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Natale 1999

Voi credete si batta la fiacca, invece in quel di Venezia si lavora. Ho scritto due post (Incoming Christmas e Noi salveremo il mondo) sul blog di RRobe. Da Milano persone importanti nel mondo dell’editoria mi hanno chiamato per partecipare ad un progetto di prossima – speriamo – uscita.






Venezia. 

Voci di turisti, fisarmoniche, grida, risate, scatti di foto. Odore di salso, muffa, roba fritta: kebapizzenini e piatti tipici offrono rapine legalizzate nelle calli. Venezia scippa il tuo portafogli con il sorriso davanti a tutti. 

Nessuno dice niente, nessuno fa niente.
E’ troppo bella per metterla in imbarazzo.



Questa città tracanna denaro come un’idrovora. Oltre vent’anni del medesimo schieramento politico hanno permesso la stratificazione di ogni sorta di mafie che vanno dai trasporti alla ristorazione, dai parcheggi alla balneazione, dalle forze dell’ordine fino alla regina delle prosciugatrici: l’edilizia.

Un esempio è il molino Stucky. Eterno cantiere di ristrutturazione, ha macinato miliardi di euro finiti nel nulla per poi ardere in una notte assieme ai suoi segreti. L’alba del giorno dopo il rudere ancora fumante viene venduto agli Hilton. In sei mesi riescono dove sedici anni avevano fallito. Trasformano il mulino in un albergo per vipponi che parcheggiano yacht da trenta metri in bacino S. Marco pagando 11,000 euro di ticket giornalieri, tipo il Carinthia VII qui sotto. 





– Excuse me – flauta una vagina.
– YESSMADAM!
– I’m looking for St. Mark plaza, can you help me? – triplo battito di ciglia.

Rincoglionite da maschere e dolci, marmo e profumi, acqua e sguardi, le americane a Venezia sono pronte ad allagare le camere per qualunque cosa odori di tricolore, ma se sei un gondoliere è inevitabile. Esistono garçonnierre apposite proprio perché ricevi otto o nove proposte al giorno dalle varie Fawzi, Hueng Zong, Ana Lucia, Stephanie, Shamira, Francesca, Julie. I controllori ACTV hanno le stanze di riposo, i gondolieri case in comune dove ficcare la propria bandierina tra le gambe di ogni nazione del mondo a botte di tre-quattro al giorno. A testa. E senza bisogno della Kamchatka. 

Quel natale ero alla disperata ricerca di un alloggio, avevo litigato con tutta la mia famiglia ed in tasca avevo quindicimila lire. Marco, il mio amico gondoliere, decise che potevo stare in uno dei loro scannatoi vicino al ponte delle tette. Saran stati nove metri quadrati di monolocale con riscaldamento, luce e persino gas. Tutti per me. L’unica pecca era che tre-quattro volte al giorno degli sconosciuti entravano con una o due turiste e tu dovevi uscire o girarti dall’altra parte o ignorarli mentre s’ingroppavano. All’ora di pranzo del 25 dicembre 1999 stavo in calle tremando di freddo perché la sola roba pesante che avevo era una giacca autunnale della Nike e nel monolocale ci davano sotto come belve. Non importa se questo natale è andato così, pensavo guardando famiglie allegre per strada: almeno adesso so qual è il fondo scala. 

Buon Natale, spiaggianti.

Stupidi ragazzini superficiali




Leonora: Amore, devi farti vedere una cosa assolutamente
Nebo: Te in tanga?
Leonora: meglio
Leonora: un appello online
Leonora: viene da facebook
Nebo: ci sono tutti i requisiti per temere il peggio
Leonora: hai mai sentito parlare del NO B DAY?
Nebo: ecco, benissimo
Nebo: B sta per Berlusconi, scommetto

Leonora: ESATTO
Nebo: fammi indovinare, Frodo di Pietro e Sam Travaglio getteranno l’anello nel monte Repubblica sconfiggendo l’occhio di Berlusconi 4ever e non ci sarà più la fame nel mondo né guerre o malattie?
Leonora: ti copincollo solo il titolo
Nebo: sì ti prego
Leonora: SALVIAMO L’ITALIA, SALVIAMO LA DEMOCRAZIA. BERLUSCONI DIMETTITI.
Nebo: rotfl
Leonora: pare un test “trova l’errore”
Nebo: in quanti l’hanno fallito?
Leonora: blogger, musicisti, precari ed associazioni su facebook
Nebo: ci sono tutti, potete aprire il fuoco
Leonora: coglione

