa di una sigaretta, spicci, o commissioni di fumo. Arrivi di fianco ai giardini di via Sernaglia, 180 metri di fango ed erba con qualche panchina, territorio esclusivo di gente dell’est. Alcuni stan seduti sulle panchine a bere birra e vino in cartone, hanno il cappello a visiera corta, maglietta senza maniche, pantaloni dell’Adidas e sandali. Gli zingari di solito sono due ciccioni con la barba lunga, tre o quattro uomini male in arnese che campano strappando di mano le valigie alle donne in stazione e pretendendo una mancia per avergliele portate. A loro si aggiunge una mezza dozzina di ragazze vestite di stracci che rovistano nella spazzatura.

Alcune sarebbero bellissime, ma hanno sedici anni e riesci già a vedere come saranno da vecchie.

All’incrocio di via Sernaglia vedi il bar che la polizia ha fatto chiudere per spaccio, ora attivo più che mai. Internet point popolati da gente del bangladesh, sguardi curiosi che si distolgono in fretta. Nelle laterali trovi centri massaggi thailandesi che un giorno hanno il sigillo della polizia e quello dopo dei Carabinieri. Le donne che ci girano sono asiatiche minute, curatissime e vestite come pornodive. In queste strade, mi ha spiegato un tizio, puoi trovare di tutto: prostituzione minorile, eroina, ricette fasulle, documenti falsificati, sigarette di contrabbando, manodopera per lavori che non troveresti sugli annunci, persino armi da fuoco.

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Kebabbari con le scritte arcobaleno bruciate dal sole, la puzza di carne fritta che ti si attacca alle narici, le televisioni senza audio e la radio che gracchia sitar e gnaulii incomprensibili. Quelli dietro al bancone hanno barbe folte, fisici burrosi e flaccidi dentro magliette cinesi da cui spuntano peli e chiazze di sudore. Ti fissano studiandoti da quando entri a quando esci dal loro campo visivo. Col caldo i cassonetti mandano un puzzo ripugnante che l’afa rende stantìa e ti insegue per dieci metri. I pochi autoctoni rimasti sono vecchi in sandali, calzini bianchi, bermuda e giacca da pescatore che bazzicano intorno ai pochi bar gestiti da italiani.

Entro in un paio spacciandomi per turista inglese. In entrambi un caffè un euro e cinquanta, nessuno scontrino. Qui e lì botteghe di chincaglieria finto veneziana, televisori a tubo catodico, radio, cellulari del secolo scorso, lettori CD, gondoline di plastica al 350% del prezzo reale e orologi contraffatti.

Le italiane che vivono qui hanno tutte dai cinquant’anni in su. Quando ti vengono incontro sul marciapiede fanno un mezzo sorriso ma non osano alzare gli occhi, con l’andatura affrettata e impacciata di chi ha passato il punto di non ritorno sulla carta d’identità ma ancora sogna arrivi il principe azzurro a tirarle fuori dalle loro cucine in finto marmo e copridivani lisi. Le guardi, occhi scialbi dietro gli occhiali, l’aria confusa come cani randagi a caccia di uomini a cui far finta di essere legati per qualche metro.

Dall’angolo sbuca uno scooter con sopra un tunisino, ha i capelli grondanti gel, gli occhiali da truzzo e l’immancabile cicciona bianca seduta dietro. Altri negozi di cinesi gridano “promozione”, “sconti”, “moda” ed hanno tutti la stessa roba; felpe e magliette che se indossi per più di cinque minuti nuoti nel sudore e ti irritano la pelle. La chiesa di via Permuda, mattoni a vista su un pavè ben disegnato, è la cattedrale dove i vecchi fanno le serali di buona condotta in vista dell’esame con San Pietro. Pizze al trancio surgelate e lavatrici pubbliche profumano l’aria tra condomini grigi ed anonimi, residuati della vecchia edilizia anni ’70. Tutto attorno è un giardino di VENDESI, FITTASI, CEDESI.

Un’oasi popolata da ventenni e trentenni è Galliano’s, un piccolo bar gestito da un vecchio che negli anni ’80 era discretamente famoso nell’ambiente gay. Il locale saranno sette metri quadri tutti ricoperti di foto che lo ritraggono assieme a personaggi famosi. Ci entri e sembra di visitare il vittoriale sotto acido. Di pomeriggio fa gelati in coppa, la sera migliaia di spritz per una cinquantina di ventenni hipster che non ho idea da dove vengano.

Passi l’Adecco e affianchi la vecchia caserma della Guardia di finanza. Sui muri sono depositati strati e strati di cartelloni strappati e reincollati che pubblicizzano eventi, concerti, manifestazioni. Quasi tutti gridano no, niente, basta, stop, via. Non importa a cosa. La gente che passa li ignora anche perché la stragrande maggioranza non capisce la lingua. Qui i quartieri si sono decomposti su sé stessi lasciando ogni tanto case di un’epoca che non esiste più a spuntare nel marciume senza un ordine preciso. Casupole a due piani anni ’50 tenute alla perfezione, castelli delle fiabe spuntati come verruche e restaurati nella vana speranza qualcuno sia tanto idiota da comprare una bomboniera senza vedere il porcile che ha attorno. Di solito i padroni hanno sessant’anni e ancora credono il mattone sia destinato a salire. Quando crepano i figli si affrettano a svendere, non ci riescono e il castello diventa Eroinoland in meno di un anno.

Alla fine arrivi alla fontana di Aricò, un obrobrio che tutti i mestrini detestano: figure distorte e verdognole di contadini ed operai che ogni tanto grondano sudore su vecchi marmi rovinati dalla ruggine.

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Orde di africane seminude ci camminano sopra a piedi scalzi cercando refrigerio prima che arrivi la sera, quando andranno in stazione a prendere il treno e prostituirsi a Verona o Vicenza coi reggiseni imbottiti di carta igienica marca FS.
Invio mail.

 

 

 

 

Driiiin.
«Ciao Mauri, piaciuto il pezzo?»
«Mi prendi per il culo?»
«Ahia»
«Dovevi farmi il pezzo sull’inaugurazione della fontana, CHE CAZZO E’ STA ROBA???»
«Ho pensato fosse più…»
«TU NON DEVI PENSARE, PORCA PUTTANA, ti sei bevuto il cervello?!? Poi tutta la parte sugli stranieri, le pistole, come cazzo le sai ‘ste cose?»
«Ho un amico in polizia, me l’ha raccontato lui»

«MA NON PUOI SCRIVERLO, IDIOTA! Metti solo lo stretto indispensabile, ok? E cose belle. Via Piave e la fontana sono la prima cosa che i turisti vedono quando scendono in stazione, se leggono ‘sta roba manco arrivano in piazza Ferretto. E più breve, per Dio, PIU’ BREVE»

«Maurì, ma se scriviamo ‘ste menate chi vuoi che se ne freghi?»
«Fammi capire, Nebo: tu sei un diplomato che fino ad un anno fa segava legna a Gaggio di Marcon, mi stai insegnando a fare il mio mestiere?»

