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01. La chiamata dell’eroe

01. La chiamata dell’eroe

L’idea ci venne durante una di quelle lunghe e dolorose domeniche d’estate in periferia, quando i rintocchi di campanili e l’abbaiare annoiato dei cani ti ficcano la miseria nelle ossa anche se è luglio. Io, Ario, Luca e Atza eravamo seduti sulle scalinate di un condominio, soli in mezzo a quel che restava dell’ottimismo architettonico anni ’60. Attorno a noi asfalto vecchio, siringhe e preservativi facevano da materasso per il paese reale: adulti partiti per cambiare il mondo e finiti a cambiare canale, ragazzini partiti per combattere il sistema e finiti a combattere le proprie tossicodipendenze.

Avevamo appena scoperto che a compiere diciotto anni non cambiava nulla.

Eravamo i soliti quattro sfigati. Un rapper, un truzzo, un metallaro e un bravo ragazzo che avevano scelto strade diverse per esprimere la propria adolescenza, ma che condividevano i grandi valori della vita: sognare di trombare Antosha, una prostituta dell’est nostra coetanea. Aveva pelle bianca come la neve e nessuno sapeva dire che faccia avesse, perché il suo reggiseno strabordava di ciò di cui sono fatti i sogni.

Batteva alla fermata del 21/. Scendeva dall’autobus verso mezzanotte in jeans e canottiera, entrava nel boschetto e ne usciva in versione pornodiva. Costava 50,000 lire a cranio, che per noi era il bilancio annuale. Anche grattando dai cappotti e dai portafogli dei genitori riuscivamo a fare su il minimo necessario per birra, droga, sfide a Point Blank e miscela per il motorino.

«Ma Cristo, solo io, qui, ho sangue nelle vene?» dice Ario, alzandosi in piedi «Ormai siamo maggiorenni, abbiamo dei doveri: la coscia di Antosha ha bisogno d’aiuto e l’Italia che fa? Perché QUESTA è l’Italia, signori. Un paese dove giovani volenterosi, gagliardi, sono costretti a delinquere per poter fare il loro dovere. Insomma: tocca scippare.»
«MA QUANDO MAI?!» sbotto.
«Dai, ci facciamo una vecchia, magari stiamo attenti a non strapazzarla e siamo a posto.»
«Pieno così di vecchie con 200,000 lire in borsa» dico.
«Ma noi ce ne facciamo tante! Se m’avessero insegnato matematica così sarei ancora che studio. Ogni vecchia ha una borsa con 30,000 lire e un portapillole d’argento che ne vale 60,000. Se il ricettatore prende metà del guadagno e Antosha per aprire le gambe ne vuole 50,000, quante vecchie deve scippare Ario per scopare? Altro che le mele della signora Pina che va al mercato.»

Io

«NIENTE. VECCHIE.» scandisco.
«Va bene, allora stiamo più nella comfort zone: svaligiamo appartamentini» fa Ario «Che tu hai esperienza.»

Era parzialmente vero. La storia d’amore della mia adolescenza era stata una ladra, a Venezia. Ci ero stato abbastanza da imparare a usare arnesi da scasso artigianali e conoscere i fondamenti pratici e teorici del ladro d’appartamenti.

«Sentite, è inutile: prima di scassare servono dritta e ricettatore. Non abbiamo nessuna delle due» dico «Se in una casa c’è qualcosa di valore lo devi sapere prima. Non puoi andare a caso, o sei come quei mentecatti che rapinano gente per strada e finiscono in galera per un telefonino scassato e tre monete. Le dritte sulle case te le dà il personale di servizio, i vicini di casa, gli operai che lavorano sulle impalcature, i tecnici della caldaia, idraulici, elettricisti; insomma, quei mestieri che impari in galera per riabilitarti. Quando subisci un furto in casa, la prima cosa che fanno i poliziotti è parlare con i vicini, poi informarsi se hai fatto lavori in casa. Poi serve il ricettatore.»
«C’è il padre di Taglia, ricettatore perfetto» fa Ario «Adesso fa il rigattiere, ma alle spalle ha un rispettabile curriculum di furti, rapine, scippi. Poi è stato dentro qualche anno e ora ha imparato che “profilo basso” e “Mercedes vetri oscurati” non fanno rima.»
«Quindi è controllato» sospiro «Non puoi fare come gli slavi che vanno dai gioiellieri, è il primo posto dove vanno a cercare. Non puoi nemmeno tenerti la roba in casa sperando di venderla in futuro: devi prendere e rivendere entro poche ore, perché appena hai in mano roba altrui, da qualche parte un poliziotto o un Carabiniere stanno pensando il tuo nome.»
«Nebo noi dobbiamo fare su 200,000 lire, no Houdini che svaligia la banca d’Inghilterra. E poi siamo tutti più o meno incensurati. Dunque entriamo in un posto X, arraffiamo quel che capita e via dal Taglia» fa Ario.

