All posts by Nebo

Alex

“Ut sit magna, tamen certe lenta ira deorum est”
(Anche se grande, l’ira degli dei di sicuro è lenta)
Lost

Nel 1990 tutti quelli che non avevano voglia di fare un cazzo dopo 20 anni di discoteca, bamba e lifestyle tipo “Vacanze di natale 1986” decisero di aprire un’azienda col ragionamento “se assumo gente io faccio lo re e loro fanno il lavoro, non mi servono competenze”. Al re per aprire un’azienda serviva un capitale iniziale.

Non aveva neanche quello, così andava dalle banche pretendendo gli dessero, sostanzialmente, i proventi dei risparmi altrui. Le banche lo fanno. Ai vari re viene così data la possibilità di creare microaziende incapaci, incompetenti, inutili, che campicchiano giusto quello che serve per pagare le spese. Sono aziende che sfruttano tutto lo sfruttabile da chi ci lavora, evadono le tasse e campano grazie al sudore di stagisti, Co.Co.Co, Co.Co.Pro e contratti a chiamata. Tutti in nero. I giovani eseguono, ben consapevoli che alla prima alzata di testa scatterà la frase “uè sbarbi, se non ti va bene vattene, c’ho la fila fuori di stronzetti neolaureati pronti a fare ‘sto lavoro per meno”.

Chi sono, questi in fila?
Si chiamano tutti Alex.

Alex ha 26 anni, una laurea qualunque, scarica casse al mercato in nero col capoccia che gonfia i prezzi, parrucca la merce e non batte scontrini. Alex a 45 anni s’è trovato in strada perché l’azienda ha finto di fallire ed ha riaperto con operai stranieri. Non gli rinnovano il contratto. Alex, due lauree in lingue, lavora come commessa in aeroporto per 800 euro al mese. Gli straordinari non vengono pagati né dichiarati. Quando protesta, le dicono che se ne vada pure perché c’è la fila di laureatine che farebbero questo lavoro per meno. Alex ha appena finito un master in economia. Le propongono un lavoro di 8 ore al giorno, 5 giorni su 7, a 200 euro al mese.

E’ la migliore offerta che trova. Alex lavora al porto, fa turni di 12 ore. Il suo stipendio è stato massacrato dalle tasse ma è sveglio: vive in un garage ex sala prove, ha una 600 usata, fa fatica e galleggia. Finché non arrivano spese mediche improvvise, perché in quel caso è fottuto. Alex ha l’azienda di famiglia o è fottuto. Alex è un medico brillante ma in Italia non ha trovato posto, racconta al Sole 24 Ore: in Italia i professori anziani non schiodano e ti fanno terra bruciata attorno, a volte addirittura insegnando male per non avere concorrenza.

Grazie ad Alex – che, su carta, non esiste – i microimprenditori comprano ville, Mercedes, vacanze, filippini che gli puliscono il culo, gioielli a mogli e amanti. Sono gli anni d’oro dell’Italia. Hippie tutti kefiah e ganja trovano nell’import export la soluzione ai loro problemi: stanno in Thailandia 6 mesi a scoparsi una zoccola sedicenne con gli occhi a mandorla che passa sopra l’ascella pezzata, la pancetta, l’alito mostruoso e la maleducazione; comprano tonnellate di bigiotteria etnica fatta da manodopera (minorile) e la rivendono al 1200% in Italia perché, eh, la moda alternativa vende. Lo stesso fanno con i sexy shop che spuntano come funghi.

Nara Camicie (Treviso) crea cripte sotterranee alle fabbriche dove far lavorare Alex cinesi. I carabinieri s’insospettiscono al terzo che trovano morto in un canale vicino a quello strano paesino nel trevigiano dove tutti i cartelli stradali sono in italiano e in cinese. Nomi, volti, che non esistono, tutti sotto i diciotto anni.

L’inchiesta è ferma e anche se Alex lavorava al Gazzettino (a 4 euro ad articolo) non ha potuto scriverne.

Bar, negozi d’abbigliamento, pizzerie, sono buchi tutti uguali privi di identità, idee od originalità. Ce ne sono milioni in tutta la penisola. Quelli che non possono sfruttare Alex, sfruttano Hazim. Quelli come Hazim fanno meno i saccenti, non conoscono sindacati, li puoi ricattare con il permesso di soggiorno, pagarli meno, fare magheggi con assicurazioni e contributi. Ad alcuni re va bene: vanno in pensione a 45 anni senza avere mai fatto, davvero, un giorno di lavoro.

Per Alex, invece, la pensione non c’è.
Lavora per pagare quella dello re.

Al governo lo ammettono senza problemi.

The Artist è la storia di un attempato attore del cinema muto che durante una conferenza stampa nota una fan neomaggiorenne che lo idolatra. I giornalisti li fotografano insieme. La moglie dell’attore – ormai vecchia ed inutilizzabile – osa chiedere spiegazioni. Lui risponde giocando con un cagnuolo puccettoso e deridendola. Nel frattempo la sbarbina riesce ad avere una parte in un film dove recita il vecchio. Lei è bella, giovane, libera e allegra mentre lui è sposato e potrebbe essere suo padre.

E’ quindi ovvio che si innamorino.

