All posts by Nebo

Il volto di Internet è quello di un uomo nudo che si masturba pensando al diavolo


Se sei un laureato in filosofia i tuoi sbocchi lavorativi vanno dall’assaggiatore di veleno per topi al bidello precario. Questa cosa scoccia parecchio a quelle persone che si sono schioppate di ganja a spese dei genitori fino ai trentadue anni raccontandosi che stavano cambiando il mondo. Quando si trovano davanti al mondo del lavoro frignano a radio 24: “io sono una filosofa, perché questo stato non mi paga per pensare?”. Alcuni di loro entrano in politica fallendo miseramente, altri persistono nei loro sogni di gloria e s’inventano un’organizzazione umanitaria.



Cos’è un’organizzazione umanitaria?

E’ una crew di laureati in filosofia e scienze politiche che in teoria serve ad aiutare il terzo mondo, in realtà a mantenere loro stesse.

Funzionano grazie ad un problema di coscienza dei capitalisti che nella vita son diventati ricchi inculando gente. Una volta invecchiati hanno quel pelino di “se muoio e scopro che c’è l’inferno?”, così diventano ansiosi di fare qualcosa di buono. A quel punto arrivano le OU con la manina tesa, la foto di un bambino mangiato dalle mosche e gli domandano “ha un minuto per i bambini?”. Il vecchio sgancia milionate, loro incassano e fuggono. Non è una balla. Nei budget di queste organizzazioni meno della metà va in aiuti concreti, il resto mantiene personale, rappresentanze, viaggi, uffici, banchetti, cene sciccose, auto. Creare un’OU per farsi mantenere è una truffa talmente sdoganata che gli USA hanno dovuto creare degli organi di controllo, perché queste crew di hipster benefattori spuntavano come funghi alla porta di attori famosi, imprenditori e top manager con la telecamera, la foto dei bambini morti e la manina tesa.

A loro modo sono molto eco-friendly: riescono a riciclare anche i cadaveri dei bambini negri morti, basta stamparli in alta risoluzione.




Una di queste gang di rapinatori è Invisible children.

Il ministero degli affari esterni USA ha accusato Invisible Children di plagiare e distorcere i fatti sistematicamente. Il Better Business Bureau, ente che vigila sulle frodi, ha fatto presente che IC si guarda bene dal fornire i propri bilanci a differenza di tutte le altre associazioni. Il Charity Navigator – l’ente più importante che tiene d’occhio le associazioni umanitarie – gli dà due stelle su quattro nella scala della credibilità proprio per questo loro ostinarsi a non far vedere i soldi che entrano ed escono. Come dire “siamo un casino no profit, ma non potete verificarlo”.

Siccome qualcosa devono pur dire per loro stessa ammissione solo il 31% va in aiuti umanitari. Il restante 69% finisce nelle tasche di tre tizi (tre!) che li spendono in viaggi (un milione di euro solo l’anno scorso) ed apparecchiature per montare i loro filmini (oltre il milione, sempre solo l’anno scorso). Il loro ultimo prodotto è stato il video di 30 minuti KONY 2012. Ne abbiamo sentito parlare tutti quanti, credo. In sunto, dalle parti dell’Uganda c’è un negro cattivo e fanatico che recluta ragazzini drogandoli ed addestrandoli a uccidere per lui in nome di Dio.

Ok, anche in Somalia.

Ok, anche in Costa d’avorio.

Ok, anche in Congo.

Ma da qualche parte bisogna iniziare.




Quando il video esce è tutto un fiume di lacrime, il mondo si commuove straziato dalle note della musica del Gladiatore e molti inneggiano all’intervento armato per porre fine a questo genocidio. Internet non parla d’altro, la rete esalta il giornalismo indipendente e libero che “dice finalmente verità scomode” ed ormai “è più affidabile e professionale del giornalismo vecchio stile”. I giornali autorevoli si guardano bene dall’approfondire e replicano la notizia. Kony diventa un video virale. Il successo milluplica le donazioni sui conti correnti di Invisible Children, il che porta alla detonazione della fragile psiche del loro leader, Jason Russell. 






…Il quale, in preda ad un’incontenibile euforia, decide di uscire dal suo scantinato e svelare al mondo il vero volto della rete. Viene arrestato alle 11.32 di mattina a San Diego mentre deambula nudo, masturbandosi e percuotendo il pavimento tra un riferimento al diavolo e l’altro. 
Quello stesso giorno in Africa un console si sveglia, fa colazione ed accende il computer. Quando la casella segnala “679.776 nuove mail” rimane perplesso. Inizia ad aprirne a caso. Alcune sono insulti, altre minacce di morte, altre vaffanculi. Tutte in lingue che non capisce. Confuso, telefona in ambasciata americana, dalla quale rispondono che L’INTERNET E’ MOLTO ARRABBIATO CON LUI. Dall’Uganda il console fa un video comunicato dove spiega che Kony è uno sciroccato che vive nella giungla con una ventina di suoi adepti e che non se lo incula più nessuno da anni. Nella lista dei criminali sta al livello “ha rubato un pacchetto di Big Babol in tabaccheria”. Ma nessuno lo diffonde né lo commenta; non interessa più. Il popolo della rete è già altrove, a caccia di altre ingiustizie da svelare e condannare.



KONY 2012, il video che avrebbe 
salvato delle vite.








L’autore del video.

