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E oggi andiamo in spiaggia libera, dove vanno tutte le persone intelligenti

Nasciamo urlando mentre sventriamo la passera di nostra madre. A quattro anni urliamo perché ci spaccano il giocattolo in testa. A dieci perché trovare una stronza disposta a farci i puppini è più arduo che nelle riviste porno. A quattordici urliamo perché ci hanno bocciato. A diciotto perché i nostri genitori ci mandano a lavorare a calci in culo. A ventidue urliamo perché la juve, unica soddisfazione della nostra vita, ha parruccato le partite. A ventisei urliamo perché finalmente dopo una settimana di merda possiamo uscire a divertirci e moriamo contro un platano urlando.

Però la vita ha anche dei lati positivi.
Prendiamo il mare.

La creatura che tolleriamo al nostro fianco solo perché ha dei buchi dove inserire il pene ci sveglia alle sei. Invece di abbatterla con un cazzotto asseriamo “sì, amore, certo” e con ben tre ore di sonno addosso ci laviamo i denti col rasoio e pisciamo nell’armadio a muro. La morosa ci ridirige a ceffoni. Carichiamo zaini da trekking con creme presole, post sole, costumi di ricambio, frutta, panini, acqua, spray antizanzare, thermos, asciugamani, ombrellone e con 35 chili di stronzate inutili usciamo di casa. Il sole non è ancora sorto. Montiamo sull’ignobile cacaio che nostra morosa voleva comprassimo, uno scooter a due posti che costa come un battaglione di Fifty ed esiste solo nel nord Italia. “Praticissimo nel traffico” per due mesi l’anno, il resto è un inferno di intemperie, gelo e raffreddori. Solo il tre febbraio, mentre ogni minimo spiffero nella tuta è una lama d’orrore che ti criogenizza la pelle, comprendi quanto l’acquisto sia stato scaltro.

Si parte.

Attraversi strade deserte, sorpassi pezzi di motociclisti che i pompieri stanno ancora ricostruendo a bordo strada ascoltando in cuffia la musica di Tetris dopo che i centauri, esaltati dal rettilineo, hanno sfiorato i 200 prima di essere proiettati nella troposfera dai dissuasori. Arrivi, parcheggi. Togli l’abbigliamento da astronauta necessario a pilotare il cacaio, indossi le infradito e arranchi nella sabbia. Ti accampi vista mare che il sole fa capolino. Tutto ciò che vuoi è rimetterti a dormire per dimenticare in quanti modi la vita te lo sta sparando nel culo, ma la fodera da cazzi di fianco flauta “no, tesoro, prima devi metterti la crema che ti scotti”. Ti lubrifichi come un bodybuilder.

«Ora la metteresti a me?»
A quanto pare la tua ragazza è tetraplegica.

 

Ti alzi.
Per farlo sollevi un inspiegabile vortice di sabbia che ti si incolla addosso grazie alla crema precedentemente disposta. Canticchiando “enter Sandman” oltrepassi la soglia della disperazione e vuoi solo dormire. Ti giri. Il tuo asciugamano si é ricoperto di sabbia, lo sbatti e il vento ti spalma addosso mezzo litorale. Provi a riposizionarlo. Arriva attorcigliato. Riprovi. È un origami di un cigno. Riprovi. E’ padre Pio. Al quinto tentativo vorresti solo cacarci dentro e incendiarlo, ma la morosa si alza e ti aiuta deridendoti. Sei già sudato come una bestia. Crema solare, sudore e sabbia si mescolano ai tuoi peli ascellari creando una poltiglia abrasiva che ti scortica la pelle.
Ti distendi.
Chiudi gli occhi.

«Bagnetto!» squittisce la femmina «bagnetto! Bagnettobagnettobagnetto!»

Valuti se stordirla con un calcio a girare, ma rinunzi. Attraversi decametri di spiaggia arroventata saltellando come un orango, dopo sette secondi il dolore ti fa sballare e salti a pié pari sul bagnasciuga, atterrando sulla striscia di conchiglie non ancora abbastanza tritate che ti trafiggono le piante dei piedi. In una credibile interpretazione del lago degli ippopotami avanzi tra granchi morti, bottiglie di plastica, rifiuti d’ogni sorta, legno e colonie di tetano. Ridotto come Gesù Cristo entri in acqua. Lo sbalzo termico si fa via via piú orrendo fino ad arrivare ai testicoli, ove milioni di spermatozoi entrano in sonno criogenico.

«Allora, che aspetti?» trilla lei, sguazzando felice «haha, non mi dirai che è fredda! Dai, buttati!»
Trattieni il fiato e salti in avanti.

Il corpo si libera dal putridume oleoso per infilarti in un banco di alghe da cui emergi uso cecchino vietnamita. Sguazzi e il refrigerio ti fa star bene. Galleggi, chiudi gli occhi. Il benessere viene interrotto dalle grida stridule della tua pompinara di fiducia.

«MEDUSA! ODDIO CHE SCHIFO, UNA… NO, DU… TRE! QUATTRO! Sono dappertutto! Portami a riva, ti prego!»

Ti carichi sulle spalle la vagina e attraversi un branco di meduse che ti ustionano caviglie, polpacci, pancia. Riattraversi l’inferno di magma sabbioso e la riporti sana e salva alla sua settimana enigmistica. Sbatti l’asciugamano che è evidentemente attratto dal sottosuolo e ritorni Sandman. Ti distendi. Chiudi gli occhi. Nell’aria risuona il grido di guerra del popolo: DEEEEEEEENIIIIIIS. È pronunciato dal capo urukai, un’obesa quarantenne simile a Jake la furia la cui massima aspirazione è apparire tra il pubblico di Uomini e donne. Sbraita il nome del suo putto. Guardi. Denis è un ragazzino di dieci anni che corre con un pallone.

«DEEEEEEEENIIIIIIIIS» ripete la donna «DEEEEEEEENIIIIIIIS»

La butrona non sa perché lo fa. E’ la sua natura. Deve urlare il nome di suo figlio. Invece di conficcargli un GPS nelle vertebre e una webcam sulla testa deve emettere il nome stile radiofaro aeronautico, che va a mescolarsi ai vari LUCAAAAAA, MARCOOOOOO, COSTAAAAAA creando una pregevole cacofonia uditiva. Dalle retrovie appare il popolo della spiaggia. Famiglia cicciomostra con torma di cani che si avventano contro la torma dei cani di un’altra famiglia in un crescendo di ululati, guaiti, ringhi e latrati a cui si sommano le urla dei padroni che tentano di trattenere le bestie dal massacrarsi, ma è complesso giacché le mani sono occupate da mercanzie, neonati e ombrelloni.