«Ma certo. Ciao Taglia, ho questo prestigioso frullatore degli anni ’80 che funziona a carbone, coprimi d’oro» dico «Taglia ecco questi deliziosi quadri dipinti da una commessa in crisi di mezza età, mi raccomando, i milioni li voglio in tagli piccoli. Taglia qui ho un ironico portaombrelli a forma di cazzo, dammi direttamente le chiavi del BMW.»

«Nebo, il tuo disfattismo è sconcertante» fa Ario.
«Tanto non abbiamo la dritta, stiamo parlando di niente.»
Silenzio.

Din don don, din don don, fanno le campane segnando le nove

«Perché stiamo parlando solo di case?» domanda Luca «Perché non… un collegio?»
Tutti e tre ci voltiamo a fissarlo come se fosse emerso dalla terra.

A diciotto anni, Luca voleva far parte della gente perbene. Voleva essere come i suoi genitori volevano. Ma era uno di noi, e lo detestava. Si tirava dietro la sua anima come un vecchio fumatore si trascina la bombola d’ossigeno, sempre con la gamba saltellante sotto al tavolo, i sospiri a mascella serrata, lo scuotere impercettibile della testa. Ogni dettaglio gridava il suo bisogno di essere perbene, mentre ogni muscolo svelava la sua natura.

E faceva di tutto per stare in quei ristretti circoli di mostriciattoli detti “compagnie giuste”. Arrivava in piazza Ferretto con i capelli gellati, la camicetta bianca e il maglione blu, i jeans di marca, le scarpe perfette. Si aggiungeva ai cerchi dei compagni di scuola che parevano fatti in serie. Stava a spalle strette e sopracciglia corrugate, il sorriso teso a mordicchiarsi le pellicine del labbro, citando tormentoni della TV come massima forma di comunicazione. Sembrava si divertissero un mondo, invece lo vedevi entrare al Pool alle dieci e mezza, massimo alle undici. Spesso con la faccia gonfia.

Perché aveva scatti di rabbia spaventosi.

Beveva troppo, poi attaccava rissa senza provocare, senza le spinte, senza gli insulti: prendeva una sedia e la sfasciava sulla schiena di un tizio di passaggio. Tirava un cazzotto a una persona a caso. E la gente perbene lo adorava, perché i bulli sono odiati nei film quanto amati nella vita reale. I bulli continuano a essere tali perché la gente li istiga. Sono divertenti, rendono le serate eccitanti. A nessuno importava che le botte che Luca pigliava, in realtà, se le stava dando da solo. La sua più grande sfortuna, in fondo, era l’intelligenza. Quella tagliente e indomabile, famelica di libertà, capace di consumarti le viscere.

Quand’era con noi si trasformava.

Arrivava al tavolino, unica camicia bianca di tutta la sala giochi. Fisico asciutto, spalle curve e strette, guance incavate. Ci guardava, arricciava il naso, scuoteva la testa. Prendeva una Coca al distributore – al Pool non c’erano alcolici – e dieci minuti dopo chiacchierava con noi sui tavoli unti, il linoleum con le bruciature di sigaretta, la cacofonia della radio sovrapposta ai videogiochi, la puzza di sudore e ganja, le ragazze che parlavano solo dialetto. Le spalle si allargavano. Prendeva colore. Faceva respiri più lunghi. La sua gente era lì fuori, lontano dalle luci lampeggianti degli arcade. Erano le macchine regalate dai genitori che sfrecciavano in tangenziale mentre noi scaldavamo i bong in campagna. Erano carriere, investimenti, aziende di famiglia, adulti in divenire. Quindicimila lire per un Angelo azzurro sul tavolo a bordo pista dell’Area city, con le ragazze che cantavano quella nenia malinconica e crudele di Alexia, me and you, la la la la la laaa. Luca odiava quella canzone. Ogni volta che al Pool la mettevano, si alzava e chiedeva di cambiare.

«Scusa, che collegio?» domando.
«Ad Astorzi di Boion. Ci andavano i figli dei ricchi negli anni ’80, quest’anno ha chiuso. L’ho letto sul giornale. Forse c’è ancora la roba dentro.»
«Dunque tutto il ciarpame sciccoso è ancora al suo interno» fa Ario, grattandosi il mento «Mobilio di pregio, argenti, cose gay rivendibilissime. Nebo?»
«Che sia distante da qui sarebbe anche un vantaggio» ammetto «Quanto?»

Quaranta minuti di macchina. Decidiamo di fare un sopralluogo, tiriamo fuori tutti i nostri risparmi e totalizziamo 9.850 lire per la Fiat 127. Ario stringe i soldi nel pugno: «Dio! L’eccitazione dell’avventura manigolda preme, la sentite anche voi o no? Vamos, vamos!» ringhia a denti stretti «Palle vuote o galera! Sarà come una di quelle storie di grappa e spada, dov-
«Cappa e spada.»
«…dove gli eroi assaltano il castello per rubare e trombare la principessa. Nulla potrà fermarci.»