Camerati, riproviamo, stavolta con più brio

La fine della Lega va paragonata ad una bomba dentro un tombino di Calcutta. Tutto procede per il meglio: l’acqua è nel fiume, gli impiegati nei palazzi, le pubblicità sulle pareti e la merda sottoterra quando all’improvviso WHAM! La merda che tuo cugino ha cagato tre settimane fa decolla verso la finestra dell’ottavo piano, l’ultimo flusso mestruale di una tardona appare sul vetro di un’ape cross, la diarrea verdastra del chierichetto si fotografa sulla faccia di un cartellone pubblicitario. WTF, famiglia Bossi? Serviranno anni per pulire i residui di questa detonazione, ma ora le buone notizie: ne abbiamo trovati alcuni.
I lombardisti, o MNL, sono un movimento separatista il cui saluto è un modo brioso, accattivante e semi militaresco di fare gruppo. A voi verrà in mente la foto di Cristina Buonacucina di ritorno dall’Afghanistan.
Cristina-Buonacucina-sono-la-prima-donna-ferita-in-Afghanistan_h_partb

 

No.
E’ questa.

 

 

Il brio trasuda da tutte le parti. La tenebra che incombe da destra, il muro squallido da fucilazione alle spalle, la luce diafana, il blu tetro dell’uniforme, lo sguardo inflessibile, la bocca serrata, il pallore mortale ed il colletto sigillato mettono subito a proprio agio lo spettatore, che sulla sedia pregusta il momento in cui faranno irruzione gli infermieri, la DIGOS o un attore gay. Il protagonista specifica che non si tratta di uno scimmiottamento del passato, bensì di un modo spontaneo di fare squadra con “uno schietto e genuino sapore di militanza” [qui]

 

“Bella raga, ‘sta sagra è uno sballo”
E’ difficile stare a sentire cosa sostenga questo genio, perché è talmente innamorato della propria voce che per dire una cosa impiega lo stesso tempo che impiegherebbe Pannella a dire che ha sonno. Ai sempliciotti come me che hanno visto il Dottor Stranamore e credono lo “Hitler gruB” sia, come dice il nome, il saluto di Hitler, spiega che in realtà “è un saluto antichissimo che risale al medioevo germanico in cui i guerrieri salutavano il proprio re e che poi è stato ripreso dai nazisti, ma dai nazisti non è stato inventato”.
Perdìo, questo cambia tutto.
Trovo straordinario come i fanatici abbiano bisogno di attingere a roba del passato, vera o presunta che sia, per giustificare le loro più squinternate convinzioni. Nazismo, fascismo, la lega, le religioni, tutti sostengono di avere origini antiche ed eroiche per legittimare il loro disperato desiderio di isolazionismo che di solito termina con un foglio sul viso, le manette ai polsi ed uno stormo di fotografi romani che scattano ridendo. Qualunque persona normale sa che non importa se ti rifai ad un’idea del passato, se la stessa cosa l’ha già fatta qualcuno ed è venuta una merda tu sarai bollato come emulatore di una merda, non del passato. Certo puoi sperare che i tuoi seguaci non conoscano Adolf Hitler, ma questo ti renderebbe il leader degli scartati ai provini del Grande Fratello.
Andiamo avanti.
Dopo il saluto, la divisa. E’ costituita dalla camicia blu mestizia che il nostro eroe definisce “plumbea. Colore spartano, prussiano, militaresco, razionale, freddo, emblema di ferrea volontà”. Vi faccio un esempio di neo nazismo con e senza marketing nel 2012:

 

CON

 

SENZA

 

 

Il paradosso è che risultano entrambi esilaranti.
Sulla camicia plumbea il nostro spiega il significato delle patacche appiccicate sopra. Sul cuore troviamo la croce celtic lombardista, di cui non esiste traccia in alcun documento se non nella sua mente debilitata. A destra quello che pare la bandiera della Roma rappresenta il simbolo del cantone bergamasco. Sul braccio ecco una cara amica: l’aquila imperiale germanica della mitteleuropa, a cui – sempre secondo lui – la lombardia appartiene. Voglio focalizziate bene questo punto: la lombardia tedesca. Se andassi ad un aperitivo milanese e mi mettessi ad urlare “dovete diventare tedeschi!” troverebbero pezzi di me a galleggiare nei navigli, ma magari conosco i milanesi sbagliati. Gran finale sull’altra manica, dove appare il bisun viscontero, per quelli che proprio non sono stati attenti fino all’ultimo e l’avevano scambiato per una comparsa di Schindler’s list. Il resto è composto da una cintura nera, due pantaloni da lavoro neri e naturalmente di due – lustri! – anfibi neri, che non sono AS-SO-LU-TA-MEN-TE nulla di nazistoide, spiega, ma sono il completamento ideale di una divisa.
Bene. Ma di preciso, che vuole? Innanzitutto precisa che loro non sono un partito bensì un movimento (va un casino di moda, tra i pazzi) e non fa politica, ma cultura e movimentismo.

 

“WAS?”

 

. Movimentismo.
Dev’essere tipo la movida dei manicomi.
Mantenendo l’eloquio soporifero di un politico anni ’50 conclude l’intervento spiegando che loro vogliono solo la difesa e la salvaguardia del sangue e del suolo arian lombardo e lo faranno tra la gente, non da cattedre di tromboni che parlano come politici anni ’50. Su Youtube tra i pochi commenti appare una domanda: le donne possono entrare nel movimento?
Allacciate le cinture.