«DEEEEEEEEENIIIIIIIS» procede la krapfendonna «DEEEEEENIIIIIIS»
Ti passano davanti tanga, topless e silicone in tutti i formati.

La guardi per un secondo di troppo e la tua dolce metà sibila “ah, è così che ti piacciono?». Valuti se sopprimerla, poi passi i successivi venti minuti a sproloquiare cazzate a cui non crede neanche lei ma che quietano il bagaglio di insicurezze che si porta dietro. Terminata l’arringa sulla vacuità della gente superficiale puoi distenderti a pancia in giù per nascondere l’erezione e osservare, fingendo di dormire, il vortice di tette e culi che ti passa attorno.

«DEEEEEEEENIIIIIIIS» grida il parabordi umano «DEEEEEEEEENIIIIIIIIS».

Una vecchia si toglie il vestito e non capisci se ha il reggiseno o le ginocchiere. Arrivano in successione: massaggiatori cinesi, venditori romeni, venditori africani, zingari elemosinanti, sei cani che ti annusano e uno che tenta di pisciarti sullo zaino tra le risate estasiate dei padroni. Quest’anno il Gazzettino ha segnalato già una trentina di furti in spiaggia seguita dall’accoltellamento seriale di tutti gli stewart che allontanano gli abusivi, quindi per fare il bagno tocca fare a turno o al ritorno non trovi neanche la sabbia.

Inizi tu.
L’acqua ora è tiepida, grazie alle vesciche di tutti i presenti.

Una coppia al largo scopa e guarda se li guardi. La scuola di windsurf apre e decine di tavole acuminate si lanciano verso la morte decapitando bagnanti o perdendosi al largo, inseguite da bagnini e istruttori. Chiedi permesso e ti fai spazio per raggiungere un fondale accettabile, oltrepassi la barriera di materassini galleggianti a forma di orca, coccodrillo, banana, papera. Schivi il canneto di boccagli da cui eruttano scatarrate e sei finalmente libero. T’immergi, chiudi gli occhi, riemergi. La vita è bella. La vita è meravigliosa. La vita è come quel molo di cemento: distante e sbagliato.

No, un momento.
Guardi meglio.

Il muro di carne rosa è sempre uguale, ma gli ombrelloni sono sbagliati. La corrente ti ha trascinato per molti chilometri verso il faro. Gorgogliando bestemmie ritorni a riva e percorri il litorale in cerca della tua dolce metà facendoti largo. Ti sfiorano discorsi su Berlusconi, immigrazione, reddito di cittadinanza, uscita dall’euro, Travaglio, Guzzanti, Beppe in Internet ha detto che. Fendi orde di rabdomanti che agitano al Dio sole iPad, iPhone, tablet e portatili supplicando un segnale wifi con cui postare su Facebook le foto delle loro gambe. Un tempo le foto del mare erano interessanti perché c’erano tette e culi. Oggi no. Wurstel anonimi tutti uguali.

Calpesti un castello di sabbia. Il dolore è assoluto e totale. Guardi.
C’era un pezzo di cemento armato dentro.

«DEEEEEEENIIIIIIIS»

Cemento.
Armato.

Ponderando l’idea che tutto sommato Unabomber aveva le sue ragioni raggiungi la femmina all’ora di pranzo. Dopo aver sbranato le provviste ti metti in coda per un caffè al baracchino. Due quarantenni divorziate lanciano occhiate arrapate ma la tua ragazza ti raggiunge e ti prende a braccetto.

«Quant’é due caffé?»
«Quattro euro»
Scontrino prebattuto di un euro.

Alzi gli occhi, c’è il logo della Lega tra le bottiglie di Aperol. Accerchiato da cani urlanti, bambini schizoidi e genitori isterici sorseggi il tuo goccio di lava, fumi la sigaretta e torni al tuo posto, trovandolo occupato da un gruppo di vecchi che ha costruito una specie di tenda da tornei medioevali. Noti solo in quel momento che dalla sabbia spunta una siringa intramuscolo senza ago.

«Sai» inizia pacata la tua ragazza «forse non mi piace tanto, la spiaggia libera»
Rimanete impassibili mentre un cane vi scopa la gamba. Rimanete immobili, consapevoli che quando una donna osa ammettere la remota possibilità di errore un vostro qualsiasi movimento facciale la farebbe esplodere come Semtex.

«Perché?» domandate, candidi.
Una madre appoggia il neonato su un tavolino del bar e schiude il pannolino, rivelando uno tsunami di merda.

«Bè, c’è un po’ troppa gente»
«Dici?»
Un tizio finisce la sigaretta e getta il mozzicone sulle mattonelle. La spegne col piede scalzo. Lancia un urlo e saltella tenendosi il piede. E’ così facile riconoscere gli elettori di Beppe, qui.

«Cioè, alla fine abbiamo risparmiato dieci euro di ombrellone»
Annuite. In effetti l’anno scorso stavate in una spiaggia semideserta della laguna con un’amica bisessuale di nome Maria e la giornata è finita a scopare sbronzi tra le dune con falò e dormita in tenda, al cui risveglio prima hai visto qualcosa di molto simile a questo

Seguito da qualcosa di molto simile a questo:

Perché ripetere l’errore? Cazzo, dai, in spiaggia privata ci vanno solo gli stronzi. In coda al ritorno ascoltate senza fiatare i motivi per cui lei ha scelto di venire qui, meglio comunque della vostra decisione di spendere la folle somma di 10 euro per uno sdraio e un ombrellone.

«Ma per curiosità» osate «la Maria dov’è andata?»
Litigata di gelosia fino a casa.

La domanda che non devi farmi mai.

Caro Myskin, questa domanda me l’hanno fatta in tanti qui, su Facebook, su Twitter e nella vita reale. Ho pensato a molti modi per rispondere, poi ho deciso che si fa prima così. Queste sono le keyword con cui mi trovi. Fino alla settantesima posizione sono variazioni sul tema del mio nome, ossia gente che già mi conosce.

Ora ti mostro come mi trovano gli altri.
Ho messo gli screenshot o non mi avresti creduto.













Gli screenshot hanno anche di buono che non sono indicizzabili.
Ma proseguiamo.





Ora capisci, Myskin? 
Capisci?

La vera alternativa all’alternativa degli alternativi è il cazzo.