«Hai ragione. Scusami»
«Va bene. Mi fai ‘sta inaugurazione o la faccio io?»
«Arriva»
«Bravo»

 

“Si è svolta questa mattina alla presenza, tra gli altri, del vicesindaco Sandro Simionato, dell’assessore comunale alle Attività culturali e Toponomastica, Tiziana Agostani, del presidente della Municipalità di Mestre Carpenedo, Massimo Venturini, la cerimonia di riconsegna alla città della fontana di via Piave. L’opera dell’artista Gianni Aricò è stata ripristinata sia nella sua funzionalità che nel suo aspetto esterno, dopo essere rimasta in disuso per alcuni anni. L’intervento è stato eseguito da Veritas grazie alla sensibilità della famiglia Tura, gestore dell’Hotel Bologna, in occasione dei suoi cento anni di attività.

Soddisfazione per il ripristino della fontana è stata espressa dalle autorità presenti, concordi nell’affermare non solo il valore artistico dell’opera, ma anche l’importanza dell’ennesimo intervento di riqualificazione e di crescita di via Piave, in quanto luogo centrale per lo sviluppo della Mestre del futuro. Determinante – hanno ribadito assessori e presidente – il ruolo svolto dai cittadini, protagonisti attivi della trasformazione e valorizzazione della loro città”.

Driiin.
«Come andava?»
«Questo va bene. Rimani su ‘ste righe, per favore»
Era il 2004.

 

 

 

 

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Questo invece era il 2011.

Appunti di lavoro



Giorno 1

Parto la mattina con una borsa per tre giorni. In stazione trovo un bosniaco che ride sbavando e mi improvvisa un monologo di denti fracassati e versi mostruosi. Sto iniziando a capire di che parla quando passa una tizia in minigonna e lui decide di dedicare le sue attenzioni alla vagina. Aiuto una vecchia a mettere la valigia sul freccia rossa, trovo il posto che l’azienda in questione mi ha prenotato, apro Moby Dick. Due ore e mezza dopo sono a Milano.


In stazione mi faccio largo tra la solita foresta di fiche stellari, piglio la metro e arrivo a Porta Genova. Mezzo chilometro di navigli a piedi e mi trovo con Ferrari e Minoggi. Un’ora dopo siamo sbronzi seduti sul marciapiede che farnetichiamo e beviamo Zacapa. Una bambina romena, tredici anni, si ferma a chiedermi soldi. Arriva la Beltramini con il suo loquace fidanzato. All’una siamo abbastanza schioppati da scavalcare un recinto assieme ad altri sconosciuti per fare il bagno nudi in una piscina, ma per motivi che non ricordo rinunciamo. A ripensarci, se in quegli stati avessi messo piede in acqua, non so cosa sarebbe successo. Arrivo a casa di Minoggi, gli vomito in uno dei tre lavandini che vedo, vorrei pulire ma sono troppi. Ne scelgo uno a caso – con difficoltà, perché i bastardi si muovono – e mi addormento. 










Giorno 2

Quattro ore dopo suona la sveglia, ho la lingua di carta assorbente e dai rubinetti non esce nulla.

– Han tagliato l’acqua per fare dei lavori – spiega il nostro.
Certo, ma io devo cagare.

Minoggi è così gentile da passarmi due Moment. Giriamo in macchina per una Milano ingorgata a causa dello sciopero dei mezzi pubblici, il sole è una coltellata ed io ho ancora problemi di equilibrio. Facciamo colazione in un bar che Minoggi dice “il migliore del quartiere”. Mangio due brioche e un latte macchiato. Da quel che sento i sapori, potrei aver appena mangiato pollo. O vongole. Arriviamo in studio, mi barrico in cesso e quello che esce dal mio corpo fa tremare i pilastri del cielo. Spossato dal parto fumo una sigaretta appoggiato all’androne. Una tizia passa con le borse della spesa.

– Buongiorno – mormora.
– No – replico.

Saluto tutti raccomandando di non entrare in bagno per la salvezza della loro anima, raggiungo l’angolo e prendo un taxi. Mentre salgo una donna con bambino chiede se possiamo salire insieme e fare a metà della corsa.

– No – replico.

25 euro di taxi dopo sono davanti alla sede della Mondadori a Segrate. Con l’andatura di uno zombie di Romero faccio il simpatico con il tizio all’ingresso sperando non si accorga delle mie precarie condizioni umane. Entro in redazione, ci ripenso, torno indietro e faccio una jam session intestinale nei bagni della Mondadori. Finirà. Questo inferno sulla terra, questa pestilenziale piaga, finirà. Già che ci sono mi dò una lavata in fretta, cambio la maglietta e mi presento in forma smagliante davanti al mio caposervizio. Mi spiega il da farsi, mi riempie di carte, mi dà una pacca sulla schiena e me ne vado. Uscito faccio un paio di telefonate a colleghi in sede per fare un po’ di pubbliche relazioni. Uno è stato licenziato ed è a casa con la figlia di 8 mesi, l’altro ha una camicia fatta su misura, due mocassini Prada, pantaloni Fay ed un SUV che pare un carroarmato. Dice che devo scusarlo ma non ha tempo, è di fretta, deve scappare.

Altri 25 euro dopo sono di nuovo in stazione.
Mi telefona quella della ditta, dice che il treno è prenotato e tutto il resto. Salgo a bordo del freccia argento, apro Moby Dick, chiudo gli occhi. Li riapro col capotreno che mi scuote, il vagone è deserto, sono le tre di pomeriggio e io sono a Roma. Grazie al telefonino trovo l’albergo, il Rasmussen o Rasmusson o qualcosa così. Uno di quegli alberghi per manager e rappresentanti con lo stile minimal chic, di solito una scusa per chiedere cifre oscene in cambio di camere orride e servizi pessimi. La tizia alla reception è più conciata di me. Non trova la prenotazione col mio nome, chiamo quella dell’azienda, lei dice di passargliela. Apparentemente la prenotazione è stata fatta a nome “Men’s health”. Quale individuo psicopatico prenota una stanza a nome “Men’s health” non lo so. La stanza puzza come una fogna ma, vivendo a Venezia, la cosa non mi tange. Per la terza volta bombardo le fogne romane con possenti peti e devastanti attacchi chimici sfogliando il catalogo dell’albergo, così scopro che al settimo piano c’è palestra, area wellness e piscina. Faccio una doccia, sistemo la borsa, metto in carica il cellulare, mi faccio una sega con la pubblicità di Intimissimi e dormo un’ora. 