 

Dopo un prologo di un minuto e quindici secondi dove spiega che le donne sono importanti, che i lombardisti non vogliono relegarle in casa e sono ben consapevoli del loro ruolo societario (uh?) eccolo partire con il punto cruciale: come vestirle. La voce si fa spezzata, più alta, le sopracciglia viaggiano in un’apertura d’amore. Le divise saranno diverse, spiega, perché il ruolo dell’uomo e della donna sono diversi. Quindi dalla camicia blu desolato passiamo ad una camicetta bianca a maniche corte, abbinata ad un foulard rosso (niente plumbeo spartano, la fica in rosso spacca), una cintura, una gonna di media lunghezza nera, calze nere ed un paio di scarpe nere dal tacco moderato. Vediamo il risultato.

 

Non ho la sciarpa, ma le mutandine sono rosse, capo

 

La cosa deve pigliarlo bene, perché dopo questa attenta descrizione è costretto ad asciugarsi la bava (qui). A quel punto spiega che non vede l’ora le donne si presentino a fare tutto quello che il movimento lombardista chiede loro di fare per il benessere loro e del popolo lombardo. Questo cazzo non si succhierà da solo, tesoro.
Sul loro sito trovo i punti del loro programma, che va oltre ogni immaginazione. Va dalla difesa etnica del popolo lombardo, niente cazzi negri nè passere sudamericane, al radere al suolo qualunque forma di civiltà riportandola al medioevo coi carri, gli aratri e le capanne di pietra e fango, fermando la cementificazione selvaggia che tanto nuoce alla vita umana con eresie tipo autostrade, ospedali, condomini. Non manca il punto della lingua, ovviamente. E’ d’uopo ripristinare la lingua di mezzo secolo fa togliendole 500 anni di “oppressione linguistica fiorentina” e ripulendola “dalle ridicole toscanizzazioni degli ultimi tempi”.
E’ straordinario come questa gente riesca ad inimicarsi le regioni culturalmente più potenti della terra in così poco tempo.
A seguire, tradizioni lombarde a rotta di collo. La loro indole è “laboriosa e fedele”. Sognano una Contea dove le donne non guardano le spalle del vicino di casa, dove tutti lavorano quanto te, dove nessun futuro ignoto minaccia il tuo insicurissimo presente e gli aerei non possono volare nel tuo spazio aereo.
Conclude dicendo cacca della globalizzazione ed auspicando un futuro sotto la solida guida di un’Europa dei Popoli – cito sempre – fiera e emancipata che sappia essere faro di civiltà per tutto il pianeta.
Su Facebook il gruppo dei Lombardisti piace a 189 persone, tutte accuratamente schedate dai carabinieri. Tuttavia a guardare la cronologia del loro canale su Youtube noterete che ad ogni nuovo filmato c’è una minuscola differenza.

 

Recensioni d’arte per hipster del 2300 d.C.

“Dualismi irrisolti”, Italia, 2011, autore ignoto
In quest’opera è lampante come il talento dell’artista emerga.

Le casse d’acqua frizzante su cui è seduta la donna sono una rivisitazione giovane della simbologia cristiana, il Gesù che cammina sulle acque. Citazione trendy che non mancherà di soddisfare i palati più intellectual. A destra la colonna è dipinta con un delizioso spatolato rosa modello miseria proletaria fine 2000, dove la pigrizia del pittore si mescola alla sua presunzione di sentirsi moderno ed alternativo grazie a riviste di bricolage redatte da persone che oggi consideriamo “donatori di organi coatti”.

L’artista ha voluto guardarla con noia e distacco.

Subito sotto, attenzione a cogliere il continuum temporale, un paio di scarpe da ginnastica messe di sbieco, a cui le scarpe della modella – più larghe di due taglie, probabilmente della madre – si affiancano come a volere trasmettere un susseguirsi di eventi fondamentali, ma ciclici. E’ il dramma della monotonia familiare. A sinistra, invece – e qui la genialità dell’autrice – vi è un futuro squilibrato a cui la modella è costretta a dare le spalle. Avanza una vecchia che tenta ancora di essere avvenente indossando una tigre scuoiata ed altri stracci immondi considerati sexy nei primi anni ’80.

Ovvio il riferimento alla vecchiaia che blocca l’uscita verso la luce, verso il futuro sereno di quella sedia di plastica irradiata dal sole. Notate inoltre le didascalie: quel “io puo” che vuole rompere le regole, imporsi sulla scena, con un urlo di autoproclamazione che nonostante tutto cade nel silenzio, sfumando dal rosso e perdendo lettere – e voce – nello spatolato.

Prezzo: 47.000 euro

“La domanda di Amleto”, Italia, 2010, autore ignoto
In quest’opera va valutata nuovamente l’inclinazione dell’obiettivo, che assieme alla posa plastica della modella crea un dinamismo iconoclasta.

Da notare la gestualità teatrale delle mani, chiaro riferimento al celebre monologo dell’Amleto di Shakespeare, che però mostra due sole dita con le nocche rivolte verso lo spettatore. Sebbene alcuni critici affermino si tratti di spasmi, il significato è volutamente ambiguo; da un lato esprime un desiderio di rinascita, dall’altro tenta di demolire gli antiquati cliché del passato e di riappropriarsi della propria essenza. Il colore viola infatti è da sempre stato considerato sfortunato nell’ambiente teatrale. Non è un caso che essa ne sia ricoperta, mentre con sguardo vitreo bacia il – mancante – teschio che nell’Amleto era appartenuto a Yorick, buffone del Re, forse addirittura in un parallelismo con il mondo dell’intrattenimento.