La moldavia vegetariana



Lo spogliatoio della mia palestra è un ricettacolo di odori immondi che farebbero vomitare un veterano dello spurgo pozzi neri. Non esiste nè riscaldamento nè aria condizionata nè aria fresca. Le macchine e i pesi sono del 1985. Muri scrostati, chiazze di salnitro sul soffitto, tante pisciate con pessima mira sul wc in fondo disinfettano. Dopo le 20 tre quarti dei frequentatori di questa palestra sono stranieri, soprattutto brasiliani, indiani e moldavi. 

Moldavi. 
Gente che fa cose moldave. 



Bere vodka, sollevare pesi, lavorare a mostro, picchiare qualunque cosa respiri e stuprare qualsiasi cosa dotata di utero. Moldavi, armadi a tre ante pieni di cicatrici deformanti che dicono cose tipo swarosky poposkaia zitroibi e ti parlano tutti contenti senza curarsi del fatto che nessuno capisce una madonna. Entrano, vedono Bruno che posa davanti allo specchio. 

– Mitrohkin dasvidania mitkail, ha ha ha – 

– Mio hammigu disce che tu batti la fiacca – traduce l’altro.
– Ma chi, io? – fa Bruno.
– Zì, zì, tu questa istate erri… così, così… grosso, come, no? – fa l’altro, mimando la larghezza con le mani – ma ora… sei come palonscìno! Ha ha ha, eh? Come grooooso palonscino sghionfio! –
Risate moldave. 

Bruno ha sempre avuto un buon senso dell’umorismo. Tra le classiche battutine tra maschietti se l’è sempre cavata da bravo veneziano, non se la prende, la butta sempre sul ridere. Lo fa anche questa volta. 

– Eh, passo troppo tempo con le moldave – ride.
Ridiamo evribadi. L’atmosfera è spensierata. 

– No, no, tu dici bugia, tu… tu MENTI!” risponde il moldavo, felice di poter usare la nuova parola – a te piaciono uomini! Ha ha ha, eh? Uomini!! –
– Guarda che sei te che vieni sempre qua con la fidanzata –
– Eeeh… – traduce.
L’altro ride. 

– E cosa te piace fare con le dòne? Eh? –
– Quello che piace a te, no? –
– Ha ha ha ha! –
– Tamikali sbedroi ukali?
– Ttamiski kuloji daradda bum bum dasvidania, ha ha ha –
– Ha ha ha –

– E tu come fai a sapere cosa piasce me? Tu, come sai? –
– A te piace leccare la figa, te vedo – dice Bruno. 









Non ho capito cos’è successo, ma sto guardando Bruno attaccato al muro tenuto con la mano alla gola ed un pugno che pare un martello viene agitato per aria. Un mare di urla moldave viaggiano nell’atmosfera. L’amico moldavo ne capisce quanto me ma nel dubbio è già pronto a gonfiarmi di botte. Tento di calmare gli animi, ma l’altro è troppo impegnato ad urlare. 

– HAI CAPITO? A TE PIACE SUCHIàRE CAZZI, NO IO, CAPITO? –
– SI SI SI DIO CRISTO SI –
– TU NO DICE QUESTO ME, CAPITO? –
– NEBO DIGLI QUALCOSA CHE QUESTO E’ PAZZO, LEVAMELO DI DOSSO –

Gli animi si placano. Una volta fuori, proprio quando mi aspettavo un omicidio, viene spiegata con calma la storia che in Moldavia nessun uomo leccherebbe mai la fica ad una donna, lo considera come fare un pompino ad un uomo. Se loro vengono a sapere che uno della loro compagnia lo fa lo massacrano di botte e non è escluso di peggio. I padri che lo vengono a sapere pestano il figlio perché temono sia gay. 

Dire ad un moldavo che mangia la passera è come dargli del pompinaro.
Discovery channel.

12. La locanda sul porto



Montecarlo, Monaco
ore 16.40


I francesi sono patriottici.
Basta saper dire “viv l’amur, viv la fràns, sciampagn, laboratuar garniè paris, uì madam” e sai parlare francese, il resto della comunicazione è di contorno.