Mentre la ragazza si strugge d’amore annusandogli i vestiti e sognando di essere abbracciata ad un pensionato i produttori mostrano al geronte i progressi del cinema: è arrivato il sonoro. Lui scuote la testa ridendo di loro e delle loro cazzate modaiole. Non è il futuro, è solo una stupidata da ragazzini. In pochi mesi, difatti, la sbarbina diventa una star dei film parlati facendo un successo strepitoso. Lui si ostina a far faccine buffe nei film muti che non caga più nessuno. Dramma. Noi spettatori ci restiamo male, maledicendo il maledetto progresso: andava tutto così bene, perché hanno dovuto mettere l’audio ai film? Lei ora ha una villa da sogno, macchine strabilianti, soldi a palate, le copertine di tutti i giornali, un fidanzato – orrore! – coetaneo e Hollywood che se la contende.

Ma tranquilli, a lei tutto questo non interessa. No, lei desidera ed ama solo il vecchio. Quando lui mette all’asta i mobili, lei li compra tutti. Quando lui licenzia l’autista, lei lo assume. Quando lui tenta il suicidio, lei lo ospita a casa sua e ricatta i produttori perché gli diano una parte. Loro rispondono picche, ma la ventenne non si dà per vinta: manda affanculo i sogni di tutta una vita per trovare un compromesso e ridare vita al geronte. Finisce a ballare il tip tap con lui che nell’ultimo colpo di scena mostra di avere un difetto di pronuncia. Fine.

Cinque Oscar.

La trama non è molto differente da un qualunque film italiano degli ultimi trent’anni, Vanzina e Neri Parenti compresi: i giovani sono tutti bellocci senz’anima che venerano, ammirano e cercano di emulare ciò che è vecchio. Musica, film, libri, attori, pittori, governi, ideali del passato sono meravigliose reliquie da rivisitare, discutere, idolatrare. I ragazzi fanno gli istruttori di fitness, i commessi o i camerieri. Le ragazze sono studentesse ingenue o puttane che non vedono l’ora di darla a vecchi raggrinziti in cambio di un voto o una vacanza ai caraibi. I cinquantenni, per contro, sono tutte persone di successo. Avvocati, commercialisti, banchieri, ingegneri, medici, notai che scopano questi ragazzini grazie ad un giro di raggiri, truffe e balle vergognose ammiccando e dandosi di gomito. Loro sanno come si sta al mondo. Nel lieto fine gli scaltri anziani si ricongiungeranno al talamo familiare dalla moglie/marito rompicoglioni senza che degli acerbi amanti si sappia più nulla. Sono comparse, corpi senza sentimenti né futuro che una volta utilizzati svaniscono, precipitando da quel breve momento di paradiso giù fino al loro limbo di anonimato e mediocrità.

Incassi a palate.

San Remo, il festival della canzone che tutto il mondo ci invidia, invita più o meno gli stessi ospiti da quella volta. Iva Zanicchi, Celentano, Gianni Morandi, Loredana Bertè troneggiano in mezzo a ragazzini che sì, anche s’impegnano, ma non hanno il talento di Gigi d’alessio. Si vede. Del resto le preselezioni sono state rigorosissime: era prioritario segare qualsiasi emergente che avrebbe tolto luce agli anziani, rischiando di far notare quanto facciano pena. Niente deve guastare un festival dove vecchi circondati da ragazzine seminude si autocelebrano. Per migliorare gli ascolti il prossimo anno è stato suggerito il ritorno di Pippo Baudo come presentatore. Il passato, dicono, è il nuovo futuro. I Pooh sono d’accordo. Il loro nuovo singolo, “Dove tramonta il sole”, dura la bellezza di 11 minuti e 30 secondi. Non è strano: gli anziani diventano logorroici e il più giovane dei Pooh ha 61 anni.

Ad un tratto il giocattolo si rompe.

C’è qualche anno di scompenso, di confusione, di ricerca del capro espiatorio semplice e facile che una volta ucciso rimetterà tutto a posto. Goldstein. Berlusconi. I comunisti. I terroni. Gli statali. Gli immigrati. Qualunque colpevole va bene, pur di non guardare nello specchio del bagno, persino i propri figli. E’ colpa di Alex che è un fannullone, dice uno. E’ colpa di Alex che è un bamboccione, dice l’altro.

Non sa godersi le cose. E’ debole.
Non basta.

Arriva un governo tecnico – l’equivalente economico della legge marziale – e dopo aver fallito ogni altro tentativo ammette di dover iniziare a chiedere le tasse arretrate ai re sparsi per l’Italia. BOOM. Ogni categoria professionale toccata insorge. Persone incapaci, mantenute dallo stato che tanto disprezzano e dai figli che sfruttano, scoprono di non essere intoccabili e che oltre ai diritti c’erano dei doveri. Doveri che hanno abbondantemente ignorato per tutta la loro vita. Lo stato comincia a chiedere a commercianti, bottegai e imprenditori di pagare le tasse che non hanno mai pagato. Quando le banche si rifiutano di prestare soldi a quelle aziende che senza banche non vivevano l’economia collassa. Bar, negozi ed aziendine tutte uguali falliscono, svendono, affittano.