Invece sì. Ma sono passati oltre 15 anni, i reati sono in prescrizione.
Andiamo a incominciare.
[continua]

Se questo è un biomaschio

Di recente Facebook ha implementato la possibilità di modificare il proprio sesso. Oltre a maschio e femmina, aveva aggiunto 50 opzioni. C’è stata un’insurrezione popolare, così le opzioni sono rapidamente diventate 71. Essendo io nato maschio con aggravante etero (che nella neolingua si pronuncia biomaschio, o cisgender) ho sempre pensato si potesse nascere maschi o femmine, e che ti potessero piacere maschi o femmine. Che c’era di complicato?

Oggi i miei amici, quando in Internet parlano al plurale, scrivono “ragazz*” con l’asterisco alla fine, perché se uno legge “tutti” ed è una donna, si sente escluso.

Non ho mai visto niente di tanto ritardato sullo schermo. Niente. Nemmeno quelli incapaci di tirarsi una secchiata d’acqua arrivavano a tanto. Cazzo, ora che ci penso nemmeno Vanessa che pensava fosse la Rice bucket challenge, arrivava a tanto. Il nuovo Blade runner dovrebbe avere come teaser trailer uno che entra in un ufficio, dice “buongiorno a tutti” e in un angolo una tizia scoppia a piangere.

Eppure è considerato un grande passo avanti. Nell’articolo, l’intervistat* dichiara che per la prima volta può andare in un sito e dire alla gente qual è il suo gender. Ma perché comunicare alla gente le proprie abitudini sessuali è così importante? Perché oggi uno deve dirmi “ciao, mi piace vestirmi da volpe e farmi sodomizzare da un nano ermafrodita”? Sembri Bran quando dice di essere il corvo a tre occhi, cazzo.

«Ciao, io sono Nebo.»
«Ciao, sono un* trans nonbinary queer lesbian transformer megatron.»

Però sapete cosa, ho 37 anni. Il mondo cambia, è interessante scoprire come. Ho così deciso di informarmi recandomi in una comunità LGBT (Lesbiche, gay, bisessuali e transgender). Entro, domando se sono nel posto giusto e uno si mette a urlare che avevo urtato la sua sensibilità: la sigla giusta è LGBTQIA (lesbian, gay, trans, queer, intersex e asexual). Il tizio non aveva ancora finito di insultarmi che dalla stanza di fianco sono fuoriusciti altri tizi indignati perché aveva emarginato delle categorie. La sigla giusta è lesbian, gay, bisexual, transgender, queer, questioning, intersex, intergender, asexual, allied, pansexual: in una parola, LGBTQQIIAAP. Me la stavo segnando sul taccuino quando una porta s’è spalancata e sono entrati due indiani Navajo qualificandosi come Two-Spirit: persone di etnia diversa da quella bianca che esigono una categoria tutta loro in segno di rispetto. La sigla è subito diventata LGBTQQIAAPP+2S.

In inglese si pronuncia El gi bi ti chiu chiu i ei ei pi pi plus two es.
Servono tre secondi e mezzo solo per pronunciarlo.

Si parte con l’agender, uno che si ribella all’ordine costituito autoassegnandosi gli stessi attributi sessuali di Ken. Poi c’è l’androgino, tipo Justin Bieber. Il bigender, uno sia maschio che femmina tipo i dinosauri di Jurassic park. Entriamo poi nella categoria cis, ossia gente sana di men a proprio agio con la propria sessualità. Si dice cisgender perché viviamo in un mondo in cui il panino è finger food, lo zoo è il bioparco, il magazziniere è lo storeroom manager, e nei menu un hamburger ha il cheddar, il bacon, gli onion ring.

Poi c’è Gender fluid, il tizio che avete conosciuto alla festa e a quella dopo si presenta vestito da donna e pretende di essere chiamato Cristina perché quella sera si sente femmina. C’è il gender nonconforming, uno che si ribella alle definizioni dei ribelli e sceglie di avere un genere sessuale non conforme a nessuna regola.

Qualsiasi cosa significhi.

Tipo così, immagino.

Ecco poi il gender questioning, uno che passa molto tempo a domandarsi se gli piacciono gli uomini, le donne o gli animatroni del villaggio dei pirati a Gardaland. Il gender variant, che vorrebbe essere qualcosa che la società gli impedisce di essere, qualsiasi cosa sia, incluso un elicottero militare. Il genderqueer invece non accetta che al mondo si possa nascere solo col pene o con la vagina: una battaglia sacrosanta. Il non-binary è la stessa cosa del bisex, ma più intellettuale. Il pangender invece si sente sia maschio che femmina, ma in percentuali variabili. Tipo 60% maschio e 40% femmina, che esce in base a quanto hai voglia di rovinare la festa universitaria agli altri. I trans invece hanno centinaia di sottogruppi, ognuno dei quali merita rispetto. All’università di Oxford è vietato rivolgersi al maschile o al femminile: al posto di “she” o “he” bisogna usare “ze”, termine neutro della neolingua per non offendere i trans.

