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Karansebes: troppo imbecilli per l’Inferno




Karànsebes è nel sud-ovest della Romania, dove si intersecano due fiumi del cui nome non frega un cazzo a nessuno. Il clima è mite. -15° d’inverno, 32° d’estate. Piove spesso, la terra è rigogliosa e fertile. Il panorama è composto da colline erbose, torrenti e montagne innevate. Uno splendido paesaggio bucolico simile alla Svizzera, dove invece dei campanacci delle mucche si ode “dai me zigaretti por favor” e “zinquo euro fai amori con bela filia”. Grazie a questa potente linea difensiva nessuno Stato oserebbe metterci piede, soprattutto visto che l’unica cosa interessante della Romania si esporta da sola nei raccordi anulari di mezzo mondo.


Ma secoli prima le cose erano diverse. 





Nel 1787 turchi e austriaci sono in guerra. Il 17 settembre 1788 circa 100,000 soldati asburgici arrivano a Caransebes e si accampano in riva al fiume. Ricordando cosa successe a Cesare contro i Nervi, il generale Shaissesturm decide che prima di guadare il fiume è meglio mandare qualcuno in avanscoperta; farsi beccare dai cecchini turchi durante il guado trasformerebbe l’armata asburgica in centomila paperelle che deambulano ad andatura turistica senza riparo, il che non è bene. Il generale è restìo a spedire lontano dall’accampamento gente valida per un compito così semplice, così decide di inviare dei piloti di Jaeger.
Il che è un bene, perché ci spiega cosa sarebbe successo se Pacific rim accadesse davvero.
Ora, dovete capire che i tedeschi hanno per l’autorità una sacra venerazione.
Nessuno mette in dubbio nulla, tutti eseguono gli ordini e si attengono scrupolosamente al piano. Questo dal punto di vista bellico ha pro e contro. Se al comando c’è un genio sei un Dio della guerra. Viceversa, finisci con Berlino distrutta, i bambini che sparano, lo Stato sul lastrico, cenere di ebreo dappertutto, il mondo che ti odia e al processo rispondi “me l’aveva ordinato un imbianchino”. Nel 1788 gli asburgo già ragionavano in questo modo, così se il generale decide di affidare le vite degli uomini alla versione subnormale delle giovani marmotte nessuno protesta, anzi: se l’ha detto il generale dev’essere un’idea della madonna. 
Per condurre questa gitarella oltrefiume viene eletto il colonnello Kartoffen. E’ mezzo cieco, ha problemi di alcolismo e la sindrome da deficit d’attenzione. In pratica se gli chiedi di spazzare il cortile il suo cervello pensa “ramazza-scopa-scopare-ballerine-piume-bailando bailando amigos adios” e dieci minuti dopo lo trovi che s’incula una gallina cantando Paola e Chiara. Gli viene affidato un numero imprecisato di soldati a cavallo (detti Ussari), un intero reparto di fanteria, una pacca sulla spalla e via verso mirabolanti avventure.
Kartoffen, guadato il fiume, prosegue trottando spensierato assieme agli altri cavalieri, lasciando indietro la fanteria. Non c’è traccia di turchi e, comunque, ha già dimenticato per quale motivo si trova lì. Sta pensando che forse ha una moglie da qualche parte quando una voce risuona nell’aria.
«Hammig! Hammigo belu! Vieni!»
Dal bosco emerge uno zingaro che agita una bottiglia di vino.


«Vuoi di asburgo, zì?!» chiede «noi rom molto fieri di voi asboro»

«Asburgo» corregge il capitano.

«Noi odia turchi. Loro no beve vino. Voi beve vino con noi?»

«C’AVETE L’ALCOLICO?!» sbotta Kartoffen «FRA’, SCATTA L’APERICENA INTERCULTURAL! OHE’ TRUPPA, VAMOS CHE FORSE CI SCAPPA IL POMPASBARBI, MUEVES»