Le parole vergate con un fine stile che ricorda il fumetto anni ’80 cadono sulla modella, fondendosi alla sua aura, esprimendone i più profondi pensieri: un discorso ripreso con qualcuno, forse lo spettatore stesso, che terminano bruscamente, interrotti da sentimenti viscerali. Il blu esprime l’esteriorità della ragazza, o la sua incapacità ad usare il Paint di Windows. Non più l’autoproclamazione della propria femminile intimità, ma un attacco verso la società corrotta che opprime la sua anima ribelle.

Le lettere si perdono vicino al ritratto del bambino, quasi invisibile, che rappresenta gli occhi di ognuno di noi.
Prezzo: 32.500 euro

 

 

 

“L’uomo casertino”, Italia, 2010, autore ignoto
Quest’opera, definita da molti critici “la nuova Gioconda”, è uno dei maggiori punti di riferimento dell’avant guarde italiana di fine millennio.

Alcuni sospettano vi sia un riferimento all’opera del Da Vinci, sebbene manchino prove tangibili. La fronte del soggetto, ove risiede il pensiero, è coperta da un’impenetrabile coltre di capelli di chiaro taglio medioevale. Nessun raggio di luce può entrarvi, né riflesso (o riflessione, arguto gioco di parole) può uscirne.

Geniale l’orecchino di plastica ad indicare la preoccupante condizione degli omosessuali d’epoca.

Il naso indica un carattere altezzoso, di retaggio nobile, borbonico, subito addolcito dalla mascella sfuggente e dal taglio femmineo delle labbra piegate in un’espressione bovina. Ciò suggerisce una generazione lobotomica straziata dalle diatribe politiche (l’inclinazione a destra della testa sfugge ai più) ed incapace di assumere un’identità/ruolo all’interno della propria società.

Il bagno di casa, nello sfondo, viene trasformato in pixel, simbolo supremo della prima era digitale. E’ dunque in una sorta di bagno cibernetico che i ragazzi dell’epoca risolvono sé stessi, masturbandosi nell’afrore dei propri peti ed urlando al mondo la loro non-vita dai terminali. La didascalia rinnova la provocazione dell’orecchino: azzurro e rosa nello stesso soprannome, straziante dualismo maschio-femmina che strugge la sessualità dell’autore. Le parole “tossikello minimale” aggiungono drammaticità, sentenziando la dipendenza dalle droghe e dal divertimento, citando il famoso detto di Huxley “un tempo la religione era l’oppio dei popoli, ora l’oppio è la religione dei popoli”.
Prezzo: incalcolabile

Capitolo 9 – La fine

[06. Presagio]- [07. Da questi silenzi] – [08. Punto di rottura]

Poche cose comunicano “levatevi dai marroni” come le luci del banco che si spengono assieme alla musica. Appena fuori dal locale ci piomba in testa il caldo soffocante di una Bologna svuotata. Somiglia al paese dei balocchi dopo mezzanotte: rimaniamo noi quattro, pochi ubriachi ed una pattuglia che passa con il braccio fuori dal finestrino senza degnarci di uno sguardo.

«Mi sa che s’è fatto tardi» suggerisce Nadia all’amica.
«Vi accompagnamo, dove state?»
«Uhm, non serve»
«Abbiamo la macchina, se siete lontane» insisto.

L’idea di prendere un autobus alle quattro e mezza di mattina, a Bologna, non è il massimo. Acconsentono con malcelato disagio, penso preoccupate dal momento in cui partirà il ballo del “grazie ma non entrate a scoparci, addio”.

«Siamo subito fuori dalle mura»
«E’ lontano?»
«Un po’» ammette Chantal «dove avete l’auto?»
«In un parcheggio privato qui vicino, son due passi»
Acconsentono.

Ale s’è fatto taciturno, così i nostri passi sul pavè suonano amplificati come cannonate. Dovrei sforzarmi di tenere un po’ alto l’umore, ma ridotto come sono non mi viene in mente niente da dire e non ho idea cosa ci aspetti, quindi sono teso. Per fortuna Chantal farnetica cazzate su un suo amico e crea un piacevole sottofondo. Attraversiamo portici, un costante cielo di pietra sopra la testa che complice l’afa aumenta l’idea di claustrofobia. Giriamo l’angolo per il vicolo da cui siamo venuti e vediamo alla fine un furgone in doppia fila da cui due tizi scaricano casse. Sono due cinesi, vanno e vengono senza dire una parola. La camminata è lunga, fino a loro, così ho il tempo di studiare gli intervalli. Stanno dentro il negozio per un minuto e mezzo abbondante. Ale fa per passare dall’altra parte del marciapiede, ma io son curioso e vado dritto.

«Nebo, resta in compagnia» fa Ale.
Lo ignoro.

Quando arrivo i due sono appena rientrati. Mi fermo a guardare gli scatoloni, la solita straccivendoleria di jeans truzzi. Nel furgone non c’è nessuno. Chantal, Nadia e Ale rallentano. Mi guardo attorno; Bologna è diventata un cimitero, poca luce e nessuno in giro. I miei pantaloni fanno schifo, rotti su due punti all’altezza della coscia e macchioline dei miei globuli rossi ormai ossidati e marroni. Da dentro il negozio provengono rumori di cartoni tagliati. Ci penso un secondo, poi allungo le mani e afferro il primo paio di jeans che mi capita, un rotolo tra i rotoli tenuti con lo spago. Faccio tre passi svelti e raggiungo il gruppo.

