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05. Sfida!



L’astronauta della compagnia aveva tutte le attenuanti per aver dimenticato di fare benzina. Due cannoni appena sveglio dopo quattro ore di sonno. Doversi inventare scuse per quando tornerà a casa ed il padre gli chiederà spiegazioni sullo stato della macchina. Non possiamo colpevolizzarlo. Noi siamo tre ragazzini di 17 anni che non hanno mai messo piede fuori da Mestre e quando l’hanno fatto si sono trovati in piena Cambogia. Decidiamo di dividerci. Io da solo avrei tentato di raggiungere il distributore di benzina avanti, Atza e Solero quello dietro. Le possibilità che finisse in tragedia erano altissime e grazie alla mia sempre più drogata immaginazione mi vedevo morto di stenti senza acqua né benzina su un’autostrada rovente. Neanche un’ora dopo la 127 si affianca mentre canto We don’t need another hero e rimpiango di non essere vestito di cuoio.


– Monta, bella fica sudata – fa Ario.


Apro la portiera, chiudo, sto seduto mentre l’auto riparte. L’umore è talmente basso, la disperazione talmente diffusa che decidiamo di uscire per vedere una città a caso ed avere qualcosa di normale da poter raccontare al ritorno che non sia una marea di incidenti. A Cremona, all’incrocio subito fuori dall’autostrada il semaforo è rosso. Si affianca una panda bianca con dentro quattro ragazze. Si girano a guardarci. Sorridono. Parlottano tra loro, ridono. Quella al volante sgasa come a voler far gara. Ario risponde sgasando a sua volta.

«Ok calmi, CALMI» fa Atza «niente puttanate, qui risolviamo la giornata. Appena è verde potrem

Tutto accade in un istante. Il semaforo è verde. Ario preme a tavoletta, la 127 scatta in avanti come un proiettile. Curva quasi in derapata, altra curva, rettilineo. BRAAAAAAM, BRAAAAAM, scala in quarta frenetico. Il semaforo alla fine è verde, Ario insiste. Terza, RAAAAAAM, RAAAAAM, passa il secondo semaforo urlando di gioia “ha-HAAA!” e si gira, esaltato.

«HA HA HA, FOTTUTE!» grida battendo sul volante «VOLEVANO FARE LE FIGHE, HAI CAPITO, SMER-DA-TE, HA HA HA HA, SARANNO ANCORA LA’ AL SEMAfor…»











Lo stiamo guardando come lo state guardando voi.



«Tanto cosa volevate fare, erano in macchina come noi, no? E poi non conosciamo ‘sta città, non sappiamo dove potevamo andare o portarle, dai, cosa potevo fare?»

«Evitare di giocare al piccolo Airton?»
«Seguirle?»
«Abbassare il finestrino?»

«Magari adesso passano » mormora guardando la strada.

Dopo averle aspettate per 10 minuti in un silenzio funereo rientriamo in autostrada senza dire niente. Da lì in proseguiamo senza incidenti fino al nostro arrivo in liguria dove “già che ci siamo potremmo andare a vedere il delfinario di Geova” .

Non ci sono più gli uomini di una volta













“Dove sono gli uomini di una volta?” frignano oggi le donne. Sono stufe di addominali scolpiti, pettorali lucidi, bicipiti in bella vista, costumi attillati e gambe depilate da cui guizzano muscoli da centometrista. Basta. Le donne – specie le bloggers – non vogliono più palestrati fotomodelli così. 



Piangenti, chiedono a gran voce dove siano finiti gli uomini di una volta, quelli che le facevano sentire vere donne. Tipo questi: 



Noi ce li ricordiamo bene, i nostri colleghi di una volta. Erano quelli che tenevano la donna a letto ed in cucina, le proibivano di uscire, le pestavano ed umiliavano quotidianamente. Mettevano corna, esponevano lenzuola con la macchia di sangue fuori dalla finestra la prima notte di nozze e col cazzo che si sposavano una che l’aveva data prima del matrimonio. Erano gli uomini che chiavavano in fretta e furia solo per svuotarsi i coglioni, che le facevano abortire a pugni nello stomaco, che davano i figli illegittimi in orfanotrofio e mandavano le figlie tentatrici dalle suore. Che mandavano la moglie a zappare l’orto a cinghiate mentre loro andavano nei casini. Il divorzio non era consentito tranne casi eccezionali (il tradimento o la violenza non lo erano) e se eri divorziata la gente per strada cambiava marciapiede e ti sputava dietro. Erano gli uomini che impedivano alle donne di votare e che purtroppo, eh, purtroppo non ci sono più.