«Ma… colonnello…» osa il capitano «saremmo in esplorazione, la vita di 100,000 uomini dipende da noi, se i turchi…»
«MA VA LA’, VA LA’, “I TURCHI”, TE LO VEDI L’OTTOMANO A CAMALEONTARE VICINO A MISTER BIDONVILLE, QUA? Dai, dai, sbronze gratis. Battaglione, marsch!»
Gli Ussari si dirigono entusiasti al campo dove si sbronzano a merda. Nel frattempo la fanteria raggiunge l’accampamento seguendo l’eco di urla e risate sguaiate. Anche loro vengono accolti con gioia dagli zingari, che li portano al cospetto di Kartoffen, ciucco duro. 
«Fanteria a rapporto, signor colonnello» comunica il sergente.
«SHGERGENTHE MINCHIETTHI HA HA» biascica Kartoffen «MINCHIETTHIHAH HAHAHAHA AHAHAH»
«Signore, forse è il caso che smetta di bere»

«CHAPITNOOOOO!! VENGA A SHENTIRE CHE CAZZO VUOLE QUESHTO»
Il capitano fa il suo ingresso in scena con addosso una gonna zingara e nient’altro. Tenta di parlare, vomita un fiotto di vino e si accascia a terra.
«Signore, devo chiederle di smettere di bere» dice il sergente, e fa per strappargli il fiasco di vino.
«OHE’ MINCHIETTHI GIU’ LE MANI»
«Signore, la prego»
«E’ PERCHE’ SHIETE DEGLI STRASCIòNI?! E’ PERCHE’ INVIDIATE NOI USSHARI CHE VOLETE BBERE IL NOSTRO VINO!?»
«Mi dia quel fiasco, colonnello»
«INSUBORDINASHIONE!» urla Kartoffen «UOMINI, A ME!»
Nella tenda rotolano cinque uomini seminudi e barcollanti. Uno si tiene ancora l’uccello in mano, proseguendo la propria minzione con savoir faire. 
«CHOMANDI MASHRTO DI CHIAVI» fa uno, scattando sull’attenti.
«QUESHT’UOMO CI VUOLE THOGLIERE IL VINO, ARRESHTATELO»
«Signore, per l’amor di Dio! Torni in lei!» supplica il sergente.
Quando il primo ubriaco lo afferra, il sergente si gira di scatto e lo colpisce con un diretto in pieno zigomo. L’uomo cade a terra privo di sensi. Gli altri Ussari saltano addosso al sergente. Uno sbaglia mira e centra il bastone della tenda, gli altri incespicano e si fanno male contro spigoli, baionette, bottiglie vuote, ginocchia. La tenda crolla e svela agli occhi di tutti cosa sta succedendo. La musica cessa. Le grida tacciono. I grilli smettono di cantare. Zingari, fanti e cavalieri sono cristallizzati in un’unica, immobile, scultura vivente. Davanti a loro c’è un soldato nudo con l’uccello in mano, due che sembrano morti in una pozza di sangue, il colonnello Kartoffen in piedi con un fiasco in mano e il sergente che si rialza lentamente, seguito dalle pupille di ogni essere vivente. 
«Allora… s-stiamo calmi»
Do the harlem shake, dice Dio.
E il campo esplode.



Gli Ussari saltano addosso ai fanti che saltano addosso agli zingari che saltano addosso a entrambi. E’ difficile immaginare una rissa da cinquemila persone, eppure il prode esercito asburgico non esita ad impersonarla. Ovunque lo sguardo vaghi c’è gente che si ravana di botte. Dai cazzotti si passa alle spade. Il colonnello ordina agli uomini di erigere delle fortificazioni  – delle fortificazioni, sì – per difendere il vino e loro stessi dall’assalto dei fanti. Uno di questi, colto da un lampo di genio, decide di trollare l’intera divisione che si sta massacrando di botte per una fiasca di vino. Prende fiato, schiva un cazzotto e urla