A questo punto ho capito di essere vecchio e destinato all’estinzione. Vengo da un mondo in cui i rapporti interpersonali erano più semplici. Ti vedevi, ti conoscevi, ti piacevi, scopavi. Oggi mi trovo a non avere le competenze necessarie per rivolgere la parola a qualcun*. Mia madre mi aveva insegnato ad alzarmi quando entra una signora, ad aprirle la porta, a dare del lei, a regalare fiori, ad attaccare discorso per primo, ad annodarmi la cravatta. Tutta roba oggi vietatissima. Regalare fiori a una donna è considerato molestia. Anche aprirle la porta. Persino se mi metto la cravatta sono sessista. La verità è che non capisco un mondo dove per calcolare equazioni basta premere un tasto mentre per capire se possiamo innamorarci prima devo laurearmi e prendere un master.

 

Uno studente mostra con orgoglio il prestigioso master,
ottenuto all’Università di Pavia.

 

Mi trovo a empatizzare coi millennials che invece di scopare preferiscono stare a casa a guardare serie TV e schiantarsi di psicofarmaci. Chi te lo fa fare, a interagire con qualcuno senza prima aver verificato il suo gender sui social? Che ne sai se in quel momento si sente più Clara o più Francesco? Sbagli un pronome e sei fottuto. Ti screenshottano e il giorno dopo vieni licenziato. O magari quello ti accusa di molestie.

Inoltre, secondo Tom Ford, ogni uomo dovrebbe farsi penetrare almeno una volta per capire meglio le donne. Ma per la madonna, adesso non bastano più le sei ore davanti ai camerini, i pianti da sindrome premestruale, il mestruorage, le tendine coi fiorellini e il tappeto della camera che richiama il quadro della testiera del letto?! Non bastano i “dobbiamo parlare”, i silenzi passivo aggressivi, i “cos’hai niente”?! Devo pure prenderlo nel culo?!

Calma.

Forse hanno ragione i miei amici nella moda a dire che il biomaschio è destinato a diventare minoranza e poi a estinguersi in favore di una sessualità fluida e intercambiabile. Il Time ha dedicato una copertina, a ‘sti gender. In giro per il mondo, le cose stanno cambiando parecchio: a otto anni del sesso mio o altrui manco ci pensavo, l’unica cosa che volevo a ogni costo era lui.

Oggi, alla stessa età, Lactatia è una transgender canadese.
In Svezia, sullo stesso discorso, fanno dei talent seguitissimi.

 

Quindi boh. Staremo a vedere. Ultimamente ho la sensazione di guardare gente di ogni tipo appiccicare manifesti diversi sopra un solo monolite che nessuno sembra voler vedere, ma che li unisce tutti. Cosa sia, ancora non lo so.

“Nebbo gli difende ai nazzisti!!1!!”

A Charlottesville, in Virginia c’è stata una manifestazione di naziskin (so che adesso il nome è superato, ma sempre quelli sono). Si è aggiunta una manifestazione di antifa (sempre nazi, ma con la bandiera arcobaleno). Entrambi se le sono date con spranghe e scudi, una macchina ha investito intenzionalmente degli antifa, gas lacrimogeni, urticanti, solito copione che vediamo anche da noi ogni tanto. In Internet esce la foto di un tizio che manifestava tra i nazi.

 

La rete si affretta a trovare il suo nome e cognome e a sputtanarlo. Io dico che tutto questo è assolutamente Black mirror, perché l’opinione non è un reato e non deve avere conseguenze, secondo quel principio tanto sbandierato quanto tradito della libertà d’espressione.

Addio.
A quanto pare, difendo i nazisti.

Io.

 

A scanso di equivoci: la discriminazione razziale, sessuale o etnica è una puttanata che è stata sbugiardata da antropologi e scienziati in ogni dove; il nazismo si è dimostrato quanto di peggio sia stato partorito nella Storia europea degli ultimi 2000 anni. È un’ideologia basata su bias cognitivi, ignoranza, insicurezza, senso di impotenza, stress su cui sono stati scritti libri su libri, tutti con le stesse medesime conclusioni. Il nazismo è merda.

Allora perché esistono ancora? O meglio: perché stanno uscendo allo scoperto? Una volta questi pidocchi stavano nei sottoscala, nei loro circoli, e si guardavano bene dal farsi vedere in giro.

Cos’è cambiato?

Perché qualcosa È cambiato. Negarlo, silenziarlo, ridurlo ai minimi termini, bollarli come feccia e girare la testa dall’altra parte non solo non sta funzionando: li sta rafforzando. Allora forse sarebbe il caso di fare un respiro profondo, stringere i denti e trovare il coraggio di guardare in faccia questo problema. Perché è un problema. L’aumento dell’estremismo è un problema serio, grave, presente.