«Cos’è quella roba?» fa Chantal.
«Ehm, un paio di pantaloni di scorta, non so se noti come sono presi i miei»
Le ragazze scoppiano a ridere. Ale si gira, gli occhi conficcati nei miei: «Come “pantaloni di scorta”?»
«Dopo la camicia hawaiana a Jesolo mi viene facile»
E’ bloccato. Guarda alle mie spalle, rimette gli occhi nei miei: «Li hai presi da quelli?»
«Ssssì, magari se non ti metti a urlare e ce ne andiamo»
«MA SEI COGLIONE?» sibila a denti stretti, strappandomeli di mano.

Sono confuso.
Le ragazze ammutoliscono.

«Ale, son due jeans da cinesi, varranno sì e no due euro» dico, cercando di prenderglieli.

Dò un primo strattone, ma lui non molla. Alzo gli occhi su di lui e come per incanto monto i pezzi. La botta di alcool, ematomi, dolore, ricordi, down da bamba, scompaiono. Scompaiono le ragazze. Scompare Bologna. Scompare la Gioia e scompare la Miriam. Ogni pelo del mio corpo si drizza, la percezione telefona al cervello latrando, il cuore spara tutta l’adrenalina che ha a disposizione ed in quella piccola frazione di secondo realizzo che ho fatto una cosa talmente idiota, talmente stupida, da essere impensabile. Bulgari. Una settimana lì davanti. Il nome falso. Treviso. Il gestore Tony M, figlio di quel M., col negozio in piazza Ferretto. Il pacchetto di sigarette. Jesolo, poi subito Bologna, il locale esattamente all’angolo, la chiacchierata col gestore e “la cosa che doveva farmi vedere” ce l’ho sbadatamente in mano.

Pesa troppo.
Un po’, non tantissimo, ma abbastanza da non essere solo un paio di jeans.

Riesco solo a dire una parola, che ricordo dentro di me come un guaito strozzato: «Bulgari?»

Ale pallido mi strappa di mano i jeans, si gira verso due tizi sbucati dall’angolo che ci stanno correndo incontro, quando le ragazze fanno la cosa più ovvia: gridano e scappano. Alessio grida qualcosa con le mani in alto. I due sono uomini sulla quarantina, cinesissimi, vestiti della loro roba, con una combinazione di occhi e corsa che non avevo mai visto in un uomo, prima. A cinque metri Ale sta ancora parlando quando uno dei due tira fuori un coltello. Ci giriamo sui tacchi e scattiamo appena in tempo prima che ci prendano. Butto per terra i jeans e corro con tutta la forza che ho. Le ragazze e Ale corrono con me. Una perde le scarpe. Della corsa mi ricordo il senso di disperazione, di terrore assoluto nel trovarmi in un luogo sconosciuto, ostile, inseguito da gente che mi vuole fare la pelle per davvero. Non botte, morte. Quella con i medici che ti si accalcano sopra e tu che non senti niente, con la bara e i parenti in lacrime, l’articolo sul Gazzettino e i commenti sotto.

Quella.

Una urla “aiuto”. Nello scatto la differenza di anni ci dà un vantaggio di qualche metro. Cinque, poi dieci, ma stanno sempre lì dietro. Attraversiamo un marciapiede e corriamo giù per il parcheggio aspettandoci di trovare il guardiano, ma non c’è. La cabinetta è vuota. Illuminata, col televisore e le telecamere, ma nessuno dentro. Facciamo la discesa con quelli dietro che gridano nella loro lingua, con la coda dell’occhio ne conto quattro. Il secondo livello ha una macchina che sta partendo, le corriamo incontro ma quello dentro appena vede spuntare Chinatown alle nostre spalle ci schiva e accelera. C’è una porta antincendio. Si apre al primo colpo. Entriamo, chiudiamo e teniamo ferma la maniglia. Due secondi dopo arrivano strattoni forti e ripetuti. Le ragazze piangono, Chantal è in crisi isterica, io tremo come una foglia. Nessuno dice niente. Aspettiamo. Ogni tanto qualcuno dà un altro strattone, a cui seguono strilli delle ragazze. Dopo minuti che sembrano un’eternità gli strattoni cessano.

Sto fermo immobile, con le orecchie attente.
Sono fuori che parlano.

«COSA VOLETE?» urla Nadia «ANDATE VIA!»
«CHING CHONG WANG DENG POTATO»

Dall’esterno, qualcuno tira un pugno alla porta.
Silenzio: «Dì, era questo che volevi mostrarmi?» chiedo «guardami»

Si gira, trasognato. Mi fissa un attimo, fa scorrere gli occhi su di me, torna a girarsi.

«Te quelli li conosci, vero?»
«Io? No!»
«EH, NO»
Da fuori provengono rumori incomprensibili.

«La mano, Nebo» fa lui.
«Che mano?»
«La tua. Perdi sangue.»

Guardo.
Oh, ma dai.