«I turchi!»
«Dove?!» chiede un fante che sta venendo accoltellato da un Ussaro.
«Cosa?! I turchi?!» chiede uno zingaro prima di venire abbattuto da una bottigliata.
«Sei turco?» urla un Ussaro.
«No, tu sei turco! Ti sei travestito!» esclama un fante, uccidendo quello che ha gridato.
«I TURCHI SONO TRA NOI, SONO TRAVESTITI!»
In una delle pagine più buie dell’otorinolaringoiatria mondiale, quest’armata di piloti Jaeger passa ai fucili, i cui colpi risuonano nel buio della notte come un tuono.
“Collo terroriFta”
«PERDIO» esclama dall’altra parte del fiume l’Imperatore Giuseppe II, notando i lampi e sentendo gli spari «i nostri esploratori sono sotto attacco! Avanti, guadiamo il fiume e sterminiamo quei bastardi!»
Centomila uomini si scagliano nel torrente lanciando urla belluine. Nessuno potrebbe biasimarli, dopotutto. Uno stratega può prevedere molte cose, ma non che l’intera armata voli sul nido del cuculo cantando la macarena.
Nel frattempo al campo ROM gli Ussari sono convinti che i fanti siano turchi travestiti, i fanti credono l’opposto e gli zingari, nel dubbio, spacano botilia e ammazzano familia. Le tre allegre fazioni si giustiziano a vicenda in un crescendo di drammi esistenzialisti, dubbi etnico culturali e la consapevolezza che tuo cognato ti ha sparato in pancia credendoti un vu cumprà.
E’ perciò una fortuna che dal bosco emerga la fanteria asburgica al gran completo urlando “HALT!”, che in tedesco significa “stop”, ma alle orecchie di tutti suona come “Allah”, parola che li fa accogliere a gioiose scariche di fucileria. I nuovi arrivati vincono il premio Anch’io non ho capito un cazzo e rispondono al fuoco; partono alla carica in un vortice di lame che accresce il già ragguardevole numero di eroi morti. I soldati, ormai del tutto rincoglioniti, si disperdono nella boscaglia sparando a qualunque cosa si muova. Il culmine della serata viene raggiunto grazie un comandante di corpo d’armata, il quale, colto da estasi creativa, fa armare i cannoni e apre il fuoco sulle colline.

Proprio mentre l’Imperatore in persona conduce una carica verso un branco di daini che ruminano paciosi.

La detonazione tritura la guardia reale, un notevole numero di persone e disarciona l’Imperatore che quasi affoga in un ruscello. Lo scaltro dinamitardo capisce che la sua idea non verrà capita dai critici e abbozza, girandosi dall’altra parte, mentre l’esercito continua a ridursi di numero. Solo Nicolai Lilin avrebbe potuto fare di meglio.
All’alba del giorno dopo i turchi si fanno vedere a Karansebes per chiedere ai crucchi se possono fare qualcosa anche loro, ma trovano solo 10,000 morti.

Teodora di Bisanzio

Bisanzio, 490 dC.

Uhallaaaaaah, canta il muezzin, lontano.
Uhamlaflemhlaaaaaaanaaaaaa.

E’ sera. Acacio e Teodora, padre e figlia, stanno spazzando le scalinate dell’Ippodromo. Teodora ha dieci anni. Fatica a muovere la ramazza, preferisce stringere il manico e scorrere le mani su e giù.

«Tesoro, che cazzo fai?» domanda il padre.
«Non so, mi viene naturale»
«Sei tutta tua madre» sorride Acacio porgendole l’acqua.
La figlia beve un sorso e riprendono a spazzare.

«Oggi ho sentito di una principessa adottata da una famiglia povera che veniva riconosciuta dal principe. La sposava e vivevano felici e contenti»
«Belle stronzate» commenta Acacio.
«Non è vero! Può succedere! Tutte le bambine del quartiere si sono anche promesse di restare illibate in modo che il principe le riconosca!»
«Hai mai visto il principe passeggiare nel quartiere?» chiede Acacio.
«No, ma…»
«Qui c’è puzza di cacca di cavallo, giri per strada e la gente ti lancia il piscio dalla finestra, il cibo fa schifo, le donne c’hanno più sifilide che denti e ogni tre secondi c’è una rapina o un omicidio. I bordelli sono territorio della truppaglia più bieca che se deve aspettare troppo esce in cortile e c’è la capra di cortesia. Te lo vedi un ufficiale dell’esercito a infilarlo dentro quei pozzi di gonorrea?»
Teodora tace.

Nel 500 dC Bisanzio conta 500,000 anime. E’ una città caotica e sovraffollata, crocevia di popoli e razze che si mescolano in una macedonia di sacro e profano. Manco a dirlo, il profano è più visibile dalle parti dell’Ippodromo. Teodora è nata qui, in un quartiere che pullula di attori, danzatori, ciarlatani, maghi, lottatori, scommettitori e mignotte. A lei piace. Le piacciono i mimi che prendono in giro i potenti, le grida dei commercianti, gli uomini dalla pelle colorata, le risate sguaiate delle prostitute, i cammelli che portano merci strane ed esotiche. Acacio scuote la testa, lascia cadere la ramazza e conduce la figlia fuori, risalendo le scalinate dell’anfiteatro. Una volta in cima indica la città che cola giù dalla collina, una distesa di palazzi giallastri che si confondono fino a immergersi nel Bosforo. Dall’altra parte della sponda, la luce del tramonto illumina le guglie del palazzo dell’Imperatore.