Una generazione che nella propria esistenza non ha mai affrontato nessuna responsabilità né conseguenza delle proprie scelte si trova per la prima volta con le spalle al muro. Reagiscono come hanno sempre fatto: scaricano le colpe e cercano di scappare. Alcuni si suicidano. Altri gettano molotov e minacce contro gli uffici che pretendono i soldi che hanno rubato ad Alex. Giornalisti, colleghi ed amici si stracciano le vesti urlando stato assassino, di tasse si muore, bisogna fare qualcosa, fiaccole, manifestazioni, “salviamo le piccole aziende, salviamo gli artigiani, i piccoli imprenditori”. Un vecchio, costretto da Equitalia a pagare ben mille euro di tasse, prende un fucile, 15 persone in ostaggio e si barrica nella sede di Equitalia.

– Ma perché? – urla, incazzato – ci siamo buttati da un aereo diecimila metri fa e non ci è mai successo niente, perché ora stiamo per schiantarci? Andate a vedere quelli che non le pagano davvero, le tasse, tipo Alex! Io mi vergogno di essere italiano, questo paese è una merda, me ne vado, bisognerebbe fare la rivoluzione! Anzi, Alex, falla tu!

E all’improvviso, per la prima volta, Alex viene interpellato.

Gli hanno preso soldi in busta paga senza chiedere, gli hanno rubato la pensione senza dirglielo, lo hanno sfruttato senza che potesse scegliere, lo hanno deriso senza che potesse replicare, lo hanno fatto suicidare senza che potesse spiegare, gli hanno chiuso facoltà senza che potesse salvarsi, gli hanno mangiato la sua razione senza che potesse difendersi e ora gli chiedono: non provi un po’ di pietà per questi suicidi, Alex?

Questo matrimonio è una strage di stato

Questo post è tutto reale, anche se le fonti scarseggiano. Treccani, Storia d’Italia di Montanelli ed Internet non sono d’aiuto. In alcuni forum se ne parla in tono vago. Nei libri delle biografie, invece, c’è. Trovate un breve resoconto di quello che dico qui.




A Vittorio Emanuele II dei suoi figli non fregò mai nulla davvero. Appena fu possibile li mollò in affidamento a preti e militari che li educarono come spartani. Sveglia alle 5, messa alle 6, compiti e preghiere, preghiere e compiti fino alle ore 21, nanna. Ogni tanto Vittorio si faceva vedere per un saluto, ma di suo preferiva starsene in un cascinale con Rosina che gli tagliava le unghie dei piedi e le conservava sotto teca. Lui giocava coi suoi cagnuoli bastardi che adorava:


– Guardate come vengono su bene – diceva a tutti – quando si mescola il nostro sangue a quello del popolo!

Nel dicembre del 1866, tuttavia, suo figlio Amedeo, di anni 21, si presenta  dal re annunciando che si sposerà con Maria Vittoria dal Pozzo della Cisterna.


– Ti sposi chi?
– Ma veramente c’è una che si chiama così?
– Sì, papà.
– Ho idea che sposare donne nel pozzo porti male, figliolo.
– La sposo lo stesso.
– Ti ripeto, dare anelli a ragazze nel pozzo non è bene.

Amedeo I se ne frega. 



















E’ il 30 maggio 1867. 
La primavera esplode in tutto il suo rigoglioso splendore sotto un cielo azzurro e limpido. A palazzo decine e decine di camerieri, attendenti, cuochi, sarte, fiorai, valletti e maggiordomi lavorano come formiche ai preparativi della cerimonia. La futura sposa è accerchiata da truccatrici, parrucchiere e damigelle d’onore in fregola, del resto non capita spesso che la tua amica si sposi un principe d’Italia. E’ il momento della prova vestito.

– Dov’è la guardarobiera? – chiede impaziente una dama d’onore.
– E’ andata un attimo di là, ha detto che allungava lo strascico. Vado a chiamarla.

Esce. Pochi istanti dopo un urlo riecheggia in tutto il palazzo. La damigella d’onore rientra, pallida.


– Cos’era quell’urlo? – domanda una dama di compagnia.
– Tutte voi ricorderete la guardarobiera, immagino.
– Sì, mbè?
– Niente, è di là che dondola dal lampadario.
– S’è ubriacata?

– No, s’è impiccata.

















– Impiccata al lampadario – ripete impassibile, sorseggiando acqua, la nobile.
– Sì.

















– Bè, pace all’anima sua, dopotutto era solo una guardarobiera.
– Vero. Solo che vedi, Maria Vittoria, non c’erano corde a disposizione, nella stanza.














– E con cosa s’è impiccata, allora?























































E’ così. Non sono neanche le dieci di mattina che la guardarobiera, Dio sa perché, ha deciso di porre fine alla sua indispensabile vita impiccandosi al lampadario col vestito della sposa. Forse non aveva duplicato la cassetta. Maria Vittoria del Pozzo della Cisterna decide – come qualunque donna – di sposarsi comunque, ma serve un vestito diverso perché quello non si può dire porti bene. I paggi gettano il cadavere della guardarobiera nell’immondizia e si affrettano a convocare una sarta, che appronta un nuovo vestito alla bell’e meglio. Ora Maria Vittoria del Pozzo della Cisterna sembra ancora di più Samira, o un preservativo da cui spunta fuori una testa. Alle 11.30 il gruppo della sposa esce dal palazzo tra carabinieri a cavallo, fanfare, paggi e 30° all’ombra. La carrozza si avvia lungo il viale. Attraverserà il giardino, varcherà i cancelli e la condurrà all’altare. Nella carrozza le dame cercano di consolare la sposa.

– Non pensarci più, Maria Vittoria.
– Vero, non lasciare una guardarobiera ti rovini questo giorno!
– Del resto cos’altro può accadere?




