Planiamo nello “spazio alternativo” come folgore dal cielo. Ario parcheggia alla barese: scende, sposta tre scooter e infila la macchina perpendicolare al marciapiede.

«Tanto i vigili a quest’ora sono in puttantour travesto.»

Dall’interno proviene musica. Risate uterine infoiano i nostri spermatozoi che sgomitano per l’assalto. Siamo bellissimi. Io camicia bianca da mercatino dell’usato, jeans Clayton vintage strappati a un magrebino durante la battaglia saldi estate, Superga rese splendenti da doppia dose di lavatrice. Intimo, boxer Armani rubato nei camerini dell’Auchan. Atza: polo della Lidl su cui la sorella ha cucito il coccodrillo della Lacoste ritagliato da una maglietta in disarmo, cintura 5 euro vinta a 4.50 dopo penosa contrattazione cinese, pantalone Nigi stile Charlie Chaplin, scarpe Puma ecopelle con suola e lacci anneriti a pennarello. Luca: maglietta bianca “Il paradiso del pneumatico di Tony Marangon”, giacca nera elegante sul cui taschino trionfa il logo AC MILAN, Levi’s a vita ombelicale, doccia di gel della COOP che dopo mezz’ora puzza di ascella, scarpa lucida da ballo requisita al padre maestro di tango che ha due numeri in meno. Ario: trench in ecopelle cinese che se si bagna emette una strana schiuma bianca, canotta bianca a coste con tribale d’oro, braghe della tuta, scarpa Nike rotta sulla piega del piede e riparata con graffettatrice.

Bussiamo tre volte, appena l’uscio scatta Ario lo spinge di forza e annuncia con tono imperioso “È L’ORA DEL CLISTERE”. La porta impatta contro una ragazza disintegrandole il bicchiere di sangria addosso.

«Ma che fai?!» strilla Atza, accucciandosi sulla poveretta.
«Hm, sono già scattate le prime risse, vedo» osserva Ario «camuffiamoci nel figame, non voglio problemi.»
«Elisa, Elisa, stai bene?»

Elisa è una biondina esile e puteolente sui ventiquattro. Si presentò al bar di Atza vestita da piratessa. Lui le chiese WTF e lei spiegò che doveva fare una manifestazione. Al cellulare coi compagni aveva capito lo slogan fosse “riprendiamoci il nostro porto” e pensò si dovesse protestare contro le grandi navi in laguna, in realtà lo slogan era “riprendiamoci il nostro corpo” e si doveva protestare contro i maltrattamenti sulle donne.

«Atza?» mormora lei, rialzandosi.
«Stai bene?»
«A parte il vestito ma vabbé, lo cambio. Sono i tuoi amici?»
«Luca, Nebo e Ario, quello che ti ha rovesciato il bicchiere sul vestito.»
«Ah, questa è tua morosa?» chiede Ario.

I due si guardano, arrossiscono.

«Bè, n-non proprio…» fa lei.
«Sì, cioè, per adesso ci vediamo e b
«Ecco, ci hai trascinati in ‘sto lupanare di sfollati solo per guadagnare punti anal, sei una merda!»
«Vi ho detto che c’è un’artista internazionale.»
«A quest’ora sul terraglio con trenta euro trovi artiste internazionali uguale!»
«Scusa?» fa Elisa, inorridita «stai dicendo che… sfrutti la prostituzione?»
«Ma dopo gli faccio le coccole.»
«STA SCHERZANDO» tuona Luca, lanciando chiodi roventi dagli occhi.
«Sì, figurati, è sposato, vedi la fede?» dico io, prendendo Ario per le spalle «piuttosto, perché non ci spieghi cosa fate qui?»

Elisa è incerta, poi si rilassa: «E’ uno spazio autogestito che abbiamo battezzato “riserva del gioco e della speranza”. Ospita artisti e performers internazionali che vogliono sensibilizzare il pubblico riguardo a tematiche sociali, offrendo un’alternativa a quella cultura di massa che propongono i media e che»

 

Ciò che vede lei.

 

 

 

Ciò che vediamo noi.

 

In realtà si tratta di un cacaio immondo con muffa alle pareti, rottami e catorci colorati a bomboletta, allacciamenti elettrici abusivi, acqua pagata dal comune. C’è una puzza di piscio e droga che fa girare la testa ma, in effetti, il buonumore dei presenti è contagioso. Tranne noi è tutto a tema. Impianto serio, uno che mette musica a ripetizione, gnocche comuniste, sorrisi, risate, due coppie che limonano, gli immancabili soggetti che abbassano l’asticella del degrado umano un paio di metri sotto le fosse ardeatine, minoranze etniche scopabilissime. L’età va dai diciotto ai quaranta e passa. Ci sono dredd, stempiature e

«Il gruppo dei pelati! Haha, Nebo, vagli vicino che faccio una foto!»

Il bello di noi trentenni è che non importa il credo politico: appena notiamo l’eliporto in cima alla testa ci rasiamo a zero, compensiamo facendo crescere pelame sulla faccia e in base al reddito ci iscriviamo in palestra o ci compriamo l’Harley Davidson per girare il mondo.

Io sono un reporter freelance.
Lunedì pettorali e tricipiti.

Veniamo portati al bancone del bar dove conosciamo il barista, un suo amico e due ragazze. Appena i miei occhi si poggiano su di lei ogni molecola del mio corpo trasmette odio. E’ lei. E’ Levante. Tutti conosciamo Levante. Dio un giorno ha guardato i giovani, ha capito che erano troppo belli, si è alzato la toga e ha cagato Levante. Mora, frangia, rossetto rosso, smartphone in mano, sguardo di chi merita di meglio e vorrebbe essere altrove. Quando tutti ordinano spritz lei vuole un caffè. Lo scrive persino nella sua biografia Twitter/Tumblr/Flickr come se fosse chissà quale medaglia al valore: lei beve molto caffè. Ha un blog minimal dove racconta quanto sia sarcastico essere donne in mezzo a uomini patetici che non la meritano, alternandolo a commenti di articoli del Fatto quotidiano. Tenta di sporgere le labbra il più possibile mentre dice che ha una vita di merda. Idolatra Frida Kahlo e Zooey Deschanel. Ascolta indie e qualunque cosa le dica Pitchfork. E’ così piena di sé che pare una matrioska residente a L’egoland. Veste metà hipster e metà Sex and the city, in occasioni eleganti opta per l’immancabile stile anni ’50 che piange così tanta miseria da ammosciare l’erezione dei manichini. Burlesque e Guzzanti. Aria incazzata e triste come se il dottore le avesse intimato di andare lì.