Uhallaaaaaah, canta il muezzin, lontano.
Uhamlaflemhlaaaaaaanaaaaaa.

«Lì ci sono donne belle, giovani, nobili ed educate. Principesse da tutto l’oriente, cibi e bevande così deliziosi e rari che alcuni si dice provengano da un altro mondo. E’ fresco d’estate, caldo d’inverno e pulito. Perché un principe dovrebbe venire qui?»

Teodora tace ancora, impressionata da quella visione.
E’ una bimba macilenta, occhi nocciola, capelli crespi e neri come l’inchiostro. Le mani sono callose e martoriate di tagli, le sopracciglia incrostate di fango. Acacio nota la figlia che, sovrappensiero, tenta d’infilarsi la ramazza in gola il più a fondo possibile.

«Tesoro, giocherai più tardi»
«HA AHHA GHAGGA GHE RIEHE!!»
«Lo so che alla mamma riesce»

Teodora stringe con due dita la ramazza davanti alle sue labbra, poi estrae dalla propria gola quindici centimetri di manico. Lo osserva con soddisfazione. Poi un’ombra di tristezza le attraversa gli occhi.

«Perché tutti ci odiano?» domanda trasognata.
«Ma che dici?»
«Quando usciamo per pulire, la gente sugli spalti ci ride dietro. Ci insulta, ci sputa, dicono cose orrende. Perché lo fanno?»
«La maggioranza delle persone decide in base a quello che fanno gli altri, come i pesci. Ci sono quelli che seguono il branco e quelli che lo seguono camminando all’indietro, come i gamberi. Nessuno ci odia. E’ che tra loro si stanno antipatici e la sola cosa che li mette d’accordo è insultare qualcuno in comune»
«E perché proprio noi?!»

«Perché contiamo meno delle mattonelle e non possiamo fargli niente»
«Sono dei vigliacchi» decreta la bimba con gli occhi lucidi «tanti e vigliacchi»
«Vieni qui» dice Acacio allargando le braccia. Teodora ci si infila come un verme nella carcassa putrida di un cane morto da due settimane sotto il sole di agosto. O almeno, questo è l’odore che ognuno di noi sentirebbe. Per lei è il profumo più dolce del mondo.

«E’ vero, siamo poveri» annuisce Acacio «viviamo spalando escrementi di tigre, mangiamo una volta al giorno, dormiamo in baracche senza vetri alle finestre, cachiamo per strada e ci puliamo con la mano, la nostra aspettativa di vita in questo periodo storico si attesta sui 45 anni, siamo circondati da disoccupati, pezzenti e artisti di strada, però qualcosa di buono l’abbiamo: noi. Ci vogliamo bene. Tu me ne vuoi?»
«Tantissimo!»
«E allora lo vedi che qualcosa di buono c’è? Oggi è anche il mio quarantaduesimo compleanno!»
Acacio muore.

Il giorno dopo l’Ippodromo brulica di gente infoiata e festante in attesa dell’evento sportivo più in voga a quel tempo, ossia guardare cavalli che corrono e sognare di mangiarseli. I due cerchi sono divisi in tifoserie, Verdi e Azzurri. Il portavoce dell’Imperatore fa segno di tacere e il rombo della folla diventa un brusio.

«HO UN ANNUNCIO PER VOI, CREMA DELLA MERDA» proclama l’uomo «FARSI MOZZARE I TESTICOLI MI HA CONCESSO L’INDISCUTIBILE PRIVILEGIO DI PARLARE PER BOCCA DELL’IMPERATORE QUANDO LUI HA CALDO»
Mesto applauso di stima.