Nelle città ci sono le stesse persone che vestono le stesse marche nello stesso modo. Solo incredibilmente più fighetti. Nulla di cui preoccuparsi. In Francia per strada ci sono più ricchi, nei piatti c’è molto più burro e per terra potresti mangiarci. Queste profonde riflessioni attraversano il mio cervello mentre percorro la strada con Solero scrutando la fila di macchine, camper, autobus e furgoni incolonnati mentre il meraviglioso mare si stende alla nostra sinistra.

Non credo abbia più speranze di ritrovare lo zaino di quante ne abbia io, ma appare calmo.

Stranamente, irrealmente calmo.

Calmo come una bomba atomica che lenta e quieta scende su Nagasaki dove paciosi cittadini dal viso identico svolgono le loro quotidiane abitudini tra giardini zen e cinguettar di uccellini. Un refolo di vento, un lampo che potrebbe essere il sole riflesso su una finestra e invece è Danny Boy che ha raggiunto il suolo, portando la temperatura a 45.000 gradi fahreneit, carbonizzando ogni forma di vita e trasformando i giardinetti zen in un parcheggio dell’Auchan lungo molte miglia.

«CERTO CHE E’ BELLO QUI VERO?» dico, spontaneo come un ostaggio in Iraq.
«No».
Proseguiamo.
Montecarlo trasmette POTERE. 
Girare per le strade di Montecarlo ti fa sentire come il quarantenne-anima-dannata che sbava sotto al palco di una spogliarellista bellissima, straniera, irraggiungibile senza l’American Express Platinum. Gli uomini per strada son quasi tutti sulla cinquantina, cicciotti ed accompagnati da sberle di donne che vedi solo nelle riviste. Per le strade di questo paradiso affacciato sul mediterraneo giriamo io vestito come un operaio e Solero, un metro e novanta di stecchino pallido con gli occhi azzurri che pare un motociclista sperduto. Scrutiamo la folla, la strada, la coda. Ci muoviamo tra esseri di un altro mondo che cambiano marciapiede se li fissiamo per più di tre secondi. La coda ricomincia a muoversi e noi abbiamo percorso trecento metri senza trovare il furgone di tedeschi canterini. L’auto di Ario si affianca. Non abbiamo voglia di andare avanti. Tre birre piccole, un caffè.
«…e facciamo un gelato»
«Alle sei di sera? Mangiati un tramezzino»
«Mangiati una merda»
Eccitati per essere in luoghi sconosciuti, disperati per aver perso una valigia di soldi, tutti facciamo spallucce pensando “che mi frega, tanto è amico suo”. L’unico ad essere sprofondato in un silenzio pressoché totale è Solero che con occhiali da sole e mascella serrata scruta la zona come terminator. Le nuvole in cielo s’ingrossano e ringhiano. Siamo un po’ troppo stanchi e depressi per dormire di nuovo in macchina, così chiediamo al cameriere se esiste un ostello.

«Qui? Non saprei»

«Sa a chi potremmo chiedere?»