«Bevete qualcosa?» chiede il barista.
«Birra.»
«Birra.»
«Birra.»
«Mint julep» fa Atza.

«Eh?»
«Mintu Julep. Ghiaccio, menta, bourbon.»
«Cioè un mojito?» chiede il barista.
«No, il mojito ha il rum e il lime» scuote la testa Atza «il mint julep è un long drink tipico del sud degli Stati Uniti. Pesti la menta con le mani, poi…»
«MA IO PESTO TE CON LE MANI» sbotta Luca «ho le scarpe che mi stanno trasformando in una geisha, Atza, piglia una birra come tutti e andiamo a sederci.»
«Scusa, avrò diritto di bere quello che mi va?»
«Di solito bevi lo spritz col Tavernello dei cinesi, per cortesia» fa Ario.
«Non significa che io non abbia maturato…»
«Senti» ansima Luca, sudato «prendi una birra o quant’è vero Dio finisci al pronto soccorso con un Casio incastrato su per il culo e io mi addormento con l’avambraccio che odora di merda, menta e sud degli Stati Uniti.»

Con una Moretti in mano ci accasiamo su dei divanetti. Levante scompare dietro le tende in fondo al locale. Beviamo, parliamo del tempo, dopo qualche minuto Luca non ce la fa più e si toglie le scarpe gridandomi nell’orecchio

«Che me le son messe a fare?!» la musica tace «TROVAMI UNA DI ‘STE PUTTane che…»
Si blocca con la scarpa a mezz’aria. Atza si gira ad occhi sgranati.
I nostri ospiti lo imitano. Luca abbassa la scarpa.

«Buonasera a tutti» dice Levante «è un mio grande onore presentarvi Jana Tullifer, dal Brasile. L’artista che conoscete tutti per le sue opere provocatorie ha accettato di esibirsi nel nostro spazio occupato. Vi prego però di non applaudire, perché rovinerebbe l’atmosfera.»
Silenzio.

Dal buio emerge una mulatta figa come l’anima del Diavolo vestita di nero coi tacchi anni ’50. Si siede su uno sgabello. Il viso è coperto da un ombrello nero: alle estremità di ogni raggio c’è un uovo bianco. Il silenzio in sala è assoluto.

«Ma si spoglia?»
«Speriamo.»
«STATE ZITTI» sibila Atza «UN PO’ DI RISPETTO!»
«Dì, fa giochi strani, con quelle uova?»
«ARIO, PER FAVORE»

Di fianco alla performer un televisore proietta immagini delle sue mani che, su un prato, passano ago e filo dentro le uova e le cuciono sull’ombrello. Le casse mandano un suono di sassolini che cadono dentro un tubo. Man mano che nel video le uova vengono cucite, lei di fianco inizia a girare sullo sgabello. Alza le gambe e si inclina fino a toccare col piede un uovo appeso. Si alza in piedi. Nel video, lei è in un guscio nuda e sfocata che si contorce. Con gesti lenti e calcolati, afferra un uovo appeso e lo spreme. Poi un altro, poi un altro ancora. Tuorlo e albume cadono sul pavimento.

«Adesso entra Nacho Vidal, le spacca due uova in faccia a sberle, gliene appoggia uno sulla bocca e glielo spara dentro a martellate di minchia.»
Io e Luca abbassiamo la testa mordendoci le labbra.
Luca soffoca una risata con un colpo di tosse.

«Dai, te lo vedi Nacho, a maschiate sul viso che dice “dai, chupalo, chupame la piha, putaaah!“»

Emetto un guaito. Mi lacrimano gli occhi. Luca non è preso meglio. Atza è una statua di sale e rabbia cieca. La performer si rotola per terra smerdandosi del contenuto delle uova, tenendo l’ombrello in alto che le versa addosso i resti. Mentre si contorce si intravedono delle mutande rosso acceso.

«Con lei che risponde “no no yo estoy fasiendu arte” e lui che le infila uova in brogna e gliele tira fuori trombandola nel culo facendo il verso della gallina.»

Non ce la facciamo più. Ridiamo sommessamente, coprendoci la bocca e tenendoci la pancia. Ridiamo con fitte lancinanti alla gola. La performer ora appoggia dei gusci vuoti sul pavimento e li calpesta lentamente. Si infila due gusci sui tacchi e si appende a una trave invisibile, poi schiaccia anche quelli. La musica sale in un crescendo drammatico.

«Stai zitto, ti prego.»
«Oppure Rocco! Dio, Rocco sarebbe il migliore. Tipo con la slava che dopo l’inculata non voleva succhiarglielo e lui DON UORRI IZ ONLI SMELLZ, te la ricordi? IZ ONLI SMELLZ e giù cazzo in trachea, praticamente le ha rimesso la merda nell’intestino passando per l’esofago.»

Con un sibilo Luca esplode. Io mi piego in due. Si girano tutti. Corriamo fuori e ci appoggiamo alla parete, piangendo lacrime in preda alle convulsioni. Dopo qualche secondo dentro parte un applauso. Cerchiamo di riprenderci; non c’è verso. Quando sai che non devi ridere e ti viene da ridere è male, ma quando ridi è la fine. Dall’interno provengono voci concitate. Ario esce accompagnato da Atza furente.

«Voi due siete due stronzi, e tu» ansima «tu non sei più mio amico.»
«Oh, se non ci hanno pensato magari…»
«VAFFANCULO, tornatevene a casa, con voi non ci parlo.»

«E come torni?»
«AFFARI MIEI, ANDATEVENE»

Camminiamo verso la macchina.

«Che gli hai detto?»
«Niente, lei ha detto una roba tipo che aveva appena rappresentato lo scorrere del tempo e ha chiesto se avevamo domande, io le ho chiesto perché invece di buttare la roba da mangiare non la manda agli schelenegri del Ruanda, bam, frangetta sbrocca e gli altri dietro.»
«Oh, Dio, no» gemo «non l’hai fatto davvero.»
«Sìssì.»

Dieci minuti dopo siamo in puttantour che cantiamo a squarciagola l’inno del mio blog. Tettino e finestrini aperti. Ignoranti. Stupidi come bestie. Trentenni che urlano canzoni scritte da ventenni e che l’unica cosa che vogliono è che le donne facciano come l’ortolano. C’è poesia. Eternità. Un desiderio che ci accomuna al guerriero masai, il guerrigliero ceceno, il pescatore esquimese, il fisico cinese, l’ingegnere indiano.

