13. Maracaibo

La mattina è un cinguettare di rumori domestici, odore di albergo e caldo estivo. Dormire in un letto dopo quattro giorni di sedili d’auto è la cosa più bella vi possa capitare. Fuori non c’è una nuvola, il cielo è azzurro come solo l’estate di un diciassettenne sa dipingere. Mi sveglia Ario, calci sul fianco. Postpongo con un cazzotto in centro petto. Si allontana. Cinque minuti dopo ritorna alla carica gettandomi un gatto addosso. Prendo la bestia e la rilancio verso la porta. Gnaulìo offeso.

«Gli altri?» mugugno contro il cuscino.
«Fan colazione.»
«Con?»
«Caffè su moka ed è grasso che cola» dice girando l’angolo.

M’infilo in fretta nei vestiti, scendo. La colazione è silenziosa, baciata dal sole del mattino e vigilata dallo sguardo del padrone. Facciamo qualche battuta per ridurre l’eccitazione del pagare qualcosa lavorando lì, sul momento, lontano chilometri da casa. Prima la legnaia, perché il fresco della mattina ancora resiste. Già alle 11 sarebbe stata dura. Organizziamo i compiti in modo meccanico, siamo ancora addormentati. Ci tiene compagnia una radiolina che manda pezzi qualsiasi di musica italiana permettendoci di fare gli idioti più del solito. Dopo un’ora ho legna fin nelle tasche ed i bicipiti che pulsano quando Ario esordisce: «Che dice la tizia?»

«Quale?»
«La musica, il testo, cosa dice?»
Ascolto: «E’ Maracaibo. Raffaella Carrà.»
«Noo-o-o, è di Lu Colombo» interviene Atza.
«Sì, ma il testo di che parla?»
«Cosa ne so, AC/DC per sempre.»
«E le Spice?»
«Vaffanculo.»
«MI DITE DI COSA PARLA ‘STO PEZZO O NO?»

«Allora» sospira Solero «Maracaibo è in Venezuela.»
«E fin lì…»
«Fin lì cosa, Nebo, te è un miracolo se sai che Berlino è in Germania.»
«C’è questa tizia che balla nuda al Barracuda, un locale che te lo raccomando. Si suppone lei faccia la puttana ma non è così; sta sotto copertura, parla inglese e francese e traffica armi con Cuba, probabilmente guerriglieri indipendentisti e roba simile» continua Solero.

«Salta fuori che è sua madre» sussurra Atza.

«E’ innamorata di un certo Miguel, che però sta sempre in Cordigliera.»
«Una sala giochi?»
«Montagne. I trafficanti si nascondevano nelle grotte tra le ande, sennò li sgamavano e li fucilavano»

«Sì, ma c’era Pedro»
«Appunto, siccome Miguel sta in montagna lei se la fa tenere calda da Pedro, probabilmente un cubano che le lappava la passera sulle casse di nitroglicerina.»
«Questa te la sei inventata.»
«Tu scoperesti sulla nitroglicerina? No, fai casino, ti agiti ed esplodi»
«Quindi?»
«Quindi o lei gli staccava bocchini o lui le lucidava il grilletto, ma tant’è»

«Forse era rispetto, insomma lui non la scopava davvero, stavamo sui preliminari.»
«Se uno scartabella le grandi labbra a tua morosa t’incazzi di meno se invece te la tromba?»
«Bè, tecnicament
«STICAZZI, tanto Miguel li sgama e spara quattro colpi alla tizia.»

Esce dalla porta il padrone, piove il silenzio, il volume di lavoro aumenta. Sta a guardarci, ci informa che se vogliamo bere c’è la pompa dell’acqua. Ringraziamo.

«L’ha presa bene, il buon Miguel.»
«Eh, lei però sopravvive.»
«Con quattro colpi in petto?»
«Sennò la canzone finiva, ti pare? Lei decide di scappare perché appena Miguel verrà a sapere che è ancora viva la cercherà per finirla. Il mare è impraticabile però lei s’imbarca. La nave non ce la fa, si spezza l’albero e finisce in acqua.»
«Ma è una tragedia, pare Pollyanna!»
«In acqua c’è un pescecane.»
«Pure.»
«Il pescecane la morde, non l’uccide. Lei riesce a tornare a terra. Tempo più avanti la ritroviamo che pesa 130 chili, fa la pappona, gestisce uno strip bar con 23 mulatte e nuota nel rum e nella cocaina. Ancora oggi se sei gentile con lei ti fa vedere la ferita dello squalo. O forse ti si scopa, per quanto scopare 130 chili sfregiati non debba essere come impalare Pamela Anderson.»
«Pareva tanto allegra…»
«Anche questo viaggio pareva tanto bello prima che diventassimo i protagonisti di un film sul contrabbando di droga e il lavoro minorile.»
«Si dice minorato, mia madre ne parla sempre» corregge Atza.
«E ti guarda dritto negli occhi, vero?»

A mezzogiorno abbiamo sistemato la legnaia che pare un plastico in miniatura. Un piatto di pasta, coca e caffè, la pausa pranzo è allegra e socievole mentre fuori qualche turista mangia toast e gelati. Non abbiamo molto da dire, impegnati come siamo a metabolizzare le curiose sensazioni che proviamo. A metà pomeriggio la cantina è ordinata e gli sguardi dei proprietari sono molto più benevoli. E’ strano come vedere qualcuno che fa fatica lo renda rispettabile. Le carte d’identità ci vengono restituite. Spingiamo fuori la 127 che somiglia sempre più ad un rottame, la coppietta sta sul davanzale a salutarci. Appena le molle del sedile sprigionano l’odore di muffa, piedi e fumo tutto mi torna alla mente. Il viaggio. Il finestrino rotto. L’inseguimento. La dogana. Lo zaino. La

«La… Aspetta» dico.

Macchina ferma, la coppia dei gestori sulla porta, tutto immobile.
«Cos’hai?»
«Mi sembra di ricordar qualcosa che dovevo… ieri sera, prima di addormentarmi.»
«I soldi? I vestiti? Il gatto? Atza che russava? Io, me l’hai succhiato che dormivo?»
«No, era qualcosa di diverso…»
«I bagagli? L’auto? La Francia di merda?»
«I TEDESCHI!»
«Che tedeschi?»

Apro la portiera. Corro a vedere il parcheggio sul lato destro della locanda. Niente. Entro. Chiedo alla cicciabomba che mi guarda confusa: se c’erano tedeschi? Sì, sono partiti la mattina sulle 11 mentre noi facevamo la legnaia. Per dove? Non sa. Addio. Adesso abbiamo quasi un giorno di distanza, non sono certo fossero loro e chissà dove stanno andando. Rientro in macchina senza dare spiegazioni. La locanda sul porto ci saluta dal lunotto posteriore alle 16 di pomeriggio del quinto giorno. La 127 arranca in salita, risale sulla strada principale, il fiume di macchine c’inghiotte.

Nel mio curriculum vitae la prima esperienza lavorativa è magazziniere presso la locanda La belle oie, Montecarlo, Monaco, agosto 1997.