«Qui? Non saprei»
«Sa dove potremmo dormire che costi tipo… pochissimo?»
«Qui? Non saprei»
«Quant’è una birra piccola?»
«In lire? Cinquemila»
«Ah, questo lo sai»
Dedichiamo il resto della giornata a cercare un posto dove sia possibile dormire. Escludiamo alberghi di ogni tipo, gli ostelli a Montecarlo sembrano non esistere. Alle otto di sera la prima goccia di pioggia centra il mio cappello. Dal cielo cominciano a lanciare secchi d’acqua. Fuggiamo per le stradine in cerca della 127 parcheggiata vicino ad una Lamborghini Countach ed una Maserati blu dal valore pressochè incalcolabile. Scendere arrivando al centro del porto di Montecarlo è uno spettacolo abbastanza impressionante perché pare il Grand Canyon. Palazzoni altissimi tutti attorno a yacht di tre piani da cui una volta esce una stangona in topless, bicchiere di champagne e sigaretta.
«AH BELLISSIMAAAAA!» urliamo di corsa sotto la pioggia.
Lei non si gira, continua a fumare con una naturalezza che trasmette senza possibilità d’errore quante possibilità avremmo con lei e qual’è la nostra posizione nella scala sociale. Per la prima volta in vita mia mi sento un escherichia coli. Arriviamo alla 127 fradici, partenza alla disperata. Un paio di chilometri e la banchina ricomincia ad assumere i contorni del pianeta terra. 
«…ho fame»
«Io ho freddo»
«Eh, e io ho sonno, bambini, piantatela di rompere i coglioni»
Pioggia scrosciante.
«Non ce la faccio più a stare qua dentro» fa Atza. Tono nervoso, sgomita Solero.
«A Montecarlo non è che puoi pretendere di trovare l’ostello della mestizia col posto letto a mille lire e cuscino a parte»
«Io lo odio ‘sto posto, ti fa sentire uno schifo»
«Anche perdere uno zaino con dentro un milione aiuta»
«Nebo, cerca di tenere fermo l’impermeabile»
Piove sempre di più. 
Proseguiamo a passo d’uomo mentre un muro d’acqua si rovescia su di noi e onde entrano dal finestrino rotto dritte sui miei pantaloni. Non so più se siamo in una 127 o in un vascello. In macchina la pioggia urla il furore degli dei e dobbiamo gridare per capirci. Fuori inizia a fare buio. Ario sta per fermare la macchina ed io penso che moriremo quando nel nubifragio leggiamo un cartello in legno: la belle oie, 100mt. Una freccia verso il basso indica una stradicciola che scende verso il molo con due tornanti. Ci troviamo in uno spiazzo con un capannone crollato a metà pieno di bancali marci, erbacce e barchette da pescatori abbandonate. La locanda “la belle oie”è lì di fronte: si presenta come una topaia in legno e pietra che sta in piedi per miracolo. 
Dall’interno, se non altro, proviene luce.
Intima, vissuta, coccola e soprattutto rustica. Una decina di tavolacci da sagra, lavato negli anni 70, un tanfo di cucina da basso prezzo, tabacco stantio, sudore. La gente ai tavoli è perlopiù autoctona, pescatori o lavoratori del porto. L’oste, una donna che pare un uomo e batterebbe tutti e quattro a braccio di ferro viene avanti facendo risuonare le assi del pavimento.

«Volete mangiare?»

«Anche. Prima, senta… noi, mettiamo che volessimo forse un giorno mica oggi, però tipo non so, prendere una stanza da dormire, quanto verrebbe, quel giorno? Una notte sola, eh»

 «Non ho capito»
«Quantovieneunastanza?»
«Trentamila lire a testa»
Ario si gira a guardarci. Tre teste si scuotono impercettibilmente.
«Ma nemmeno un posto meno lusso, qualcosa di simile ad un fienile o una stalla»
«Signora, va bene anche un materasso in corridoio» intervengo.
La donna ci osserva con più attenzione ed intravedo sotto strati di lardo, vino e pelo un barlume di compassione femminile. Il fatto di essere giovani, tremanti e bagnati aiuta.
«Quanto sareste disposti a spendere?» domanda, mani sui fianchi.
«Tipo diecimila lire in quattro?»
La donna alza un sopracciglio e sbuffa una risatina.
«PERO’ POSSIAMO FARE QUALCOSA!» dico, lanciandomi in avanti «guardi, siamo giovani, forti, onesti. Lei ci dà due… una. Una stanza in quattro per una notte, una cena e noi le laviamo i piatti, le sistemiamo il cortile, le falciamo il prato. Quello che vuole. Quello che ha bisogno, ha trovato quattro braccianti»
I miei sono statue di sale. Il tavolo di tizi più vicini si è girato a guardarci.
«Braccianti» ripete la donna, divertita.
«Sì. Come una volta, chi non aveva i soldi lavava i piatti, no?»
«Una volta non c’era la lavastoviglie. E comunque non posso, perché…»
«Le sistemiamo il cortile»
«Quale cortile?» domanda la donna, civettuola.
«Quel cacaio là fuori che pare un accampamento zingari»
Grazie, Ario.
«Ecco, eh» dico, a corto di argomenti nuclearizzati dal mio amico «veda lei, signora»
«Se anche volessi, diciamo perché mi siete simpatici» mugugna «chi mi dice che non ve la filate?»
«Le lasciamo le nostre carte d’identità. Se le tiene fino a domani»
«Guardate che qui si lavora»
«Va benissimo»
«Mi mettete in ordine la cantina e la legnaia, ma domani, adesso piove»
«Sì. D’accordo. Ora, sempre se le va bene…»
«Avete fame» sorride.
«Non mangiamo da stamattina»
«Vi porto qualcosa»
Pasta pasticciata e cotolette. L’ingresso di proteine nel nostro organismo viene salutato con squilli di trombe. Beviamo acqua, sterminiamo due cestini del pane. Si siede al nostro tavolo il marito, un tipo baffuto con l’aria del militare. Ci squadra, ci ascolta. Sembra capire. Finita la cena ci porta sul retro e ci mostra la legnaia, un ammasso di legni dietro una rete verde corrosa dalla ruggine che sta crollando. La cantina è anche peggio, mobili e cesti accatastati ed ammuffiti. In realtà, niente che quattro adolescenti non possano sistemare in una giornata. Alle 23 il tizio fa spallucce, non hanno clienti last minute quindi delle loro quattro stanze adibite ad albergo solo due sono occupate da turisti. Saliamo le scale, ci troviamo in un corridoietto spiovente. La porta bisogna spingere per riuscire ad aprirla, le stanze sono doppie con letti separati. Io ed Ario nella 3, Atza e Solero nella 4.
«Il bagno è in fondo» dice l’uomo «ha anche la doccia»
Doccia. Calda. Ci si illuminano gli occhi.
Litighiamo su chi sarà l’ultimo e su quanto tempo si ha a disposizione. Accordati non più di cinque minuti a testa. Vedo i miei amici entrare e vedo uscire non morti che mancano di anima, raziocinio o ragione ed il loro unico desiderio è dormire. Dormire. Dormire. La doccia è un orgasmo senza precedenti, minuti orgiastici che mi fanno uscire in coma, dimentico del fatto che sono in una locanda. Passo seminudo davanti ai turisti della 2, un branco di crucchi felici che sghignazzano. Raggiungo il letto, Ario che sta già russando. Appoggio la testa. Buio.
“Auf wiedersehen, adieu, goodbye, wir fahren ta ta ta”, cantano nella stanza a fianco.