Alle 21.00 c’è la cena con le ragazze dello staff e i colleghi al settimo piano. Arrivo alle 20.30 in polo e jeans, mi guardo attorno e c’è l’aperitivo con il free bar. Mangio l’impossibile – le cene di lavoro di solito sono nouvelle cuisine con porzioni terzomondiste – e con voce tremante oso un prosecco. Il cameriere versa, non succede niente così alle 20.45 sono al quarto prosecco e le cose sembrano avere un senso. Attorno a me la gente inneggia ad una certa Giulia. Mi squilla il cellulare, sono quelle dello staff che dicono di raggiungerle al tavolo. Siamo in quattro. Due dello staff, entrambe sulla trentina, la faccia di chi se gli dai l’uccello te lo ridanno quando torna il Voyager ed una vecchia pazza che è la collega e parla a sproposito con frasi che iniziano tutte con “io”.

– Io una volta ho conosciuto il marito di… come si chiamava… Puppini, Guido. Che poi era il fidanzato gay di Ezio Baricco, parente di secondo grado di… capite? Ecco, allora ero a questa riunione con… come si chiamava…

Oliar passere con questa prugna rinsecchita che recita l’elenco telefonico di Frigidlandia è complesso. Rinuncio, ascolto le straordinarie opportunità, le incredibili possibilità, le fantastiche occasioni che l’azienda mi ha dato, trangugio il pesce peggiore che abbia mai mangiato e lo affogo di Zacapa alla fine. Osservo con noncuranza la tizia firmare un conto di 331 euro. Se ne vanno, resto solo in piscina a finire il drink. Telefono alla Leo, fumo l’ennesima sigaretta e vado a dormire.











Giorno 3

L’iphone mi sveglia alle 9.30. La colazione in camera costa 21 euro e non ho voglia di addebitarla alla redazione, così mi doccio, vado di sopra e mi strafogo di tutto quello che ho a disposizione. Scendo, mi metto in costume, vado in palestra e faccio 45 minuti arrangiandomi con quello che trovo. La politica degli alberghi riguardo alle palestre è “i nostri clienti sono degli idioti e non è bene si uccidano sotto il nostro tetto”, così tutte le cose che possono facilitare il trapasso vengono rimosse. Niente panca piana, niente pesi seri, niente squat rack, niente barra per le trazioni: solo tapis roulant e manubri del peso massimo di 22 chili. Naturalmente non c’è nessuno. Terminato l’allenamento attraverso il settimo piano in costume tra gente in giacca e cravatta, sibilo “signori, buongiorno” e mi butto in acqua.

Alle 10.30 sono sulla terrazza del pincio, 34 gradi, che guardo questa buffa manifestazione. I tizi hanno dei fisici pazzeschi. Nonostante dopo 4 anni di palestra mi sia fatto l’occhio non riesco a capire se sono bombati o natural, in entrambi i casi sono perfetti. Guardo, inizio a prendere appunti, butto giù una bozza dell’articolo. Sono l’unico che fuma, e godo del sottile piacere che la faccia schifata dei presenti mi comunica ogni volta che gli arriva una refolata. Biribì, biribì, biribì, la tizia dello staff domanda dove sono. Ci troviamo, stiamo tutta la mattina a guardare queste statue greche che si fanno un culo così sotto il sole, pranziamo in un ristorante megachic assieme ad un ciccione con telecamera che se la tira manco fosse Ludlum, uno del Giornale che è simpatico ma sembra non sapere che ci fa qui, la vecchia pazza che da quando mi sono cambiato la maglietta mi tampina e quelle dello staff che sono stanche morte. Beviamo tutti acqua. Io, soprattutto.

Arriva il VIP da intervistare. Guardo pantaloni, occhi, rughe, indice e pollice della mano destra ed aggiungo due domande. I fotografi scattano, l’MC incita il pubblico che è annichilito dal caldo, finisce che da un quarto d’ora a testa per quattro giornalisti abbiamo un quarto d’ora in quattro.

Secondo me quando intervisti qualcuno il supporto con cui lo intervisti incide moltissimo. La carta è deleteria. Non c’è niente di peggio che avere in mano carta e penna, leggere la domanda e scrivere con lui che parla alle farfalle. Anche se t’impari a memoria le domande – cosa obbligatoria che non fa mai nessuno – o le improvvisi, interrompere il contatto visivo è maleducazione e tende ad allontanare umanamente il soggetto. Il registratore è già meglio, se hai imparato le domande, ma quel cazzo di coso nero puntato alla bocca somiglia ad una pistola e può intimidire, oltre a dar luogo a sceneggiate patetiche. C’è quello che vuole prenderlo in mano. Quello che sta troppo distante. Il giornalista che tra un po’ glielo ficca in bocca.

La soluzione ideale che ho trovato io è l’iphone. Nessuno bada ad un telefono sul tavolo. Lo fanno tutti, nei bar, a casa di amici, a cena con la donna. Tutti mettono il telefono sul tavolo, tenerlo in tasca è fastidioso. Quindi tu lo metti in mezzo, attivi la registrazione vocale e parti. Sembra una chiacchierata (ma non lo è e lui lo sa), però toglie tutti i problemi e ti permette di guardarlo negli occhi. Non che queste cose le abbia studiate, chiariamo, son idee personali. Però ho visto che funzionano. 

Decido un approccio aggressivo, perché il tizio è troppo tranquillo e rilassato.

– Ciao, sono Nebo, di MH.
– Ciao Nebo.
– Prima di tutto: la cina sta aumentando la propria presenza militare nel Pacifico, la nuova manovra salva stati sembra non influire sullo spread, l’Italia ha un tasso di disoccupazione crescente, il nostro governo ha rafforzato la presenza di carabinieri in Libano e tu sei qui che spingi copertoni in vista delle olimpiadi. Come reggi la tensione?

Mi guarda confuso. I colleghi sono congelati. Con la vista periferica noto il suo addetto stampa che guarda gli altri terrorizzato. Le ragazze dello staff hanno la morte in viso.

– Bè…
– Sì?
– Sono molto contento di essere qui e di avere avuto questa splendida occasione, credo… credo lo sport…
Annuisco.

– …lo sport sia un modo per, per dimostrare… ma cosa c’entrano i carabinieri?
– Niente, contestualizzavo.
– Che facevi?
– Altra domanda: cosa pensi di questa disciplina?

Ora è terrorizzato al punto giusto, so che ha poco senso dell’umorismo ma che ha discrete capacità d’improvvisazione, non è colto ma è simpatico e, nel suo, intelligente. L’intervista prosegue senza intoppi, così riesce a rilassarsi. Si mette a suo agio quando scopre che so il nome di sua morosa e del cane, rimane abbastanza confuso dalla mancanza di interrogativi sul suo sport o sul suo mondo. Siamo a 10 minuti, è ora di dargli un’altra ravanata.

– Schwarzenegger quando ha vinto mister Olympia s’è fatto riprendere che fumava una canna sul divano. Phelp s’è fatto fotografare da un suo amico mentre era a letto con due donne nude che fumava un bong. Parlando d’altro, tu come hai festeggiato la volta che hai vinto?

Lo guardo. L’occhio prima è vacuo, poi s’illumina, poi si sgrana, poi sorride ed immediatamente ritorna a posto.





