Agosto 2002, ore 21.20
Sono in preda a dolori atroci allo stomaco e quello stato di ipnosi dolorosa che si ha quando una storia finisce, e mentre aspetti che la ferita si rimargini sei tormentato dal desiderio di richiamarla, cercarla, sentirla. Ho rinominato il suo nome in rubrica TASSATIVAMENTE NO, eppure quando mi squilla in mano il cuore fa un salto e spero sia lei. Spero di dovermi imporre di non rispondere, invece è Ario. È sotto casa e vuole portarmi fuori senza motivo, se non
«Ubriachiamoci e parliamo male della figa.»
Il pub “Excalibur” ha visto tutte le nostre donne andare e venire. Non ci andiamo mai in nessun’altro caso. Non abbiamo mai messo piede in quel buco di merda in occasioni di svago o altro. E’ il tempio della lacrima inversa, ovvero mentre le donne versano liquidi dagli occhi noi ne ingurgitiamo con la bocca. Quella sera ci guardammo e decidemmo per il biberon, ovvero il boccale da litro che è bello, fa scena e non ti dà la pausa perché sennò si riscalda e diventa imbevibile. Come si conviene a due gentiluomini si esordisce commentando le tette della cameriera, si dibatte di politica, ci si prende per il culo, si insultano le rispettive madri, si tirano un paio di rutti e a tre quarti del bicchiere si può finalmente sfiorare l’argomento fondamentale.
«No ma comunque io sto bene così, eh» dico.
«Hai una faccia di merda incredibile, per me non ci dormi la notte.»
«Sì, bòh. Cioè, no, figurati.»
«AHAHAHHAHAHAHA SFIGATO DIMMERDA»
«Vaffanculo, te chiavi una volta ogni sei mesi, hai già dato un nome al termosifone?»
«Te invece come ti organizzerai, elastico sulla mano o bistecchina nel bicchiere?»
«No, puntavo tua madre, tutta quella ciccia, dev’essere come scoparsi una soppressa.»
«Hai sempre avuto gusti di merda.»
«Te volevi chiavarti quella specie di… com’è che l’avevi chiamata?»
«Turbocompressor? Era perfetta, avrebbe potuto farti i bocchini da in piedi.»
«Sarebbe stato come farselo succhiare da un omino della Playmobil, aveva pure la stessa espressione da imbecille.»
La birra arriva alla fine, passiamo al whisky.
Al quarto giro siamo abbastanza sbronzi per cominciare la nostra fase preferita, ovvero partorire idee potenzialmente letali ma che al momento sembrano di un’arguzia rara. Gli accadimenti più tragici, le disgrazie maggiori, ci sono sempre venute in quella situazione. Anche da sobri, non è mai stata una cosa legata all’alcool. E’ una sorta di euforia che ispira Madre Terra, la quale ci comunica indirettamente quello che dovremmo fare per il bene della specie: ucciderci in maniera dolorosa.
«Eh sì, cazzo, la libertà è importante» annaspo.
«La libertà è tutto, no quella dei film, quella vera: nessun legame, zero, solo tu e il mondo.»
«Tipo… tipo su una nave al centro dell’oceano.»
«Sì, ESATTO! Sarebbe da fare, un anno mandi tutto affanculo e ti imbarchi come marinaio su una nave cargo qualunque.»
«Par di essere i soliti sfigati che fanno ‘sti discorsi prima del matrimonio e poi non fanno mai un cazzo. Cristo, pare il dialogo di un film italiano.»
«Allora facciamolo e basta.»
«Sì! » batto il pugno sul tavolo «sì, facciamolo! Andiamo al porto! »
«Macchè porto, andiamo sull’osellino, pigliamo la barca e ce ne andiamo in laguna.»
«..e poi, dalla laguna, al mare!»
«SI! AL MARE!»
«Ma lo sai che è davvero un’idea della madonna? Solo…»
«Cosa?»
«Tu ce l’hai una barca?»
«Ma va, no, la rubiamo. Che ci vuole?»
La barca era uno dei tanti cacciapesca di tre metri scarsi con un motorino che te lo puoi mettere in tasca. Le chiavi stavano sotto il terzo scalino. Governare un cacciapesca non è difficile, però bisogna imparare che guidare ha due cose che su asfalto non ci sono: la prima è che se sposti la barra a sinistra, la barca va a destra. La seconda è che le barche non inchiodano. E se non sai ingranare la retro, non frenano nemmeno.
Come molti altri banditi prima e dopo di noi, partimmo dal ponte di Via Colombo, ovvero da qui. Capite che i presupposti per un disastro c’erano tutti. Inserita la chiave, ubriachi come assassini, tirammo la cordicella. Padella. Secondo tentativo, padella. Terzo tentativo con forza di Goku super sajyan: *plùnf*
«Hai sentito?» chiedo.
«Sono i pesci che saltano.»
«Ario, i pesci canguro, adesso?»
«Saranno le cazzo di anatre.»
«Papere.»
«È lo stesso.»
«Io papera in umido non l’ho mai mangiata.»
«Mangiati una merda e fammi riprovare.»