«EBBENE, BLATTE SACRIFICABILI, VI ANNUNCIO IL TRAPASSO DELLA TERZA GENERAZIONE DI GUARDIANI DELL’IPPODROMO. LE FIGLIE DI ACACIO SONO QUI PER CHIEDERE UN AIUTO ECONOMICO PER IL LORO MANTENIMENTO O SCHIATTERANNO DI FAME. SICCOME E’ DIVERTENTE VEDERE I POVERI CHE SI PESTANO CON I POVERI PER DECIDERE CHI DI LORO E’ PIU’ POVERO, POTETE ESPRIMETE LA VOSTRA OPINIONE»

Dall’ombra dell’androne emergono la moglie di Acacio con le figlie conciate a festa. La folla ride. Pronunciano una supplica con occhioni tristi e vengono accolte con lanci di immondizie, fischi e risate sguaiate. La madre fa un inchino, prende un sasso in faccia con grande contegno, fa un secondo inchino al palco dell’Imperatore, poi prende congedo accompagnata da altre parole dolci. Si accorge troppo tardi che Teodora ha lasciato la mano della sorella e sta al centro dell’Ippodromo con le mani sui fianchi, sfidando con lo sguardo le tribune. Quando lo stadio se ne accorge cala un silenzio elettrico.

Pesci e gamberi, pensa Teodora.
«VOI VERDI FATE SCHIFO!» grida «VIVA GLI AZZURRI!»
L’Ippodromo esplode.

L’Imperatore scoppia a ridere, deliziato. La curva dei Verdi detona in un mare di facce distorte dall’odio che scagliano sulla ragazza ogni epiteto e oggetto a loro disposizione, ma per Teodora non è una novità. L’unico suono che sente è alle sue spalle; centinaia di anime che fino a prima le lanciavano sputi ora applaudono, la incitano, le sorridono. Lei fa un inchino e rientra, lasciandosi alle spalle un olocausto di urla. Il giorno dopo, gli Azzurri garantiscono un sostegno economico che la madre usa per risposarsi. Mette le figlie a teatro a far spettacoli di “mimo satirico e ironico”, che gli storici dell’epoca giudicano “patetiche scuse per gli spogliarelli”. E’ bello notare come la scusa del burlesque sia radicata nelle donne da oltre millecinquecento anni.

Teodora non sa cantare né ballare e recita peggio della Gerini, ma ripulita da stracci e sporcizia fa cadere le mascelle; è bella. Oscenamente, vergognosamente bella. La piccina impiega poco a scoprire il suo vero talento. Mostra le tette, mima amplessi e in meno di un mese ha chi la mantiene in cambio di nerchiate sul viso. Scopa con qualsiasi cosa cammini e guadagna valanghe di soldi. Per due anni salta da un cazzo all’altro come il più atletico dei bonobo, non disdegnando orge, rapporti lesbo, clienti brutti, vecchi, grassi o stronzi. Il suo nome gira per i quartieri.

E’ la più bella, dicono i ragazzi.
E’ la più vacca, dicono gli uomini.
Pacific rim è bellissimo, dice l’Internet.

Non è la sola cosa che impara: gli uomini a letto parlano. Tutti i ceti sociali hanno una storia da raccontare e Teodora li ascolta con egual attenzione. A letto impara a scopare, in camera impara la politica, l’intrigo, le gerarchie, la strategia. Una volta un’intera falange tornò in città dalla guerra. Non vedevano una donna da anni e non era raro che in questi casi le ragazze venissero un po’ strapazzate, nel senso che ne entravano trenta e ne uscivano venti, tutte incinte. Le zoccole della zona si rifiutano, terrorizzate. Teodora entra nel bazar di Samir Al-Atta all’ora di cena. E’ la sola donna presente. L’intero bazar, già abbondantemente su di giri, ammutolisce.

«E tu chi sei?» chiede un soldato.
«Quarta falange, giusto? Avevate chiesto compagnia. Eccomi qui»
Parte l’ovazione.

«Le altre sono belle come te?» domanda il soldato.
«Non ci sono altre»
«SEI SOLO TU?!» sbotta il comandante «ma noi siamo cinquantasei!»
«Farete a turni di tre» sbuffa Teodora, lasciando cadere il vestito «forza, prima gli ufficiali»

I resoconti storici qui dissentono. Procopio di Cesarea sostiene che Teodora soddisfò tutti e, non paga, se li ripassò due volte. E’ bello immaginarla che sputa sperma con sacro furore urlando “il prossimo”. Altri dicono che uscì all’alba retta sottobraccio dal locandiere. Non che una cosa escluda l’altra. Dopo questa storia, il suo nome diventò leggenda. Impiegò poco a capire come turlupinare le altre zoccole. Erano belle, ma non avevano il carisma né l’esperienza di una che doveva eccitare i clienti medi emulando il verso del cammello. Il problema era che gli stessi clienti che la inculavano, per strada iniziavano a cambiare marciapiede. Non vogliono essere visti vicino a lei. La sua fama degenera fino a isolarla, lei capisce l’andazzo e se ne va. Gira per le città dell’oriente e approda ad Alessandria. Una città dove monasteri e bordelli hanno lo stesso peso politico, la fica domina e i poteri si incrociano. Nessuno sa cosa sia successo lì; Teodora fa ritorno a Bisanzio tre anni dopo, ottiene udienza dal principe Giustiniano I che la prende in sposa in sei mesi.