– No, bè, io non faccio quelle cose, non sono assolutamente contrario ma per me non va bene, sono uno sportivo.
– Certo.
– Poi ti dico, a volte ci starebbe appizzarsi una bomba, ma… – mima con le mani.
– IL NOSTRO TEMPO E’ SCADUTO – dice l’addetto stampa, pallido.
Chiudo.


Saluto tutti, scambio numeri di telefono, prendo un taxi con la vecchia pazza e partiamo per la stazione io, lei per l’albergo perché c’ha lasciato la borsa. Roma è intasata da uno sciopero e contemporaneamente dal gay pride. La babbiona premette che lei viene da una famiglia di anarchici e che suo nonno è stato disertore durante la seconda guerra mondiale, quindi è di vedute aperte, ma lei i froci proprio non li capisce. Il taxi rinuncia, ci molla a 400 metri dalla stazione perché più avanti non può andare. Scendiamo, prendo una birra ad un chiosco ed un panino mentre accompagno la pazza verso la stazione.

– Io proprio non capisco, Nebo. Già uno è gay, perché deve fare queste cose? Intasare il traffico così, poi… ecco! GUARDA!

E io guardo.
Vedo una camionata di lesbiche, gay, travoni che attraversano Roma con musica assordante, tette di silicone, culi rifatti, tette vere e pitturate, fiori, arcobaleni, dildi enormi e strapon viola attaccati al bacino di una mulatta bella come una dea. Due bionde su un tandem col cappello di paglia, la gonna a fiori, un sorriso inaudito. Due uomini pelosi e seminudi che limonano per la gioia dei fotografi. Trans alti due metri. Una Citroen anni ’70 dipinta con dentro la palla da discoteca, la bicicletta rosa, cani di pelouche, il bagagliaio aperto che vomita milioni di bolle di sapone che s’infrangono sull’uniforme della carabiniera che chiude la fila con un sorriso malcelato. 






Dietro, una sola camionetta coi finestrini aperti.

– Ma tu cosa ne pensi? – domanda.

Passa un autobus vecchio stile, a bordo, con la porta aperta, un travone urla “ripetete con me: siamo tutti u-gua-li! Ripet… VIENI, FRATELLO, VIENI! SALI!”

Perché io ho guardato la babbiona, ho lanciato la birra e sono corso a bordo del pullman tra ali di folla festante. Accolto come un figliol prodigo, salgo, lancio le braccia in alto e grido “YAAAAH!”, loro rispondono “YEEEH!”, finisco a petto nudo a ballare Immanuel Casto bevendo vodka a sbafo. Cinquecento metri dopo scendo tra i saluti, rifaccio la strada, entro in stazione Termini. Ho una fame atroce, mangio un hamburger al Roadhouse – nsomma – e prendo il freccia argento. Arrivo a Venezia alle 23.30 dopo un viaggio di 4 ore. Vorrei dormire, ma il cellulare suona e il Dining room aspetta con la Lightfoot, lo Zacapa ed il mio migliore amico. 

Arrivo a casa alle 2.30.

Le trombe del giudizio fanno POO PO PO PO PO POOOO PO




1° fine settimana
Monti è un bastardo, questo paese è una merda e io mi vergogno di essere italiano. La gente è stufa: è ora di dire basta.



2° fine settimana
I conati di vomito stanno smettendo, ma l’intensità è peggiorata.
Mia moglie sta barricata in camera con il cellulare a portata di mano e finché non mi staccano la corrente potrà ricaricarlo, garantendosi una possibilità di salvezza. Ieri ho quasi sfondato la porta, ma all’ultimo cardine l’ho sentita che parlava coi carabinieri ed ho desistito. Dai telegiornali pare che in tutta Italia ci siano saccheggi, incendi e rivolte. Il governo sta valutando di schierare l’esercito a difesa di acquedotti, centrali elettriche e supermercati, ma a quanto pare anche nelle forze armate ci sono insurrezioni. Dalla finestra vedo uomini picchiarsi selvaggiamente. Stamattina hanno trovato un tizio squartato dentro il suo SUV con le interiora arrotolate attorno ai tergicristalli. A Padova lanciano gli handicappati dai balconi, accoltellano coppie miste o gay e gli stupri sono milluplicati. Mi hanno chiesto di partecipare ad una riunione di condominio. Mi faccio due righe e ci penso.


3° fine settimana
La riunione di condominio di giovedì è stata interrotta da un incidente proprio quando arrivavo. La commercialista del sesto piano è stata accoltellata dalla moglie di Brambilla. Una scena orribile. Mia moglie dev’essere scappata durante la notte, ma la ritroverò. Treviso è militarizzata, ci sono carri armati e blindati in tutto il centro storico. Il governo ha autorizzato l’uso delle armi da fuoco, sono morte 47 persone durante l’ennesima rivolta davanti ai parcheggi dell’Auchan. A Napoli la situazione è disperata. Su Youtube ci sono filmati di conflitti a fuoco ai semafori, hanno persino arrestato uno che al posto del clacson aveva il comando di un lanciagranate. A quanto dice il comunicato ufficiale, “le droghe ricreative sono state momentaneamente legalizzate”. Sotto casa mia ci sono magrebini su un container circondato da contractors armati fino ai denti. Vendono bamba un tot al chilo, la gente si presenta coi sacchi e loro li riempiono a badilate.


4° fine settimana
Abbiamo dovuto sgombrare il condominio. Lunedì la famiglia Brambilla si è suicidata col gas, con una detonazione che ha disintegrato due piani. I pompieri han trovato una gamba del sig. Piccillo a ottocento metri. Abbiamo dovuto respingere gli sciacalli corpo a corpo. Si sono portati via mobili, computer ed il figlio dei Franzoni. Ora siamo in una tendopoli, a mezzogiorno si sfiorano i 50° centigradi. In una settimana da 120 siamo diventati 48 anime, gli altri si sono scannati tra di loro o sono stati giustiziati dalla polizia che oramai spara per qualunque cosa. Il personale della protezione civile sta calando di giorno in giorno, e ho deciso di andarmene perché qui sta per succedere qualcosa di brutto. Mi nasconderò in un’ambulanza. Ora vado, due si stanno bastonando davanti alla mia tenda.


5° fine settimana
C’è mancato poco. Appena l’ambulanza ha lasciato l’accampamento ho visto tre jeep di skinhead che si preparavano ad assaltarlo. Dalle fiamme che vedo da qui non credo sia rimasto molto. Sul cellulare, finché funziona, leggo che a Caserta ci sono stati episodi di cannibalismo. Per strada qualunque colore di pelle diverso dal bianco candido viene attaccato. Hanno raso al suolo tutti i campi rom e trucidato uomini, vecchi, donne, bambini e animali. Le persone con atteggiamento definito “gay” sono pestate e violentate a vista. Per sicurezza giro in canottiera, pancia di fuori e pantaloni macchiati, scorreggio in pubblico tutte le volte che posso e tocco il culo ad ogni donna che mi capita a tiro. Buffo, però. Le donne non hanno più comportamenti da emancipate, tengono sempre la testa bassa, non ti guardano negli occhi, si coprono e si muovono a gruppi, coperte dalla testa ai piedi. Hanno anche smesso di depilarsi. Ora dormo, domani deciderò cosa fare.