Possiamo parlarne?

Possiamo risolvere il problema, invece di chiuderci le orecchie e ripetere che Voldemort non è tornato? Perché i fascisti stanno contagiando quelli che dovrebbero combatterli. Gli passano i loro metodi, la loro mentalità, e vincono inevitabilmente perché violenza, repressione e linciaggi sono il loro terreno di gioco. Far perdere il lavoro a qualcuno per quello che pensa è un metodo fascista. Diffamare qualcuno per quello che pensa è un metodo fascista. Dire “con loro le regole non valgono” è la più pura e infame filosofia fascista. Schedare i manifestanti e perseguitarli è la quintessenza del fascista.

Allora cosa ti rende migliore o diverso?
Ho ragione ad ammazzarti, perché tu ammazzi quelli che hanno torto?

Davvero vogliamo risolvere il problema? O forse vogliamo fare finta di risolverlo, magari per poterci tenere comodo un capro espiatorio quando usiamo i loro metodi, i loro ragionamenti, i loro bias; così da poter dire “mica siamo loro”.

Sto solo domandando.

Non è che se voti a sinistra sei un brigatista, non è che se sei musulmano sei terrorista, non è che se voti a destra sei fascista. Sono semplificazioni da indottrinati e, soprattutto, ignoranti. Le persone sono complesse. Dietro un nazista del 2017 c’è un essere umano che ha visto certe cose e tratto certe conclusioni. Esiste, nel 2017, qualcuno che sceglie di arruolarsi nell’IS, o di diventare un nazista.

Ma solo a me interessa capire perché? Solo io credo che per risolvere un problema sia necessario capire come, dove e perché è nato? Scelte del genere sono la risposta a cosa? Qual era la domanda? Cosa cercavano? Chi erano prima?

“Ah, stai umanizzando il male”.
EH, SI. Perché piaccia o meno siamo tutti esseri umani. È proprio questa la base imprescindibile su cui ci si confronta, si comunica, si cresce, e alla fine si evolve. Se trasformi l’interlocutore in entità, no. Se dici “i nazisti/pedofili/stupratori/terroristi non sono esseri umani” magari fai un sacco di like su Facebook, ma sei parte del problema del cazzo, non della soluzione. Non sconfiggi qualcosa demonizzandolo o ghettizzandolo (ossia come fanno loro): lo sconfiggi sgretolandolo. Punto per punto, con calma, razionalità, pacatezza e logica. Finché uno dei due finisce per ammettere a sé stesso che ha torto.

Da lì è tutto in discesa.

Se sei davvero sicuro di te, delle tue idee, se sei certo le tue siano opinioni e non dogmi, allora non hai problemi a discuterle. Se invece ti arrocchi, chiudi il dialogo, urli slogan, qualcuno potrebbe pensare che non sei così sicuro di te. Qualcuno potrebbe addirittura pensare che non vuoi un dialogo perché hai paura di cambiare idea.

Il male trova sempre adepti tra mediocri e ignoranti.
Viceversa, codardi e imbecilli non hanno mai un seguito.

I nazisti del 1943 non erano “il grande male”. Erano un popolo di mediocri, stremato, che ha fatto una delle tante carneficine insensate della Storia nel nome del solito pallosissimo identitarismo, che riusciva a fare gli orrori che ha fatto solo grazie a droga, psicopatia, psicofarmaci, paura, stupidità e fanatismo. QUESTI SONO I PUNTI SU CUI LI SMONTI. Questo è il modo per dimostrare che il nazismo e il fascismo non sono L’Impero. Non hanno fascino. Non hanno ragione. Non hanno idee. Non hanno epica. Nessuno vuole essere Milosevic. O Gheddafi. O Stalin. O Saddam Hussein. Sono dittatori ignorati, derisi, o visti per quello che erano.

E se hai questo in testa, inizi a capire la chiave per sconfiggere i nazisti del 2017. Perché c’è un motivo, se stanno aumentando. E dove c’è un motivo, c’è un’origine. E se c’è un’origine, c’è anche un modo per terminarla.

Magari sbaglio.
Magari la soluzione è davvero linciare gente sui social e poi andare a vedersi Game of Thrones. Ma ho l’impressione non stia funzionando.

Nello sfintere della balena

La giornata inizia alle 6, quando gli impiegati aprono le aziende facendo partire gli allarmi. Risuonano come petardi a capodanno qui e lì. Riconosci il UUIIIIIUUUUUIIIII di una, il UA’UA’UA’UA’ dell’altra. Mi trovo a fantasticare se il capo abbia scelto la suoneria come fai con quelle del cellulare.

WAAAA-WAAAA-WAAAAA
«QUESTA LE PIACE?!»
«NO FA UN PO’ VECCHIO»
EEEEEEEOOOOOOOOEEEEEEEEOOOOOO
«QUESTA?!»