– …perché ci siamo fermate?

La processione della sposa ha dovuto arrestarsi perché l’ufficiale in testa è caduto da cavallo. Il sole, il caldo, l’età, l’attesa, una cassetta non duplicata,  tutto può essere: resta il fatto che l’ufficiale prende congedo dall’Arma e dalla vita lì. E’ secco come un bastone. I paggi aggiungono il corpo a quello della guardarobiera e fanno cenno di avanzare, ma i carabinieri non fanno un passo. Una processione non si può fare senza alto ufficiale, bisogna decidere chi tra gli altri ufficiali presenti guiderà la processione. Maria Vittoria del Pozzo della Cisterna apprende questa notizia a mascella serrata fingendo indifferenza. Dopo un lungo consulto i carabinieri si mettono d’accordo e si riparte. Alle 11.40 questa specie di carro funebre coi pizzi ha percorso sì e no dieci metri. 

Si riparte.

– Non è niente, non è niente – la consolano le dame.
– E’ come – tira su col naso la duchessa – …è come se questo matrimonio non fosse voluto da Dio, capite?
– Ma no – sussurra la testimone tastandosi la tetta sinistra – non farti impressionare da queste superstizioni da plebei.






















– …perché ci siamo fermate?

Siamo ancora nella tenuta della duchessa. Dopo seicento metri di viale la processione arriva ai cancelli. E’ un momento importante, quando la giovane sposa varca per l’ultima volta la soglia della sua tenuta da donna libera ed affronta l’esterno, l’ignoto, il futuro, per congiungersi all’uomo che ama. Le fanfare squillano:

– PASSA LA DUCHESSA MARIA VITTORIA DEL POZZO DELLA CISTERNA, APRITE I CANCELLI! – urla l’ufficiale.



Silenzio.







– PASSA LA DUCHESSA MARIA VITTORIA DEL POZZO DELLA CISTERNA, APRITE I CANCELLI! – urla di nuovo.














Uccellini. Cicale.











– VI ORDINO DI APRIRE I CANCELLI!









Cip cip cip.
















– Maresciallo, vada a vedere cosa combina il valletto.
– Alè, parte il totoschiattamuort.
– Come dice?
– Niente, tenente, scusi, coi ragazzi si scherza…
– Si muova.
– Comandi! – esclama il maresciallo scendendo da cavallo.

Non appena entra nella torretta emette un gemito.

– Eccallà, ‘o sapevo.
Esce.

– Signor tenente, il valletto è schiattato.
– Come schiattato?
– Muorto cumm’ a san gennaro, tenè. C’è sangue dappertutto e quello c’è disteso sopra c’aa facc ngopp.

Nessuno saprà mai come o perché, ma il valletto viene trovato riverso in una pozza di sangue. Morto. E’ il terzo che va a tuffarsi nella monnezza con i paggi di corte che oramai li buttano cantando canzonette popolari. A questo punto la duchessa tradisce un certo nervosismo che nei libri di storia non è riportato ma somiglia molto a “AHO’ NNAMO O QUA S’AMMAZZA ANCHE ER PRETE, NNAMO, COCCHIE’, FRUSTA”. I carabinieri aprono il cancello con una certa fatica, visto che pesa e loro con una mano devono toccarsi. 

Il re, in chiesa, è stato informato dell’accaduto. Quando la sposa giunge a destinazione con tre ore e mezzo di ritardo assieme alla marcia nuziale è tutto un fiorire di gesti scaramantici, cosa che non contribuisce al buonumore della piccola Samira la quale fa il suo ingresso con un vestito che sembra la coperta di Linus, il volto disfatto dall’orrore e gli occhi rossi di pianto. Le damigelle d’onore appaiono assenti, sgranano rosari e barcollano guardandosi attorno spaventate. Il prete è incerto se praticare un esorcismo o dichiararli marito e moglie ma, strano a dirsi, durante la cerimonia non sono riportati incidenti. Amedeo I di Spagna e la duchessa Maria Vittoria dal Pozzo della Cisterna si scambiano gli anelli in un silenzio tombale, dove nessuno vuole applaudire o dire “bravi” per paura si stacchi una navata e li seppellisca tutti. 

Al termine gli invitati escono per accompagnare gli sposini in stazione e salutarli per la loro luna di miele, forse un villaggio vacanze a Silent hill. Il corteo è lento e cauto. Nessuno gioisce né applaude.


– E’ il giorno più bello della mia vita – sussurra Amedeo alla moglie.
– Continua a ripetertelo – sibila la duchessa.
– Perché?
– Sa
Urla distanti.















– …perché ci siamo fermati?
– ABBIAMO UN ALTRO VINCITORE, TENE’! – urla il maresciallo.

Immagino questo matrimonio tipo Final Destination versione steampunk; non fai a tempo a guardare da una parte che dei tizi muoiono dall’altra nei modi più improponibili così, per ridere. Pieghi il vestito, muori. Passeggi in giardino, muori. Ti fai i fatti tuoi in una torretta, muori. Allunghi gli anelli agli sposi e indovina un po’ cosa succede? 

Sì.

Un testimone di nozze reso euforico dalla troppa allegria della cerimonia ha deciso di fare un ictus e trapassare lungo la strada. A questo punto la comitiva riparte in versione ridotta, perché man mano la gente si ricorda di impegni urgenti tipo il libro aperto davanti alla finestra, pettinarsi le ascelle, smacchiar coccinelle o guardare l’erba che cresce.