6° fine settimana
A quanto pare l’Italia inteso come stato non esiste più. Il parlamento è stato preso d’assedio, hanno massacrato qualunque persona ci fosse e dato fuoco al palazzo. Su Youtube gira un filmato abbastanza raccapricciante di un ultrà che lancia la testa di Bersani verso un gruppo di operai. C’ho messo una settimana a raggiungere a piedi la mia casa al mare. I treni sono impensabili senza giubbotto antiproiettile, e poi per entrare in stazione serve il permesso di un magistrato – che è impossibile da ottenere, perché ne muore uno al giorno. Gli aeroporti sono tutti convertiti a basi militari e da quello che sembra si bombardano tra di loro. Stanotte mi sono passati sopra la testa due A10, hanno distrutto la Jesolana e gli accampamenti coi Maverick. Qui ho ancora qualcosa da mangiare, poi ho il bilancino per la pesca. Ho perso 12 chili, ma almeno vomito e diarrea sono passati. Mi manca mia moglie. Chissà dov’è e se sta bene.


7° fine settimana
La NATO ha fatto un’ordinanza esecutiva. Arrivano truppe da tutto il mediterraneo, ma devono fare i conti con una resistenza spaventosa. Fuori c’è l’anarchia più totale, la gente s’ammazza quasi senza più motivo. Nessuno usa più le automobili, pochi le biciclette. Non mi ricordo l’ultima volta che ho visto un vecchio, un immigrato o un bambino. Gruppi girano su delle jeep sparando a caso, urlando e saccheggiando quello che capita. Non penso vedranno questa casupola, è ben nascosta dalle dune e fuori dalle strade principali. Ho fame. Le labbra mi si screpolano per la mancanza di vitamine, ho spesso mal di testa e nausea. Di notte sogno bistecche e pastasciutta, di giorno mangio pesce, pesce, pesce. Tonno in scatola, mais in scatola, seppie, aguglie, cefali, qualche gambero. La corrente va e viene. Ho un generatore a benzina, ma non oso usarlo. Fa rumore, e poi la benzina è introvabile.


8° fine settimana
Ho mangiato un gatto. L’ho ucciso col fucile da pesca, un colpo fortunato al fianco. Ha fatto un salto di un metro ed ha provato lo stesso a scappare. Ho iniziato a macellarlo che era ancora vivo, un tanfo di interiora spaventoso col sangue che ha trasformato la sabbia in fanghiglia e lui che lanciava urli così acuti da sembrare quelli di un bambino. L’ho fatto ai ferri, ma dopo due mesi l’odore della carne era troppo invitante e mi sa che l’ho mangiato mezzo crudo. Stasera di nuovo pesce. Devo trovare della frutta o della verdura, perché le mie condizioni di salute stanno peggiorando ed ho iniziato a perdere i capelli. Gli aerei vanno e vengono, l’aria è satura di gomma e legna bruciata. Boati, lontani, dicono che la guerra prosegue. Il cellulare carica i dati troppo lento, e tra poco avrò finito i soldi della tariffa. Non posso ricaricarla, ovviamente, ma finché va, va. Il governo esiste ancora. Monti è “in una località sicura” e “dialoga con le parti politiche per trovare un accordo”.


9° fine settimana
Evviva! Due notti fa mi son mosso tra le rovine del paesino di pescatori qui dietro. C’è ancora gente, una specie di gruppo paramilitare, ma la sorveglianza è facile da eludere. Ho rubato da un balcone una pianta di limoni e due minuscoli alberelli di pomodoro. Deliziosi. Ho cercato di mangiarli piano senza esagerare, perché devono durare e non voglio fare indigestione. L’acqua per fortuna non manca, Dio benedica le fontanelle per turisti. Se ho fortuna i pescatori s’incolperanno tra di loro.
NOTA: mi hanno svegliato dei rumori verso le tre, come di lattine che sbattono. Da una rapida ispezione non ho trovato niente d’insolito.


10° fine settimana
Ho deciso di rastrellare tutta la sabbia attorno alla casa per quanto lungo mi è possibile, così se qualcuno passa o si avvicina lascerà delle tracce. La sera dopo la mia incursione ho sentito spari provenire dal villaggio, credo mi sia andata bene. I miei vestiti oramai sono ridotti a stracci e per quanto li lavi puzzano tremendamente. Ho fatto una specie di sapone con il grasso degli animali che mi capita di ammazzare, cenere e qualche foglia di menta selvatica presa dalle dune. Nel farlo mi sono ustionato la mano sinistra con la liscivia; ho usato l’aceto per fermare il bruciore e cauterizzato la ferita. Le bruciature chimiche sono cattive, e non ho granché dietro. Cambio le fasciature con regolarità bagnandole nell’acqua salata. Non ho altro. Dovrei andare in pronto soccorso, ma da quel che ricordo il più vicino è a due chilometri – potrebbe pure essere nel Mozambico. Girare in strada soli, di giorno, significa morte sicura. Le jeep passano urlando e sparando a qualunque ora, non farei mezzo metro.


11° fine settimana
Da martedì ho sentito ogni sera quei rumori, e la mattina c’erano tracce sulla sabbia. Un uomo solo, probabilmente magro. Venerdì mi sono appostato di notte e sulle tre ho visto un’ombra muoversi, diretta verso la finestra. Questa volta aveva in mano una specie di attaccapanni per forzarla. Gli sono strisciato alle spalle, poi con un braccio gli ho bloccato la bocca e con l’altro gli ho puntato il coltello alla gola. Ha mugolato scuotendo la testa, poi proprio quando stavo per decidermi ad ammazzarlo ho sentito un rivolo di piscio che bagnava la sabbia. L’odore dei suoi capelli arruffati, premuti contro la mia bocca, mi è sembrato familiare. Appena ho tolto le mani dalla bocca ha urlato “NO!”, l’ho strattonato per i capelli fin sotto la luce e ci sono rimasto secco: mia moglie. Più magra, più sporca, più puzzolente, più brutta, ma era pur sempre mia moglie. Ho gettato il coltello, l’ho abbracciata e siamo scoppiati a piangere tutti e due. Non sono mai stato tanto felice in vita mia nemmeno quando il Milan vinse la coppa dei campioni.