Non ce l’ho con gli impiegati. Quei cosi vengono installati dai paranoidi dirigenti, convinti il mondo pulluli di gente ansiosa di rubare il loro rossetto gigante da salotto. Impostano quindi la tolleranza dell’allarme a livello Internet; la fotografia di due gambe di donna sull’asfalto potrebbe urtare la sua sensibilità, un’esplosione che smembra 30 persone no. Risultato, appena lo attivano il malnato scatta dozzine di volte al giorno, tanto che se ormai un ladro entrasse davvero per rubare qualcosa, dai palazzi la gente scenderebbe a ringraziarlo.
AAAAAAAAOOOOOOOOOAAAAAAAAOOOOOO

«Madonna cheppalle» dico.
«No, scusi» fa il vicino sporgendosi dalla finestra «è lei che è uno snob.»
Ah, giusto.

Dopo un anno in questa città ho capito che se esprimi opinioni diverse dall’intellighenzia di Twitter sei uno snob, modo elegante che hanno qui per dire dilettante contadino. A Milano persino gli allarmi alle sei di mattina vanno ascoltati o, al massimo, ignorati. Tutto qui è una performance artistica, una provocazione postmoderna, una composizione sonora avant garde. Quello che salta la coda al semaforo e mette la freccia all’ultimo potrebbe stare facendo una performance d’arte figurativa, se è bianco e ha un’automobile ironica. Se invece ha un SUV no. L’altra sera entro in un locale raccomandatissimo e ordino un white lady. È uno dei cocktail più vecchi del mondo. Semplice, pulito, efficace. Mi portano tre bicchierini da shot su un vassoio in pietra lavica.

«Quello contiene il gin, quello il triple sec, quello il limone» dice il cameriere.
«Grazie, però io avevo chiesto un…»
«È un White lady. Ma destrutturato.»
«E come lo shakero?»
«Non ha capito. È una provocazione del mixologist. Gli ingredienti vengono serviti separati, è il cliente a mescolarli dentro di sè, sostituendo al ghiaccio dello shaker il gelo che ha nel cuore; sciogliendolo.»

 

«Diciotto euro ben spesi» dice il tizio al tavolo di fianco.

Mi manca, picchiare la gente.
Proprio le risse ignoranti che finisci a rotolarti per terra a dargli in faccia col portacenere, bam bam bam. Ma sono io, a non volermi rassegnare a crescere. E a 37 anni è patetico. Anzi, questa mia tendenza a non capire i meccanismi sociali moderni mi è costata un contratto della madonna. Invitato a una sfilata, ho detto che mi era piaciuta. Poi in giardino ho parlato di un altro stilista, il mio preferito. Tragedia. Gaffe imperdonabile, mi hanno spiegato gli addetti ai livori. Non possono piacerti due cose assieme, qui; quando sei in un posto, deve essere la cosa più figa del mondo. Poi devi andare in un altro e ripetere.

«Devi fare come Diprè. Tutto è bello. Tutto è arte. Così fanno i professionisti. Devi scegliere una cosa e martellare su quella. I cocktail ti piacciono?»
«Sì. Bè, quelli clas
«NONONONONO. Cocktail. Punto. Devi martellare su quelli. Bam bam bam, un brand dietro l’altro. È uscito il nuovo gin? Uao, figata. Fanno il White lady destrutturato? Capolavoro geniale, provatelo, hashtag, call to action ai brand, aumenti l’engagement e accendi un cero alla madonna.»

Milano, città dalle cento puttane e nessuna troia. Qui tutte scopano per soldi, nessuna per piacere. E del resto ci sono venuto apposta da Mestre, Negrato Pozzetto che vien dalla campagna. Darwin insegna che o ti adatti o muori. E l’hiphop mi ha dimostrato che è vero.
AAAAAAAOOOOOAAAAAAAAOOOOOOOAAAAAAAAOOOOOO

«Una brillante provocazione postmoderna» provo.
«Vedo che si intende di arte» dice il mio vicino di casa, dal cui ano spuntano misteriosamente delle verzure «Ha colto il riferimento agli allarmi delle fabbriche vintage? Una severa ironia sul mondo del precariato di oggi.»
«Magnifico» dico.
«Sente come prende bene il timpano, come perfora le pareti? Grida il dolore della moderna classe operaia, quei giovani sottopagati freelance che…»
«È la cosa più bella che abbia mai sentito.»
«Già, già» annuisce lui.

«Senta, parlando d’altro, perché ha una carota nel culo?»
«Mi piacevano le verdure, un pubblicitario ha inventato una marketing strategy provocatoria che spinga la gente a interagire. Lei infatti si è interessato. Sono carote Burzì, buone qui e buone lì.»
«Si guadagna bene?»
«Certo. Ho potuto permettermi un quadro che sognavo da tempo. Venga, glielo faccio vedere» dice, rientrando.
Seguo la sua coda verde sculettare.

 

«Non è stupendo?» domanda.
«È la cosa più bella che io abbia mai visto» annuisco.
«Lo so. È un Pigasso originale commissionato e dipinto per me.»
«Ma Picasso è morto.»
«Ho detto Pigasso. Non Picasso.»