11. Dogana



Liguria, strada panoramica, ore 12.45
In coda per la dogana.



«Non me la sento»
«Al massimo ci mandano a casa con un.. una…»
«…condanna dai 2 ai 5 anni di riformatorio?»
«Denuncia per contrabbando di stupefacenti?»
«Seee, la mala del Brenta»
«Sentite, i miei mi massacreranno di botte appena scopriranno che fine ha fatto la busta con la pensione del nonno, io non ci torno indietro»

«…come, scusa?»
«Hai fottuto la pensione a tuo nonno» dice Ario, senza punto interrogativo.
«E allora? Tanto è morto nove anni fa»



«No Atza fammi capire, il piano era prendere i soldi di un mese di pensione e fuggire all’estero con noi tre per sempre?»
«Ma è un genio»
«E a quanto ammonta il bottino?»
«490.800 lire»
«Una somma favolosa»
«Io non ci volevo venire in Spagna»



Passare la frontiera nelle nostre condizioni non pare una buona idea, anche se al tempo la polizia non sapeva – o non gli importava – che i giovani si drogassero come assatanati. Grazie ad impegnativi corsi di aggiornamento nel loro cervello si era formato l’assioma felicissimo che se ha le Buffalo è drogato, il che ci lasciava ampio margine di respiro. D’altro canto sulla ganja i politici blateravano annoiati e le leggi cambiavano ogni giorno; oggi era legale averla ma non fumarla, poi era legale fumarla ma non averla, poi era illegale sopra tot grammi per uso personale, poi con altri grammi avevi una multa o forse una denuncia oppure un buffetto o la croce al valore militare, chissà chi lo sa. Se ti fermavano pensavi sempre “speriamo la prendano come dose personale”. 

Alla frontiera con un chilo e due potevi risparmiarti questo dilemma.

Per uscire da quella situazione non proprio felice le opzioni proposte erano: A) scavare una buca, seppellire lì lo zaino e riprenderlo al ritorno B) andare dritti come niente fosse assumendo una faccia da tonno mai vista sperando l’immancabile finanziere Locascio quella sera avesse avuto esperienze sessuali. C) detta per ridere… 

«La mettiamo sul furgone della famiglia crucca qua davanti, hahahaha»
«HAHAHAH, c’han pure gli zaini uguali ai nostri, ha ha ha»







«NO, DAI, NO, QUESTA NO, ONESTAMENTE, NO»
«…quanto tempo abbiamo?»