12° fine settimana
In due è tutto più facile. Ho dovuto sacrificare gran parte della mia conserva di pomodori per mia moglie, che era pesantemente denutrita. Ora ha ripreso le forze, riusciamo persino a scherzare. La notte che l’ho trovata sotto la mia finestra non so quante volte le ho chiesto scusa per quello che le avevo fatto, e lei mi ha chiesto scusa per la donna che era stata. Ci siamo detti tutto, per la prima volta abbiamo parlato davvero, ci siamo conosciuti ed innamorati di nuovo. Abbiamo persino fatto l’amore, non so se con più fame o disperazione, ma è stata la migliore scopata di tutta la mia vita. Ora io la mattina pesco e lei sistema l’orto, mangiamo insieme, il pomeriggio uguale. I boati all’orizzonte sono più sporadici. Dormiamo come sassi, abbracciati. Il sabato è il giorno del sapone. La mia mano è quasi del tutto guarita grazie ad un intruglio che ha imparato a fare con le erbe.
NOTA: altri rumori, di notte, ma forse me li sono immaginati.


13° settimana
I pescatori ci hanno trovati e, quel che è peggio, hanno trovato la piantina di limone. Se la sono ripresa e ci hanno riempiti di botte, a me e a lei. Siamo conciati male. Federica – forse non sapete che si chiama così, mia moglie – ha un braccio spezzato. L’ho ingessato alla bell’e meglio, ma la poverina piange dal dolore da due giorni. Ho fatto uscire il sangue dall’ematoma con un coltello per evitare stagnasse, ma non è servito a molto. Le serve un medico, solo che nemmeno io riesco a camminare e, quel che è peggio, a pescare. O scrivere.


14° fine settimana
Fede e io peggio. Provo ad andare ps


15° fine settimana
E’ finita! E’ finita! E’ successa una cosa straordinaria. Dopo essermi fatto forza mi sono incamminato verso il pronto soccorso e non ho trovato nessuna jeep per strada. Quando sono arrivato ho trovato personale disponibile e cortese. Mi hanno soccorso subito ed hanno mandato un’ambulanza alla mia casetta, dove hanno prelevato e curato mia moglie. Sui muri troneggiavano gigantografie di Mario Monti, che ora tutti chiamano “il Supremo”. Il mondo è tornato alla normalità. L’Italia ora è divisa in feudi, che presto faranno un referendum per decidere se unirsi di nuovo o no. Pian piano, forse in pochi anni, si riformerà l’unità d’Italia. A quanto pare, quando nemmeno le forze NATO sono riuscite a riportare l’ordine, Monti ha fatto trasmettere a reti unificate la prima partita di calcio dopo quasi tre mesi: Milan-Napoli. La sospensione del calcio è terminata, dicevano i sottotitoli, le partite riprenderanno il prossimo fine settimana con il derby Juventus-Sampdoria. 

D’un tratto tutto è tornato alla normalità: la gente ha mollato i coltelli e le pistole, i saccheggiatori sulle jeep sono tornati allo stadio, le pulsioni aggressive sono misteriosamente scomparse. La gente nel traffico sbuffa e ti fa passare. Siamo tutti di nuovo uniti e felici davanti alla TV, in attesa che i giocatori entrino in campo dopo ‘sta cazzo di pubblicità. Io, i miei colleghi, i miei vicini di casa, i miei amici riuniti nel salotto del nostro vecchio palazzone, restaurato in tempo record da operai albanesi e rumeni che vabbè, son tollerabili finché lavorano.

Peccato quella rompicoglioni di mia moglie debba PER FORZA parlare sopra la telecronaca.

Per la visibilità va benissimo anche la luce dell’obitorio

Uno dei motivi per cui il popolo della rete non sarà mai elevato oltre il rango di “scimmie che berciano defecandosi addosso” è la sua capacità di rinnovarsi. La rete è un torrente di diarrea il cui suono affascina ed ipnotizza: sempre uguale, ma sempre diverso. Non è strano. La bellezza stanca presto, l’osceno invece è immortale. Prendete il film 300: vi ricordate Leonida e basta. Nell’esercito di Serse ci ricordiamo i grassoni con le mani a coltello, le lesbiche sfregiate, il gigante handicappato, la mutilata ingioiellata e soprattutto la capra col mandolino che meritava almeno una nomination agli Oscar.

Quando la Costa Concordia è affondata ci sono state famiglie che non sapevano se i loro fidanzati, i loro figli (o i loro cani, così empatizzate meglio) erano vivi o morti. Ci sono stati atti di eroismo ed altruismo, storie grandiose nella loro umanità. Sacrificio, coraggio, amore, tenerezza, empatia, abnegazione. Non solo tra le forze armate intervenute, ma tra persone qualsiasi che trovatisi lì hanno dato prova di immenso coraggio.

Di cui parlano di striscio solo alcune testate.

La stragrande maggioranza della rete ha preferito lavorare alla parodia di una telefonata tra De Falco e Schettino, un militare che dal proprio ufficio latra ordini ad un civile sotto shock e mezzo assiderato diventa “un eroe”, un “modello per tutti”: oh, se solo i nostri politici fossero come De Falco, piange la rete, se solo fossimo governati da uomini che non hanno idea della situazione in cui ci troviamo e pretendono sacrifici che non siamo in grado di fare. Nell’eccitamento generale donne si sono fotografate seminude con scritto “De Falco sposami” o “andiamo tutte a darla al comandante De Falco“. Poi suonerie, magliette, meme divertentissimi, remix originalissimi in un crescendo di strilli eccitati; contemporaneamente sull’isola del Giglio persone morivano di ipotermia chiuse dentro cabine di acciaio senza finestrini o affogavano nel buio sentendo l’acqua che entrava e le voci fuori che sparivano fino a lasciarli soli.

C’è qualcosa di male in questo?
Boh. Però se non puoi far nulla, tanto vale riderci su.

La diarrea comincia a sbordare dal vasino quando arriva la solidarietà,  ossia l’egocentrismo patologico delle scimm del popolo della rete che per avere un riflettore addosso non esiterebbe a strapparlo dalle mani di un anatomopatologo al lavoro. Oggi con il terremoto Twitter è intasato di stronzi qualsiasi che maiuscoleggiano “RETWETTATE!!”, verbo che su Facebook è “condividi”, ed ai tempi delle catene di Sant’Antonio era “spedisci”.

– Ho appena copiato i numeri utili dal sito dell’ANSA, mi retwettate per piacere? #terremoto
– Ciao Barbara d’Urso sn una tua grande fan, mi retwetti? Numero utile per #terremoto 98690965654
– Invento una cazzata tipo finti tecnici sciacalli per farmi retwettare, tanto chi cazzo verifica? #terremoto
– PRONGOPO 1 MIN D SILENZIO IN TV X LE VITTIME DL TREREMOTO RETWETTATE!!!!!!
– Spinoza.it (e soprattutto gli emuli).

Lo scopo rimane quello di gettarsi sopra il cadavere, sporcarsi di sangue e farsi l’autoscatto su Instagram sperando questo raggiunga gli occhi di quanta più gente possibile, magari VIP. Una specie di cavallo di Troia della merda.

E’ quindi d’uopo aggiornare biografia (aggiungendo new journalist) e foto profilo (tre quarti dall’alto invece che scarpe da zoccola), pulire dove passa il prete, togliere i copridivani e tirare fuori le posate buone. Così si raggiungono picchi straordinari di solidarietà: se sei stato retwettato più di cinquanta volte e dei giornalisti ti seguono puoi dirti soddisfatto. Hai contribuito attivamente a questa immane tragedia che tutti paralizza e sgomenta. E ora via, a salvare il mondo altrove. Internet non dorme mai.