– Siamo maledetti, ti dico!
– Tesoro, calmati! E’ suggestione!
– SUGGESTIONE?! QUESTO MATRIMONIO HA PIU’ CADAVERI DELLA GUERRA D’ALBANIA! SIAMO A QUATTRO MORTI!

La carrozza ha uno strano sobbalzo.

– Cinque – corregge da fuori il maresciallo.

E’ ora il turno di un capostazione che fa il suo ingresso in scena a petto in fuori dicendo “li aiuto io a scendere, ‘sti sposini”, “so io come ci si comporta con le giovani coppie” “la faccio io la bella figura col re” e decede investito e tranciato in due dalle ruote della suddetta carrozza. Voglio visualizziate bene questo momento: la carrozza reale macchiata di sangue ed interiora che si apre e fa uscire Samira in lacrime.

I paggi di corte decidono di disertare ed aprire una ditta di pompe funebri, ormai l’apprendistato è fatto. Gli invitati sono pressoché scomparsi tutti per un motivo o per l’altro e la duchessa gronda lacrime e muco singhiozzando isterica. Lo sposo tenta di buttarla sul ridere, ma un inaspettato temporale copre le sue parole con tuoni e fulmini. Vittorio Emanuele II subodora che nei piani alti sono incazzatielli e ordina che nessun essere umano, a parte la coppia, tocchi o salga a bordo del treno. I pochi superstiti accettano l’idea con entusiasmo e fuggono.

– Buona fortuna! – dicono le damigelle al treno in partenza – quanto durerà la luna di miele?!
– Sette gior



































– SEI! – urla il maresciallo.

Per un insieme di cause che elencare qui sarebbe un insulto alla fisica e all’umana intelligenza la carrozza vuota e macchiata di sangue, diretta a palazzo, investe anche il Conte Francesco Varasis Asinari di Castiglione. Non è tanto l’incidente ad ucciderlo, ma la caduta; il medaglione che porta al collo si mette in verticale e gli trafigge il cuore. Non riesco ad immaginare quante probabilità di fossero, ma succede. Il resto della folla a questo punto si disperde in preda al panico aspettandosi che da un momento all’altro inizino a piovere meteore. Termina così il matrimonio del principe d’Italia Amedeo I.



Capitolo 8 – Punto di rottura

La bionda si chiama Chantal, l’altra Nadia. Tutte e due sono al terzo anno di scienze politiche. Chantal ha due tette da competizione ma è silenziosa, Nadia ha una conversazione discretamente trucida e spigliata. I drink arrivano al terzo giro ed ormai ho abbastanza alcool in corpo da trasformare il dolore in un vago intorpidimento. Le braccia sul tavolo si fanno più vicine, i sorrisi più convinti, le tette di Chantal mi tengono su di morale. Stiamo andando bene. Ale racconta che fa il PR, una versione light della realtà. Sta ciarlando di un appartamento quando colgo l’occasione al volo, mi scuso e vado in bagno.

I cessi somigliano ad una sauna turca, mi caccio dentro quello degli handicappati e tiro fuori il cellulare. La Gioia è sotto la voce NonDaSbronzo. Squilla una, due, nove volte, poi risponde la segreteria telefonica del numero. Starà chiavando col tipo. Rimango in stato catatonico per una decina di secondi, la schiena appoggiata alle pietre, incapace di pensare. Il dolore si fa sentire come un padre pensionato che all’improvviso ha troppo tempo libero. Sto pensando di tornare quando il Nokia mi squilla in mano.
NonDaSbronzo.

«Gioia, ho bisogno che mi dici chi è quel tipo.»
«Dimmi come lo conosci TU, piuttosto!»
«Te l’ho scritto, eravamo in classe insieme.»
Istante di incertezza, poi: «cos’hai fatto al labbro?» domanda in tono dolce, memoria di un tempo che non esiste più.
«E’ stata una serata difficile. Ora non posso parlare. Dove l’hai conosciuto?»
«E’ stato a girare per una settimana davanti al mio negozio.»
«Come “al tuo negozio”?»
«Lavoro da Max&Co. da un mese, ormai. Alle Barche.»
«Va bene. Lui girava a caso, tipo maniaco?»
«No… No. Parlava con quelli di Bulgari, davanti a noi.»
«Parlava e basta.»
«Sì. Col gestore. Però buttava spesso occhiate, un paio di volte ha fatto giri strani, tipo avanti e indietro, come per vederci…»
Bè, la Gioia per esser gnocca è gnocca.

«E tu l’hai conosciuto di persona? Ci hai parlato?»
«Mmm… qualche volta. Due volte. Ha attaccato bottone lui. Mi ha detto che si chiamava Luca Bosio e che fa il rivenditore.»
«Di che?»
«Non so, penso tipo gioielli, da Bulgari che ci vai a fare di pomeriggio per una settimana? Credevo me l’avessi mandato tu a spiarmi.»
«Gioia, ti sembro tipo da far ‘ste stronzate? Onestamente.»
Sospira: «No. Ma la mia collega c’ha avuto un ex maniaco e m’ha messo la paranoia.»
«Lui cosa ti ha detto?»
«E’ entrato dicendo che voleva fare un regalo, gli ho fatto vedere cinque o sei capi e poi non ha comprato niente, non penso fosse vero. Chiacchierava tanto, era… carino. La seconda volta è passato per salutarmi dicendo che probabilmente non ci vedremo più perché lui è a Milano. Mi ha chiesto il numero ma non glie l’ho dato.»