Strada costiera, Liguria, appena passata l’una. Incolonnati alla dogana utilitarie, moto, comitive, furgoncini guardano il mare fresco ed irraggiungibile sulla sinistra. Calzini bianchi e sandali da prete, pance rigonfie di birra, bambini, biciclette dietro ai camper, alcuni si sono fermati ai bordi per mangiare. In fila si prosegue a passo di lumaca ma costanti. Il furgone in questione è proprio di fronte a noi, ha borse che tra un po’ escono dal finestrino e quelli che sono i pezzi della tenda separati, piegati ed impacchettati nelle loro apposite borse tenute insieme da corda elastica fissata al retro. Uno zainetto là in mezzo potrebbe passare senza problemi, se i proprietari del furgone hanno un’aria abbastanza rispettabile ed è l’ora di pranzo.

«A occhio venti minuti»

All’interno un ciccione, una milf e tre bimbi cantano con entusiasmo “…ach zehn mal da! Da druben hast der Dracula! Auf wiedersen, adieu, goodbye, wir fahren ta ta ta” e nell’insieme danno una splendida impressione di rispettabile, ottusa innocenza. Perchè il nostro cavallo di Troia non dia nell’occhio bisogna renderlo omogeneo con i loro zaini, così prendiamo tutte le cose considerate illegali e le travasiamo in un Invicta nuovo fiammante che ora bisogna riuscire a posizionare senza farsi sgamare dal resto della fila, il che naturalmente è impossibile a patto qualcuno non abbia un’IDEA DELLA MADONNA, che in questo caso potrei essere io.


«Litighiamo» 
«? Eh?»
«Usciamo dalla macchina. Mettiamoci a far cagnara urlando, basta un secondo che tutti si girino e qualcuno ficca lo zaino tra le corde del furgone. Funziona, i prestigiatori fanno così»
«Fingendo risse?»
«Usando il culo delle assistenti»
«Nebo, è un’IDEA DELLA MADONNA»
«Sì ma fioi, a me pare che scordiamo qualcosa»
«Sì, sì. Chi fa rissa?»
«Io metto lo zaino» fa Solero.
«Ok, Nebo e Atza fuori si legnano, Solero ai tiri liberi, rapidi»


Usciamo dalla 127 in tre, Solero si sposta davanti e fa finta di guardare qualcosa sui fanali davanti. I crucchi marciano con calma. L’aria è bollente, rimandata dall’asfalto che fa da schermo. Solero stringe lo zaino tra le mani, sguardo concentrato. Vedo Ario con la mano sul volante che mantiene la sua aria di “tanto so che vuoi darmela, baby”. Inspiro aria, un grande respiro profondo. Il palco è pronto, il pubblico pure, manca solo la scena madre. Avanti. Tutti ti han sempre detto che dovevi fare l’attore. Dicevano che eri nato per il palcoscenico. Perché hai fatto il rapper, poi? Vabbè, fallo. Sii convincente. Dimostra ch *CIàK *

«PROVA A RIPETERLO! Oh, ma tipo che è sangue? Nebo?»


Il dolore è tutto.
Il dolore è un oceano rosso che mi mangia la vista. L’occhio sinistro è andato. Non vedo niente, solo rosso. Mi ha accecato. Quest’idiota mi ha accecato ed ora andrò in giro con la benda cantando quindici uomini come Long John Silver. Mi chiameranno Ray Charles che all’intervista dichiara “meglio cieco che negro”. Vedo solo rosso. Qualcuno mi ha piantato un ferro rovente in faccia. Sulla mano sinistra sento caldo e bagnato, con l’occhio destro vedo il mondo a pallini bianchi, mi gira la testa. Guardo per terra e c’è una pozza rossa. Abbasso le mani, vedo Atza e senza quasi volere gli tiro un calcio in pieno petto che lo scaraventa contro la 127. Mi accorgo di quello che ho fatto e comincio a preoccuparmi perché Atza barcolla, poi si siede per terra annaspando in una smorfia. Ario corre fuori dall’auto, sposta via Atza e guarda inorridito la portiera: «MA NOOOOOOOOOOOOOOOO» mentre la fila alle nostre spalle si blocca, due suonano il clacson.

Dieci minuti dopo siamo in macchina. Io ho un paio di calzini – gli ultimi – a mò di tampone per il mio sopracciglio sinistro. Atza è disteso dietro, respira come un asmatico e tiene la testa in grembo a Solero. Ario tira madonne per la portiera che ora ha la sagoma delle spalle di Atza.


«Ben fatta» dice Solero, solenne «perfetta»
«Hhh» fa Atza: «hhhnn»
«Sì, almeno hai sistemato lo zaino?»
Per tutta risposta seguo l’indice.