Il 4 aprile 527, Teodora viene incoronata Imperatrice di Bisanzio.

Se dare la tua carta di credito a una donna non è mai una buona idea, dare a una spogliarellista soldi e potere illimitati è veramente un’idea del cazzo. Teodora aumenta le tasse fino a schiacciare la popolazione per potersi permettere feste, orge, banchetti, sculture e monumenti alla sua persona. Per le strade tira brutta aria. Un giorno, durante uno spettacolo all’Ippodromo – a cui Teodora assiste dal palco imperiale – sia i Verdi che gli Azzurri cominciano a urlarle insulti e proteste. Monta la rivolta. Le due fazioni si uniscono, escono dall’Ippodromo e reclutano passanti. Distribuiscono armi e trasformano la città in un campo di battaglia. Asserragliati nel palazzo imperiale, Giustiniano fa la cazzata che fanno tutti i regimi terminali: fa concessioni. La folla s’inebroa di entusiasmo, capisce che più ammazza più ottiene e dà l’assalto al palazzo.

«Ragà, io mi leverei di culo tipo subito» fa l’Imperatore «meglio una disonorevole fuga di un’onorevole morte»
Un sasso distrugge la vetrata, seguito da una freccia.

«Sa che mi ha convinto?» dice il primo ministro.
«Che poi non è che scappiamo, è solo per la merenda»
«Ma infatti, guardi, io manco mi porto le valigie»

«Tesoro» dice Giustiniano a Teodora «il tuo shopping c’è costato solo un impero, io me ne andrei prima che c’impalino»
«Andate pure» dice lei afferrando una spada «io resto qui»
«Guarda che questi non li calmi a bocchini»
«Il sangue è un bel colore per il sudario, e il trono è una tomba della madonna. Ora fuori dalle palle, mezze seghe»

Teodora pronunciò davvero questa frase. Sebbene il discorso non somigli a nessun monologo motivazionale hollywoodiano, gli uomini realizzano che l’unica persona nella stanza dotata di testicoli è una donna. Punti nell’orgoglio, decidono di restare e combattere. Riorganizzano le truppe e respingono la suburra. La situazione è di stallo. Da una parte studenti, disobbedienti, precari e femministe. Dall’altra Teodora. Anni di lenzuola le hanno insegnato che dove non arriva la spada arriva la lingua. Grazie ai vecchi agganci corrompe il capo della fazione Azzurri, il quale convince le truppe ribelli a barricarsi nell’Ippodromo. Una volta dentro, impossibilitati a fuggire, Teodora dà l’assalto in testa alle truppe, menando spadate e trucidando tutto quello che le capita sotto la lama. Alla fine, nell’ippodromo rimarranno 35.000 cadaveri. Teodora lascia cadere la spada, cammina tra i corpi mutilati affondando nel sangue fino alle caviglie. Raggiunge lo spiazzo dove quelle persone l’avevano derisa da bambina vent’anni fa. Si guarda attorno. E’ invecchiata, ferita e spossata. Solo lo sguardo è lo stesso.

«Scusa se c’ho messo tanto, papà» mormora.

Uhallaaaaaah, canta il muezzin, lontano.
Uhamlaflemhlaaaaaaanaaaaaa.

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Bibliografia
S.Castellanos, Mujeres perversas de la historia, Gruppo editorial Norma, Bogotà, 2008
P.Cesaretti, Teodora, ascesa di una imperatrice, Mondadori, Milano 2008
S.Bonura, Le 101 donne più malvagie della Storia, Newton Compton, 2011
C.Diehl, Figure bizantine, Einaudi, Torino 2007
S.Klein e M.Twiss, I personaggi più malvagi della Storia, Newton compton, Roma 2006
Procopio di Cesarea, Storia segreta, Sonzogno, 1818