 

https://www.thesun.co.uk/news/2260166/meet-the-pig-who-is-conquering-the-art-world-with-her-abstract-paintings-after-her-rescue-from-the-chop/

Mi giro a guardarlo in faccia.
UEIUEIUEIUEIUEIUEIUEI
Continuiamo a guardarci.
UA’UA’UA’UA’UA’UA’
La carota cade a terra.

Come nasce la Blue whale o il green dolphin

«Dotto’, lei deve salva’ mi fijo.»
«Non sono dottore.»
«È uguale.»
L’ufficio dello psicologo è spartano ma ordinato, scaffali anni ’70 pieni di libri, una scrivania dall’aria scolastica e due seggiole in plastica e alluminio. C’è silenzio e profumo di carta. La donna ha passato i quaranta, indossa un paio di jeans e una maglietta stinta, zeppe di corda su piedi callosi.
«Quanti anni ha, suo figlio?»
«Sedici. Da un po’ de mesi ha iniziato a comportarse strano. Poi, ieri sera, quand’è uscito so’ andata in camera sua e ho trovato questo» dice la donna, porgendo un foglio stropicciato. Il titolo è “Il gioco del delfino verde”.
«Io conoscevo la balena blu» fa lo psicologo.
«EH, E QUESTO È ER DERFINO VERDE»

1) Acquista un poster della Lanterna, appendilo in camera e manda una foto al tuo tutor.
2) Svegliati alle 4:20 e guarda video di naufragi che ti manda il tutor.
3) Mangia della panissa. Solo tre pezzi, poi manda la foto al tutor.

«Cos’è la panissa?» domanda l’uomo.
«Polenta de ceci fritta» fa la donna.
Lo psicologo fa una smorfia di disgusto.
«’o so, ‘o so. Legga, legga.»

4) Disegna una barca su un foglio, accartoccialo e buttalo nel cesso. Tira l’acqua e guarda il foglio sparire. Manda il video al tuo tutor.
5) Se sei pronto a diventare un delfino, scriviti “belin” sulla fronte. Se no, mangia della panissa.
6) Sfida.
7) Inciditi con un rasoio il miglio nautico sulla mano. Manda la foto al tutor.

«Hmmm, potrebbero essere atti di autolesionismo atti al ricondizionamento psicologico» dice l’uomo, alzandosi a cercare un libro «Ma a sedici anni è possibile sia una recita per attirare l’attenzione.»
«Dotto’, nun c’ho capito gnente, ma legga.»
«Non sono dottore.»
«LEGGAAAAA.»
L’uomo torna a sedere.

8) Scrivi “#sono_un_delfino” sulla tua bacheca Facebook.
9) Sconfiggi la tua peggiore paura.
10) Svegliati alle 4:20 e vai davanti a uno specchio d’acqua. Lago, piscina, fiume, mare. Anche una pozzanghera va bene.
11) Acquista un costume da Gabibbo. Indossalo e manda la foto al tutor.
12) Metti dell'acqua in bocca e facendo i gargarismi intona "Con quella faccia un po' così, quell'espressione un po' così, che abbiamo noi quando andiamo a gurgle gurgle".

«Questa canzone l’ho sentita tanti anni fa» fa lo psicologo «La cantava un uomo mentre affogava in spiaggia.»
«Poi è morto?»
«No, era sulla battigia. L’ha salvato un bambino sollevandogli la testa.»

13) Ascolta “liberaci dal mare” per 100 volte.
14) Riempi il lavandino e tieni la faccia in acqua più che puoi.
15) Esci con una donna e chiedile di pagare anche per te.
16) Fai in modo di stare male o mangia una pizza stracchino e pesto.

«Stracchino e pesto» mormora lo psicologo.
«Me dica lei se nun è grave.»
«Suo figlio probabilmente si sente escluso dalla comunità e cerca di integrarsi in un’altra. Ma non capisco quale.»
«Se nun lo sa lei.»

17) Trova lo specchio d’acqua più grande e profondo che trovi. Resta sul bordo per un po’.
18) Sali su una torre. Concentrati. Immaginala affondare.
19) Prova a salire su una barca. Se non ci riesci, la prova è superata.
20) Il tuo tutor verifica se sei affidabile.
21) Parla su Skype con un altro delfino.

«Torri che affondano, specchi d’acqua, delfini, barche su cui non si riesce a salire, polenta coi ceci» fa lo psicologo «Ma che razza di indottrinamento è?»
«Ma io che ne so? Finisca.»

22) Metti i piedi dentro uno specchio d’acqua.
23) Sfida: ripeti che l’America l’ha scoperta Cristoforo Colombo. Fallo finché ti sembra vero.