«GUARDALE» urla Ario, suonando a un trio di slave «altro che le uova, uscite i meloni, brutte puttane, vi scopo tutteeeeee»
La polizia ci ferma all’altezza di Preganziol.

Karansebes: troppo imbecilli per l’Inferno




Karànsebes è nel sud-ovest della Romania, dove si intersecano due fiumi del cui nome non frega un cazzo a nessuno. Il clima è mite. -15° d’inverno, 32° d’estate. Piove spesso, la terra è rigogliosa e fertile. Il panorama è composto da colline erbose, torrenti e montagne innevate. Uno splendido paesaggio bucolico simile alla Svizzera, dove invece dei campanacci delle mucche si ode “dai me zigaretti por favor” e “zinquo euro fai amori con bela filia”. Grazie a questa potente linea difensiva nessuno Stato oserebbe metterci piede, soprattutto visto che l’unica cosa interessante della Romania si esporta da sola nei raccordi anulari di mezzo mondo.


Ma secoli prima le cose erano diverse. 





Nel 1787 turchi e austriaci sono in guerra. Il 17 settembre 1788 circa 100,000 soldati asburgici arrivano a Caransebes e si accampano in riva al fiume. Ricordando cosa successe a Cesare contro i Nervi, il generale Shaissesturm decide che prima di guadare il fiume è meglio mandare qualcuno in avanscoperta; farsi beccare dai cecchini turchi durante il guado trasformerebbe l’armata asburgica in centomila paperelle che deambulano ad andatura turistica senza riparo, il che non è bene. Il generale è restìo a spedire lontano dall’accampamento gente valida per un compito così semplice, così decide di inviare dei piloti di Jaeger.
Il che è un bene, perché ci spiega cosa sarebbe successo se Pacific rim accadesse davvero.
Ora, dovete capire che i tedeschi hanno per l’autorità una sacra venerazione.
Nessuno mette in dubbio nulla, tutti eseguono gli ordini e si attengono scrupolosamente al piano. Questo dal punto di vista bellico ha pro e contro. Se al comando c’è un genio sei un Dio della guerra. Viceversa, finisci con Berlino distrutta, i bambini che sparano, lo Stato sul lastrico, cenere di ebreo dappertutto, il mondo che ti odia e al processo rispondi “me l’aveva ordinato un imbianchino”. Nel 1788 gli asburgo già ragionavano in questo modo, così se il generale decide di affidare le vite degli uomini alla versione subnormale delle giovani marmotte nessuno protesta, anzi: se l’ha detto il generale dev’essere un’idea della madonna. 
Per condurre questa gitarella oltrefiume viene eletto il colonnello Kartoffen. E’ mezzo cieco, ha problemi di alcolismo e la sindrome da deficit d’attenzione. In pratica se gli chiedi di spazzare il cortile il suo cervello pensa “ramazza-scopa-scopare-ballerine-piume-bailando bailando amigos adios” e dieci minuti dopo lo trovi che s’incula una gallina cantando Paola e Chiara. Gli viene affidato un numero imprecisato di soldati a cavallo (detti Ussari), un intero reparto di fanteria, una pacca sulla spalla e via verso mirabolanti avventure.
Kartoffen, guadato il fiume, prosegue trottando spensierato assieme agli altri cavalieri, lasciando indietro la fanteria. Non c’è traccia di turchi e, comunque, ha già dimenticato per quale motivo si trova lì. Sta pensando che forse ha una moglie da qualche parte quando una voce risuona nell’aria.
«Hammig! Hammigo belu! Vieni!»
Dal bosco emerge uno zingaro che agita una bottiglia di vino.


«Vuoi di asburgo, zì?!» chiede «noi rom molto fieri di voi asboro»

«Asburgo» corregge il capitano.

«Noi odia turchi. Loro no beve vino. Voi beve vino con noi?»

«C’AVETE L’ALCOLICO?!» sbotta Kartoffen «FRA’, SCATTA L’APERICENA INTERCULTURAL! OHE’ TRUPPA, VAMOS CHE FORSE CI SCAPPA IL POMPASBARBI, MUEVES»


«Ma… colonnello…» osa il capitano «saremmo in esplorazione, la vita di 100,000 uomini dipende da noi, se i turchi…»
«MA VA LA’, VA LA’, “I TURCHI”, TE LO VEDI L’OTTOMANO A CAMALEONTARE VICINO A MISTER BIDONVILLE, QUA? Dai, dai, sbronze gratis. Battaglione, marsch!»
Gli Ussari si dirigono entusiasti al campo dove si sbronzano a merda. Nel frattempo la fanteria raggiunge l’accampamento seguendo l’eco di urla e risate sguaiate. Anche loro vengono accolti con gioia dagli zingari, che li portano al cospetto di Kartoffen, ciucco duro. 
«Fanteria a rapporto, signor colonnello» comunica il sergente.
«SHGERGENTHE MINCHIETTHI HA HA» biascica Kartoffen «MINCHIETTHIHAH HAHAHAHA AHAHAH»
«Signore, forse è il caso che smetta di bere»

«CHAPITNOOOOO!! VENGA A SHENTIRE CHE CAZZO VUOLE QUESHTO»
Il capitano fa il suo ingresso in scena con addosso una gonna zingara e nient’altro. Tenta di parlare, vomita un fiotto di vino e si accascia a terra.
«Signore, devo chiederle di smettere di bere» dice il sergente, e fa per strappargli il fiasco di vino.
«OHE’ MINCHIETTHI GIU’ LE MANI»
«Signore, la prego»
«E’ PERCHE’ SHIETE DEGLI STRASCIòNI?! E’ PERCHE’ INVIDIATE NOI USSHARI CHE VOLETE BBERE IL NOSTRO VINO!?»
«Mi dia quel fiasco, colonnello»
«INSUBORDINASHIONE!» urla Kartoffen «UOMINI, A ME!»
Nella tenda rotolano cinque uomini seminudi e barcollanti. Uno si tiene ancora l’uccello in mano, proseguendo la propria minzione con savoir faire. 
«CHOMANDI MASHRTO DI CHIAVI» fa uno, scattando sull’attenti.
«QUESHT’UOMO CI VUOLE THOGLIERE IL VINO, ARRESHTATELO»
«Signore, per l’amor di Dio! Torni in lei!» supplica il sergente.
Quando il primo ubriaco lo afferra, il sergente si gira di scatto e lo colpisce con un diretto in pieno zigomo. L’uomo cade a terra privo di sensi. Gli altri Ussari saltano addosso al sergente. Uno sbaglia mira e centra il bastone della tenda, gli altri incespicano e si fanno male contro spigoli, baionette, bottiglie vuote, ginocchia. La tenda crolla e svela agli occhi di tutti cosa sta succedendo. La musica cessa. Le grida tacciono. I grilli smettono di cantare. Zingari, fanti e cavalieri sono cristallizzati in un’unica, immobile, scultura vivente. Davanti a loro c’è un soldato nudo con l’uccello in mano, due che sembrano morti in una pozza di sangue, il colonnello Kartoffen in piedi con un fiasco in mano e il sergente che si rialza lentamente, seguito dalle pupille di ogni essere vivente. 
«Allora… s-stiamo calmi»
Do the harlem shake, dice Dio.
E il campo esplode.