Ho l’avambraccio destro completamente coperto di sangue. I miei mi hanno insegnato che non importa quanto sembra brutta una ferita, finché non è pulita. Ingoio il panico, indago. E’ un taglio lungo, verticale, che attraversa le vene per lungo. Esce piano, rosso intenso. Se era un minimo più profondo ero fottuto. Inizio a chiedermi quando e come me lo sono fatto, poi ripenso a come sono iniziate le cose. Il primo Bruce Lee mi ha quasi preso. Cerco di non pensarci e mi concentro. Dovrei pulirla, disinfettarla e fasciarla. Mi guardo attorno, ci sono solo moci, stracci e ciarpame. Non è il caso di pulire una ferita con stracci luridi. Mi ciuccio lo spazio tra il pollice e l’indice della mano sinistra, lo tendo e lo faccio scorrere piano sulla ferita. Per un attimo non succede niente, poi il sangue ricomincia ad uscire. Chiedo alle ragazze se hanno dei fazzoletti, una mi allunga un Kleenex. Ce lo premo contro. Guardo sperando le macchie di sangue non arrivino all’ultimo strato. Una macchiolina, due, due e mezzo. Ok, non è profondo. Sto con la mano premuta contro il braccio, in attesa. Le ragazze si ripigliano un po’, provano i cellulari. Niente. Ale fa lo stesso, poi io, con il medesimo risultato. Non c’è compagnia telefonica che tenga sotto il cemento armato.

Ale appoggia l’orecchio alla porta.
Provo io. Niente, nemmeno un fruscio.

«Forse sono andati via» dico.
«Forse.»
«Proviamo ad aprire?»
«NO!» urla Nadia, scattando in piedi «NON APRITE!»
«Solo una fessura per vedere!»
«E se ci stanno aspettando?!»
«Non è detto che sappiano che questo è uno sgabuzzino» fa Ale «magari credono che abbiamo chiuso una porta e siamo scappati via da un’altra.»
Il discorso fila.

«Che alternative abbiamo? Restiamo chiusi qui dentro?»
«Arriverà qualcuno, siamo in centro Bologna. Poi che abbiamo da perdere?»
«Non so, Ale… tutto?» dico.
«Tipo? Che ha di tanto importante la tua vita, Nebo?»
Oh Cristo.

«ME L’HA FATTA LA MIA MAMMA E CI TENGO, VA BENE, FLIPPATO DI MERDA?»
«Ok, ok, aspettiamo» fa spallucce Ale.

Guardo l’ora. Le quattro e un quarto.
Quando la riguardo sono le quattro e mezza.

«Sono andati via, dai» dice Ale.

Anche l’adrenalina ha lasciato il posto ad una specie di incubo claustrofobico. Non ci sono parole adatte per spiegare cosa si prova ad essere blindati dentro un sotterraneo con il terrore qualcuno sbuchi e ti accoltelli. Mi sento come se qualcuno mi avesse catapultato in terza media, quando la professoressa d’italiano spiegava il minotauro nel labirinto. Stranamente siamo tutti apatici, quasi assenti. Quando c’è troppa tensione per troppo tempo la gente tende ad astrarsi dal contesto, come se non fosse davvero lì. Le ragazze parlottano tra di loro, stringendo il cellulare come se fosse un crocifisso. Prendo uno scopettone a mò di arma e mi sistemo dietro di lui. So che è ridicolo, ma non ho idee migliori. Ale mette la mano sulla maniglia e si volta a guardarmi. Le ragazze trattengono il fiato. Annuisco e sposto lo sguardo verso la porta. Che non si apre.

«…mbè?» dico.
«Ci sto provando» fa lui «è bloccata»

Provo io. La maniglia non scende di un millimetro. Rompo gli indugi e dò una spallata. Tutti gli ematomi che ho in corpo urlano all’unisono, facendomi quasi svenire dal male. Caccio un gemito.

«CI HANNO CHIUSI DENTRO?!» sbotta Nadia.
«Meglio, meglio, tranquilla» dico.
«COME MEGLIO?!»
«Per me è arrivato qualcuno e son telati. Oppure davvero hanno pensato ci fosse un’altra uscita. L’unica cosa che conta è che non c’è più nessuno. Siamo in un parcheggio, no? Prima o poi passa qualcuno, facciamo casino e ci aprono»
«IO VOGLIO USCIRE ADESSO! APRITE LA PORTA!»
«ZITTI!» fa Ale.

Diventiamo tre statue di sale. Fuori sentiamo il motore di una macchina che passa e parcheggia in fondo. Sempre in silenzio, aspettiamo. Il motore si spegne. Pausa eterna, poi una portiera si apre. Altra pausa eterna, poi si richiude.

«Sono loro?»
«Dopo un’ora che stiamo qui? Non credo»
«Se hanno chiamato gli amici?»
«Aridagli. E’ un parcheggio, mica un quartiere del Bronx»
«A che ora apre?»
«E’ sempre aperto»

Aspettiamo. La gente fuori si avvicina. Si fermano davanti allo sgabuzzino. Sento le gocce di sudore che mi scivolano giù per la schiena. Da fuori si sente uno schiocco, poi la porta si apre di scatto. Le ragazze urlano. Io urlo alzando d’istinto lo scopettone che disintegra la lampada al neon facendomi piovere vetri e scintille sulla testa. Ale cade all’indietro.

 

 

 

 

L’Arma dei carabinieri è così chiamata perché è la prima arma dello Stato.

In realtà si dovrebbe dire “l’arma degli Alpini”, “l’arma dei bersaglieri”, “l’arma dei lagunari” e così via. L’Arma è la prima perché è più vecchia dell’Italia stessa. In questo caso il rappresentante dell’Arma è un brigadiere quarantenne, accento barese, pancia prominente, cappello malmesso ed ascella pezzata che con occhio sbarrato e voce imperiosa domanda cosa cazzo stiamo facendo. L’altro è un appuntato scelto sulla trentina che dopo un’occhiata capisce che non dovranno sparare e dedica la sua attenzione a quello che fino a prima aveva bloccato la porta: un bancale.