«Hahaha che sciocchezza, l’America l’ha scoperta Amerigo Vespucci, lo sanno tutti» sorride lo psicologo «Colombo ha scoperto san Salvador. Tra l’altro ignorando i calcoli di Eratostene e cappellando gravemente la dimensione del globo terrestre. Se non avesse sbagliato strada sarebbero tutti morti in mezzo all’oceano.»
«Ma sticazzi de ‘ste robe da froci, vada avanti.»

24) Impara a riconoscere gli albarini.

«E cosa sono?» fa l’uomo.
La donna alza il labbro e stringe le spalle.

25) Incontrati di persona con un delfino.
26) Il tuo tutor ti dirà la data e dovrai accettarla.
27) Alzati alle 4:20 di mattina e guarda un acquario.
28) Non parlare con nessuno per tutto il giorno. Se sei costretto, fatti andare di traverso la saliva.
29) Impara la differenza tra bere dal rubinetto e waterboarding.
30-49) Svegliati tutti i giorni alle 4:20, guarda video di naufragi, mangia almeno un piatto di pasta al pesto al giorno, parla con un delfino.
50) Trasferisciti a Genova.

Lo psicologo depone il foglio: «Sconvolgente» dice.
«CAPITO?! Ma che problemi c’ha?! Che je manca? Che avemo sbajato?!» grida la donna.
«Innanzitutto, si calmi.»
«MA ABBIA PAZIENZA! Ieri sera mio marito va da lui, gli dice…» si soffia il naso «aò maschio, domenica nnamo a vede’ ‘a Lazio?, e mi fijo sa che risponde? Papà» singhiozza la donna «èmmo za daeto!»
«E cosa significa?»
«MA CHE CAZZO NE SO IO! MO’O DICA LEI! È POSSEDUTO?! CHE IDIOMA È, LE BESTIE DE SATANA, I NORMANNI, COSA?! COS’È?! Ma lo sa che m’ha raccontato la madre de Mario, n’compagno de scuola? Che mi fijo è annato in discoteca co’ gli amici e ha ordinato un Basito!»
«Un cosa?»
«ER MOJITO COR BASILICO AR POSTO DAA MENTAAAaaah» piange la donna battendo i pugni sulla scrivania «Mo’ dopo questa come posso spera’ de fallo scopa’!?»
«Signora!»
«EH SCUSI, EH! Ma ha presente se vai co’ ‘na romana ar bar e ordini un basito che succede?!»
«No, cosa succede?»
«PENSA CHE SEI FROSCIO, ECCO COSA!»
«Su, su, sta esagerando» dice l’uomo, porgendole un Kleenex «pensi che in Russia, invece di questo Delfino verde, c’è la Balena blu. E alla fine i giovani si suicidano, altro che diventare genovesi.»
«È ‘a stessa cosa.»
«Non lo dica nemmeno per scherzo. Un romano che vuole diventare genovese è… peculiare, ma non un suicida. Sarà attratto dal mare. Vorrà fare il marinaio.»
«MA MI NONNO ERA DE PISA!»

 


«Ah» fa lo psicologo, tirando indietro la testa.
«Capisce, adesso?» dice la donna, con un filo di voce «Noi siamo il sangue che ci portiamo appresso. Er tempo è ‘na bugia. Cos’è uno, senza storia? A che s’aggrappa? Ce credo che poi s’arruola nell’Iris o fa er capidoglio azuro, ‘a balena verde…»
«Blu.»
«MA PURE LILLA, DOTTO’! Io so’ ignorante, non ho studiato, p-però… Quanno c’erano carestie, assedi, traggedie, i nostri avi sapevano chi l’aveva messi ar mondo. Sentivano de rappresenta’ mamme, nonne, bisnonne, indietro fino a prima de Garibaldi. E SE PENSI QUESTO NUN SEI MAI SOLO! Sei ‘na linea, no un punto! Un punto è come ‘a particella de sodio! È solo, nun sa dove anda’, se perde, more! Una linea nun se perde mai! Se non hai un motivo pe’ sta’ in piedi, stai in piedi per il sangue tuo! Me spiego?»

Lo psicologo si sporge sul tavolo.
«Scusi, con tutto il rispetto: ma per non far sentire suo figlio un… punto, come lo chiama lei; cos’ha fatto? Che gli ha detto?»
La donna stringe gli occhi: «Ma che, serve dirglielo, che ha ‘na famija?»
«Non saprei. Suo figlio conosce i nonni? È mai stato a Pisa? Ha idea di quale sia la sua storia?»
«No.»
«In casa avete foto, oggetti, cose che dicono chi siete, da dove venite?»
«No. Ma che c’entra?»
«Così» dice lo psicologo, appoggiandosi allo schienale «Ogni volta che passo per porta portese vedo corredi della bisnonna, medaglie della prima guerra mondiale, posate con le iniziali… Tutto svenduto a due soldi. Mi sono sempre chiesto cosa rimane in casa di chi vende.»
«Spazio. Ndo’ la metto tutta quella roba?»

«Bè, adesso ha una camera libera» dice lo psicologo.