Non voglio dirti che da quando mi hai mollata ho chiavato tutto il mondo. Gli ho dato il numero, ci siamo visti e abbiamo scopato, altrimenti non avevo quella reazione a Jesolo e non avevo quell’incertezza alla parola “carino”. Sto mentendo e tu hai la sfortuna di non essere abbastanza stupido.

Non è vero.
O forse non vuoi che lo sia.

Sono cazzate.
Allora perché le è passato a fianco sapendo che lei avrebbe fatto finta di niente?

«Giò, perché non ci hai salutati? Capisco me, ma perché non hai salutato lui?»
Silenzio.

«Giò, la verità. Per favore, è importante. Questo non ci sta tanto con la testa, fa discorsi strani e c’ha giri anche peggio.»
«Te l’ha rotto lui il labbro?»
«No. Un buttafuori all’Avana.»
Ancora silenzio.

«Perché mi sono gelata. Siamo usciti insieme due settimane fa» sbuffa.
«…E?»
«E non ti riguarda.»
«PER. FAVORE.»
«Non è andata, l’ho scaricato e gli ho detto di non chiamarmi più. A metà serata volevo già andare via, mi metteva a disagio. Delle volte gli veniva uno sguardo da pazzo.»
«Gli hai parlato di me?»
Rumori.

«Giò, cosa gli hai detto?» dico, scavalcando la risposta.
«Le cose che si raccontano delle storie passate. Non sono stata gentile.»
«Gli hai detto cosa facevo, dove lavoravo?»

«Sì. Sì, glie l’ho detto. È stata una stronzata. Scusami.»
«Va bene. Ascoltami, sono a Bologna in un bar che pare una tomba romana con Alessio Seguso, quello che tu conosci come Luca Bosia, è un mio ex compagno di classe. Ci sono anche due tizie che studiano scienze politiche di nome Chantal e Nadia. Ti ricordi tutto?»
«Sì. Ma perché dovrei?»
«Perché perché perché. Perché magari dovrai dirlo a qualcuno. Ora vado.»
Chiudo il telefono.

Esco dal bagno, mi lavo la faccia, cerco di calmarmi. Son cinque minuti che sono qui dentro, non ho molto tempo. Mi guardo, faccio schifo. Non so cosa mi aspetti dietro quella porta. Non mi preoccupa quasi più, ora che so più o meno come sono andate le cose. Solo che le sensazioni dentro di me non si collegano con la realtà. Avrei potuto fargli mille domande mille volte e non l’ho fatto. Mi sono paralizzato come un animale quando gli spari la luce contro. Confuso, incredulo, spaventato. Eppure ho avuto paura altre volte, nella vita. Solo che questo è diverso. Mi esalta. Mi fa sentire bene sapere che là fuori esiste qualcuno come lui e una parte di me non vuole che si riveli essere una tra le mille storie come la mia, quelli che hanno un gruppo rap, vanno sulla rambla a Barcellona perché la morosa li ha mollati e si sentono cittadini del mondo. Non voglio scoprire che è solo un disturbato mentale con il sussidio d’invalidità e la madre che lo cerca. Non voglio l’ennesima risata amara su uno che si crede Dio spogliandosi dietro i giornalisti TV. No, non è il tizio seduto là fuori a farmi paura. Mi fa paura quello che vedo nello specchio.

E ora che le carte sono tutte sul tavolo mi chiedo chi dei due dovrò affrontare dietro quella porta.

«Nebo, stavamo perdendo le speranze» dice Ale vedendomi arrivare.
«E’ che pisciare diventa complesso quando sei infortunato.»
«Qui stanno per chiudere.»
«Bè, mostrami la roba per cui siamo venuti qui, Ale.»
Mi indica con la testa le ragazze dietro di lui: «Le molliamo?»
«Se vuoi puoi pagare da bere a tutti e magari sei più a tuo agio» sorrido.
«Già fatto.»
«Ma scherzi? Son due discreti pezzi di fica, eh.»
Tituba.

«A patto tu non sia un mitomane squilibrato, in quel caso sono testimoni scomodi, ammetto.»
Mò vediamo come risponde.
[continua]

"Le donne sono tutte puttane", disse un ciccione in uno strip bar di Praga

A dodici anni t’accorgi che ravanare le tue parti basse scaturisce sensazioni magiche. Il tuo primo orgasmo autoindotto è una rivelazione. Capisci che per raggiungere il nirvana ti è necessaria una femmina disposta a praticare quest’arcano rituale con te. Da quel momento in poi ogni maschio del pianeta trova il suo scopo: inserire il pene all’interno delle donne. Il momento più buio è immediatamente successivo, quando apprende che lo scopo delle femmine invece è conosciamoci, parlami un po’ di te, ti vesti sempre così?”.

Perché?
Perché dev’essere così difficile?

Perché devo ascoltare le sue idiozie, se si gira in un attimo in due secondi abbiamo finito. Perché film equosolidali indipendenti? Perché le amiche? Perché tollerare i vaniloqui di questa psicopatica? Gli scarafaggi hanno risolto il problema, si sono fatti crescere un pene perforante con cui trafiggono le femmine nel petto sborrandole nell’utero dall’ingresso secondario. Allora perché io sono in piedi davanti a Max Mara da venti minuti?