Così mentre le nonne delle donne moderne hanno lottato per liberarsi dal giogo del sessismo combattendo per uscire dalla prigione domestica, mentre le loro mamme in Afghanistan imparano a leggere di nascosto e tentano di organizzare fughe, mentre le loro sorelle in svariati stati africani vengono infibulate o lasciate morire dissanguate le nostre donne protestano con deliziosa, superficiale, ignorante ottusità: non ci sono più gli uomini di una volta.

Delle donne di una volta, invece, non parlano mai.
Forse perché c’è una differenza sostanziale tra le donne di una volta



e le donne di adesso.



Con la parlantina che hai potresti fare il gelataio






– Ho chiamato per
– AH-HA! MAGNIFICO! Si presenti, hmm, adesso?
– Purtro
– Domani pomeriggio sulle 17?
– D’accordo!
– SPLENDIDO! Porti il curriculum, non serve!
– Scusi?
Rumori in sottofondo.

– Ho detto… eh, niente. Troppo tardi. Andata.
– Cosa?
– No ma non lei, eh? E’ questo… questo RUMORE che mi fa… hm. Allora domani?
– Va bene, domani. E io NON porto il curriculum.
– N… Si ricordi solo che non serve.
Mi dà l’indirizzo e mette giù.

L’indomani pomeriggio a cavallo della mia fida 600 attraverso strade sterrate, entro nella zona industriale trevisana e dopo una mezz’ora trovo il posto che un latitante nazista troverebbe fuori mano. Suono. Attraverso un capannone-hangar pieno di camioncini, vengo fatto accomodare in una sala d’attesa/riunioni. Tavolo enorme, sedie ovunque, alle pareti carte, grafici, foto. La tizia che mi fa accomodare mi da un foglio.

– Quello è il suo curriculum? – domanda guardandomi in mano.
– Sì.
– Me lo vuole dare?
– Al telefono mi avevano detto che era inutile – dico sporgendoglielo.
– Lo è – bercia agguantandolo e scomparendo dietro una porta. 

Questo foglio si rivela essere un curriculum-fai-da-te da compilare. Domandano che mestiere fa mio padre, che mestiere fa mia madre, quanti anni hanno. Con chi vivo, dove vivo. Quali sono i miei hobby. Quali sono i miei lavori precedenti. Che tipo di lavoro cerco. Che cosa mi aspetto da questo incarico. E’ facile capire quando siete nella tana di Alien: ci sono teschi umani appesi dappertutto, c’è puzza di carne marcia, cadaveri smembrati, facehuggers che saltano, archi in bemolle ed un neon di otto metri per dodici che lampeggia “fuggi” in fucsia. 

La differenza è che qui il neon è più grande.

Su una lavagna da riunioni c’è un istogramma per ogni capoluogo veneto, Treviso è secondo, il primo è cerchiato. Vicenza. Una calligrafia da psicopatico ha aggiunto “OBIETTIVO PRIORITARIO SUPERARE VICENZA!!!” e proprio quando sto rivalutando di fare l’assaggiatore di veleno per topi la porta si spalanca ed appare quello che ribattezzo immediatamente Bialetti. Bialetti è chiaramente il capoccia della situazione. Quarantacinque, capello brizzolato, lo sguardo spregiudicato di chi s’è fatto esplodere troppe caffettiere in faccia. Trasmette senso di superiorità immotivato, ti dà la mano con il palmo verso il basso ed usa il dialetto da schifo. Salve, dice, ha letto il mio curriculum e l’ha trovato…

– …privo dell’autorizzazione riguardo alla normativa sulla privacy. Quindi non l’ho nemmeno letto – gongola soddisfatto.











Il neon lampeggia con più insistenza.

– Tanto non serviva, no? –
– E-E-E. Serviva sì, come non serviva, chi le ha detto che non serviva? –
– La segretaria –
– La segretaria le ha detto di portarlo –
– …anche che non serviva –
– A-A-A, ATTENZIONE! Quindi è stato LEI a portarlo di SUA iniziativa, noi le abbiamo detto che NON ERA necessario. E’ stata una SUA scelta quella di portarlo, non un obbligo – sorride sardonico.

Rispondo che non avevo colto queste sottigliezze legali. Si gonfia di trenta chili. Dice che molti lo scambiano per un avvocato.

– Invece ho fatto l’alberghiero, è solo grazie al sudore se sono arrivato QUI – dice battendo le mani sul tavolo.

Mi introduce nel suo ufficio, un cubicolo di plastica in cui la prima cosa che noti è il poster motivatore che incita “orgogliosi di essere *nome ditta* mentre la seconda è la  totale assenza di foto moglie/figli. Bialetti si mette a spiegarmi in cosa consisterebbe il lavoro. Prende in mano il foglio da me compilato. Legge con l’indice sul labbro mormorando le parole. Si blocca.