La vera trama di John Carter



É il 2090. 
I cinema sono dotati di visione tridimensionale ad alta definizione, odorama, verticometro (uno speciale meccanismo che simula le altezze),  poltrone vibranti ed impianti sonori Ultrasound, in grado di assordare un reduce di guerra addetto ai cannoni. 

Il film che viene proiettato é “John Carter reload”. 






Buio.
I titoli di testa si materializzano dal nulla, volando assieme ad asteroidi che spuntano da sotto i sedili, trapassano le pareti e tramortendo gli spettatori che esplodono in ovazioni. Sullo schermo i meteoriti s’infrangono contro un bicipite contratto arrossando il nome dell’attore. Applausi in sala. Ora un culo in perizoma con appesa una pistola, nome dell’attrice. Applausi in sala.

La prima scena ha tinte blu e verde scuro.

L’odore é quello di foglie bagnate, muschio e azoto. Lo scroscio della pioggia è assordante. Nel retro un corvo fa “cra, cra, cra”. Suono di una vanga nella terra. Primissimo piano del tricipite che si contrae, bagnato. Archi in minore. Il campo si allarga inquadrando un uomo piazzato e bellissimo dai capelli lunghi che scava una fossa.


– Moglie figli morte – singhiozza l’uomo bellissimo.

– Cattivi ucciso familia – dice in lontananza un vecchio ad un altro vecchio.

– GLI HANNO AMMAZZATO LA FAMIGLIA – lampeggia una scritta rossa sul bordo alto dello schermo – E IL CANE -.


La sala è percorsa da un mormorio di scoramento.
L’ultimo suono che sentiamo é il tuono che illumina tutta la scena di bianco.






Seconda scena, toni giallo azzurri.

Odore di pineta e legno cotto al sole. L’uomo bellissimo cammina nel deserto assieme ad un animale. Il cinema, in base alle preferenze preimpostate dagli spettatori, seleziona per ognuno l’animale preferito. Oggi in sala abbiamo 147 cani, 109 cavalli, 93 gatti, 2 criceti giganti ed un mammellosauro del pianeta Zubarr. L’animale emette un peto.

– Cattivo animale – dice l’uomo bellissimo.

– E’ BELLO E AMA GLI ANIMALI – lampeggia la scritta rossa.


L’animale fa la faccetta buffa, in sala viene spruzzato gas esilarante e la platea si sbellica. 

Archi in bemolle, viole e violini tremoli. Da dietro un cactus appare un mostro di 98835 metri grosso come una montagna che urla, batte i pugni per terra, ringhia, sbraita, urta le pareti, si colpisce il petto e agita i pugni in direzione dell’uomo bellissimo muovendo molto le possenti spalle tipo il mostro di “Super 8”. Ad ogni colpo le poltrone del cinema sussultano. Dal cactus di sinistra esce un bianco sui trenta, non muscoloso e con i capelli corti. Il mostro lo prende e lo mangia a metà mentre l’omino lancia un grido stridulo in falsetto, quello di Titanic quando l’omino cade contro l’elica. O dei cannonieri di Pirati dei Caraibi. O dei SEALs che cadono dal grattacielo di Transformers 3. O degli arcieri del Signore degli Anelli. Questo, prima voce. Quello della compilation “screams and shout” della Sound Ideas la cui prima edizione è datata 1996. Megadisk 1, 22′



“Bastardo” dice l’uomo bellissimo con questo sguardo.


L’animale buono a fianco ringhia come un cane, anche se é un alieno del pianeta Zubarr ringhia come tutte le bestie a quattro zampe buone: culo per aria, muso ribassato, denti fuori. Certo, ha sedici zampe e nove teste, respira dal culo ed ha i denti nel petto, ma ringhia uguale a un san Bernardo.

Il mostro dopo aver ucciso il tizio poco muscoloso urla, batte i pugni per terra, ringhia, sbraita, urta le pareti, si colpisce il petto e agita i pugni in direzione dell’uomo bellissimo muovendo molto le possenti spalle tipo i pesci di “Piranha 3d”.


– GURAK NA KOTA?! – ringhia il mostro, poi urla, batte i pugni per terra, ringhia, sbraita, urta le pareti, si colpisce il petto e agita i pugni in direzione dell’uomo bellissimo muovendo molto le possenti spalle tipo i vampiri di “Io sono Leggenda”.



L’uomo bellissimo estrae una pistola enorme ma molto sporca, spara e uccide con un colpo solo il mostro che urla, batte i pugni per terra, ringhia, sbraita, urta le pareti, si colpisce il petto e muore. 


– Il mio nome é John Carter – sussurra, soffiando il fumo dalla canna.


A fianco l’animale raggiunge il cadavere del mostro ed alza la gamba per pisciarci sopra.


– Cattivo cane – dice John.

Spruzzata di gas. 



La gente si contorce, fa troppo ridere ‘sto animale. Primo piano dei deltoidi di John. Effetto sonoro, slow motion, la sua testa si gira all’improvviso verso sinistra. Le goccioline di sudore brillano incorniciando per un attimo gli occhi azzurri e bellissimi. Dall’orizzonte appare una sconfinata moltitudine di creature viola, nude e tutte uguali. Hanno buffi tatuaggi tribali e cavalcano enormi triceratopi. Circondano John, che li guarda truce. Anche loro lo guardano truce. Solo uno di loro ha un cappello, non é muscoloso ed ha 222638 colori addosso. 

– QUESTO E’ IL SAGGIO DELLA TRIBU’ – lampeggia la scritta rossa.
– Ka mila, naan tu de kimertai? – dice con voce gentile porgendogli la mano.


Ma John Carter lo guarda così:






Sulla destra invece c’é una creatura enorme che muove molto le spalle possenti. Scende dal triceratopo, si fa strada tra gli altri spintonandoli, arriva davanti a John Carter e urla, batte i pugni per terra, ringhia, sbraita, urta le pareti, si colpisce il petto e agita i pugni in direzione dell’uomo bellissimo muovendo molto le possenti spalle tipo i guerrieri di Avatar.

John fa capire di non avere paura di lui con questo sguardo.







Invece di ignorarlo credendolo affetto da paresi facciale quelli lo prendono e lo portano al villaggio. Qui John assiste ad una litigata tribale. Il tizio con 98866879 colori addosso é convinto che l’uomo bellissimo sia il protagonista, mentre quello enorme urla, batte i pugni per terra, ringhia, sbraita, urta le pareti, si colpisce il petto e agita i pugni in direzione dell’uomo bellissimo muovendo molto le possenti spalle tipo i guerrieri di Apocalypto.