Gli Ussari saltano addosso ai fanti che saltano addosso agli zingari che saltano addosso a entrambi. E’ difficile immaginare una rissa da cinquemila persone, eppure il prode esercito asburgico non esita ad impersonarla. Ovunque lo sguardo vaghi c’è gente che si ravana di botte. Dai cazzotti si passa alle spade. Il colonnello ordina agli uomini di erigere delle fortificazioni  – delle fortificazioni, sì – per difendere il vino e loro stessi dall’assalto dei fanti. Uno di questi, colto da un lampo di genio, decide di trollare l’intera divisione che si sta massacrando di botte per una fiasca di vino. Prende fiato, schiva un cazzotto e urla


«I turchi!»
«Dove?!» chiede un fante che sta venendo accoltellato da un Ussaro.
«Cosa?! I turchi?!» chiede uno zingaro prima di venire abbattuto da una bottigliata.
«Sei turco?» urla un Ussaro.
«No, tu sei turco! Ti sei travestito!» esclama un fante, uccidendo quello che ha gridato.
«I TURCHI SONO TRA NOI, SONO TRAVESTITI!»
In una delle pagine più buie dell’otorinolaringoiatria mondiale, quest’armata di piloti Jaeger passa ai fucili, i cui colpi risuonano nel buio della notte come un tuono.
“Collo terroriFta”
«PERDIO» esclama dall’altra parte del fiume l’Imperatore Giuseppe II, notando i lampi e sentendo gli spari «i nostri esploratori sono sotto attacco! Avanti, guadiamo il fiume e sterminiamo quei bastardi!»
Centomila uomini si scagliano nel torrente lanciando urla belluine. Nessuno potrebbe biasimarli, dopotutto. Uno stratega può prevedere molte cose, ma non che l’intera armata voli sul nido del cuculo cantando la macarena.
Nel frattempo al campo ROM gli Ussari sono convinti che i fanti siano turchi travestiti, i fanti credono l’opposto e gli zingari, nel dubbio, spacano botilia e ammazzano familia. Le tre allegre fazioni si giustiziano a vicenda in un crescendo di drammi esistenzialisti, dubbi etnico culturali e la consapevolezza che tuo cognato ti ha sparato in pancia credendoti un vu cumprà.
E’ perciò una fortuna che dal bosco emerga la fanteria asburgica al gran completo urlando “HALT!”, che in tedesco significa “stop”, ma alle orecchie di tutti suona come “Allah”, parola che li fa accogliere a gioiose scariche di fucileria. I nuovi arrivati vincono il premio Anch’io non ho capito un cazzo e rispondono al fuoco; partono alla carica in un vortice di lame che accresce il già ragguardevole numero di eroi morti. I soldati, ormai del tutto rincoglioniti, si disperdono nella boscaglia sparando a qualunque cosa si muova. Il culmine della serata viene raggiunto grazie un comandante di corpo d’armata, il quale, colto da estasi creativa, fa armare i cannoni e apre il fuoco sulle colline.

Proprio mentre l’Imperatore in persona conduce una carica verso un branco di daini che ruminano paciosi.

La detonazione tritura la guardia reale, un notevole numero di persone e disarciona l’Imperatore che quasi affoga in un ruscello. Lo scaltro dinamitardo capisce che la sua idea non verrà capita dai critici e abbozza, girandosi dall’altra parte, mentre l’esercito continua a ridursi di numero. Solo Nicolai Lilin avrebbe potuto fare di meglio.
All’alba del giorno dopo i turchi si fanno vedere a Karansebes per chiedere ai crucchi se possono fare qualcosa anche loro, ma trovano solo 10,000 morti.

Teodora di Bisanzio

Bisanzio, 490 dC.

Uhallaaaaaah, canta il muezzin, lontano.
Uhamlaflemhlaaaaaaanaaaaaa.

E’ sera. Acacio e Teodora, padre e figlia, stanno spazzando le scalinate dell’Ippodromo. Teodora ha dieci anni. Fatica a muovere la ramazza, preferisce stringere il manico e scorrere le mani su e giù.

«Tesoro, che cazzo fai?» domanda il padre.
«Non so, mi viene naturale»
«Sei tutta tua madre» sorride Acacio porgendole l’acqua.
La figlia beve un sorso e riprendono a spazzare.

«Oggi ho sentito di una principessa adottata da una famiglia povera che veniva riconosciuta dal principe. La sposava e vivevano felici e contenti»
«Belle stronzate» commenta Acacio.
«Non è vero! Può succedere! Tutte le bambine del quartiere si sono anche promesse di restare illibate in modo che il principe le riconosca!»
«Hai mai visto il principe passeggiare nel quartiere?» chiede Acacio.
«No, ma…»
«Qui c’è puzza di cacca di cavallo, giri per strada e la gente ti lancia il piscio dalla finestra, il cibo fa schifo, le donne c’hanno più sifilide che denti e ogni tre secondi c’è una rapina o un omicidio. I bordelli sono territorio della truppaglia più bieca che se deve aspettare troppo esce in cortile e c’è la capra di cortesia. Te lo vedi un ufficiale dell’esercito a infilarlo dentro quei pozzi di gonorrea?»
Teodora tace.

Nel 500 dC Bisanzio conta 500,000 anime. E’ una città caotica e sovraffollata, crocevia di popoli e razze che si mescolano in una macedonia di sacro e profano. Manco a dirlo, il profano è più visibile dalle parti dell’Ippodromo. Teodora è nata qui, in un quartiere che pullula di attori, danzatori, ciarlatani, maghi, lottatori, scommettitori e mignotte. A lei piace. Le piacciono i mimi che prendono in giro i potenti, le grida dei commercianti, gli uomini dalla pelle colorata, le risate sguaiate delle prostitute, i cammelli che portano merci strane ed esotiche. Acacio scuote la testa, lascia cadere la ramazza e conduce la figlia fuori, risalendo le scalinate dell’anfiteatro. Una volta in cima indica la città che cola giù dalla collina, una distesa di palazzi giallastri che si confondono fino a immergersi nel Bosforo. Dall’altra parte della sponda, la luce del tramonto illumina le guglie del palazzo dell’Imperatore.