– Qui c’è scritto che le sue ambizioni sono… artistiche? –
– Sì.
– Non capisco. Cioè pittore?
– Nnnn… no, no. Non pittore, non proprio.
– …e allora cosa? Musicista?
– Bèh, diciamo

Avanti, hai bisogno di questo lavoro. Non puoi. No. Stai zitto. Stai ZITTO. Chiudo gli occhi un momento mentre nel cervello Ray Charles attacca con Shake Your Tailfeathers ed apro la bocca: – Il rapper.
I fogli che Bialetti tiene in mano scendono lentamente sulla scrivania.

– Il… repper?
– Sì. Il rapper – spiego alzandomi in piedi e spiegazzando il mio completo giacca&cravatta con gesti west coast – la spingo hardcore coi miei frà, abbiamo bisogno del cash peso per droppare out, chiaro man? – e comincio a fare freestyle smerdando lui e la sua ditta di merda.

Riapro gli occhi.


– Il commerciale, non è una forma d’arte? – sorrido.
– Ah, questo è interessante. A noi piacciono persone competitive che sappiano lavorare in solitaria. Che ne dice di un giorno di prova? Un giorno intero con un nostro operatore, un giorno di esperienza nel campo, casa per casa, nel camion, a vedere com’è? –

Smettila. Vattene. Torna a fare il falegname, deficiente, non sei portato. VAI VIA.

– D’accordo – dico.


Venerdì farò il mio giorno di prova come venditore porta a porta. A Treviso. Entrerò nelle case della patria della lega tentando di vendere cose congelate, ma sono ottimista. E armato.

04. Con un deca




Autogrill. 11 di mattina.

«Ok, da seduto, alza il piede destro»
«Così?»
«Sollevalo solo da terra… ecco. Fallo girare in senso orario»
«Tipo orologio?»
«Sì. Gira… Ok, adesso mentre continui alza la mano destra e disegna un 6, come se dovessi scriverlo su un muro»
«Se lo faccio esplodo?»
«No, la gamba comincia a girare in senso opposto. Non puoi farci niente»
Provo.

«M-ma…»
Mi sforzo, non c’è niente da fare. La gamba o si blocca o si muove di lato, ma non riesce a continuare a girare. Atza, al mio fianco, prova anche lui. 
Ario pure.
«FIGHISSIMA ‘sta roba, Solero»
«Massì» si stringe nelle spalle.


Continuiamo a provare estasiati mentre gli avventori dell’autogrill osservano tre poveri mongospastici che disegnano cose per aria, contorcendosi e roteando arti privi di controllo. 
Il caldo ci ha svegliati alle 10. Semi addormentati, cauta retromarcia e siamo di nuovo in rotta entro neanche quindici minuti. Al primo autogrill facciamo sosta e colazione. Grazie alle insistenze di Ario ci facciamo i gavettoni con la pompa dell’acqua. E’ la cosa più simile ad una doccia nell’arco di 24 ore. I benzinai ci allontanano sconvolti da tanta idiozia. Sazi, freschi, riposati e lavati fumiamo sigarette sui tavolini dicendo minchiate e guardando la cartina. Eh, ne abbiamo fatta di strada. Eh, siamo i meglio. L’incidente della notte prima è appena accennato. Chiamiamo a casa, informiamo che va tutto bene. Mio padre fa domande irrilevanti tipo “quanti soldi avete”, “dove siete”, “avete calcolato il ritorno”, “avete sentito Vegeta” ed “è possibile alcuni di voi muoiano, non essere tra quelli”. Annuiamo, hm hm. Si riparte mentre Solero comincia a fare su i primi della giornata. 

In un’ora passiamo Cremona, la giornata è luminosa, il sole schiaccia e splende, la droga ci esalta. Piacenza ci attende, la conversazione è varia, gli aneddoti si sprecano.


«Siamo io, Vegeta e altri due tizi che non conoscete. Venezia, piazzale Roma, due di mattina. Queste due spuntano dal nulla caricate come muli, chiaramente americane»
«Botoli di lardo?»
«No, americane buone. Pallide, bionde, spaesate, vestite da puttane»
«Con le giarrettiere?»
«Vedi che sei stronzo»
«Ma perché, scusa, sei te che…» 
«Nebo, sta buono. Ario, vai avanti»
«Bè, chiaro che i tassisti le ronzano intorno tipo avvoltoi. Queste son stanche morte, arriviamo noi brillanti, le facciamo su e ce le portiamo via. Restano stupite dal fatto che portiamo loro le borse e dicono che dalle loro parti ognuno porta le sue»
«E’ il femminismo»
«COSA?» 
«Giuro. Pari diritti, pari opportunità. Tu porti le tue borse io porto le mie. Non ti aiuto, non ti offro, non ti porto. Come fosse un tuo amico, ci sei? Solo che ha la fica. In america gira così»
«Ma.. è FANTASTICO!»

«? Eh?»