Lo vedo. E’ fatta. L’abbiamo fatto davvero. Solo guardando quello zaino davanti a noi che prosegue verso la dogana realizziamo cos’abbiamo fatto veramente, quali siano le reali implicazioni di tutto questo. In macchina c’è il silenzio assoluto, lo sguardo fisso sui tedeschi che lenti ma inesorabili arrivano sotto l’ombra della dogana, parlano con il finanziere che li guarda, guarda il furgone, pensa che a perquisire tutto quello che c’è dentro ci metterebbero giornate intere e li fa passare agitando la paletta con noia. Li guardiamo proseguire verso la frontiera francese duecento metri più avanti attraversando duecento metri di asfalto rovente.


«Buongiorno»


La saliva troppo liquida che sa di adrenalina, il fiato corto, il caldo, l’odore di sudore e la faccia del finanziere incredula. Mi ricordo il montare di orrore dentro di me, la palla da tennis che si forma dentro la gola e tutti i nostri occhi puntati su un tragico, catastrofico errore di valutazione.


«…ho detto, buongiorno»
Il furgone si ferma in fila alla dogana francese.

«Signori.. I documenti, per cortesia»
«S… ssssss…. sì»
Il furgone prosegue ed arriva alla dogana francese. Porgiamo con mani tremanti le quattro carte d’identità. Il furgone è fermo alla dogana francese.

«Motivo dell’espatrio?»
«Ah, eh… noomaguardi, noi stiamo andando in… in Spagna»
«In Spagna dove?» domanda il finanziere, incapace di capire se siamo in trance o altro.
«Aah…»
«Eeeeh…»
Il furgone passa la dogana francese.

«A BA-BARCELLONA… A Barcellona, possiamo andare?» fa Ario, girandosi finalmente a guardare l’omino in divisa.
«Come mai questa premura?»

Il furgone si allontana. Scompare dalla nostra vista.

«Sì, no, è che… eeeh…»
«Scendete e aprite il bagagliaio, per favore» fa il tizio alzando la paletta. 




Nello specchietto retrovisore Solero mi pianta gli occhi addosso. Non diciamo una parola mentre apriamo la portiera ed osserviamo i doganieri guardarci dentro il baule, tra gli zaini, nel portacenere. Fare domande sulle nostre condizioni fisiche. Guardarci male. Rifarci le stesse domande. Avete niente da dichiarare? No. Sotto il sole delle due, guardando un finanziere dall’altra parte del vetro che mangia tramezzini tonno e olive, sudiamo con aria chiaramente colpevole. Chiudersi in sé stessi è un ottimo indice di colpevolezza. Se durante i controlli ciaccoli come niente fosse ti mandano via subito. 

Il nostro inquisitore attende l’esito del controllo carte in attesa di chissà quali precedenti, invece con nostra grande sorpresa siamo tutti incensurati, Solero incluso. Nonostante ciò ci viene ordinato di affiancare la macchina in modo da far passare gli altri. L’accurata perquisizione dura un’altra mezz’ora mentre il nostro cuore attraversa tutti gli stati d’animo fino a planare nella radura della rassegnazione disperata verso le 15. A malincuore, non trovando niente, ci viene dato il via libera per la frontiera francese dove degli omini con un buffo cappello ci fanno passare senza quasi guardarci. Siamo in Francia.

«Cosa facciamo?»
«Non facciamo niente. E’ andato e basta» dice Atza con la voce di chi annuncia un decesso.
«Mi sa che è così. Solero, tutto bene?»

Al nostro fianco scorrono barche, un porto, un marciapiede e le grida dei gabbiani nel caldo. Una spiaggia che somigliava molto a barcola, a Trieste. Forse fu l’essere in un paese straniero per la prima volta, o il fatto di essere davvero lucidi dopo due giorni tra i fumi di ogni, però parlammo d’altro. Magari fu solo una reazione allo shock, sapete, quello di mettere istantaneamente da parte il problema e dimenticarsene, non lo so. Dopotutto quello zaino non era nostro ed ormai era andato.

«OCCHIO!»
La cintura mi tira un cazzotto in centro sterno, Atza si smalta contro il mio sedile. Solero tira una testata.

«Ahiahia, che fai?»
«Coda» dice Ario, indicando davanti «incidente, mi sa»




















«…secondo voi da quanto c’è coda? Mica due ore, vero?»