Uhallaaaaaah, canta il muezzin, lontano.
Uhamlaflemhlaaaaaaanaaaaaa.

«Lì ci sono donne belle, giovani, nobili ed educate. Principesse da tutto l’oriente, cibi e bevande così deliziosi e rari che alcuni si dice provengano da un altro mondo. E’ fresco d’estate, caldo d’inverno e pulito. Perché un principe dovrebbe venire qui?»

Teodora tace ancora, impressionata da quella visione.
E’ una bimba macilenta, occhi nocciola, capelli crespi e neri come l’inchiostro. Le mani sono callose e martoriate di tagli, le sopracciglia incrostate di fango. Acacio nota la figlia che, sovrappensiero, tenta d’infilarsi la ramazza in gola il più a fondo possibile.

«Tesoro, giocherai più tardi»
«HA AHHA GHAGGA GHE RIEHE!!»
«Lo so che alla mamma riesce»

Teodora stringe con due dita la ramazza davanti alle sue labbra, poi estrae dalla propria gola quindici centimetri di manico. Lo osserva con soddisfazione. Poi un’ombra di tristezza le attraversa gli occhi.

«Perché tutti ci odiano?» domanda trasognata.
«Ma che dici?»
«Quando usciamo per pulire, la gente sugli spalti ci ride dietro. Ci insulta, ci sputa, dicono cose orrende. Perché lo fanno?»
«La maggioranza delle persone decide in base a quello che fanno gli altri, come i pesci. Ci sono quelli che seguono il branco e quelli che lo seguono camminando all’indietro, come i gamberi. Nessuno ci odia. E’ che tra loro si stanno antipatici e la sola cosa che li mette d’accordo è insultare qualcuno in comune»
«E perché proprio noi?!»

«Perché contiamo meno delle mattonelle e non possiamo fargli niente»
«Sono dei vigliacchi» decreta la bimba con gli occhi lucidi «tanti e vigliacchi»
«Vieni qui» dice Acacio allargando le braccia. Teodora ci si infila come un verme nella carcassa putrida di un cane morto da due settimane sotto il sole di agosto. O almeno, questo è l’odore che ognuno di noi sentirebbe. Per lei è il profumo più dolce del mondo.

«E’ vero, siamo poveri» annuisce Acacio «viviamo spalando escrementi di tigre, mangiamo una volta al giorno, dormiamo in baracche senza vetri alle finestre, cachiamo per strada e ci puliamo con la mano, la nostra aspettativa di vita in questo periodo storico si attesta sui 45 anni, siamo circondati da disoccupati, pezzenti e artisti di strada, però qualcosa di buono l’abbiamo: noi. Ci vogliamo bene. Tu me ne vuoi?»
«Tantissimo!»
«E allora lo vedi che qualcosa di buono c’è? Oggi è anche il mio quarantaduesimo compleanno!»
Acacio muore.

Il giorno dopo l’Ippodromo brulica di gente infoiata e festante in attesa dell’evento sportivo più in voga a quel tempo, ossia guardare cavalli che corrono e sognare di mangiarseli. I due cerchi sono divisi in tifoserie, Verdi e Azzurri. Il portavoce dell’Imperatore fa segno di tacere e il rombo della folla diventa un brusio.

«HO UN ANNUNCIO PER VOI, CREMA DELLA MERDA» proclama l’uomo «FARSI MOZZARE I TESTICOLI MI HA CONCESSO L’INDISCUTIBILE PRIVILEGIO DI PARLARE PER BOCCA DELL’IMPERATORE QUANDO LUI HA CALDO»
Mesto applauso di stima.

«EBBENE, BLATTE SACRIFICABILI, VI ANNUNCIO IL TRAPASSO DELLA TERZA GENERAZIONE DI GUARDIANI DELL’IPPODROMO. LE FIGLIE DI ACACIO SONO QUI PER CHIEDERE UN AIUTO ECONOMICO PER IL LORO MANTENIMENTO O SCHIATTERANNO DI FAME. SICCOME E’ DIVERTENTE VEDERE I POVERI CHE SI PESTANO CON I POVERI PER DECIDERE CHI DI LORO E’ PIU’ POVERO, POTETE ESPRIMETE LA VOSTRA OPINIONE»

Dall’ombra dell’androne emergono la moglie di Acacio con le figlie conciate a festa. La folla ride. Pronunciano una supplica con occhioni tristi e vengono accolte con lanci di immondizie, fischi e risate sguaiate. La madre fa un inchino, prende un sasso in faccia con grande contegno, fa un secondo inchino al palco dell’Imperatore, poi prende congedo accompagnata da altre parole dolci. Si accorge troppo tardi che Teodora ha lasciato la mano della sorella e sta al centro dell’Ippodromo con le mani sui fianchi, sfidando con lo sguardo le tribune. Quando lo stadio se ne accorge cala un silenzio elettrico.

Pesci e gamberi, pensa Teodora.
«VOI VERDI FATE SCHIFO!» grida «VIVA GLI AZZURRI!»
L’Ippodromo esplode.

L’Imperatore scoppia a ridere, deliziato. La curva dei Verdi detona in un mare di facce distorte dall’odio che scagliano sulla ragazza ogni epiteto e oggetto a loro disposizione, ma per Teodora non è una novità. L’unico suono che sente è alle sue spalle; centinaia di anime che fino a prima le lanciavano sputi ora applaudono, la incitano, le sorridono. Lei fa un inchino e rientra, lasciandosi alle spalle un olocausto di urla. Il giorno dopo, gli Azzurri garantiscono un sostegno economico che la madre usa per risposarsi. Mette le figlie a teatro a far spettacoli di “mimo satirico e ironico”, che gli storici dell’epoca giudicano “patetiche scuse per gli spogliarelli”. E’ bello notare come la scusa del burlesque sia radicata nelle donne da oltre millecinquecento anni.

Teodora non sa cantare né ballare e recita peggio della Gerini, ma ripulita da stracci e sporcizia fa cadere le mascelle; è bella. Oscenamente, vergognosamente bella. La piccina impiega poco a scoprire il suo vero talento. Mostra le tette, mima amplessi e in meno di un mese ha chi la mantiene in cambio di nerchiate sul viso. Scopa con qualsiasi cosa cammini e guadagna valanghe di soldi. Per due anni salta da un cazzo all’altro come il più atletico dei bonobo, non disdegnando orge, rapporti lesbo, clienti brutti, vecchi, grassi o stronzi. Il suo nome gira per i quartieri.