Certo, se guardassero il nostro pavimento con il luminol chiederebbero il bombardamento aereo. Se la banca del seme paga davvero 40 euro a donazione le nostre mutande valgono come una Maserati. Ci laviamo i denti pisciando nel lavandino. Da quando abbiamo internet nel cellulare ci si secca la merda addosso prima di alzarsi dal wc per pulirla.

Ci regalano un orologio che si ricarica col sole, muore.
Ci regalano un orologio che si ricarica col movimento del polso, esplode.

Una ci racconta in lacrime che a tredici anni l’hanno violentata e ci viene duro. La nostra barra dei preferiti contiene gli stessi link che hanno trovato nel PC di Bin Laden. Ammorbidente, prelavaggio, centrifuga, pare un film di Lynch. Se non c’è nessun nostro amico nei paraggi al sesto mojito c’inculeremmo ciccione, trans, cessi, tutto. Battere sul tempo lo sciacquone è un grande traguardo. Ci annusiamo il cerume. Per ammazzare un ragno devastiamo la stanza con il lanciafiamme Badedas decorando le pareti di fiammate, incendiando abat-jour e rendendola inagibile dal tanfo. Lasciamo i cadaveri per anni, il salotto pare il set di Predator. “Curare il nostro aspetto” significa raschiarci via le croste dagli occhi, collezionare salsicce di pelle morta e stabilire l’usabilità dei pantaloni annusando la zona pacco. Ridiamo come scimmie coglionando Schettino mentre su una nave c’è gente che affoga nel buio. Il nostro contributo al pianeta è condividere su facebook. Rubacchiamo dove e quando possiamo perché “c’è di peggio”. Abbiamo manie e fissazioni da autistici. Socialmente ci stanno tutti sui coglioni. Viviamo nella nostra città da vent’anni e non sappiamo quali locali sono aperti, su Skyrim sappiamo arrivare a Markarth senza guardare la mappa.  Siamo un branco di falliti autoproclamatisi geni incompresi che quando vedono gente di successo spruzzano invidia od ostentano indifferenza posticcia. Onanisti del disfattismo laureati in sovranalisi con master in insicurezza.

Perché Cristina del Basso non vuole darcela?

 

 

Perché non sono ricco, ecco perché.

 

Dopo questo impeccabile esame di realtà iniziamo a cercare fiche stellari interessate a quello che siamo davvero, ossia una distorta utopia che mescola Bruce Willis a Dalì e Neo. Dopotutto siamo maschi eterosessuali che hanno un mac e leggono Repubblica, Cristo. L’ideale sarebbe una tizia con il viso da modella, il corpo da pornodiva ma di scarsa esperienza, con noi troia insaziabile e con il mondo donna pudica e monogama, priva di carattere ma in grado di farci fare bella figura quando parla.

Purtroppo, tutte le donne che troviamo sono affette da gravi tare mentali. Una ha tendenze paranoidi. Un’altra ha 25 gatti. Un’altra si droga da tutta la vita. Un’altra si eccita solo a farsi massacrare di botte mentre la strangoli. La cosa fastidiosa è che nonostante siano dei catorci mentali si mettono a criticare noi. Noi, che le abbiamo salvate dalla dannazione.

Troie.
Finalmente in un lap dance troviamo Anna Strapovinia.

È perfetta. Linee, proporzioni, pelle, viso, ogni millimetro è impeccabile. Tette di gomma. Culo di marmo. Quando va a posarsi sulle ginocchia di tutti i maschi presenti noi non lo vediamo, impegnati come siamo a guardare lo spacco, il tacco, la bocca. Arriva da noi, ha la pelle che sembra velluto. E’ amore. Ci parliamo per ore offrendole da bere, si instaura tra noi quella specie di magia che è tipica degli innamorati. Ci perdiamo l’uno negli occhi dell’altra: nessuna donna ci aveva mai guardati così, e se non fosse per quello stronzo del gestore saremmo rimasti qui a parlare tutta la notte, come due vecchi amici. Si chiama Svetlana. Ai miei amici ha detto un altro nome, segno che con me è diverso. Le chiedo se possiamo rivederci. Mi dà il suo numero di cellulare. Esco, tutti i miei amici sono infoiati come draghi e trapanano culi moldavi in puttan tour, ma io no. Io voglio restare puro, immacolato. Lei è il mio solo pensiero.

Ci vediamo il giorno dopo.
E’ ancora più bella, senza quei vestiti volgari. Mentre totalizzo 300 euro tra cena di pesce e champagne lei mi racconta della sua famiglia. Una storia straziante, intensa, altro che le stronze viziate qui in Italia. Andiamo a casa ed il sesso è stupendo, i nostri corpi reagiscono all’unisono, come se lei sapesse perfettamente cosa fare. Lei gode tantissimo, dice che ha avuto addirittura 72 orgasmi. Siamo perfetti. E’ la donna della mia vita. La sposo tre mesi dopo.

Un anno dopo lei ha la mia casa, la mia macchina, i miei figli e metà del mio stipendio. Dormo sul divano di un mio amico e non posso avvicinarmi a più di 500 metri da lei perché una volta le ho dato una spinta.

C’è poco da fare: le donne sono tutte puttane.

Dio mi è apparso in sogno, e portava con sé una torta al limone.