«Sto dicendo che è giusto. Cristo, gli americani sono davvero oltre. Scusa, le donne hanno rotto il cazzo col femminismo e i reggiseni in piazza? Vogliono la parità? E allora che se la ciuccino, mica che gli pago da mangiare, gli apro la porta e quella ha pure gli stessi diritti miei»

«Ecco che arriva una valanga di puttanate»
«STO DICENDO SUL SERIO, IMBECILLI! Hanno i nostri stessi diritti, allora perché io devo anche pagare loro da bere? Perché in un locale loro pagano zero e io il doppio?»
«Perché altrimenti non scopi?»
«No, sono IO che non glielo do. Ma non ho capito, già gli portiamo l’acqua con le orecchie, devo anche mettermi la scorza di limone nel culo?»
«MI FATE FINIRE DI RACCONT


La macchina viene colta da tremiti, sobbalza, singhiozza e muore.

«…cos’era?»


«Perché stiamo rallentando?»




«ARIO, PERCHE’ NON SENTO IL MOTORE?»


La macchina accosta, il cartello verde segnala prossima area di servizio 12,5 KM.

«MA DAI, NON E’ POSSIBILE, PRIMA LE FIGHE CHE CI SNOBBANO, POI IL PAZZO CHE MI SPACCA IL FINESTRINO, POI FACCIAMO BOEDIUC COL PASSAGGIO A LIVELLO, POI SCOPRO CHE STO IN MACCHINA CON UN NARCOTRAFFICANTE, CHI E’ CHE PORTA TUTTA ‘STA SFIGA, SI PUO’ SAPERE?»

Cooon un deeeee-caaaa, non si può andar viiiiiia, canta Max Pezzali in sottofondo.

Come domare una diciottenne #2

Come domare una diciottenne #2

Apro gli occhi che è una calda domenica d’ottobre. Un respiro regolare a fianco alza e abbassa coperte da pochi soldi. Odore di bagnoschiuma. Profumo. Pelle fresca. Dorme come una bambina. Composta, sempre di lato, con la mano sotto la guancia. Respira piano, ogni tanto tira su. E’ incredibilmente bella. A distanza di mesi vederla nel mio letto mi fa ancora lo stesso effetto di trovare una valigia di soldi sull’uscio. Scivolo fuori. Percorro a ritroso i vestiti sul pavimento, prendo la forbice grossa, esco. Raggiungo la pasticceria. Permesso. Scusi, permesso. Bambino, attento.

Eh, te l’avevo detto.

Non so, qual è tua madre? Quella in fondo?
Allora sì che puoi raccoglierla da terra. Mangia, mangia.

«Ciò Nebo, cossa ti vol?»
«Mi fa un cornetto. E… hm. Qualcosa di cioccolata.»
«Xè par ea tosa?»
«Sì»
«Ciapa, daghe ‘na fiamea» fa l’anziana signora aggiungendo sul vassoio una pastina.
Graziearrivederci.

Al rientro becco il giardino della vicina con quel groviglio di rose rampicanti. Nessuno nota qualcuno scavalcare con nonchalance il cancelletto per annusarle con una forbice. Sono a casa cinque minuti dopo. Attento a non fare rumore, comincio a preparare. La macchinetta espresso se fa la schiuma fa un casino della madonna, ma d’altra parte qui ci si deve arrangiare. Succo di limone, caffè. Do una scaldata al cornetto, metto le salviette. Sistemo la rosa.

La guardo per l’ultima volta prima di svegliarla.

«mmmMmAaaauuuUUUuuAAAaah» sbadiglia.
Fiuta l’aria. Spalanca gli occhi. Vede cioccolata.

«Amore, ma.. ma… non ho parole!»
«Buongiorno, meraviglia.»
«I-io non so.. »
«E’ per indorarti la pillola.»
«A che?»
Silenzio.

«Soldato Ryan.»
«NOOOO AAAAGH NOOOO SANGUEMMORTE NOOOO»
«AVEVI PROMESSO CHE LO GUARDAVI»
«VEDI CHE SEI STRONZO, MI FAI LE COSE BELLE E POI E’ PER RICATTARMI»
«NON FARE I CAPRICCI»
«NON PARLARMI COME MIO PADRE»
«TUO PADRE HA RAGIONE, CONTESSINA, E’ ORA CHE COMINCI A CRESCERE»
«SBAFFAMI IL GRILLETTO, NONNO, VAI!»
Ammutolisco.

«Ooh» fa lei, soddisfatta del mio silenzio «…che mi devo vedere gente che muore di domenica mattina, guarda questo».
Addenta il cornetto.

Adesso la osservo mentre, gongolante, finisce il succo guardando Stand By Me. Miss Sbaffami Il Grilletto dice che è molto meglio dei film di guerra. Credo che da questa classe 90, dopotutto, qualcosa nascerà.

Ora scusatemi, le faccio fare un po’ di moto per digerire.