Ce la fece. Il motorino cominciò a borbottare sommesso. Essendo entrambi gentiluomini di periferia sapevamo che una cosa che emette lo stesso suono di un fifty ha anche le sue stesse dinamiche: giri la manopola, lui accelera. Usammo i piedi per allargarci e ci trovammo in centro canale. Arrivati sotto il primo ponte di viale vespucci eravamo già convinti di poter raggiungere la slovenia in poche ore. Ridevamo dei nostri amici e dei nostri genitori, immaginando la faccia che avrebbero fatto nel saperci così distanti. Avrebbero finalmente cominciato a rispettarci, poche balle: Nebo e Ario, i pirati della Laguna.
«Prova ad andare un po’ più veloce, che qui facciamo giorno.»
«Che ore sono? » chiede Ario guardandosi il polso.
Il polso non gli sa rispondere.
«CAZZO! L’OROLOGIO, DOVE MINCHIA È?»
«E io che ne so? L’avrai lasciato a casa.»
«Puttanate, non esco senza.»
«Ehi, forse ho capito cos’era quel plunf, prima» dico felice.
Silenzio.
«…tanto non valeva niente.»
«Non era quello da duecentomila?»
«No, no, era.. era quello dei mondiali ’90 che andava ad acqua.»
«Bene, almeno non si consuma la pila.»
Mi percuote con una infradito.
Il tempo passa in fretta quando ti diverti, e mentre il mio amico mi frusta con una ciabatta verde acquamarina arriviamo al bivio: a destra, la barena che vedete dal ponte della libertà. Dritti, Campalto e una morte nera. Scegliamo la laguna mentre prendiamo confidenza con il mezzo e siamo finalmente fuori da San Giuliano. Non abbiamo i fari di ordinanza ma non ce ne frega un cazzo, va bene così. Acanniamo selvaggi lanciando grida di giubilo, la libertà è tutto, ce l’abbiamo fatta, siamo usciti dal canale ed ora il mondo è nostro, SPLENDIDO e bellissimo in una laguna piatta che riflette le mille e mille luci della
..sciòk!
L’aria cambia. Il vento moltiplica la forza, poi nel buio qualcosa mi colpisce. Le braccia si ficcano dentro una melma, l’acqua mi schiaffeggia, colpisco oggetti, mi faccio male ma non tanto. Resto intontito e paralizzato. Il motore in sottofondo non è dove deve. Muore. Cerco di parlare ma non respiro. Cerco di muovere la testa ma non ci riesco. O mi sono pisciato addosso o qualcosa non torna. Buio. Silenzio. La voce di Ario mi raggiunge ovattata.
«Nebo? Nebo, come stai?»
«Bene, grazie, tu?»
«Sì, tutto a posto.»
«Cos’ è successo?»
Ho fatto il crash test di un incidente in moto a 8 Km/h su sabbia bagnata. La barca s’è conficcata come io lo conficcherei a Megan Fox sulla secca principale della barena, davanti alla Canottieri e subito fuori il canale di S. Giuliano. Su Google map si vede bene, ma dal vivo, alle due di mattina, no. Sarebbe romantico a vedersi, sembra di camminare sull’acqua solo che siamo nel bel mezzo della barena, una cosa molto simile alle sabbie mobili, nel pieno della notte su una barca rubata. E i problemi sono appena iniziati. Ci rialziamo, bagnati e sporchi ma integri. Dopo estenuanti manovre cerchiamo di smuovere la barca perdendo portafogli, cellulari e chiavi di casa nel putridume. Puzzeremo di pesce per settimane. Mi sanguina una mano. La sabbia ci arriva alle ginocchia. Tentiamo in tutti i modi di disincagliare il guscio di noce, vinciamo scavando un po’ sotto la chiglia e piagnucolando “voglio andare a casa”. Rimontiamo. Il motore è ancora acceso, ma l’elica è andata.
«Ario.»
«Cosa c’è, anch’io ho freddo.»
«Imbarchiamo acqua, ma tipo che affondiamo.»
«No, è entrata prima.»
«Non sono convinto.»
«Fammi vedere.»
«O è un idromassaggio o siamo fottuti.»
Guarda.
«OHMIODDIO, TAPPALA, FA QUALCOSA!»
«E COSA FACCIO, MI CI SIEDO SOPRA?»
«SI! NO, ALLEGGERIAMO IL CARICO!»
«MA C’E’ SOLO UNA CORDA!»
«BUTTALA!»
Butto la corda in acqua.
«BUTTATI ANCHE TU! POI TORNO CON I SOCCORSI!»
«COL CAZZO, BUTTATI TU!»
Affondiamo miseramente pochi secondi dopo. Ovvero, ci troviamo a guardarci con la testa che spunta dall’acqua.
«…ah, ma io credevo che si creasse un vortice che ti risucchia » dico.
«No, no.»
Nuotiamo in silenzio, tocchiamo terra che per poco non ci mettiamo a piangere. Usiamo una vecchia scaletta in disuso per risalire e ci troviamo al centro di una delle peggiori zone di Mestre, al tempo. Non abbiamo più le scarpe e ce la facciamo a piedi fino in centro senza dire una parola. Sembriamo profughi. Arrivati alla soglia di casa mia, esausti, Ario mi guarda: «Sai cosa? Ora che so che si può sopravvivere lo rifarei.»