Riso in bianco. Insalata. Pollo. Olio centellinato. Burro d’arachidi biologico. Tabelle d’allenamento, massimali, percentuali, ripetizioni negative, superserie, serie a circuiti, tempi di recupero, picchi d’insulina. E’ difficile spiegare perché mi sto sottoponendo a tutto questo, visto che la mia vita sessuale è anche troppo soddisfacente. 

La vita me l’ha cambiata il lavoro manuale.



Quando stavo in falegnameria o in cantiere avevo delle soddisfazioni enormi. Arrivavano i camion con la legna, la segavamo, piallavamo, inchiodavamo e voilà: una settimana dopo vedevi uscire cinquanta armadi. Li avevi fatti tu dal niente, li conoscevi chiodo per chiodo ed erano un tuo piccolo parto. Lavoravamo dalle sei di mattina alle cinque di pomeriggio. In base a dove t’avevano messo sapevi cosa ti aspettava: scarico camion e seghe? Spalle e schiena massacrati. Pialla, verniciatura e cambio aspiratori? Braccia intorpidite che per farti una sega dovevi alternarli. La pausa pranzo durava un’ora, dalle 12 alle 13. Era un momento speciale. Pieni di fame, tutti appoggiati dove capitava, ognuno tirava fuori quello che aveva e mangiavi ascoltando le cagate di qualcuno a turno. C’erano polvere e segatura dappertutto, l’odore della legna, dolciastro e penetrante, era onnipresente. Fumavo Lucky Strike solo per non sentirlo. Dopo sei ore di quell’odore il profumo del cibo ti mandava in fibrillazione. C’era Giovanni, un vecchio artigiano, che si portava la gamella di acciaio con le robe preparate dalla moglie. Le scaldava con l’accendino, un vecchio Zippo della Marina militare. Mario aveva i Tupperware con robe salutiste dopo essere sopravvissuto ad un cancro all’intestino. Alessandro era il fighetto di turno ed aveva una specie di corredo da pic nic con tanto di posate di plastica e bicchierino. Christian mangiava quattro merendine ed un cappuccino solubile. Dopo pranzo fumavamo MS senza filtro prendendo il sole fuori in cortile.   In autobus al ritorno mi addormentavo, c’era una vecchia che si era affezionata a furia di vedermi isterico perché avevo perso la fermata. Ogni giorno, per due anni, mi ha sgorlato il bavero della maglietta quando eravamo in vista di Mestre. Ringraziavo e uscivo. Non ho mai saputo il suo nome. Quando arrivavo a casa avevo imparato a cambiarmi ma a non fare la doccia, perché rilassava i muscoli e crollavo addormentato alle otto prima ancora di cenare.

Poi le cose sono cambiate.
Il lavoro è cambiato.

Meno ripetitivo, più creativo, più rilassante, più sporadico. Le spalle allo specchio si sono abbassate, hanno smesso di essere aggressive. Le braccia si sono sgonfiate. Le gambe che una volta spostavano travi hanno cominciato a diventare molli e pigre. Non mi piaceva l’andazzo che stavo prendendo, così ho provato a fare sport. A basket sono una sega. A calcio non ne parliamo, manco riesco a guardarlo in TV. A rugby, col Mirano, ho fatto due mesi e poi ho capito che non faceva per me. Così ho scoperto i pesi, la sola cosa che somigliava al mio vecchio lavoro; sollevi oggetti fino a sfinirti, torni a casa, fine.

La palestra è un mondo esilarante. Ha una fauna tutta sua che va dal colosso imbottito di steroidi all’ultimo dei topi da ufficio che ti supplica di dirgli come perdere 80 chili in quattro settimane. La donna truccata con orecchini che se suda va a rifarsi il trucco, le amiche che cazzeggiano in attesa del rimorchio, il personal trainer obeso che pontifica sui benefici degli integratori. A me non interessava. Entravo, sollevavo cose, uscivo. Solo che dopo tre anni e mezzo qualunque cosa un uomo faccia si eleva. L’esperienza si forma in tutte le cose, dal pornodivo al barman. La prima volta è un disastro, dopo tre anni sei un artista. Così pian piano mi ha preso. Ho trovato un senso in tutto quel sollevare, una specie di disciplina catartica che il mio corpo associa ancora al lavoro manuale. Ogni giorno è un piccolo passo in più nel tuo piccolo mondo immaginario. Un po’ come un nuovo livello nei videogiochi. Son cagate ma ti danno soddisfazione, quando ci riesci. Più il livello è avanzato, più i progressi sono difficili – a patto tu non scelga di usare i cheats.


Ora sto ad una mia piccola sfida personale.
Solo che per ottenerla devo tenere sotto controllo un tale numero di variabili che ho la testa impegnatissima. Non come quando giocavo a Gothic 2, ma molto vicino. Mi diverte mettere alla prova la mia autodisciplina, il mio istinto e la mia capacità di sopportazione. Sto imparando molto di me, dei meccanismi inconsci che ho e di come il cervello tenti costantemente di raccontarmi palle. A volte ci caschi e ricominci a fumare, a volte tieni duro e passi impassibile davanti ad una pasticceria veneziana durante il carnevale. Il bello di tutto questo è che, per riflesso, mi fa scoprire nuovi lati delle persone che ho attorno.

Avrei novità da raccontare, ma devo pesarmi le proteine.
Vi lascio con Alexis Amore.