La tribù é incerta su cosa fare.
John ha appena finito di dire una frase a effetto quando dal nulla appaiono delle astronavi che sparano a caso uccidendo tutti tranne i tre che ci ricordiamo. John Carter prende la pistola (primo piano dei suoi occhi attraverso il mirino) e spara un colpo. Le astronavi esplodono tutte contemporaneamente, lasciando cadere centinaia di tizi in fiamme sanguinanti, mutilati, fatti a pezzi ed una donna seminuda truccata, pulita ed appena uscita dalla parrucchiera con due orecchini splendenti ed il rossetto. Atterra da sola con una capriola rotante e triplo salto della morte.
– Mi hai salvata ma come vedi sono una donna indipendente ed emancipata, mi concio da Barbie notti dell’Est perché sto più comoda –
– Sono John Carter – dice lui, squadrandola come un ergastolano – ho fatto tutto io ed ho spaccato il culo a 9876988 mostri, ma rispetto le donne ed all’ultimo mi faccio fregare da un tuo trucco così siamo pari –
– LEI E’ FORTE OLTRE CHE FICA – lampeggia la scritta.
Le donne in sala (tre, obese) annuiscono.
La tensione sessuale è fortissima, ma proprio quando John sta per stuprarle la bocca con rispetto ed il suo consenso un cattivo si rialza di scatto. Una lancia trafigge il sopravvissuto sgherro poco prima che riesca a dire “facciamo la constatazione amichevole o chiamiamo un vigile”. L’ha lanciata un indigeno qualunque. Dopo le donne anche le minoranze etniche hanno contribuito ad uccidere qualcuno, quindi siamo tutti pari.

– Bel colpo – fa John Carter.
L’animale emette un verso.
Spruzzo di gas.





Ora la fica spiega che lei è indipendente, forte, guerriera, bellissima ed emancipata, ma quando un filo di cose vanno male ha bisogno di uno stronzo qualsiasi che le risolva tutti i problemi rischiando di farsi uccidere. In cambio lei offre di farsi pagare la cena. Un ritratto perfetto del femminismo 2012. 

– Non interessa, mia famiglia morta – dice John, guardandola così.




Ma più vicino.










– …cosa cazzo c’entra, chi se ne frega? – domanda uno in sala.
Inquadratura dell’animale con la faccia triste.
– Ah, certo, scusate – dice, sedendosi.



Stacco. Palazzo imperiale.
La fica si rivela essere la Principessa Imperiale Della Madonna Del Carmine, le cui giornate si dividevano in 12 ore di libri, 12 ore di palestra e 12 ore di pubbliche relazioni con i poveri del suo popolo che la vedono come la salvatrice perché ha inventato il Raggio Magicabula, una luce blu splendidamente renderizzata che può polverizzare gente, far spuntare l’acqua, alimentare centrali nucleari, creare cloni, teletrasportare, mascherare dèi, distruggere pianeti o farti la permanente.

– Non mani sbagliate – dice lei, mentre lo schermo inquadra solo le tette con un gioiello che ci cola in mezzo.

– Non interessa – dice John Carter contraendo i tricipiti – mia famiglia morta –
– Tu aiuta, o io pompa pompa altro! – fa lei in lacrime.
– Non interessa –
– Vivere sotto tirannia non è vivere, vojo libbertà – dice la fica, principessa per diritto di nascita ed erede al trono di una monarchia assoluta.

– Mi hai convinto, gli operai sono eroi, la pace è meglio della guerra, l’erba è meglio del cemento, salviamo i bambini – dice John Carter.

– Cazzo, pari Optimus Prime! – dice lei.
– Io trovare esercito, poi pompa pompa – fa John, e se ne va guardandola così.




Ma con la luce in alto.






Stacco.
Campo degli indigeni.
La tragedia si è compiuta. Il tizio grosso ha spodestato il tizio saggio e colorato ed ora arringa la folla: urla, batte i pugni per terra, ringhia, sbraita, urta le pareti, si colpisce il petto e agita i pugni in direzione dell’uomo bellissimo muovendo molto le possenti spalle come gli alieni di “Cowboy contro alieni”.

– WASHIKU MAGALA – dice – RAKANUMBI PIKU PIKU!
– Ti sfido – dice John, calmo, guardandolo così.




Ma con più luce.
Attimi di silenzio, poi la folla urla di sì. Il capo grosso e cattivo prende la spada, urla, batte i pugni per terra, ringhia, sbraita, urta le pareti, si colpisce il petto e agita i pugni in direzione dell’uomo bellissimo muovendo molto le possenti spalle come gli spartani di 300. John invece è immobile e con sguardo truce, zac! Un solo colpo ed il capo è morto.
Lo stadio esplode.
La psicologia delle folle è questa, dopotutto. In Germania se un iracheno ad una sfilata dei capi di stato si mette a urlare “Merkel, ti sfido a duello” la gente attorno annuisce entusiasta e la Merkel accetta subito. Con un solo colpo di spada l’iracheno la decapita, poi con la spada ancora lorda di sangue urla ai tedeschi di andare in guerra contro gli USA ed i tedeschi, entusiasti, si lanciano senza preparativi, strategie, vettovaglie o viveri verso il mare perché sì, l’ha urlato lui, quello stronzo qualsiasi che m’ha appena ammazzato il capo. E’ lui il leader che voglio, per cui morirei.

Soprattutto quando mi guarda così.




Ma colorato di blu.







Stacco.
Acclarato che nel deserto nessuno deve mai bere o mangiare, fuori dal palazzo imperiale la battaglia imperversa in un tripudio di pixel indistinti e suoni in tre dimensioni. Spade e lame volano dappertutto perché sì, questo popolo ha inventato astronavi, città semoventi, reattori, ma le armi da fuoco no. Il principio elementare della balistica che pone le fondamenta su qualunque tipo di spinta qui è stato agilmente dribblato. Come un mondo che ha inventato il teletrasporto ma si piscia addosso perché non ha inventato il bagno.

La fica appare in tutto il suo splendore in un vorticare di lame che tritano ed ammazzano tutti senza scalfirla, affaticarla, sporcarla o graffiarla. Dopo ben 10 minuti di scontri dove tutti muoiono nell’indifferenza generale appare il cattivo dei cattivi davanti a John Carter.

– TU! – urla – TU MALE, TU VAI, IO QUI LO RE –
– NO! – risponde la fica – TU NO LO RE, POPOLO RE, FINCHE’ IO LI COMANDO DI ESSERLO –

In un emozionante ed imprevedibile scontro il cattivo muore, la principessa si bacia con John, l’animale emette un peto e pare che John dovrà tornare da dove è venuto, stando alle scritture incise su un muro che guarda così




Ma con la fica davanti.




Fortunatamente, con un imprevedibile colpo di scena, vivranno tutti felici e contenti. 32 minuti di applausi in sala, a luci accese il pubblico si abbraccia piangendo: è un film bellissimo, sublime, da rivedere aspettando un sequel del prequel della trilogia extended. Poi la gente esce dal cinema e sorpresa, era un film nel film.

Il film originale era Idiocracy.