In pratica i chinaboys ci avevano inseguito per insegnarci il segreto delle katane, sì, ma forse avevano già pensato di desistere quando siamo entrati nel parcheggio. Quando ci siamo barricati hanno capito che serviva troppo tempo e han lasciato perdere, o forse hanno pensato davvero fossimo scappati da un’altra uscita ed hanno bloccato la porta per evitare tornassimo indietro. Non lo so. Il bancale l’han preso dall’angolo dove sono ammassati mattoni e attrezzi per una qualche ristrutturazione.

Mentre tutto questo accadeva il portiere del parcheggio è tornato al suo posto e s’è trovato sugli schermi delle telecamere una specie di assalto medioevale, così ha chiamato il 112. Al loro arrivo di Feng Dong e famiglia non c’era più traccia.

La benemerita prima domanda se ci serve un’ambulanza, poi prende i documenti e domanda cos’è successo. Quando spieghiamo l’accaduto chiamano un’altra auto e ci portano in caserma dove ascoltano tutta la storia fino alle sette e un quarto di mattina dopo avermi offerto un ettolitro d’acqua ed una sigaretta. Chiedono se i lividi me li hanno procurati gli aggressori. Dico di no. Ale è una specie di imprenditore professionale e tranquillo che spiega punto per punto l’accaduto, evitando di menzionare che tutto è partito dal mio furto. Le ragazze non so se siano più spaventate o stravolte, ma confermano qualunque cosa intramezzando la deposizione con decine di “ora perfavore possiamo andare a casa”.

Quando se ne vanno non ci guardano né salutano. La versione finale, riletta e firmata alle sette e trentasei di mattina, in una città come Bologna barcolla ma sta in piedi. Strette di mano, frasi di circostanza, tanti saluti.

Quando usciamo dalla caserma il sole è già alto. Le strade sono piene di scooter, autobus, macchine e studenti che ciondolano tra biciclette e bar. Il caldo e l’umidità sono opprimenti, ma il mio corpo ormai è entrato in quella fase di torpore dove dolore, carenza di sonno, caldo, disidratazione e fame sono un pulsare sordo. Ale si accende una sigaretta.

«Quando sei andato in bagno hai telefonato alla Gioia, vero?» chiede.
Annuisco. Stiamo zitti a guardare il traffico.

«Perché?» domanda.
«Perché ero convinto volessi ammazzarmi. Tanto pazzo già lo sei e non lo dico per scherzare, Alessio. Tu hai problemi di testa. Sei malato.»
«Addirittura.»
«Se fossi in uno stato migliore di gonfierei di botte. C’è UNA cosa vera di tutto quello che mi hai detto?»
«A te quasi tutto. Alla Gioia quasi niente.»

«Va bene. Ora la domanda più importante» faccio, ma mi interrompe con la mano.
«Ti va un caffè?»

E’ di nuovo lui. Splendido, allegro, cordiale. Una notte come questa e lui si comporta come se fosse il suo primo giorno di ferie. Entriamo in un bar anonimo, ancora discretamente pieno, dove ricevo la solita salva di sguardi incuriositi e preoccupati. Divoro tre brioches, bevo due bicchieri di latte ed un cappuccino.

«Ti ricordi Gianandrea? Quello grasso, in classe con noi? È stato lui a dirmi di te. Non ci credevo che eri finito a fare il barista, così sono passato a vedere. Un pomeriggio. Eri proprio tu, facevi il brillante con due turiste. Così sono andato anche a vedermi la tua ex.»
«E che ne sapevi?»
Ale tossisce il caffè: «A MESTRE?! Figa, mezza piazza non parlava d’altro!»
Su questa città puoi sempre contare.

«E in un moto di filantropia hai deciso di scopartela» concludo.
«Non davvero. Volevo solo capire com’era»
«Questa è una stronzata grande come una casa»
«Va bene, una botta glie l’avrei data volentieri»
«Non sei pratico di donne normali, ah?» sogghigno.
Abbassa gli occhi.
Bèh.

«Tu eri innamorato?» chiede.
«Arriviamo al punto, Alessio.»
«Che punto? Semplicemente ho deciso di passare una serata con te.»
«Ma perché tutto quel teatrino?»
«Non ho fatto niente, a parte fingere di essere lì per caso e di non conoscere la Gioia. T’ho solo fatto vivere una delle mie notti. Coi suoi imprevisti.»

«Tutto qui?»
«Tutto qui.»
«Ma… ma perché?!» quasi grido.
«Perché cosa?»
«PERCHÈ CHE CAZZO VUOI, PER ESEMPIO?»

Sul viso gli si dipinge un sorriso amaro. Rigira la tazzina vuota: «È che… Sai, c’è una specie di legge incorruttibile che svilisce la vita nella rassegnazione. Io la vedo così. È un discorso che passati i sedici anni va evitato come la peste, ma c’è. E’ facile saltarlo, per fortuna. Alcuni usano la bamba, altri la TV, altri
La musica, ride Gioia, a letto.

il cinismo. E’ bellissimo, il cinismo; è lo strapon degli impotenti. La rassegnazione più patetica diventa una Ferrari da esibire agli amici. Tu mi dai l’idea di uno che s’è perso, non sa dove o quando ha sbagliato strada ed è incerto se valga la pena tornare indietro a cercarla o restare
Sul soffitto come quella mosca, mormora lei, nuda, stiracchiandosi

.

dove sei. Ti aiuto: hai iniziato a sbagliare quando ti sei messo in testa di guadagnare tempo. Nel tuo cervello s’è creata la convinzione che si impiega meno tempo a criticare l’autostrada che a costruirsi un sentiero, così ti dedichi a far canzoni contro tutto e tutti e sei felice così. Hai vent’anni e già vivi rimpiangendo non si sa quali bei vecchi tempi.»
Il volo per te è un sogno che è bene rimanga tale, dice.