E’ la più bella, dicono i ragazzi.
E’ la più vacca, dicono gli uomini.
Pacific rim è bellissimo, dice l’Internet.

Non è la sola cosa che impara: gli uomini a letto parlano. Tutti i ceti sociali hanno una storia da raccontare e Teodora li ascolta con egual attenzione. A letto impara a scopare, in camera impara la politica, l’intrigo, le gerarchie, la strategia. Una volta un’intera falange tornò in città dalla guerra. Non vedevano una donna da anni e non era raro che in questi casi le ragazze venissero un po’ strapazzate, nel senso che ne entravano trenta e ne uscivano venti, tutte incinte. Le zoccole della zona si rifiutano, terrorizzate. Teodora entra nel bazar di Samir Al-Atta all’ora di cena. E’ la sola donna presente. L’intero bazar, già abbondantemente su di giri, ammutolisce.

«E tu chi sei?» chiede un soldato.
«Quarta falange, giusto? Avevate chiesto compagnia. Eccomi qui»
Parte l’ovazione.

«Le altre sono belle come te?» domanda il soldato.
«Non ci sono altre»
«SEI SOLO TU?!» sbotta il comandante «ma noi siamo cinquantasei!»
«Farete a turni di tre» sbuffa Teodora, lasciando cadere il vestito «forza, prima gli ufficiali»

I resoconti storici qui dissentono. Procopio di Cesarea sostiene che Teodora soddisfò tutti e, non paga, se li ripassò due volte. E’ bello immaginarla che sputa sperma con sacro furore urlando “il prossimo”. Altri dicono che uscì all’alba retta sottobraccio dal locandiere. Non che una cosa escluda l’altra. Dopo questa storia, il suo nome diventò leggenda. Impiegò poco a capire come turlupinare le altre zoccole. Erano belle, ma non avevano il carisma né l’esperienza di una che doveva eccitare i clienti medi emulando il verso del cammello. Il problema era che gli stessi clienti che la inculavano, per strada iniziavano a cambiare marciapiede. Non vogliono essere visti vicino a lei. La sua fama degenera fino a isolarla, lei capisce l’andazzo e se ne va. Gira per le città dell’oriente e approda ad Alessandria. Una città dove monasteri e bordelli hanno lo stesso peso politico, la fica domina e i poteri si incrociano. Nessuno sa cosa sia successo lì; Teodora fa ritorno a Bisanzio tre anni dopo, ottiene udienza dal principe Giustiniano I che la prende in sposa in sei mesi.

Il 4 aprile 527, Teodora viene incoronata Imperatrice di Bisanzio.

Se dare la tua carta di credito a una donna non è mai una buona idea, dare a una spogliarellista soldi e potere illimitati è veramente un’idea del cazzo. Teodora aumenta le tasse fino a schiacciare la popolazione per potersi permettere feste, orge, banchetti, sculture e monumenti alla sua persona. Per le strade tira brutta aria. Un giorno, durante uno spettacolo all’Ippodromo – a cui Teodora assiste dal palco imperiale – sia i Verdi che gli Azzurri cominciano a urlarle insulti e proteste. Monta la rivolta. Le due fazioni si uniscono, escono dall’Ippodromo e reclutano passanti. Distribuiscono armi e trasformano la città in un campo di battaglia. Asserragliati nel palazzo imperiale, Giustiniano fa la cazzata che fanno tutti i regimi terminali: fa concessioni. La folla s’inebroa di entusiasmo, capisce che più ammazza più ottiene e dà l’assalto al palazzo.

«Ragà, io mi leverei di culo tipo subito» fa l’Imperatore «meglio una disonorevole fuga di un’onorevole morte»
Un sasso distrugge la vetrata, seguito da una freccia.

«Sa che mi ha convinto?» dice il primo ministro.
«Che poi non è che scappiamo, è solo per la merenda»
«Ma infatti, guardi, io manco mi porto le valigie»

«Tesoro» dice Giustiniano a Teodora «il tuo shopping c’è costato solo un impero, io me ne andrei prima che c’impalino»
«Andate pure» dice lei afferrando una spada «io resto qui»
«Guarda che questi non li calmi a bocchini»
«Il sangue è un bel colore per il sudario, e il trono è una tomba della madonna. Ora fuori dalle palle, mezze seghe»

Teodora pronunciò davvero questa frase. Sebbene il discorso non somigli a nessun monologo motivazionale hollywoodiano, gli uomini realizzano che l’unica persona nella stanza dotata di testicoli è una donna. Punti nell’orgoglio, decidono di restare e combattere. Riorganizzano le truppe e respingono la suburra. La situazione è di stallo. Da una parte studenti, disobbedienti, precari e femministe. Dall’altra Teodora. Anni di lenzuola le hanno insegnato che dove non arriva la spada arriva la lingua. Grazie ai vecchi agganci corrompe il capo della fazione Azzurri, il quale convince le truppe ribelli a barricarsi nell’Ippodromo. Una volta dentro, impossibilitati a fuggire, Teodora dà l’assalto in testa alle truppe, menando spadate e trucidando tutto quello che le capita sotto la lama. Alla fine, nell’ippodromo rimarranno 35.000 cadaveri. Teodora lascia cadere la spada, cammina tra i corpi mutilati affondando nel sangue fino alle caviglie. Raggiunge lo spiazzo dove quelle persone l’avevano derisa da bambina vent’anni fa. Si guarda attorno. E’ invecchiata, ferita e spossata. Solo lo sguardo è lo stesso.

«Scusa se c’ho messo tanto, papà» mormora.

Uhallaaaaaah, canta il muezzin, lontano.
Uhamlaflemhlaaaaaaanaaaaaa.

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Bibliografia
S.Castellanos, Mujeres perversas de la historia, Gruppo editorial Norma, Bogotà, 2008
P.Cesaretti, Teodora, ascesa di una imperatrice, Mondadori, Milano 2008
S.Bonura, Le 101 donne più malvagie della Storia, Newton Compton, 2011
C.Diehl, Figure bizantine, Einaudi, Torino 2007
S.Klein e M.Twiss, I personaggi più malvagi della Storia, Newton compton, Roma 2006
Procopio di Cesarea, Storia segreta, Sonzogno, 1818