E’ che il tempo ti frega. Non ne guadagni, anzi. A furia di guardare indietro lo perdi a prendere una rincorsa troppo lunga che poi non avrai tempo di ripercorrere. Tempo per il lavoro, tempo per la famiglia, gli impegni in società; sono giustificazioni rispettabili, per l’amor di Dio. Scelte plausibili. Vite credibili. Ma ti fregano. Sai quanti scelgono di essere i bravi, buoni ed onesti cittadini che pagano le tasse? Nessuno. E’ solo che sono troppo codardi o pigri per essere altro. Quando hanno rigurgiti di coscienza dicono “ah, un giorno rapino una banca”, “ah, un giorno mollo tutto e apro un chiosco ai caraibi” ma mica lo fanno. Nella vita bisogna essere prudenti, rispettabili, accettati dalla propria comunità. Trovare il tempo, vagliare le ipotesi, studiare con attenzione. Cosa ne pensano i tuoi amici? E i tuoi ex compagni alle cene di classe? E i tuoi genitori? Per accontentare loro, puf! E’ passato troppo tempo per fare qualunque cosa. Hai fatto il bravo, sei stato buono, hai messo la testa a posto e ora quando ti chiedono “come stai” non è che stai male»
Non è che stai bene, dice a un centimetro dalle mie labbra.

«È solo che non te ne frega più niente» completo io.
Alessio mi guarda: «Ecco. Volevo sapere come stai.»
Mi aspetto grandi cose da te, Nebo, sorride Gioia.

Scendo dal treno a Mestre che è mezzogiorno. Faccio fatica a stare in piedi. Mi siedo da McDonald, prendo un McMenu e chiamo Ario. Mezz’ora dopo vedo il primo volto amico da tanto tempo spuntare dalla porta, unico momento in cui l’ho visto serio e preoccupato davvero per me. Chiede se voglio andare in pronto soccorso, rispondo che voglio solo dormire. Dall’arrivo a casa in poi non ricordo niente. Dodici ore filate di sonno nero senza un sogno, un inizio o una fine.

Alle sei e mezza del giorno dopo mi sveglio, faccio la barba, metto la camicia bianca a maniche corte, i pantaloni, le scarpe e mi dirigo verso il bar. Cammino guardandomi attorno come se vedessi questa città per la prima volta. All’arrivo trovo Miriam che sgrana gli occhi e mi tempesta di domande sulle mie precarie condizioni fisiche. Svicolo. Prendo gli ordini, servo caffè, toast, spremute, succhi di frutta col pilota automatico. Sbaglio una comanda su due, così dopo mezz’ora la padrona ha pietà di me e mi dà la giornata libera.

A casa chiamo il dentista per un appuntamento, poi entro in uno stato catatonico. Sto seduto sul divano ad ascoltare i rumori del traffico guardando il cellulare. Dovrei chiamare Gioia. Dovrei fare la lavatrice. Dovrei farmi da mangiare.

Quando scoppio a piangere il groppo che ho in gola è così doloroso che ho paura mi spacchi la trachea.

 

Epilogo

 

A parte certi addii al celibato, è raro una notte ti cambi la vita. A me è successo. Tutte le più semplici convinzioni su cui si poggiava la mia esistenza crollarono. D’inverno, tornato a Trieste, guardavo i miei coinquilini dell’università e mi sentivo un estraneo. Il dente e i lividi guarirono a rilento. Sui palchi, mentre cantavo, ho iniziato a chiedermi se ero lì per scelta o per paura e la risposta non fu delle migliori. Nello stesso anno il mondo cambiò per i fatti suoi. Iniziava l’era del terrorismo internazionale, delle guerre in medioriente, del collasso dell’economia globale, la crisi, l’anticrisi. Lo vedevo cambiare dalla televisione defibrillando gli ultimi brandelli di me tra le gambe di una donna che amava un Nebo che non c’era più.

Un giorno ho deciso che non potevo andare avanti così e che forse era troppo tardi, ma anch’io volevo fare qualcosa di me stesso. Oggi faccio salti mortali per scrivere su qualunque cosa mi pubblichi e pian piano sto riuscendo a non tirare indietro il culo, anche grazie a gente che ha creduto in me – e ancora lo fa.

Miriam s’è sposata, ha fatto un figlio ed è sparita non so dove.
Gioia fa la commessa in aeroporto. Ogni tanto ci sentiamo.

Alessio è ancora là fuori da qualche parte. Da quella notte non l’ho mai più rivisto. Forse tra dieci anni salterà fuori che ha sterminato 49 bambini in Uganda, o che ha contrabbandato diamanti, o che ha fatto un’orgia da 1000 persone, o che ha fatto saltare in aria la metropolitana, o che ha salvato il mondo. Conoscendolo, è probabile abbia fatto tutto contemporaneamente.

Rimane il migliore amico io abbia mai avuto.

Fine